LA PRIMA AL CINEMA CAPRANICA DI ROMA CITTÀ APERTA DI ROBERTO ROSSELLINI –
ROMA CITTÀ APERTA il film si ispira alla vicenda di Dante Bruna che nell’aprile del 1944, per 70 mila lire, denuncia ai tedeschi – provocandone l’arresto e la fucilazione – don Giuseppe Morosini e il sottotenente Marcello Bucchi (trucidato alle Fosse Ardeatine) perché collegati con la banda partigiana “Mosconi”, attiva a Monte Mario. La storia giudiziaria di Bruna si conclude, invece, il 13 ottobre del 1953 con la conferma di 30 anni di carcere.
P.P.PASOLINI:“Ecco… la Casilina, su cui tristemente si aprono le porte della città di Rossellini… ecco l’epico paesaggio neorealista, coi fili del telegrafo, i selciati, i pini, i muretti scrostati, la mistica folla perduta nel daffare quotidiano le tetre forme della dominazione nazista” da (P.P. Pasolini, La religione del mio tempo). Con Roma città aperta, proiettato i primi di ottobre per l’anteprima italiana al Festival del Quirino, Rossellini riproduce la memoria stessa del suo pubblico, ponendosi suo malgrado quale messia della nuova cinematografia neorealista. Se il riconoscimento di tale ruolo suscita in Italia qualche perplessità, gli americani si dicono entusiasti dell’opera rosselliniana. Tanto da indurre la critica a considerare Rossellini la chiave che aprirà le porte degli investimenti americani nel cinema italiano.
regia Gianni Puccini, con Gian Maria Volonté, Riccardo Cucciola, Don Backy, Lisa Gastoni, Serge Reggiani .
Il Film I SETTE FRATELLI CERVI racconta la storia vera della famiglia Cervi,una famiglia di contadini con radicati sentimenti antifascisti,i 7 Fratelli Cervi presero attivamente parte alla resistenza contro i nazi-fascisti.Presi prigionieri ,furono torturati e poi fucilati dai Fascisti il 28 Dicembre 1943 al poligono di Tiro di Reggio Emilia. IL sacrificio dei Fratelli Cervi rappresenta uno degli episodi più drammatici della Resistenza…IL Film ripercorre ,in Lunghi Flashback,la storia di questa famiglia. Un film forse oggi un po’ didascalico ma Utile per non dimenticare.
I SETTE FRATELLI CERVI
LA STORIA DEI CERVI
E’ una storia che parte dalla fine, quella dei sette Fratelli Cervi e di Quarto Camurri. Dallo sparo unisono che alle 6,30 del 28 dicembre 1943 falciò al Poligono di Tiro di Reggio Emilia le vite di Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore insieme al compagno di lotta di Guastalla. Alcune ricostruzioni collocano il momento della fucilazione in altra ora. Tutte concordano sulla “discrezione” dell’eccidio: i documenti ufficiali rassicurano l’autorità sulla assenza di sguardi indiscreti. Così avvenne per la frettolosa tumulazione delle salme, ad evitare una qualunque forma di pubblica riconoscibilità di quell’atto madornale. Sono forse le stesse, neonate gerarchie repubblichine a rendersi conto dell’enormità del gesto. Di certo, se ne avvedono le autorità “centrali”, di quello stato fascista che non c’è più ma che si vuole prolungare nell’ombra fosca dell’occupazione tedesca. Da Brescia, dove si improvvisano le sedi istituzionali della Repubblica di Salò, giunge una sola domanda, scarabocchiata sul verbale dell’esecuzione: “sono 7 fratelli?”
La famiglia Cervi
Nessuna notizia venne ostentata sulla sanguinosa rappresaglia ordinata dai maggiorenti della RSI reggiana, in risposta all’attentato mortale a Davide Onfiani presso Bagnolo. Il Solco Fascista dello stesso giorno ricorda solo che “otto elementi, rei confessi di violenze e aggressioni…” sono stati passati per le armi all’alba di “oggi, 28 dicembre”. E’ immediata la percezione del crimine abnorme perpetrato, che rappresenta il primo vero faccia a faccia tra partigiani e fascisti a Reggio Emilia. I repubblichini riconoscono nella banda il primo vero nemico organizzato, con indizi schiaccianti a loro carico; ciò nonostante, la brutale rappresaglia segnerà per sempre la storia dei 20mesi della Resistenza reggiana. I Cervi se ne vanno così, nel volgere di un anno convulso e lunghissimo. Nel livido silenzio dell’inverno ’43, quando ancora tutto deve accadere a Reggio Emilia, a Casa Cervi tutto sembra essere già finito. E’ il punto in cui la storia deve fare qualche passo indietro. Ad un’altra alba, quella del 25 novembre dello stesso anno. Un mese prima, i Cervi vengono sorpresi insieme ad alcuni componenti della loro “banda” nella loro casa colonica. Siamo al podere dei Campirossi, tra Campegine e Gattatico, in aperta campagna reggiana. Un plotone di militi della Guardia Nazionale Repubblica circonda l’abitazione, su precise indicazioni da parte di delatori locali. Il Capitano Pilati è venuto in forze, “ufficialmente” 35 uomini, ma i testimoni in casa svegliati dall’accerchiamento ne contano molti di più. Cento, centocinquanta per alcuni. L’ordine dei fascisti è chiaro: arrendersi subito, deporre le armi, consegnare i prigionieri rifugiati. Perchè la famiglia Cervi è una famiglia ribelle, i suoi sette figli maschi hanno preso (tra i primi a Reggio Emilia) le armi dopo l’8 settembre; e hanno fatto della loro casa un ricovero per fuggiaschi e resistenti di ogni nazionalità. I fascisti e gli assediati si scambiano colpi di fucile e mitraglia, per alcuni un accenno di resistenza, per altri un fuoco serrato. In ogni caso, la reazione dalle finestre della casa è breve, perchè in poco tempo stalla e fienile sono avvolti dalle fiamme. L’incendio è certamente appiccato dagli assalitori, circostanza sempre negata dai diretti interessati. Ci sono donne e bambini, la stalla è piena di mucche, tutta la decennale fatica di Papà Alcide e della famiglia sta andando rapidamente in fumo. La resa è inevitabile.
Vengono arrestati tutti i componenti della “banda Cervi”: i sette figli maschi di Alcide, il padre stesso, Quarto Camurri, Dante Castellucci (Facio) e il russo Anatolij Tarassov, più 3 soldati alleati unitisi al gruppo partigiano: i sudafricani John David Bastiranse (Basti) e John Peter De Freitas (Jeppy), l’irlandese Samuel Boone Conley. Le loro strade si dividono presto, perchè ai soldati stranieri viene riservato un trattamento migliore. Lo stesso “Facio”, fingendosi francese, non verrà trattenuto dalle milizie reggiane. Molti di loro proseguiranno l’esperienza partigiana sull’appenino. Ma queste, sono altre storie.
I SETTE FRATELLI CERVI
La sorte dei Cervi invece è quella di nemici dell’ordine pubblico. Ribelli sediziosi e comunisti; non va meglio al disertore della Milizia Volontaria Quarto Camurri, “italiano rinnegato” come recita la cronaca fascista della “brillante operazione di polizia militare”.
L’alba del 25 novembre è, negli occhi e nella memoria dei testimoni, ma anche dei conterranei dei Cervi, il vero consumarsi della tragedia. Mai prima di quel momento si era vista all’opera la macchina repressiva della RSI, mai il conflitto era arrivato così vicino. Per le 5 donne e i 10 bambini (alcuni in fasce) della casa ai Campirossi, sono i momenti della paura, del fuoco, del violento distacco dai propri affetti. Per la popolazione locale, il disvelamento del volto truce del fascismo in armi, disposto a tutto per il controllo del territorio.
In realtà la pianura reggiana era già immersa confronto in atto, tra le forze declinanti ma agguerrite del “nuovo” fascismo e la montante attivitàclandestina degli antifascisti organizzati. L’opzione delle armi, resa concreta dopo l’8 settembre, stava già portando i segnali di una lotta senza quartiere tra gappisti e repubblichini, alzando il livello dello scontro. I Cervi stessi fanno parte di quel movimento avanzato che all’indomani dell’Armistizio intende fare delle retrovie nazifasciste un luogo instabile, e della pianura reggiana un territorio ostile per gli occupanti e i collaborazionisti.
Ci sono dunque, molti antefatti a quelle due albe di violenza che portarono i Cervi al carcere di San Tommaso e un mese dopo al plotone di esecuzione. Il più importante di questi è la scelta precoce, radicale di opposizione al regime già a partire dagli anni ’30, nel culmine della parabola di consenso al Duce e all’impero coloniale. Per una famiglia di solide radici cattoliche, impegnata in politica già prima della dittatura, si tratta di una opzione naturale. Il fascismo aveva progressivamente spazzato via tutti i riferimenti pubblici che costituivano l’identità civile dei Cervi: Alcide, iscritto al Partito Popolare fino al 1921, e pure sensibile alla predicazione di Camillo Prampolini nelle campagne, ha educato i figli all’impegno coniugato alla fede. Dalla madre Genoeffa Cocconi, i 9 figli (si devono sempre aggiungere al computo le figlie Rina e Diomira) hanno preso l’amore per la lettura, l’inquietudine culturale e la sete di conoscenza. Sono autodidatti, i Cervi, spinti da un desiderio di emancipazione sociale che passa per il lavoro nei campi, l’innovazione nella stalla.
Da mezzadri ad affittuari, nel volgere del primo decennio fascista la già numerosa famiglia
Cervi cerca una strada nuova. Si trasferiscono nel 1934 al podere ai Campirossi, tra Caprara e Praticello. Che trasformano ad immagine e somiglianza delle loro ambizioni agricole moderne, delle loro letture scientifiche. Studiano, sperimentano, falliscono e riescono più volte. Con la stessa irrequieta dedizione, Aldo Cervi è il primo a maturare una compiuta coscienza antifascista; abbraccia l’ideologia comunista, lui che era stato un attivista in prima fila per l’azione cattolica locale. Ed è insieme a Didimo Ferrari, altro campeginese noto nella storia partigiana, che prende corpo l’idea di una Biblioteca Popolare. Libri per difendersi dallo sfruttamento, per essere liberi di pensare fuori dagli schemi: un’intuizione sorprendente per una famiglia di contadini, non certo di intellettuali; che aveva, però, sperimentato sul campo l’efficacia del sapere. Più studio significava più latte dalle mucche, più resa dei campi. Padroni del proprio lavoro, e così delle proprie idee.
Con ruoli e intensità diversi, tutta la famiglia partecipa alla marcia di Aldo verso lo scontro con il fascismo. Dalla lotta all’ammasso (il conferimento forzoso al regime di produzione agricola), passando per i primi volantini, Casa Cervi diventa un laboratorio di antifascismo applicato. Le informative su questa famiglia di irrequieti contadini, e di chiare simpatie comuniste, si accumulano sui tavoli della autorità. Non solo il terzogenito Aldo, ma anche Gelindo e Ferdinando sono fatti oggetto di segnalazioni e provvedimenti restrittivi tra la fine degli anni ’30 e i primi anni ’40. Il cammino politico dei Cervi è complesso e articolato, risulta impossibile comprimerlo in poche righe. Ricalca lo stesso percorso carsico dell’antifascismo minoritario, delle avanguardie del movimento in quegli anni. Allo stesso tempo, ne presenta tratti unici, legati all’esperienza di riscatto sociale e produttivo.
Saranno gli incontri personali, nient’affatto casuali, a fare la differenza. Cosi come era stato con “Eros”, la movimentata gioventù antifascista si cerca e si ritrova nella clandestinità. Lucia Sarzi, attrice itinerante e già militante comunista, porterà ad Aldo e ai suoi fratelli nuovi spazi operativi, contatti, legami con i centri clandestini della nascente resistenza. Nel frattempo, i Cervi non rinunciano al loro progetto di agricoltura di progresso. Il primo trattore, una “macchina del futuro” in quegli anni, arriva nel ’39, seguito dal più potente Landini a testa calda due anni dopo. La stessa abitazione si amplia per contenere l’espansione produttiva del podere nel 1941.
Per loro, contadini di scienza di giorno e cospiratori di notte, non è certo facile abbandonare gli affetti domestici, la famiglia che nel frattempo si è completata di 4 spose e 10 bambini (23 persone in tutto). Ma sono tra i primi a farlo, pronti a rompere gli indugi già un mese dopo l’armistizio. Tanto precoce è la loro scelta, così lo è la loro irruenza per passare dalla propaganda all’azione. Anche in contrasto con gli altri compagni di lotta che attendono, pianificano, e non condividono l’approccio immediato della nascente “banda Cervi”. Aldo, Otello Sarzi, Dante Castellucci, Tarassov e altri Cervi saliranno in montagna nell’ottobre del 1943, non prima di aver trasformato la casa ai Campirossi in un centro di latitanza. Si alternano azioni in montagna (l’assalto alla caserma di Toano, l’incontro con Don Pasquino Borghi a Tapignola) e i “colpi” in pianura, come il disarmo del Presidio dei Carabinieri a San Martino in Rio e il fallito attentato al segretario del Partito Fascista Repubblicano Giuseppe Scolari. Sono gli ultimi, convulsi giorni dei Cervi liberi. La Resistenza è già una realtà, ma dal percorso incerto e ancora acerbo nel 1943, anche in una terra di passioni democratiche come Reggio Emilia. Spintasi oltre il confine della clandestinità, in un contesto non ancora strutturato e conflittuale, la banda Cervi rimane isolata. Ed ecco arrivare la cattura, dopo meno di 80 giorni dall’8 settembre.
Per restituirci l’umanità del primo sacrificio reggiano alla Resistenza, vale la pena, in conclusione, sfogliare le lettere che i fratelli scrivono a casa, nel mese di prigionia e interrogatori che li separa dall’esecuzione. Una fine forse attesa per alcuni (Aldo e i fratelli più “esposti”), inconcepibile per altri, improvvisa per tutti. Le prime raccomandazioni sono per il podere, il timore che la fatica del lavoro vada in fumo. Quasi che la parentesi della cattura sia solo una pausa dall’operosità dei campi e della stalla. Poi la consapevolezza, sempre più concreta, che i piani dei fascisti sono altri. Gli affetti lontani, la madre e le mogli, i figli. E’ un commiato sfilacciato e mai definitivo, quello che si consuma con la famiglia. Fino all’epilogo, che impedirà a Papà Cervi, loro compagno di cella fino alla fine, di congedarli prima della traduzione al poligono.
Il 28 dicembre 1943, nel modo peggiore possibile, cala il sipario sull’intervento diretto dei Cervi nella Resistenza reggiana. Un contributo folgorante e annichilito anzitempo. E inizia, da quel momento, il loro ruolo simbolico, che attraverserà tutta la storia della Liberazione locale, e oltre la guerra ne incarnerà il sacrificio e la dedizione.
Salvatore Quasimodo li ha resi immortali in questa poesia: “Ai Fratelli Cervi, alla loro Italia”. Ci pare il modo migliore per commemorarli, in questi giorni di festa, che sono anche di memoria. Perché un Paese senza memoria semplicemente è un Paese che non esiste. Sarà per questo che tentano in ogni modo di farci dimenticare. Ma noi resistiamo e ricordiamo.
In tutta la terra ridono uomini vili, principi, poeti, che ripetono il mondo in sogni, saggi di malizia e ladri di sapienza. Anche nella mia patria ridono sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria malinconia dei poveri. E la mia terra è bella d’uomini e d’alberi, di martirio, di figure di pietra e di dolore, d’antiche meditazioni.
Gli stranieri vi battono con dita di mercanti il petto dei santi, le reliquie d’amore, bevono vino e incenso alla forte luna delle rive su chitarre di re accordano canti di vulcani. Da anni e anni vi entrano in armi, scivolano dalle valli lungo le pianure con gli animali e i fiumi.
Nella notte dolcissima Polifemo piange qui ancora il suo occhio spento da navigante dell’isola lontana. E il ramo d’ulivo è sempre ardente.
Anche qui dividono in sogni la natura, vestono la morte e ridono i nemici familiari. Alcuni erano con me nel tempo dei versi d’amore e solitudine nei confusi dolori di lente macine e di lacrime. Nel mio cuore finì la loro storia quando caddero gli alberi e le mura tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.
Ma io scrivo ancora parole d’amore, e anche questa è una lettera d’amore alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi non alle sette stelle dell’orsa: ai sette emiliani dei campi. Avevano nel cuore pochi libri, morirono tirando dadi d’amore nel silenzio. Non sapevano soldati filosofi poeti di questo umanesimo di razza contadina. L’amore la morte in una fossa di nebbia appena fonda.
Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore, non per memoria, ma per i giorni che strisciano tardi di storia, rapidi di macchie di sangue.
Descrizione del libro di Carlo Greppi–Editori Laterza–Il capitano Jacobs è un buon soldato, rispettoso delle gerarchie, onesto. Improvvisamente nel 1944, assieme al suo attendente, decide di passare, armi in pugno, dalla parte dei partigiani. Sceglie di combattere contro i propri camerati. Perché lo fa? Inseguendo la parabola di quest’uomo viene alla luce una grande storia dimenticata: furono centinaia i tedeschi e gli austriaci a percorrere lo stesso cammino. Un piccolo esercito senza patria e bandiera, una pagina unica nella storia d’Italia.
Sui monti di Sarzana, proprio lungo la Linea Gotica, dove nel 1944 i combattimenti infuriavano con maggiore ferocia, il capitano della marina tedesca Rudolf Jacobs, ottimo soldato, abbandonò le proprie fila. Non lo fece per fuggire da una guerra ormai persa, ma per unirsi ai partigiani garibaldini, fino a morire eroicamente durante l’assalto a una caserma delle Brigate nere fasciste. Apparentemente la sua sembra la storia di un’eccezione, commovente e coraggiosa, ma pur sempre un’eccezione rispetto alla nostra idea dei tedeschi zelanti combattenti della Germania nazista, fedeli fino al suo crollo. Eppure questa eccezione non fu così solitaria e isolata: parliamo di centinaia di uomini, almeno mille secondo le stime degli storici. O erano di più? Tedeschi e austriaci, ‘banditi’, ‘disertori’, ‘senza patria’, che hanno saputo dire di no agli ordini ingiusti, che hanno rigettato la legge dell’onore e del sangue per scegliere quella della libertà e della coscienza. Partendo da tracce labili, quasi svanite – un nome su una lapide, poche righe nei documenti ufficiali, qualche ricordo dei partigiani sopravvissuti –, questo libro è un’indagine appassionata e coinvolgente che ci trascina alla riscoperta di una pagina di storia che nessuno in Italia ha mai raccontato in questo modo.
Solo la coscienza non inaridisce,
questo fiero, aspro paesaggio di giustizia,
questo fortino contro il rimorso.
Siegfried Lenz, Il disertore (1952)
Sotto una stella armata
1.
Brema, Germania nord-occidentale, domenica 26 luglio 1914.
Poche ore prima di quel pianto apparentemente inconsolabile, gran parte del mondo era totalmente all’oscuro delle macchinazioni dei potenti del Vecchio Continente. Dopo il durissimo ultimatum austroungarico alla Serbia di tre giorni prima, l’Europa sta entrando in guerra. Spalleggiato da un incondizionato sostegno tedesco, l’impero asburgico ha deciso che la sua pazienza è finita, e si percepisce il montare di uno scontro generalizzato, e non limitato alla regione balcanica. Non succedeva da oltre quarant’anni, dal conflitto franco-prussiano del 1870-71, che gli eserciti si scontrassero nel cuore dell’Europa – su altri scenari non avevano mai smesso di esportare distruzione, chiaro, ma questa è un’altra storia. E, soprattutto, una guerra così nessuno l’aveva ancora vista mai. La crisi continentale apertasi da meno di un mese con un colpo di pistola a Sarajevo deflagrerà nel giro di una manciata di ore, questa volta, nel conflitto più devastante della modernità. Ma nessuno, in questa domenica d’estate, può davvero intuire la portata epocale di quello che sta cominciando. Cinque giorni più tardi la Germania dichiarerà guerra alla Russia e due giorni dopo le truppe tedesche entreranno in Francia; nelle settimane successive i cadaveri si conteranno già a centinaia di migliaia – alla fine del conflitto, i morti della sola Germania saranno oltre due milioni.
La madre del bambino che viene al mondo, Frieda Rosenthal, compressa com’è nell’ultimo, definitivo sforzo di darlo alla luce, difficilmente sta pensando all’inquietudine che la circonda. Ma essere nati a luglio del 1914, e per la precisione in quegli ultimi giorni che hanno visto scattare il perverso meccanismo delle alleanze senza possibilità di fare marcia indietro, diciamocelo, non è cosa da poco. Forse si intende questo, quando si dice che qualcuno è nato sotto una stella. L’astro che osserva la venuta al mondo a Brema di Rudolf Heinrich Otto Max Jacobs, il 26 luglio dell’anno in cui si schiantano le speranze in un progresso generatore di futuro e milioni di giovani europei si preparano ad andare alla guerra, è circondato dall’euforia e dal terrore, sentimenti vagamente intrecciati in tutti e in ciascuno. Perché, poi, quello della popolazione tedesca compattamente e ferocemente convinta di questo nuovo conflitto è in parte un mito – la realtà, nella storia e nel presente, è spesso molto diversa da come appare a un primo sguardo superficiale. Proprio il 26 luglio, a voler seguire i tratti contraddittori di quella stella che sbircia la nascita di Rudolf Heinrich Otto Max, si scatenano massicce proteste contro la guerra in tutta la Germania: dureranno fino al 30 del mese, coinvolgendo oltre 750.000 tedeschi. Anche a Brema, nella città vecchia, il 28 si tengono ben sette corposi assembramenti che rigurgitano una folla tenacemente contraria al gioco al massacro che si intuisce stia per cominciare. Sfogliando i giornali locali degli ultimi giorni di quella settimana scarsa, decisiva per le sorti della Germania e dell’umanità intera, si colgono da un lato l’incertezza e la paura ma anche, è vero, una sprezzante arroganza, quel “sentimento nazionale” che è sempre pronto a tutto, pur di nutrire se stesso. Anche a fagocitare padri, fratelli, figli altrui e propri. La tensione montata da Sarajevo al cuore della Mitteleuropa è alle stelle: anche a Brema, come nel resto della Germania e come, gradualmente, nel continente intero, i manifestanti vengono randellati, caricati, ostracizzati – e chi si oppone al conflitto diventa presto, agli occhi della maggioranza della popolazione, nemico della nazione. “Traditori della patria”, per usare una formulazione che incontreremo: Landesverräter, in tedesco. Traditori, siete solo dei maledetti traditori.
All’inferno e ritorno: così titola il grande storico britannico Ian Kershaw la sua opera monumentale dedicata all’Europa “nell’era dell’autodistruzione”, fornendoci un frame per leggere, in linea con una cornice interpretativa ormai fiorente e consolidata, quello che si spalanca nel 1914 come un interminabile conflitto che cova una sua seconda fase in una lunga, drammatica pausa, la Guerra dei Trent’anni, con un “comune denominatore ideologico” – il nazionalismo. Tutto cominciò, nella via via più lucida percezione degli europei, in quei giorni finali di luglio del 1914: “La convinzione che la guerra fosse necessaria e giustificata, e l’autoconsolatorio presupposto che sarebbe stata una cosa spiccia – una breve, eccitante ed eroica avventura coronata da una vittoria rapida e con poche perdite – era penetrata in ampi settori della popolazione, molto al di là delle classi dirigenti europee. Questo aiuta a spiegare come mai in tutti i paesi belligeranti tanta gente fosse così euforica, perfino entusiasta, mentre la tensione, che non toccò il grosso della popolazione fino all’ultima settimana di luglio, andava montando fino a esplodere nella guerra generale”. Il sigillo di questo inizio, per la Germania, lo si può forse apporre al 31 luglio, quando 50.000 cittadini tedeschi, a Berlino, acclamano il Kaiser Guglielmo II in un discorso che diventerà immensamente celebre. “Nella lotta che ci sta davanti io non conosco più partiti nel mio popolo. Adesso tra noi ci sono soltanto tedeschi”, ribadisce il Kaiser nei giorni successivi. Rudolf Heinrich Otto Max Jacobs – per la sua famiglia e per noi sarà semplicemente Rudolf – ha cinque giorni, è in effetti tedesco, e la sua esistenza sarà integralmente incastonata in questi trent’anni.
Venuto al mondo nell’anticamera dell’inferno, lo vedrà e cercherà la via del ritorno, con tutte le sue forze. È nato sotto una stella armata, Rudolf, mentre intorno a lui qualcuno ragiona e grida che no, questa carneficina la si deve fermare.
2.
A dirla tutta, tra i tanti figli illustri di Brema, una città che all’alba della Grande Guerra conta 250.000 abitanti, ce n’è uno che spicca su molti per chiara fama: il suo nome è Ludwig Quidde. Storico di formazione, quando Rudolf nasce Quidde è ormai un uomo di 56 anni che da molto tempo si batte contro la politica estera aggressiva del Kaiser e, più in generale, per la pace tra le nazioni. Non è certo l’unico, intesi: mentre infuriano i nazionalismi, gli imperialismi, il razzismo e il darwinismo sociale che – in forme e misure diverse – legittimano la guerra come strumento di regolazione dei rapporti di forza, in Europa non mancano gli afflati di contrapposizione a un’idea di senso di appartenenza esclusiva, asfittica, chiusa. Innanzitutto l’internazionalismo socialista e l’universalismo di frange del composito mondo cristiano, che si fronteggiano e a tratti convergono. E poi una rete pulviscolare di realtà associative – come il Bund Neues Vaterland, di cui lo stesso Quidde fa parte – e di semplici donne e uomini, non di rado cresciuti nella prosperità e nel benessere, che intendono sinceramente favorire la cooperazione tra i popoli e tra gli stati attraverso forme di associazionismo di vario tipo. “Pacifismo” è una parola potente, per uomini come Ludwig Quidde. Una parola alla quale dedicare l’intera propria vita, oscillando tra momenti di riconosciuta pavidità – Quidde non si pronuncia sull’aggressione tedesca del Belgio, per dirne una – e invidiabili squarci di coerenza.
Quidde, ad esempio, avrebbe potuto fare del mestiere di storico la sua vita. Ma ha avuto la carriera accademica stroncata vent’anni prima, in seguito alla pubblicazione di un infuocato pamphlet che, pur riferendosi all’imperialismo dell’antica Roma, accusava implicitamente Guglielmo II e le mire espansioniste della Germania di fine Ottocento, in una sorta di parodia nella quale accostava il Kaiser a Caligola, e che gli era costata tre mesi di galera. Si era tenacemente impegnato per ridurre l’ostilità tra la Francia e la Germania dopo il conflitto del 1870-71, e proprio a maggio del 1914, poche settimane prima dello scoppio del conflitto mondiale, è diventato presidente della Deutsche Friedensgesellschaft (DFG), la Società tedesca per la pace, che conta circa 10.000 membri per lo più appartenenti alla piccola borghesia, e che guiderà per quindici anni. Esiste ancora oggi, scopro, con una straordinaria e nitida specifica in aggiunta: “Resistenti Uniti contro la Guerra” (Vereinigte KriegsdienstgegnerInnen). La Società aveva raggiunto addirittura il traguardo del Nobel con la baronessa Bertha von Suttner, seconda donna dopo Marie Curie a vincere il prestigioso premio e prima ad aggiudicarsi quello per la pace, che era stata intima amica proprio di Alfred Nobel. Lei stessa, nel ritirarlo, aveva mostrato una profetica consapevolezza di quello che il prossimo futuro avrebbe potuto riservare al Vecchio Continente: “I sostenitori del pacifismo – aveva detto – sono ben consapevoli di quanto siano limitati il loro potere e le loro capacità di influire. Sanno di essere ridotti di numero e di avere scarsa autorità, ma quando considerano realisticamente chi sono e l’ideale che servono, si sentono servitori della più grande di tutte le cause. Dipende dalla soluzione di questo problema se l’Europa diventerà un cumulo di rovine e di fallimenti, o se riusciremo a evitare questo pericolo pervenendo più rapidamente all’era della pace e del diritto”. Era il 1905, e i quattro decenni successivi avrebbero in effetti generato quel “cumulo di rovine e di fallimenti” da lei pronosticato, anche se la baronessa non lo vedrà, perché muore a 71 anni il 21 giugno 1914, pochi giorni prima dell’attentato di Sarajevo. Come non può saperlo Quidde, ritirando il medesimo premio insieme al francese Ferdinand Édouard Buisson, nel 1927. Nella lecture che tiene il 12 dicembre, al cui testo rimetterà più volte mano nei quattro anni seguenti, insiste sul fatto che il programma di disarmo propugnato dalla maggioranza dei pacifisti nei decenni precedenti sarebbe ormai “ridicolo”: “un disarmo drastico e completo è oggi il nostro obiettivo”, altrimenti il disastro è dietro l’orizzonte. Ma la sua, per quanto supportata da schiaccianti evidenze, è ormai pura utopia.
Il clima è irrimediabilmente precipitato, e Quidde lo sa. “Una razza forte scaccerà le deboli” è il mantra del Mein Kampf, il “vangelo” dell’austriaco Adolf Hitler che punta tutto sul riscatto tedesco da affidare a un “uomo forte” (lui stesso, naturalmente), con idee chiare e nemici altrettanto chiari. La Germania e il suo popolo, la Volksgemeinschaft, l’Herrenvolk di cui già si parlava nel secolo precedente (il “popolo di dominatori”, appunto), devono avere diritto al loro “spazio vitale” (Lebensraum) recuperando i territori perduti e prendendosi quelli che ritengono necessari, soprattutto a est. La storia è per Hitler una “lotta totale tra i popoli”: predica la necessità di gerarchie tra esseri umani auspicando con foga l’annientamento dei deboli. La “razza forte”, per prevalere, deve distruggere le altre.
Hitler non è certo l’unico a soffiare sul fuoco della politica di potenza nazionale, né – in Germania – a criticare i trattati di Versailles, e cerca di farsi anzi collettore di una serie complessa di istanze. Molti tedeschi vogliono infatti “rifarsi” perché sulla sola Germania grava l’imposizione della colpa – da lei forzatamente riconosciuta nel noto articolo 231 del Trattato del 1919 – della guerra, e questa trasversale voglia di rivincita nazionale si sposa così a rivendicazioni sociali che coinvolgono ampi strati della Germania inquieta degli anni Venti, nella quale l’ormai anziano Quidde è tra i pochi che invitano alla ragione. Il vento della storia soffia, di nuovo, verso un conflitto generalizzato.
L’anno in cui tutto precipita, lo sappiamo, è il 1929, lo stesso in cui peraltro Quidde lascia la presidenza della Società tedesca per la pace. Rudolf ha 15 anni ed è ancora uno scolaro del Realgymnasium di Brema, mentre suo padre osserva con immensa preoccupazione la crescita improvvisa del partito dell’agitatore austriaco, il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (NSDAP). Il 3 ottobre di quell’anno muore infatti Gustav Stresemann, il politico conservatore che – pur non lesinando misure anche dure – era stato tra coloro che avevano cercato di salvaguardare la tenuta della repubblica di Weimar e dei suoi rapporti internazionali. La scomparsa di Stresemann segna simbolicamente la fine di un’epoca, per la Germania. Tre settimane più tardi, a New York crolla la borsa valori: per i nazionalsocialisti è la grande occasione. Nel giro di tre anni e pochi mesi arrivano al potere, inaugurando una delle epoche più buie della storia dell’umanità, mentre Rudolf frequenta la Seemannsschule di Amburgo, l’istituto nautico fondato da armatori e mercanti della città anseatica cinquant’anni prima.
Sappiamo che suo padre invita immediatamente Rudolf, che nel frattempo ha compiuto 18 anni, a proseguire gli studi e ad abbandonare la Germania per tenersi alla larga dal clima di violenza che si sta facendo asfissiante. Rudolf è ancora giovane, si deve fare le ossa. Imparerà, e ci metterà molto tempo, che la pace – e il suo concittadino Quidde lo sapeva bene – si può fare anche con le armi.
3.
“Per i traditori della Patria e per i disertori, che magari si sono anche vantati di aver combattuto al fianco dei partigiani e di aver ucciso dei soldati tedeschi, non c’è alcuno spazio tra di noi. Siffatti apprendisti senza onore non devono aspettarsi alcun rispetto nemmeno da quelli che sono stati fin’ora nostri avversari. Verranno isolati e trattati nel modo che si sono meritati […] Le nostre leggi militari hanno piena validità, oggi come ieri. Chi le trasgredisce deve portarne inesorabilmente le conseguenze”. Queste parole senza possibilità di fraintendimento sono vergate a giugno 1945 nel Deutsches Hauptquartier Bellaria, il quartier generale tedesco del campo di prigionia di Bellaria, dal comandante Karl von Graffen, che negli ultimi giorni di guerra era stato nominato comandante del LXXVI Panzerkorps sullo scacchiere italiano. Siamo alla fine di quella che molti definiscono la Guerra dei Trent’anni del Novecento, tre decenni e qualche mese dopo le parole con cui il Kaiser Guglielmo II, a Berlino, auspicava – intimava – che davanti a lui ci fossero “soltanto tedeschi”. E sette anni dopo il boato con cui una folla di 250.000 persone nell’Heldenplatz di Vienna invocava l’annessione tedesca dell’Austria, prima di certificarla con oltre il 99 per cento dei voti in un plebiscito che nel 1938 aveva saldato le due nazioni in un solo destino, in quella che sarà un’unica “comunità di popolo armata in guerra”. Così non è stato, almeno in parte: davanti al comandante del LXXVI Panzerkorps non ci sono solamente soldati che hanno inseguito quel sogno di dominio nazionale.
Alle spalle delle spietate minacce di von Graffen, sul suolo italiano e su tutto il globo terracqueo, quel “cumulo di rovine e di fallimenti” previsto dalla baronessa von Suttner quarant’anni prima. Eppure – c’è sempre un “eppure” – queste parole lasciano trasparire qualcosa di immenso. E cioè che von Graffen minaccia inesorabili conseguenze per chi, tedesco, con spudorata doppiezza o vestito di sincera convinzione, ha “combattuto al fianco dei partigiani”. E più in generale per chi si è macchiato del più infamante dei gesti che si possano immaginare, in tempo di guerra: la resa ai nemici, la diserzione, il tradimento – Special Germans, li chiamano gli Alleati. Tedeschi e austriaci speciali, con traiettorie imprevedibili, come molto più spesso erano stati imprevedibili i percorsi di tutte le nazionalità da loro arruolate più o meno a forza: soprattutto cecoslovacchi, polacchi e sovietici di varie provenienze.
In quello stesso campo di prigionia – il lager 12 – erano infatti presenti diversi soldati della Wehrmacht che durante il conflitto avevano disertato, e si erano uniti alla Resistenza italiana. Alcuni dei loro nomi li sappiamo: il sottufficiale Karl Berger, il caporalmaggiore Oskar Blümel, il caporalmaggiore Erich Stey, il caporale austriaco Franz Maier. Dubito che abbiano conosciuto Rudolf, eppure qualcosa li univa. Innanzitutto il fatto che, a differenza di Quidde e della baronessa von Suttner, a loro nessuno avrebbe neanche mai pensato di dare un premio Nobel. Anzi. Il futuro avrebbe riservato, a quegli uomini, quasi solo sguardi e parole taglienti come quelli del comandante von Graffen – quasi solo disprezzo, e al massimo poche briciole di compassione.
“Lui ha combattuto con loro”, avrebbero detto i concittadini, i parenti, gli amici: “Ha rivolto le armi contro di noi”.
4.
Quando ti uccidono più volte, forse non sarai mai morto per davvero. Se hai dimostrato di saper essere un uomo protagonista del tuo tempo ma guidato da valori universali, che trascendono quel tempo stesso, il tuo nome resterà scolpito da qualche parte – nella memoria dei luoghi, in una lapide dimenticata, tra documenti accartocciati, nei sussurrii della gente del posto. Si dirà “lui aveva combattuto con i nostri. Lui, che era tedesco”. Si tramanderà un racconto, che così manterrà viva la tua storia, finché qualcuno non la spolvererà per raccontarla battagliando con l’oblio.
Questo è quanto accaduto a chi, vestendo la divisa delle forze armate tedesche, ha saputo dire di no, seguendo non gli ordini liberticidi e criminali della “patria” ma la propria coscienza, pur sapendo che avrebbe potuto morire non una ma due volte. Se da un lato avrebbe potuto essere ucciso in battaglia, combattendo contro i suoi ex commilitoni e i loro alleati fascisti, dall’altro il suo nome – questo invece era pressoché certo – sarebbe stato a lungo cancellato dalla memoria pubblica del suo paese. Sarebbe stato complicato, anche se si fosse persa la guerra, celebrare i disertori, queste anime rinnegate che avevano scelto il lato giusto della storia, intralciando la cavalcata del Reich millenario per inseguire, al contrario, un altro ideale.
Già nella riedizione della prima grande narrazione della guerra partigiana di Roberto Battaglia, uscita postuma, sono inserite ex novo alcune pagine dedicate al tema su cui lo storico scrive in maniera pionieristica negli anni Sessanta. E tra gli stranieri che si unirono alla Resistenza ricorda anche i disertori dell’esercito tedesco (nati nel Reich o altrove), che appaiono “nelle file del movimento partigiano in quasi tutte le regioni del Nord”. Stiamo parlando di un nucleo numericamente non trascurabile anche secondo gli storici tedeschi che avrebbero proseguito questo filone di ricerca, arrivando a suggerire l’ipotesi che fossero centinaia. Come avrebbe sottolineato Claudio Pavone molto tempo dopo, si sarebbe addirittura tentato di costituire reparti composti integralmente da disertori della Wehrmacht, e le stime più aggiornate confermano le sensazioni dei primi storici della Resistenza: questi uomini capaci di scarti improvvisi e senza possibilità di ripensamento erano certamente svariate centinaia, questo è il dato dal quale devo e dobbiamo partire. E lo stesso vale per diversi altri teatri di guerra, come la Francia, la Jugoslavia e la Grecia (dove furono oltre mille), anche se in questi casi come in quello dell’Europa orientale è difficile raggiungere delle stime certe: va detto che le biografie a nostra conoscenza hanno raggiunto ormai da tempo, allargando lo sguardo al continente, un ordine complessivo quantificabile in diverse migliaia.
Per la sola 10ª armata di stanza in Italia i dati disponibili parlano di 3.582 casi di diserzione e allontanamento non autorizzato, circa la metà dei quali di nazionalità tedesca o austriaca, e una parte considerevole di loro si unì al partigianato italiano – era uno stillicidio continuo, come rilevava la giustizia militare tedesca nel corso del conflitto. Schegge, in confronto a storie epiche confrontabili, come quella dei molti ex soldati italiani che si unirono alla Resistenza francese o greca, o come quella della Divisione partigiana Garibaldi, in Montenegro, dove 20.000 italiani prima appartenenti all’esercito fascista combatterono fianco a fianco ai partigiani locali, e tra i 6.500 e gli 8.500 di loro morirono per la libertà degli ex nemici. Ma schegge commoventi, che si fanno ossessionanti e irrompono brutalmente, con costanza, nei pensieri di chi studia questi anni. Schegge che, a un certo punto, non lasciano più scampo, e pretendono di essere indagate.
Un giovane studioso cui va il merito di essere stato il primo a provare a operare una ricognizione sistematica su questi disertori nella penisola, Francesco Corniani, ha osservato che in termini assoluti si tratta di un numero limitato, “se rapportato al milione di soldati circa dell’esercito tedesco che furono presenti tra il 1943 e il 1945 in Italia” – uno su mille, a spanne. Eppure l’esistenza di questa nutrita minoranza dimenticata, sulla quale non ha svolto “nessuna ricerca mirata” neanche la Commissione storica italo-tedesca (2009-2012), è un dato dal portato storico, civile, etico e simbolico strabiliante. Rivoluzionario. “Dopotutto, chi controlla i valori del mondo?”, chiede un commilitone di Walter Proska, il riluttante disertore del romanzo di impianto autobiografico di Siegfried Lenz, Der Überläufer,scritto nell’immediato dopoguerra ma uscito solo nel 2016: “Tu e tu soltanto”, si risponde.
L’aspetto più entusiasmante della storia, in fin dei conti, si cela nelle traiettorie biografiche dei suoi protagonisti, come l’archetipico Walter Proska, o come Rudolf. E, in questo caso più che in molti altri, si possono – si devono – ricostruire. Sapendo che saranno innumerevoli i vuoti, gli inciampi, le informazioni che vorremmo e che non potremo avere. Fin dalla riedizione del 1964 della Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia il simbolo anche problematico, tra gli addetti ai lavori, di queste vite utopiche di veri e propri “partigiani dell’umanità” che scelsero il loro versante della lotta senza adagiarsi sui confini imposti alla nascita, è Rudolf, quell’uomo nato a Brema nella “crisi di luglio” del 1914. Ma chi era veramente? È possibile scoprirlo? E quali domande pone a noi oggi la sua parabola umana?
Per quelle inaspettate coincidenze che l’indagine del passato spesso ci fornisce, quell’uomo portava un nome, Rudolf, che molti anni dopo avrebbe raccontato una storia non accomunata solamente dall’omonimia. Una storia di un altro Rudolf, una storia diversa.
Ma – per gli interrogativi che scatena – non poi così tanto.
Saremmo stati diversi?
1.
“Esistevano dei tedeschi buoni?”. È il 1989, un anno fondante per la nuova Europa aperta che si intravede all’orizzonte e in cui inizia a infuriare il dibattito sulla “guerra civile europea”, e Nuto Revelli – ex partigiano, insuperato indagatore della storia sociale italiana – rivolge questa domanda a C.M., un combattente della Resistenza belga ebreo, di madre polacca e padre russo. “No, nessun tedesco buono. Forse uno per uno, sì. Ma due insieme non buoni”, gli risponde C.M.
Revelli, un reduce del freddo glaciale del fronte russo dove aveva maturato un’irriducibile opposizione ai fascismi, aveva narrato diverse volte e per iscritto la sua esperienza – la sua “conversione” all’antifascismo, verrebbe da dire. “Sparare vuol dire credere in qualcosa di giusto o di sbagliato”, aveva scritto a inizio anni Sessanta ne La guerra dei poveri a proposito dei giorni di settembre del 1943 in cui finì il suo fascismo “fatto di ignoranza e presunzione”, e scelse la lotta contro i fascisti repubblicani di Salò e i loro alleati nazisti. Come avrebbe più volte raccontato, il suo odio per i tedeschi durante e in seguito alla campagna di Russia era via via cresciuto, diventando coriaceo, insopprimibile. E lo sarebbe rimasto per decenni – nonostante ne avesse incontrati, di tedeschi antinazisti, durante la lotta di liberazione.
“Nei venti mesi della guerra partigiana distinguevo i tedeschi della Wehrmacht dalle SS, ma non i tedeschi dagli austriaci. Erano tutti tedeschi per me, tutti uguali, tutti nazisti”: la sua leggendaria – rivendicata – incapacità di voler andare oltre quell’odio quasi atavico, coltivato con rancore, però, a un certo punto, incontra un ostacolo. Tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta comincia a ossessionarlo la storia di un “cavaliere solitario” che era diventato un disperso nel Cuneese nel corso della guerra 1943-45. E cerca spasmodicamente di ricollegare le poche tracce consunte di questa storia dai contorni così incerti, da “sordomuto” (Revelli non parlava né capiva il tedesco, né poteva accedere a Google Translate, ovviamente). Oltre a interrogare una miriade di testimoni e a mettersi alla caccia di una documentazione che pare impossibile da trovare, Revelli si confronta anche con diversi storici, tra cui Christoph Schminck-Gustavus, professore di storia del diritto e storia sociale all’università di Brema. Proprio Schminck-Gustavus, a distanza di poco dal dialogo con il partigiano belga, gli manifesta il suo disagio: “Magari il vostro odio di allora vi ha accecati, fino al punto che non vedevate più quei tanti poveri diavoli” che indossavano malvolentieri la divisa tedesca. In effetti, per Revelli e per molti altri, era stato così, e proprio l’incontro con una nuova leva di storici tedeschi che indaga più a fondo e racconta i crimini del nazionalsocialismo inizia a scavare dubbi nelle sue certezze. Due anni prima, a oltre quarant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ha scritto questo di Christoph, diventato nel frattempo una frequentazione preziosa: “la sua presenza amica mi fa riflettere. Non ho fatto passi avanti verso il cavaliere solitario, ma il mio ‘tedesco buono’ l’ho trovato”.
Cinque anni dopo questa prima folgorazione – e il capitolo del libro dedicato a questa ricerca, Il disperso di Marburg, si intitola “La svolta” – finalmente, grazie all’aiuto decisivo di un altro storico, l’italiano Carlo Gentile, il bandolo della matassa si sgroviglia e il “cavaliere solitario” guadagna una provenienza (Marburg), un nome – Rudolf, appunto – e un cognome, Knaut. Non molto altro, in realtà, ma anni di vicoli ciechi e false piste alla fine approdano al punto che sogna chiunque si metta su una traccia, sperando di arrivare da qualche parte. “Il sentimento di pietà è così profondo da annullare ogni compiacimento per il risultato conseguito”, annota Revelli a proposito di quel tedesco di Marburg che usciva solo a cavallo tutte le mattine dalle “Casermette” di San Rocco, alle porte di Cuneo, e che un giorno venne catturato e ucciso da un gruppo di partigiani. E che lui insiste, tra le pieghe del suo resoconto impostato quasi come un diario di bordo, a definire il suo “tedesco buono”, nonostante lo stesso Gentile non accetti questa ipotesi e lo inviti “amichevolmente a ritornare con i piedi per terra”. Revelli pare avere una necessità spasmodica di trovare pietà per tutti i combattenti, anche per se stesso.
In realtà Rudolf Knaut non era affatto un “buono”. Certo, come ha osservato Luigi Bonanate, è “il simbolo più banale e più anti-eroico della figura del disperso (di tutte le guerre)”, figura immensamente cara a Revelli per via della sua personale esperienza in Russia, ma non è “né migliore né peggiore di tanti combattenti”, degli oltre sette milioni di morti tedeschi e austriaci della seconda guerra mondiale. Revelli si ostina a voler vedere un “buono” in Knaut, un uomo che, sebbene non fosse iscritto al Partito nazionalsocialista di Hitler, si presume che fosse sistematicamente impegnato in attività antipartigiana con il suo battaglione. Se pensiamo che possa esserci dell’ingenuità in questa clemenza ex post di Revelli, però, ci sbagliamo.
“Credo di non aver dimenticato nulla di quei tempi in cui la ferocia era all’ordine del giorno” – scrive in uno dei passaggi più memorabili de Il disperso di Marburg. “Ma voglio che ogni tanto i freni della razionalità si allentino, voglio ogni tanto sognare a occhi aperti. Quante volte, in quei tempi della malora, mi dicevo che in guerra erano i buoni a pagare, non i peggiori”. E questo, nella nostra storia, è sicuramente vero.
2.
Uno degli ultimi giorni del secolo scorso, intervenendo subito prima di un dibattito tra Revelli e il pubblico, il suo amico Christoph Schminck-Gustavus – “tedesco buono”, lui sì – chiede alla platea: “Come ci saremmo comportati noi?”. Immagino la commozione sua e degli astanti, mentre prosegue: incalza chi lo ascolta definendo certo un po’ “farisaico” il pensiero “che avremmo opposto resistenza, che sarem[m]o stati coraggiosi, che saremmo stati un po’ diversi dal normale, da quella normalità che ha permesso che andasse in rovina quasi tutta l’Europa, che morissero milioni e milioni di uomini”. “Saremmo stati diversi?”, chiede Schminck-Gustavus al pubblico, e a tutti noi. Forse, o forse no. Gli avrebbe fatto eco, molti anni dopo, il conturbante criminale di guerra (hollywoodianamente e ordinariamente “cattivo”) Max Aue, voce narrante e protagonista del romanzo Le benevole di Jonathan Littell, con tutt’altro tono: “Se siete nati in un paese o in un’epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace. Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori. Perché se avete l’arroganza di pensarlo, qui comincia il pericolo”.
Naturalmente il fatto che questa domanda, “saremmo stati diversi?”, l’abbia posta un tedesco – seppure in un invidiabile italiano – non deve essere passato inosservato. Negli ultimi tre quarti di secolo è spesso bastato l’accento, di un tedesco, per sentire quel piglio “fanatico, cinico, arrogante, spietato”, “quasi a indicare un’essenza antropologica imperitura”, quasi a significare l’incarnazione del male, come avrebbe osservato Filippo Focardi una dozzina d’anni più tardi. Lo fa nel capitolo “Uomini o tedeschi?” del saggio Il cattivo tedesco e il bravo italiano, un pilastro della storiografia italiana più recente che ci mostra come lo sforzo di addossare tutte le colpe della guerra non solo alla Germania nazista ma, per induzione, a tutti “i tedeschi”, avesse coinvolto a trecentosessanta gradi il mondo della cultura e della politica, anche antifascista, con lo scopo di riabilitare l’Italia, nel dopoguerra, nella cornice internazionale. Ma, parallelamente, era rimasta viva la ricerca di “bagliori di umanità non spenta dall’omologazione imposta dal regime”, in scia alla tradizione pacifista – con tutti i suoi chiaroscuri – incarnata da von Suttner e Quidde, a quella socialdemocratica e conservatrice, a quella con connotazioni religiose rappresentata dal pastore protestante Martin Niemöller e dal teologo Dietrich Bonhoeffer, a quella più controversa di parte dell’establishment militare con il suo apice nell’ultima estate di guerra, fino a percorsi di militanza radicale con le salde radici fin nel 1933, quando il nascente regime aveva cominciato immediatamente a internare, a decine di migliaia, i suoi oppositori (soprattutto comunisti, socialisti e sindacalisti), mentre altre decine di migliaia di antinazisti trovavano riparo in esilio. È stato stimato che furono quasi un milione i tedeschi internati nei campi di concentramento del regime, a diverso titolo componenti della “complessa galassia delle resistenze tedesche”. Quanto di questo è trapelato, all’epoca dei fatti e poi nella loro memoria, in Italia?
Fin dall’immediato dopoguerra sulla penisola avevano iniziato a circolare racconti puntuali e locali relativi a tedeschi – non di rado relativamente anziani – che si erano comportati umanamente, senza per questo scalfire oltre la superficie una raffigurazione fondamentalmente “permeata dall’astio antigermanico”. Focardi ha messo in rilievo come, nonostante il tentativo di contrastarlo recuperando, tra le altre cose, il meglio della “cultura di Weimar” e più in generale frammenti dell’“altra Germania”, questo archetipo del tedesco guidato dall’obbedienza acritica e incondizionata fosse un convincimento ben presente dall’Ottocento risorgimentale e con radici addirittura nella contrapposizione fra latinità e germanesimo in epoca romana. Cresciuto esponenzialmente con la propaganda del primo conflitto mondiale, era poi esploso con il nazismo e con una diffusa sensazione di “asservimento” all’alleato – con cui l’esercito fascista gareggiava in ferocia su diversi fronti – nella prima fase del conflitto mondiale. Questo stereotipo del “barbaro” aveva così inquinato anche nel corso della guerra di liberazione il vissuto di tutti i tedeschi, nessuno escluso, “distorcendo anche la percezione di quanti di loro avevano compiuto concretamente un atto di rottura o quantomeno di distacco nei confronti del Terzo Reich, ovvero i disertori e gli oppositori politici”. Al punto che persino nelle Lettere della Resistenza europea (1969) che ne includono dieci di antinazisti tedeschi e austriaci, si ragiona intorno all’odio maturato nei confronti di un “popolo di assassini”. A questo si erano affiancati, in parziale controtendenza, sporadici riferimenti a tedeschi che avevano abbandonato la lotta, mossi più che altro da nichilismo e disperazione, senza coscienza politica, e più in generale a coloro che nel corso della guerra venivano definiti Wehrkraftzersetzer – “disfattisti”, in sostanza.
Considerando la decisa impennata dettata dal panico delle ultime settimane di guerra che rese anche difficile contarli, tuttavia, i disertori delle forze armate tedesche possono essere stimati nell’ordine delle centinaia di migliaia sui circa venti milioni di combattenti (anche di origine ebraica) impegnati sui vari fronti. Furono oltre 22.000 le sentenze di morte per diserzione emanate, e almeno 15.000 vennero in effetti applicate come auspicava Hitler già nel Mein Kampf: se un uomo in guerra può morire, scriveva il futuro dittatore austriaco, il disertore deve. E infatti molti altri – chissà quanti – vennero giustiziati su due piedi: fucilati o impiccati all’albero più vicino dai loro ex commilitoni.
Ma limitiamoci a osservare i dati certi, per ora: 15.000 esecuzioni. È una cifra impressionante, se comparata con i 48 giustiziati nella guerra precedente dal Reich tedesco e con i 40 messi a morte dalla Gran Bretagna e i 146 dagli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, e considerando le centinaia di migliaia di disertori che, scampata la pena capitale, vennero imprigionati o spediti in “battaglioni punitivi”. Se da un lato non bisogna dimenticare, come ha rivelato negli anni Novanta – innanzitutto in Germania e in Austria – la Wehrmachtsausstellung, la mostra itinerante sulla guerra di sterminio e sui crimini della Wehrmacht, che la guerra ai civili non era stata fatta solamente dalle unità più spietate e più ideologicamente vicine al nazismo (SS e Gestapo), ma anche da molti soldati e ufficiali, né che molti “uomini comuni” parteciparono senza farsi troppi scrupoli al massacro spesso prendendoci anche gusto, dall’altro la vicenda dei disertori è un elefante che si aggira in un silenzio spettrale tra le rovine della guerra europea dei Trent’anni. E va raccontata, anche se questo dovesse significare dibattersi fra tracce rarefatte, sbiadite.
Se raramente questi disertori si unirono alle fila nemiche e lo fecero per ragioni ideali, non si può sottovalutare che – come ha mostrato una ricognizione di 16.000 lettere di soldati, sui tre miliardi di missive e pacchi fatti transitare dalla Feldpost tedesca tra il 1939 e il 1945 – i ragazzi e gli uomini tedeschi che combattevano sui vari fronti vedevano la loro guerra “attraverso il prisma non solo dell’ideologia ma anche della tradizione familiare di ciascuno, delle sue letture, della sua esperienza, del suo rapporto con la storia e del modo in cui collocava se stesso nella storia”. Non era facile scostarsi da quella narrazione nella quale rimbombavano i discorsi ottocenteschi sull’Herrenvolk, e che attingeva a piene mani dalla guerra miseramente persa, quella prima: i principali teatri delle operazioni della seconda guerra mondiale, infatti, avevano visto la generazione dei padri battersi nel conflitto precedente, e questi giovani di nuovo in armi avevano spesso “bisogno di sentirsi parte di una lunga genealogia di combattenti”. Per questa ragione le storie di chi remò controcorrente, di chi si mise di traverso cercando di arginare la tracimante marea nazionalista che aveva travolto (quasi) ogni cosa, in patria e oltre, hanno qualcosa di stupefacente.
Nell’estate del 1944, ad esempio, dopo lo sbarco in Normandia la Wehrmacht si trovò vicina al punto di rottura, e le sistematiche diserzioni riguardavano soldati inquadrati precedentemente a est, alsaziani e Volksdeutsche, ma anche tedeschi nati nel Reich (Reichsdeutsche) e austriaci, come ha notato lo storico militare Antony Beevor: “Alcuni erano soldati che non credevano nel regime nazista o che, più semplicemente, odiavano la guerra […] Il generale Lüttwitz, comandante della 2ª Divisione panzer, rimase sconvolto quando tre dei suoi austriaci disertarono passando al nemico e avvertì che i nomi di tutti i disertori sarebbero stati resi pubblici nelle loro rispettive città, così da poter prendere misure contro i loro parenti. ‘Se qualcuno tradisce il suo stesso popolo’ annunciò ‘la sua famiglia non appartiene più alla comunità nazionale tedesca’”. Un alsaziano che cercò di unirsi a una colonna di profughi francesi, racconta ancora Beevor, venne picchiato a morte dai soldati della sua compagnia, e il suo cadavere con le ossa fratturate venne gettato nel cratere di una bomba – “il capitano proclamò che questo era un esempio di ‘Kameradenerziehung’, un’‘educazione al cameratismo’”. Non stupisce che chi aveva ancora energia e coraggio valutasse di passare tra i ranghi del nemico: non è certo un caso che, sul fronte orientale, Himmler decise di proibire la parola “partigiano”, per riferirsi ai gruppi di civili che affiancavano le forze regolari sovietiche, ordinando di utilizzare il termine “banditi” (Banditen), largamente in uso in tutta Europa, o in alternativa il termine franc-tireurs, espressione che i tedeschi conoscevano bene per via della guerra del 1870-71. Il lemma “partigiano” poteva fare presa sui soldati tedeschi, persino nella “guerra assoluta” contro l’URSS, dove fin dalle ore precedenti l’attacco un militare tedesco passò le linee per avvisare i nemici. Dovrebbe trattarsi dell’operaio comunista berlinese Wilhelm Korpik o del caporale Alfred Liskow, falegname comunista bavarese, che è l’unico disertore (e) del quale è citata l’identità nella raccolta di documenti dell’URSS sulla “grande guerra patriottica” e che venne probabilmente non creduto e fucilato dai sovietici. In realtà sappiamo che di militari passati a dar manforte ai “rossi” ce ne furono diversi altri (persino dei generali come Rudolf Bamler), e furono numerosissimi nel celebre e leggendario “Battaglione punitivo 999” – che poi in Grecia vedrà un altissimo tasso di diserzione –, dove erano assegnati i comunisti tedeschi, e in genere gli antinazisti; i passaggi di campo, considerando anche quelli dei combattenti locali, possono essere stimati in decine di migliaia. Le loro storie, e innanzitutto la lungimirante diserzione di Liskow, a guerra in corso vennero talvolta utilizzate per la propaganda antinazista: tra le più emozionanti rimane la vicenda del muratore comunista Fritz Schmenkel, di Stettino, catturato in Bielorussia dai suoi ex camerati dopo oltre due anni di lotta con i partigiani sovietici e fucilato nel febbraio del 1944.
Anche durante la lotta contro i nazifascisti, le Resistenze europee avevano ben chiaro, con gradazioni e convinzioni diverse a seconda della regione geografica e del posizionamento politico, che il nemico non doveva essere demonizzato in toto, e si moltiplicavano gli appelli che lo invitavano a disertare, e a unirsi ai combattenti per la libertà. Sebbene pochi, i “giusti” c’erano, nelle città e sui fronti più disparati. Uno era Joe J. Heydecker, un fotografo della Compagnia Propaganda 689 della Wehrmacht che partecipò come Revelli all’invasione dell’Unione Sovietica e che nel corso dell’occupazione della Polonia fotografò, a rischio della vita, le condizioni degli ebrei del ghetto, consegnando ai posteri una delle più vigili e strazianti testimonianze dello sterminio nazista. Anche tra le vittime in molti cercarono fin da subito di vedere questi “giusti”, per poter credere in un mondo diverso.
Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz, è tra i pionieri di questa ricerca dei tedeschi che non fossero complici, alla quale dedica tutta la sua vita di superstite, non senza ricorrenti ritrosie, in maniera ondivaga, “a tratti entusiasta, a tratti frustrante”. Già nel suo ritorno a casa si sorprende a cercare per le vie di Monaco, “fra quella folla anonima di visi sigillati, altri visi, ben definiti, molti corredati da un nome: di chi non poteva non sapere, non ricordare, non rispondere; di chi aveva comandato e obbedito, ucciso, umiliato, corrotto. Tentativo vano e stolto: ché non loro, ma altri, i pochi giusti, avrebbero risposto in loro vece”.
Sotto il “cumulo di rovine e di fallimenti”, a ben cercare, ha sempre covato un’altra narrazione – un contromovimento presente sottotraccia anche in tutta la letteratura resistenziale del continente, e non solo nei percorsi di ricerca e nelle testimonianze dei combattenti e dei sopravvissuti. Sono squarci della narrativa, come “l’ufficialetto” austriaco unitosi alla Resistenza ne Il partigiano Johnny di Fenoglio, “appena un ragazzo, ma pallido e già stempiato […] straordinariamente smilzo, e la divisa naturalmente gli andava larga, ma senza effetto buffo, anzi con un incredibile incremento di romanticità”; accompagnato da una “totale, immascherabile, propagantesi tristezza”. Ricorda, per contrasto, il tedesco catturato – e soprannominato “Fritz” – che nel racconto fenogliano Golia non osa neanche colpire i partigiani con le palle di neve. È “una pasta frolla, non sembra nemmeno un soldato tedesco”, nella descrizione del comandante Sandor; è un soldato tedesco che aveva combattuto anche “l’altra” guerra e che, dopo una lunga convivenza in banda, finisce “giù piatto come una rana”, la faccia nella neve, in una sorta di beffardo e tragico regolamento di conti che ha più a che vedere con la brama di autostima di un minuto partigiano giovanissimo – “Carnera” – che con il comportamento di Fritz, alias “Golia”.
Uno dei picchi più alti di questa ricerca in apparenza destinata al fallimento lo incrociamo nello straordinario Educazione europea di Romain Gary, un romanzo scritto a guerra in corso e ambientato nella Polonia occupata dai nazisti, nel quale troviamo un dialogo tra il protagonista – un ragazzino, Janek – e il suo mentore, Dobranski, che gli vuole dimostrare “fino a che punto ci assomigliamo, noi e loro”. E gli racconta la storia di quando “il terrore tedesco era al colmo”:
“Allora mi domandavo: come può il popolo tedesco accettare tutto ciò? Perché non si ribella? Perché si sottomette e accetta questo ruolo di boia? Certo, coscienze tedesche ferite, oltraggiate in ciò che hanno di più semplicemente umano, si ribellano e si rifiutano di obbedire. Quando, però, vedremo i segni della loro ribellione? Ebbene, a quel tempo un giovane soldato tedesco venne qui, in questa foresta. Aveva disertato. Veniva a unirsi a noi, a mettersi al nostro fianco, sinceramente, coraggiosamente. Non vi erano dubbi: era un puro. Non si trattava d’un membro del Herrenvolk, si trattava di un uomo. Aveva sentito il richiamo di ciò che in lui vi era di più semplicemente umano, e aveva voluto togliersi di dosso l’etichetta di soldato tedesco. Ma noi avevamo occhi soltanto per questo, per l’etichetta. Tutti sapevamo che era un puro. La purezza la senti, quando ti capita di trovarla. Ti acceca, in mezzo a questo buio. Quel ragazzo era uno dei nostri. Ma aveva l’etichetta”.
“E allora?”
“E allora noi lo abbiamo fucilato. Perché aveva addosso l’etichetta: tedesco. Perché noi ne avevamo un’altra: polacchi. E perché l’odio era nei nostri cuori… Qualcuno, a mo’ di spiegazione, o di scusa, non so, gli aveva detto: ‘È troppo tardi’. Ma sbagliava. Non era affatto troppo tardi. Era troppo presto…”.
Dobranski aggiunse:
“Ora ti lascio. Arrivederci”.
E si allontanò nella notte.
3.
Quando le preoccupazioni ti assediano, non è inconsueto che tu ti svegli all’alba. Forse ti sei già costruito un giudizio inappellabile sul baratro in cui è precipitata la Germania, ma hai due figli, uno di pochi mesi e l’altro di due anni, e devi prendere tempo. Vuoi prendere tempo, dannazione – ci va un coraggio immenso, per osare. Per essere “un puro”.
Rudolf non può aver letto Educazione europea, questo è certo, perché uscirà di scena prima che il romanzo di Gary veda la luce. Conosce invece, con ogni probabilità, alcune delle storie della Resistenza tedesca, che non saprà mai farsi un movimento tendenzialmente strutturato e diffuso come invece accadrà in tutta Europa, è vero, ma che ha sempre innervato la Germania nazista, anche negli anni più bui. Avrà sentito parlare, ad esempio, di Georg Elser, carpentiere e falegname, che a due mesi dallo scoppio della guerra ha mancato il Führer di 13 minuti in un attentato dinamitardo, uno tra le decine di mancati tirannicidi che si sono avvicendati in dodici anni di nazionalsocialismo. Nel frattempo Rudolf si è da poco sposato con Herta Jacke, e ha avuto due figli, Rudolf (nato già nel 1937, prima del matrimonio) e Wilhelm, venuto al mondo il 14 febbraio del 1939 a Brema, pochi mesi prima che calasse l’oscurità sul continente, con l’invasione nazista della Polonia.
Papà Rudolf ha fatto di tutto per non essere arruolato nelle forze armate tedesche, trovando una legittima motivazione nella sua condizione familiare e nel fatto che è ancora impegnato con gli studi. D’altra parte ha già prestato servizio militare a partire dall’ottobre del 1935: negli anni Trenta compie un percorso di formazione da marinaio in patria e all’estero, probabilmente in India, allargando così il suo orizzonte. Tornando sul suolo tedesco ha però disobbedito al padre, che aveva ampiamente previsto la tormenta che si stava abbattendo sulla Germania e sull’Europa intera, e l’aveva supplicato – lo abbiamo visto – di stare lontano dal centro degli eventi. Ora, quando gli anni Trenta sfumano nei Quaranta, vive con la famiglia nel sobborgo Francop di Amburgo. La città diventerà celebre per via di un’istantanea e di una storia. L’istantanea: quella foto che immortala un uomo a braccia conserte, in una posa quasi di sdegnosa disubbidienza, immerso in una folla oceanica tesa nel saluto romano a Hitler, nel 1936, in occasione del varo di una nave.
La storia è invece la vicenda della St. Louis, la nave capitanata da un connazionale di Rudolf, il capitano Gustav Schröder, che ha tentato in ogni modo, nell’estate del 1939, di portare in salvo quasi mille ebrei oltre Atlantico, salvo essere poi costretta a fare marcia indietro, perché nessuno, nelle Americhe, li voleva. La vicenda ha avuto un’immensa eco in tutto il mondo, e quasi certamente Rudolf ha osservato la tenacia di Schröder chiedendosi se lui sarebbe stato capace di fare altrettanto – per non parlare delle migliaia di volontari tedeschi e austriaci che in questi medesimi anni si sono battuti per la Repubblica contro i fascismi, nella guerra civile spagnola.
È un giovane uomo nel pieno delle proprie forze, Rudolf, e suppongo cerchi spiragli di coerenza in quella prigione a cielo aperto che è diventata la Germania. Secondo la sorella, ma non a parere del resto della famiglia, è – o almeno era stato – un Weiberheld, un donnaiolo: una foto di quegli anni in divisa da marinaio cattura il suo sguardo vivace, i capelli tirati all’indietro, leggermente rasati sulla tempia, un’occhiata in camera che sembra chiedere “sto bene, così?”. Ha la vita davanti, Rudolf, e pare esserne del tutto consapevole: se in un ritratto di coppia scattato in occasione del suo matrimonio mantiene uno sguardo austero, con il papillon bianco quasi a scomparire sulla camicia altrettanto candida nell’uniformità cromatica, in un quadretto familiare con il figlio Rudolf jr. cogliamo lateralmente il sorriso sincero di un uomo raggiante. La fossetta sulla guancia destra, la mano del figlio appoggiata con delicatezza sulla sua spalla – si intravede una felicità che chi non ha vissuto non sa di poter provare. Quanto inciderà sulle sue future scelte?, mi chiedo.
Perché la Germania – la Germania nazionalsocialista, ora – pronuncia a più riprese il suo nome. Avere 25 anni allo scoppio della guerra, per Rudolf, è una dannazione e un’opportunità: deve lasciare la sua famiglia, come milioni di altri suoi coetanei, e rispondere alla chiamata alle armi, e questa è la maledizione. Ma può fare carriera, con alle spalle la sua formazione da marinaio alla Seemannschule e i suoi studi da ingegnere, seppur interrotti a più riprese: nonostante riesca per diverso tempo a scampare l’arruolamento, gli viene infine intimato di partecipare alla realizzazione del “Vallo Atlantico”, un progetto mastodontico con l’obiettivo di rendere la “fortezza Europa” nazista inespugnabile, ad Amburgo-Altona e a Saarburg. Presta giuramento alla Marina di guerra – la Kriegsmarine – l’8 maggio del 1941 e a fine agosto del 1942, quando il mondo sta entrando nel quarto anno di guerra, si trova a nord di Brema, nella Bassa Sassonia (a Wilhelmshaven). Un tedesco di 28 anni, in pieno conflitto mondiale, difficilmente può evitare di prenderne parte.
Ed è così che Rudolf, nato sotto una stella armata a Brema e diventato adulto per le vie del mondo e nella turbolenta Amburgo, richiamato dalla Marina il 25 settembre del 1943, dopo qualche mese con la Maas-Flottille nell’Europa settentrionale arriva infine in Italia – un fronte che diventerà presto secondario, ma sul quale i vertici delle forze armate tedesche ripongono ancora fiducia. Sul suo ruolino militare non risultano sanzioni disciplinari. Servono gli uomini migliori per arrestare la risalita della penisola degli Alleati, e per annichilire quei piantagrane dei “banditi” italiani, che imperversano intorno alle Alpi Apuane.
4.
Secondo alcuni dei partigiani protagonisti di questa stagione, la banda del marinaio sarzanese Flavio Bertone, nome di battaglia “Walter”, proprio nell’estate del 1944 prende il nome “Ugo Muccini”, in ricordo di un militante comunista che si era arruolato nelle Brigate Internazionali nella guerra civile spagnola ed era morto eroicamente a Sierra Cabals, nel corso della leggendaria battaglia dell’Ebro, non ancora trentenne. Secondo altri, il nome della banda i cui primi nuclei nascono nella valle del fiume Magra sarebbe stato acquisito ben prima, mentre è certo che dall’autunno la denominazione sarebbe stata questa, fino al termine della guerra, una volta costituitasi come Brigata garibaldina d’assalto. La banda guidata da “Walter”, il cui commissario politico è Paolino Ranieri (“Andrea”), in ogni caso, dopo essersi spostata nell’entroterra, a giugno partecipa alla liberazione del paese di Bardi, non lontano da Parma, e da questo colpo di mano nasce l’esperienza della repubblica partigiana del Ceno – un’esperienza pionieristica nell’Italia occupata –, alla quale fa seguito l’istituzione del vicino Territorio libero della Val Taro, con una popolazione di oltre 40.000 abitanti. Le fotografie scattate agli uomini di “Walter” e “Andrea” a Bardi ci mostrano un gruppo compatto di giovani determinati, che vogliono fare la differenza non solo nei luoghi dei quali la maggior parte di loro è originaria. La porzione di territorio dalla Spezia a Parma in cui si stanno muovendo è cruciale per gli Alleati: la presenza delle Alpi Apuane e dell’area appenninica che porta da Genova a Modena rende infatti alquanto impervia la zona nella quale non è in sostanza possibile ingaggiare scontri in campo aperto. Né, per i partigiani, sarebbe sensato.
Quella della banda di “Walter”, e vale in generale per la Resistenza italiana, è guerra di guerriglia: un conflitto asimmetrico, contro un nemico che ha risorse spropositate e armamenti con un raro potenziale distruttivo. L’occupazione nazista è iniziata a settembre del 1943, e nelle settimane successive in un’ampia area dell’Italia centrosettentrionale è sorto il governo vassallo fascista della Repubblica sociale italiana, per proseguire la guerra al fianco dello storico alleato. I diversi sbarchi angloamericani hanno rapidamente liberato l’Italia del sud, e il fronte si è incancrenito per circa otto mesi sulla Linea Gustav, dove combattono truppe arruolate in ogni dove, in uno schieramento e nell’altro – anche qui è davvero una guerra “mondiale” che coinvolge decine di stati e di nazionalità. Dopo lo sfondamento della Gustav a maggio, grazie al contributo determinante delle truppe coloniali francesi e del corpo di spedizione polacco, i tedeschi sono definitivamente in ritirata dal Mezzogiorno, incalzati anche dai combattenti provenienti dal Corno d’Africa come quelli della “Banda Mario”, che avrà tra i suoi ranghi un melting pot di combattenti di almeno otto nazionalità tra cui un viennese, Emerich Schafranek. La pressione alleata sta spingendo gli avamposti tedeschi più meridionali verso il sud della Toscana: in quell’area i disertori sono numerosi, rileva Carlo Gentile – lo storico che aiutò Revelli nella sua ricerca –, e la disciplina risulta “fortemente compromessa”. Il Comando supremo della Wehrmacht tenta di “reagire a quelle tendenze disgregative mandando in Italia un reggimento di Feldjäger, un corpo speciale di polizia militare dotato di pieni poteri e incaricato di intercettare fuggiaschi e disertori alle spalle della linea di combattimento per rispedirli al fronte”.
“Te la fanno vedere loro, la diserzione”, commenta portandosi un dito teso alla tempia Walter, il protagonista diciassettenne del romanzo Morire in primavera di Ralf Rothmann, ambientato in un altro teatro di guerra (quello ungherese, dove Walter è trascinato suo malgrado) ma che delinea perfettamente i rischi che la diserzione comporta: “La polizia militare vede chiunque a mille metri di distanza e ti impicca su due piedi, senza processo. Sono dei veri bastardi. Probabilmente rischi di meno se riesci a tenerti fuori fino alla fine”.
Nella regione lo sa bene il diciannovenne tedesco Günter Frielingsdorff, pittore e studente d’architettura, “un bel ragazzo, un bel moro, alto” secondo una testimone, che già a ottobre del 1943 ha disertato insieme a un compagno, aggregandosi alla Resistenza nel Grossetano: dopo varie peripezie, si è unito a una banda di dieci giovani italiani – con loro “lo spezzino” trentottenne Mario Becucci – nella macchia di Monte Bottigli, una trentina di chilometri a sud di Grosseto. Durante un rastrellamento in seguito a delazione, iniziato la notte tra il 21 e il 22 marzo 1944, Frielingsdorff riesce a salvarsi sfondando audacemente la parete della capanna in cui si trova per fuggire nella boscaglia, dove i fascisti lo inseguono sparando all’impazzata – gli abitanti del luogo ricorderanno che “gli passavano sopra le pallottole”, come in un film. Ma è la bruta realtà: “il fatto che soltanto uno della banda è riuscito a fuggire all’annientamento, dimostra che la sorpresa è riuscita in pieno”, commenta poi il capo fascista della provincia ai suoi “gregari”, rivolgendo il suo “vivo plauso” agli autori materiali di quella che passerà alla storia come la strage di Istia d’Ombrone. Gli undici compagni di Frielingsdorff – tutti tranne Becucci fra i 19 e i 24 anni – vengono fucilati la mattina stessa, e gli esecutori si allontanano dal luogo dell’eccidio cantando. La sera del giorno seguente il disertore tedesco si presenta a un podere “tutto strappato” (ricorda un’altra testimone) con i piedi sanguinanti e, rimasto nella zona, partecipa alla guerra di liberazione nella banda di Monte Bottigli “Sempre Presente”, mantenendo il nome di battaglia “Gino” e ottenendo il riconoscimento di partigiano combattente – con lui combatterà anche un coetaneo austriaco, Frurin Chlofch. Nelle vite di molti dei ragazzi come Frielingsdorff e Chlofch – che alla fine della guerra avranno vent’anni – e come gli undici ragazzi della strage di Istia d’Ombrone che Frielingsdorff scampa a testa bassa nella boscaglia, in fondo, “a parte la guerra non era successo ancora molto”. Leggo questa osservazione folgorante nel “romanzo di fatti” di Christiane Kohl intitolato Villa Paradiso, ambientato proprio in Toscana e che illumina la complessità tra i ranghi delle forze armate tedesche, mostrando parecchie e diverse possibilità dell’agire umano anche nella schiera dei carnefici, sebbene non appaiano disertori in senso stretto fino ai “titoli di coda” del libro, dove l’autrice racconta di un renano senza nome che, fuggito dal fronte orientale, raggiunge rocambolescamente i partigiani italiani per unirsi a loro. Le descrizioni di Kohl ci aiutano anche a restituire la giusta tinta – fosca – a quanto sta accadendo sulle colline toscane: “La regione si stava progressivamente trasformando in uno scacchiere su cui si svolgeva una guerriglia confusa e disordinata. I tedeschi, che vedevano avvicinarsi lo scacco matto, rappresentato dalle truppe inglesi sempre più vicine, si vendicavano con maggior accanimento sulle pedine più piccole, ovvero sulla popolazione civile italiana. Intanto gli abitanti si aspettavano che la guerra sarebbe terminata nel giro di pochi giorni, con l’arrivo degli alleati: la vita era come una violenta raffica di vento, capace di far precipitare la gente dalla speranza alla paura e viceversa, in una continua altalena”.
L’Autore
Carlo Greppi-
Carlo Greppi,storico, ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del Novecento.Per Laterza cura la serie “Fact Checking”, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente (2020), ed è autore anche di 25 aprile 1945 (2018) e Il buon tedesco (2021, Premio FiuggiStoria 2021 e Premio Giacomo Matteotti 2022).
RASSEGNA STAMPA
Carlo Greppi- Il buon tedesco-Carlo Greppi- Il buon tedesco-Carlo Greppi- Il buon tedesco-Carlo Greppi- Il buon tedesco-
Bianca Bianchi, storia di una costituente- di Giulia Vassallo
Biblion edizioni
Descrizione-La costituente Bianca Bianchi (1914-2000), protagonista di questa narrazione, fu una donna eccezionale. Perché fu antifascista coraggiosa, tanto da preferire l’esilio in Bulgaria alla soggezione intellettuale al diktat del regime; perché fu militante attiva nella Resistenza toscana, ma anche per la sua esperienza di parlamentare eletta nella prima legislatura repubblicana, con oltre 20 mila preferenze. Volitiva e naturalmente incline a battaglie scomode e scelte impopolari, tra cui quella di appartenere a un partito variamente screditato dai rivoluzionari, si allontanò presto e non senza amarezza dai riflettori di Montecitorio, scegliendo di dedicarsi alla «cura dei più bisognosi» e alla promozione di una cultura laica, socialista e soprattutto europea.
L’instancabile e variegata biografia, le carte d’archivio e le lettere alla grande socialista russa Angelica Balabanoff, come pure le testimonianze rese da colleghi e collaboratori, ovvero gli elementi che compongono il presente volume, contribuiscono a restituire per la prima volta il profilo di Bianca Bianchi in tutta la sua complessità. Emerge così dall’oblio storiografico una personalità versatile e non certo aristocratica; una scrittrice, un’insegnante e la promotrice della prima legge contro la discriminazione dei figli illegittimi; una figura femminile di indiscutibile caratura personale, ma soprattutto con una dimensione pubblica di grande spessore, che merita di essere conosciuta.
Giulia Vassallo (Roma, 3 febbraio 1977) è assegnista di ricerca presso la “Sapienza”, Università di Roma. Dal 2006 ad oggi è redattore editoriale della rivista online «EuroStudium3w», di proprietà dell’Ateneo “Sapienza” di Roma. È inoltre autrice del volume Lilliput o Gulliver? Il contributo olandese all’unificazione europea (1945-1966), Bulzoni 2020. Su Bianca Bianchi, sempre per i tipi di Bulzoni, ha precedentemente pubblicato, con Davide Di Poce e Elisiana Fratocchi, il libro Il pane e le rose. Scritture femminili della Resistenza.
Bianca Bianchi: dall’antifascismo esistenziale al “virus della politica”
Francesca Gori
A cento anni dalla nascita il ricordo del percorso etico-politico della “ragazza di campagna” da Vicchio alla Costituente.
Bianca Bianchi nasce a Vicchio il 31 luglio 1914. La sua educazione alla politica ha origine nell’ambiente familiare, in particolare grazie alla personalità del padre Adolfo, fabbro e segretario della federazione socialista del paese, con il quale ogni pomeriggio Bianca intrattiene lunghe chiacchierate, durante le quali impara che socialismo vuol dire “amare i più poveri e fare qualcosa per loro”. Ogni giovedì inoltre salta la scuola e accompagna il padre alla sezione del partito dove fuori, durante il mercato settimanale, in piedi su un tavolo, tiene appassionati comizi.
Dopo la morte prematura del padre, all’età di sette anni, Bianca si trasferisce, insieme alla madre e alla sorella maggiore a Rufina, presso l’abitazione dei nonni materni. Ha un rapporto conflittuale con la madre che, ripiegata sul modello domestico, non comprenderà mai l’attrazione della figlia per lo studio e per la volontà di evadere dal mondo provinciale. Trova però un valido sostenitore nel nonno Angiolo, contadino antifascista, figura importante nella sua formazione intellettuale dopo la morte del padre, che stimolerà Bianca con discussioni letterarie, religiose e politiche.
Bianca dimostra presto il suo interesse per lo studio e, grazie all’appoggio del nonno, abbandona la campagna e si trasferisce a Firenze, per frequentare la Scuola Magistrale “Gino Capponi”, prima, e la Facoltà di Magistero poi. Nel 1939 consegue la laurea con una tesi dal titolo Il pensiero religioso di Giovanni Gentile, discussa con il relatore prof. Ernesto Codignola, che l’anno successivo viene pubblicata. nizia da subito ad insegnare: le viene offerta una cattedra a Genova, dove non rispetta i programmi, che prevedevano l’esclusione degli argomenti riguardanti la civiltà ebraica, tenendo lezioni personali in proposito. Tale comportamento insubordinato le vale l’allontanamento dall’istituto genovese. Le viene affidato allora un nuovo incarico a Cremona, da dove viene, anche questa volta, presto licenziata, a causa del primo compito in classe proposto ai suoi studenti, in cui ha chiesto di riflettere sui caratteri della società moderna e sui progetti per il futuro. In particolare aveva invitato un suo studente di origine ebraica ad essere sincero e a scrivere liberamente il proprio pensiero. Bianca viene allora assegnata all’Istituto italiano di cultura in Bulgaria. L’ “esilio” a Sofia, dove intrattiene anche una prima relazione amorosa, in realtà permette a Bianca di imparare una nuova lingua e di insegnare liberamente, senza le limitazioni politiche del regime. Il soggiorno però è breve e nel giugno 1942 torna in Italia, per aiutare la madre e la sorella, in difficoltà nel contesto bellico.
Dopo la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio, si impegna, in quell’opera di soccorso e di travestimento di massa dei soldati sbandati, messa in atto dalle donne italiane, in quello che è stato definito maternage di massa (Bravo). Partecipa poi, su invito del prof. Codignola, che era stato il suo relatore di tesi, alle riunioni del Partito d’Azione, contribuendo attivamente alla resistenza. In particolare distribuisce volantini antifascisti e, qualche giorno prima dell’insurrezione fiorentina, le viene affidato il compito di trasportare un carretto carico di armi. L’esperienza della resistenza è breve, ma per Bianca ha un valore importante, perché permette il passaggio dall’antifascismo esistenziale, vissuto individualmente, ad una maturazione politica consapevole, vissuta in condivisione con i compagni partigiani.
È dunque dopo la fine della guerra che Bianca passa alla vita politica attiva. Il momento della svolta è rappresentato, nel ricordo stesso di Bianca Bianchi (si veda il documento allegato), dalla presa di parola, che avviene durante il comizio del democristiano Gianfranco Zoli nella primavera del 1945. Bianca accoglie l’invito dell’oratore al contraddittorio, criticando il suo fare da “pompiere” che sembrava voler spegnere gli ideali di rinnovamento, e invita invece a realizzare una politica diversa, che si faccia portavoce della volontà di cambiamento e di speranza degli italiani. Alla fine del comizio un gruppo di socialisti avvicinano la giovane, invitandola ad iscriversi al PSIUP. Bianca Bianchi inizia a frequentare la sezione di via San Gallo, per “ascoltare e osservare”, ma la sua passione e la sua convinzione di “poter contribuire a creare un mondo di eterna primavera” la fanno passare ben presto all’azione. Si iscrive al partito, organizza iniziative culturali, dibattiti, ed è subito protagonista della campagna elettorale, riuscendo ad acquisire molti consensi tra la base, anche grazie alle sue abilità oratorie.
Bianca Bianchi
Al Congresso provinciale della primavera del 1946, per la formazione della lista dei candidati per la Costituente infatti, viene votata quasi all’unanimità come capolista. I compagni di partito però, diffidando delle donne in politica e della giovane età della Bianchi, la sostituiscono con un esponente di spicco e di consolidata militanza nel partito, Sandro Pertini. Nonostante la delusione, Bianca Bianchi continua la sua appassionata e frenetica campagna elettorale, raggiugendo così, alle elezioni del 2 giugno, un successo personale inaspettato, riuscendo ad accaparrarsi il doppio dei voti del capolista Pertini (15384 voti) ed entrando così di diritto tra le 21 donne elette all’Assemblea Costituente.
Si ricorda in seno alla discussione della Costituente l’impegno di Bianca Bianchi a favore della scuola pubblica, opponendosi fermamente alla parificazione tra le scuole pubbliche e quelle private, previsto dall’art. 27 (poi 33) della Costituzione.
Al Congresso del partito del 9-13 gennaio 1947 inoltre, dopo una lunga e sofferta riflessione, decide di seguire la minoranza di Saragat, a cui la legava anche una profonda amicizia, nel Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. La sua carriera politica prosegue poi nel 1948, quando viene eletta nella I legislazione in Sicilia.
Da ricordare poi la sua battaglia a favore di una legislazione meno discriminatoria nei confronti dei figli illegittimi, iniziata in seguito alla sua partecipazione al Congresso dell’Alleanza femminile internazionale di Amsterdam del 1948 e conclusasi con l’approvazione della legge nel 1953.
Tra il 1953 e il 1970 Bianca Bianchi non viene rieletta nelle successive legislature e riprende quindi l’impegno nel settore dell’istruzione, curando la rubrica de La Nazione, Occhio ai ragazzi e fondando la “Scuola d’Europa”.
Rientra in politica nel 1970, per una legislatura, eletta consigliera comunale a Palazzo Vecchio a Firenze, e successivamente continua ad occuparsi dei temi dell’istruzione e si dedica alla letteratura, intrisa di quella passione e di quel “virus della politica” che aveva caratterizzato tutta la sua vita.
Si è infine spenta il 9 luglio 2000.
Fonte-ToscanaNovecento – (Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea)
Resistenza va scomparendo- Articolo di Alba Sasso-
Partigiano
Resistenza va scomparendo- articolo di Alba Sasso .Lentamente, la Resistenza antifascista va scomparendo. Un’azione di demolizione metodica, inesorabile, che negli ultimi anni ha raggiunto livelli mai immaginati prima, sta recidendo le radici che legano la nostra storia all’oggi e al domani, un progetto portato avanti nel tempo, che oggi mette sotto gli occhi di tutti i suoi risultati .La proposta della Gelmini tendente ad eliminare anche il nome della Resistenza- resta solo un più generico “percorso verso l’Italia repubblicana”- dai libri di testo è più che una provocazione, o una boutade. È il perfezionamento di un progetto di egemonia culturale portato avanti da un berlusconismo che, ben lungi dall’essere quella macchietta che troppo spesso abbiamo dipinto, si è rivelato una vera costruzione ideologica, portatrice di valori diversi ed alternativi rispetto a quelli in cui è cresciuta la Repubblica nel dopoguerra. La pochezza di personaggi come l’attuale ministro non deve trarci in inganno. La cancellazione della Resistenza è stata portata avanti nei fatti, prima ancora che nei libri di testo. L’assenza sistematica del premier da tutte le cerimonie non solo del 25 aprile, ma da qualunque cosa sapesse di Resistenza, è stata una goccia che ha scavato un solco, che rischia di diventare una voragine, distruggendo la memoria storica di un paese, la sua identità. Troppo spesso il berlusconismo è stato scambiato per folklore. Ne abbiamo sottovalutato le conseguenze.Oggi la Gelmini può permettersi gesti di questo tipo senza che vi sia ancora una reazione forte e generalizzata di protesta. Non si tratta di difendere le cerimonie rituali e spesso stanche, che pure sono un mezzo per la conservazione della memoria. Si tratta di lanciare una grande campagna culturale nel paese, riprendendo il tema della Resistenza come identità di una nazione. Oggi paghiamo le concessioni ideologiche, prima ancora che culturali, ad un indistinto buonismo che accomunava i morti di tutte le parti, i “ragazzi di Salò” ai partigiani. Un equivoco storico alimentato anche a sinistra, pensiamo ai recenti film di smaccato revisionismo, senza giustificazioni che non fossero un basso politicismo, che in nome di tattiche di corto respiro sacrificava principi ed ideali. Rilanciare i valori della Resistenza vuol dire oggi riprendere una lunga marcia nel cuore delle giovani generazioni, in primo luogo per far conoscere loro quelle radici.È questo il primo dato drammatico: i ragazzi, oggi, nella loro grande maggioranza, rischiano di vivere sempre più in un presente vuoto di storia e di futuro.E la diffusione dei disvalori berlusconiani ha seminato il diserbante delle ideologie, sollecitato il rifugio negli egoismi rassicuranti delle identità minime, il locale e le appartenenze di gruppo.La battaglia cui dobbiamo impegnarci non è solo quella dei libri di testo, da cui la Resistenza non può e non deve essere espulsa, come in una sorta di “damnatio memoriae”. È una battaglia culturale che non si può esaurire nel breve periodo. C’è bisogno di far vivere i valori di quella stagione, in un paese che non cessa di mandare segnali in questo senso.La voglia di pulizia e di cambiamento, la sete di moralità e di giustizia, sempre liquidate con la sprezzante definizione di giustizialismo, sono la testimonianza che quei valori esistono ancora, quelle radici non sono state recise. Dovremo innaffiarle e curarle con l’amore per la storia, per la cultura, per il bello. Con il rilancio della Resistenza come epopea di un popolo alla ricerca di libertà e giustizia, riproponendo perfino i modelli di vita di quella generazione, i padri della patria con la loro sobrietà del vivere la politica, con lo spirito di servizio che caratterizzava il loro impegno, con l’inflessibilità sui grandi principi. La grandezza della Resistenza non può essere messa in discussione dalla pochezza di questi figuri. Ma a noi tocca l’impegno di impedire che ci provino comunque.
Articolo di Alba Sasso
PartigianoPartigiano25 aprile 1945 MILANOl’UnitàIL NUOVO CORRIEREIl Partigiano 1945Ribelle Cichero-N1 del1945l’Unità
Francesco Giuliani-Cercando la rivoluzione. Vita di Enrico Russo
un comunista tra la guerra civile spagnola e la resistenza antifascista europea (1895-1973)
Editore- Red Star Press -Roma
Descrizione del libro di Francesco Giuliani-Cercando la rivoluzione. Vita di Enrico Russo-Non esiste avventura più grande, né romanzo in grado di eguagliare la forza di una vita vissuta dalla parte della classe operaia. Una vita come quella di Enrico Russo, metalmeccanico. Già protagonista del «biennio rosso» e ultimo segretario della Camera del Lavoro di Napoli, fu costretto dal fascismo alla clandestinità, non certo all’inazione. Non è certo un caso, dunque, se troveremo Russo in seno ai gruppi comunisti di lingua italiana in Francia e, in Spagna, al comando della Columna Internacional Lenin, in prima linea sul fronte di Aragona. Internato in un campo di concentramento in Francia, quindi destinato al confino in Italia, riguadagnerà la libertà nel 1943, quando svolgerà un ruolo determinante nella rifondazione della Confederazione Generale del Lavoro, la celebre «CGL rossa»: una pagina di storia fondamentale per il sindacalismo italiano che, grazie al lavoro di Francesco Giliani, si fa materia viva, carne e sangue del proletariato italiano nel cuore di una stagione di riscatto a cui, senza sconti per gli opportunisti e i rinnegati, si diede il nome di «rivoluzione».
«Probabilmente, le sconfitte dei movimenti rivoluzionari nei quali si era battuto in prima fila nella Spagna del 1936-1937 e nella Napoli del 19431945 esaurirono la sua forza. Ma non del tutto. Non gli mancò, infatti, la forza per non integrarsi in nessuna burocrazia politica, stalinista o socialdemocratica, contro le quali aveva combattuto negli anni più tempestosi e ardenti della sua vita. Avvisati dai dipendenti del cronicario del decesso del proprio parente, il figlio Alberto e il nipote Enrico curarono il funerale di Enrico Russo. Il nipote, mosso da affetto, cercò nelle bancherelle del quartiere una copia de Il Capitale di Karl Marx da porre nella bara del nonno come omaggio. Questo lavoro, al di là dei suoi aspetti scientifici, vorrebbe essere anche una ripresa di quel gesto»
Red Star Press
Viale di Tor Marancia 76
Roma, Italia
CAP 00147
Manuela Consonni insegna alla Hebrew University of Jerusalem al Dipartimento di storia ebraica.Si occupa di storia contemporanea europea ed ebraica, di studi della Shoah, di memoria e testimonianza, e di studi di genere. Tra le sue pubblicazioni va ricordato il libro apparso in ebraico nel 2010 per la Magnes University Press,Resistenza or Shoah: The History of the Memory of the Deportations and Extermination in Italy, 1945-1985.
Resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al 1989-Prefazione di Anna Foa-Editori Laterza
Epilogo-La distanza che vi è tra voi e il vicino che non vi è amico è in verità più grande di quella che è tra voi e la persona che amate e che vive al di là delle sette terre e dei sette mari. Giacché nel ricordo non vi sono lontananze; e nell’oblio vi è un abisso che né la voce né l’occhio potranno mai accorciare.
Kahlil Gibran-Il giardino del profeta, 1933
DESCRIZIONE
Manuela Consonni- L’eclisse dell’antifascismo
L’eclisse dell’antifascismoracconta l’intreccio tra storia italiana, paradigma antifascista e memoria della Resistenza e della Shoah. È in questo contesto che il mondo ebraico del dopoguerra ha assunto un ruolo di protagonista della vittoria sul nazismo e della costruzione di una democrazia in Italia. I percorsi che questo volume segue sono tre: la storia politica del nostro Paese, la memoria della Resistenza e del fascismo e la memoria della deportazione politica e dello sterminio ebraico. L’antifascismo, con il suo paradigma di potente forza ermeneutica, ha inglobato il discorso politico, storiografico e memoriale del passato contribuendo a forgiare l’Italia democratica. Un paradigma quello antifascista – e il suo uso politico – non privo di conseguenze anche nell’oggi.
Pilastro della narrazione de L’eclisse dell’antifascismo è Primo Levi che, sempre presente nelle tre parti, rappresenta il filo ideale, come modello di momenti diversi di approccio all’antifascismo, alla deportazione e allo sterminio ma anche all’etica e alla politica. Da Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati, le parole di Primo Levi accompagnano, scandendole, le pagine di questo libro.
AUTORE
Manuela Consonni insegna alla Hebrew University of Jerusalem al Dipartimento di storia ebraica.Si occupa di storia contemporanea europea ed ebraica, di studi della Shoah, di memoria e testimonianza, e di studi di genere. Tra le sue pubblicazioni va ricordato il libro apparso in ebraico nel 2010 per la Magnes University Press,Resistenza or Shoah: The History of the Memory of the Deportations and Extermination in Italy, 1945-1985.
Prefazione di Anna Foa
È un libro, questo di Manuela Consonni, che farà probabilmente discutere. Perché tocca temi tuttora scottanti del nostro dibattito storiografico e politico, e lo fa senza aderire a nessuno degli schieramenti esistenti.
L’autrice, storica dell’Università di Gerusalemme, propone un’interpretazione originale del modo con cui il nostro Paese ha costruito, fin dalla liberazione, il paradigma interpretativo della sua storia, quello antifascista. Un paradigma che, pur senza mai essere completamente rigettato e nemmeno rimesso formalmente in discussione dalla politica, si è trasformato in un paradigma essenzialmente culturale. A sostegno della sua tesi, Consonni analizza minuziosamente la memorialistica resistenziale e della deportazione, sottolineando il ruolo della memoria e della questione ebraica nella costruzione di quella che potremmo chiamare “l’ideologia della Repubblica”.
Per Consonni, fin dai primi anni i partiti della Repubblica hanno preferito non fare un serio bilancio del passato, rimuovendo le responsabilità del fascismo e del regime di Salò, e affrettandosi a gettare esclusivamente sui nazisti le colpe di quanto era accaduto. Con l’amnistia varata da Togliatti allo scopo di promuovere l’inserimento del Partito comunista nell’area della politica di governo, si posero tutte le premesse per la debolezza politica del paradigma antifascista, presto ridotto a pura retorica celebrativa e relegato nella sfera della cultura. La memorialistica ha sostanziato l’antifascismo culturale, il ricordo dei campi nazisti ha portato il mondo ebraico a partecipare dell’etica resistenziale, mentre sul piano politico la Guerra Fredda ha reso l’antifascismo sempre più un fenomeno di opposizione, appartenente esclusivamente alla sinistra. Con cambiamenti e cesure, naturalmente.
La nuova resistenza dei ragazzi degli anni Sessanta lo ha riportato in auge, insieme a quelle che apparivano come aperture del centro-sinistra, mentre successivamente il richiamo strumentale delle Brigate Rosse alla Resistenza ha posto le basi per il suo declino. Nel frattempo, la memorialistica ha ricostruito la questione ebraica isolandola rispetto alla Resistenza, e rompendo quel legame strettissimo tra ebrei e sinistre, tra ebrei e lotta contro il nazifascismo, che aveva caratterizzato i primi decenni dopo la liberazione. La Shoah, così come si è andata costruendo a livello memoriale dagli anni Settanta in poi, nella sua unicità e nella sua separazione dalla Resistenza, alienata – potremmo dire – dalla storia e dalla percezione degli ebrei italiani, ha contribuito forse anch’essa, in qualche misura, all’eclisse dell’antifascismo, o perlomeno alla sua monumentalizzazione. E anche la storiografia, fino ai primi anni Settanta ancora intenta a ricostruire il fascismo e la Resistenza all’interno di questo paradigma, ha cominciato a fornire interpretazioni diverse.
L’analisi che Manuela Consonni dedica all’intervista di Renzo De Felice sul fascismo si inserisce in questo quadro, ma sembra mettere tra parentesi gli aspetti maggiormente accolti in questo vivace dibattito: quelli sul consenso. In realtà, il rifiuto del consenso fa parte del paradigma antifascista e della sua volontà di dimostrare che la maggioranza degli italiani non aderì veramente al fascismo ed è quindi monda da colpe. Ne rappresenta però anche il punto debole: di lì vengono la rimozione delle leggi razziali, durata fin quasi agli anni Novanta nella società e nella cultura del nostro Paese, quella delle colpe di Salò, e il mito del buon italiano. Solo che fino ad un certo momento questa lettura storiografica è stata parte del paradigma antifascista, mentre una nuova interpretazione “revisionista” contribuisce a minarne la credibilità.
Manuela Consonni costruisce la sua argomentazione sul nesso tra la duplice elaborazione memoriale – quella della Resistenza e quella della deportazione ebraica – e la cultura politica italiana. Questo nesso fa emergere anche la singolarità del percorso italiano, naturalmente ancorata nella storia del nostro Paese, nel ventennio fascista, nell’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista, nel complesso rapporto tra la liberazione ad opera degli angloamericani e la Resistenza armata.
Ma tale singolarità emerge anche nel tipo di bilancio storico e memoriale che in Italia viene fatto del periodo fascista e del periodo della deportazione, non solo degli ebrei, evidentemente, ma anche dei politici e dei militari (come quella assai meno nota dei carabinieri).
Un altro aspetto interessante del percorso tutto italiano è rappresentato dalla mole di libri, scritti, memorie, che dalla fine della guerra in poi, con modalità diverse ma pressoché ininterrottamente, continuano ad essere pubblicati, contrariamente all’immagine di un lungo silenzio affermatasi quasi unanimemente nella storiografia. Una messe di scritti che in queste pagine vengono riportati alla luce, ricostruiti, ricollocati nel loro contesto, in quel che rappresenta uno dei risultati più innovativi di questo volume.
Le ragioni del declino, della eclisse di questo paradigma fondante sono, come sempre accade, innumerevoli: il contesto internazionale, con la fine della Guerra Fredda e poi la caduta del comunismo, ne rappresenta probabilmente la ragione primaria, forse anche perché il paradigma antifascista ha rappresentato per molto tempo un fattore di impedimento, per la sinistra italiana non comunista, nel denunciare i misfatti del cosiddetto “comunismo reale”. Come ci si poteva schierare contro l’Unione Sovietica, che a Stalingrado aveva salvato il mondo dalla barbarie nazista, che aveva liberato Auschwitz? Rinunciando al comunismo non si finiva forse per approdare nelle braccia del fascismo? I pochi che lo hanno fatto sono assurti al ruolo di eretici a tutte le religioni, a tutte le politiche.
La strumentalizzazione del paradigma antifascista lo ha però svuotato del suo significato: rendendolo retorico e condivisibile da chiunque – sostiene Consonni –, ne ha determinato le debolezze e poi la caduta. Certo, c’erano in gioco esigenze anche importanti della politica, per esempio quella di fingere un’Italia tutta antifascista per potersi sedere al tavolo dei vincitori anziché a quello dei vinti. Ma c’erano anche, purtroppo, la continuità della macchina statale fascista, del potere giudiziario, la difficoltà di riparare alla vergogna delle leggi razziali, la strumentalità stessa con cui si sono usati gli ebrei e la questione ebraica, come dimostrano le lucide e premonitrici pagine di Otto ebrei di Giacomo Debenedetti, qui analizzate con particolare finezza. Il rifiuto degli ebrei di separarsi, inizialmente, dalla Resistenza, la loro esigenza di presentarsi come italiani e combattenti (e tutti sappiamo quanti di loro hanno ingrossato le file della guerra di liberazione) ha una ragione di più in questa strumentalizzazione da parte di chi, dopo aver dato la caccia agli ebrei, era pronto ad usarli per sbiancarsi le mani.
Il libro di Manuela Consonni pone questi e molti altri problemi, lascia spazio al dibattito sulle questioni irrisolte, ne apre molte che pensavamo chiuse, invita ad affrontarle dal punto di vista storico e politico. A patto di non dimenticare ancora una volta che la rimozione e la cancellazione del passato sono tra le tendenze italiane più diffuse, quasi una sorta di caratteristica nazionale.
D’altronde le svolte, nel nostro Paese, comportano sempre la rimozione, come abbiamo visto e continuiamo a vedere anche nell’Italia di oggi. E questa è forse la ragione che le rende tanto fragili.
Dicembre 2014
Manuela Consonni- L’eclisse dell’antifascismo
Introduzione
L’eclisse dell’antifascismo intende percorrere la storia del “paradigma antifascista”, cioè dell’antifascismo eretto ad asse portante e idea fondante della Repubblica italiana, dalla sua nascita al suo declino. Il suo sottotitolo, Resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al 1989, spiega la struttura non sistematica del testo che, sebbene organizzato in tre parti, dedicate ciascuna ad un periodo diverso di questa storia – il periodo dal 1943 al 1948, quello tra il 1948 e il 1967, quello infine che copre gli anni Settanta ed Ottanta fino alla dissoluzione del mondo comunista, iniziata dalla Perestrojka di Michail Gorbaëv nel 1987, ma iscritta nella memoria storica europea dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989 – procede per biopsie storiche, che abbracciano dibattiti politici e storiografici, la stampa, specifiche riviste, molte recensioni, innumerevoli memorie. Le diverse fonti si alternano nella discussione accentuando ora alcuni aspetti ora altri, tutti però convergenti nel sottolineare come l’antifascismo, nella sua storia e nella sua cultura, sia stato il momento più alto, di maggiore tensione ideale e morale che l’Italia repubblicana abbia mai vissuto.
Il libro si sostanzia attraverso l’intreccio di tre percorsi: quello della storia politica del nostro Paese, quello della memoria della Resistenza e del fascismo e quello della memoria della deportazione politica e dello sterminio ebraico. Il fatto di trattare simultaneamente la politica e la cultura politica antifascista (includendo in quest’ultima il descritto dibattito memoriale) mette in una luce diversa, rispetto a quanto finora accettato, lo stretto legame tra l’antifascismo e la sua cultura e la deportazione politica e lo sterminio ebraico in Italia, fra italiani ed ebrei italiani, distinguendo il momento della scrittura da quello della sua recezione nel tempo. Nel volume, inoltre, si intende mostrare come il mondo ebraico del dopoguerra assuma sin dall’inizio un ruolo autonomo, di protagonista politico della vittoria sul nazismo e della costruzione di una democrazia in Italia.
Pilastro della narrazione è Primo Levi che, sempre presente nelle tre parti, ne rappresenta il filo ideale, come modello di momenti diversi di approccio all’antifascismo, alla deportazione e allo sterminio ma anche all’etica e alla politica. Da Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati, le parole di Primo Levi accompagnano, scandendole, le pagine di questo libro.
L’antifascismo, con il suo paradigma di potente forza ermeneutica, ha inglobato il discorso politico, storiografico e memoriale del passato cha ha contribuito a forgiare l’Italia democratica. Esso è l’ideologia di quanti, nel 1945, si impegnarono a ricostruire l’Italia e a darle un posto accanto alle nazioni che avevano sconfitto il nazifascismo, consentendo, pur nelle forti differenze ideologiche, a partiti disparati e divisi di formare coalizioni di governo e di iniziare l’opera di ricostruzione di un Paese distrutto, materialmente e moralmente, dalla guerra fascista, dalla deportazione e da una terribile occupazione. Esso costruisce, in altre parole, le coordinate istituzionali e politiche su cui si regge la difficile e dolorosa transizione dal fascismo alla Repubblica. Una repubblica sorta sull’alleanza dei partiti usciti dalla lotta di liberazione, il cui schema interno riflette, in modo profondo, il carattere d’emergenza dell’ampia alleanza antifascista tra le due grandi potenze, gli Usa e l’Urss, che avevano cooperato alla sconfitta del nazismo e del fascismo. Tale alleanza era fondata su due concezioni diverse dell’antifascismo che esprimevano, a loro volta, visioni discordanti dell’interpretazione del passato: per gli americani e i loro alleati occidentali la lotta contro il fascismo era stata una lotta della democrazia contro le forze oscure che avevano violato la pace e perpetrato crimini di guerra e reati contro l’umanità; per i sovietici, invece, la chiave di lettura era costituita dall’opposizione del binomio fascismo/antifascismo: una questione di natura ideologica, quindi.
Il processo di Norimberga riassume perfettamente nella sua conduzione e nei suoi esiti la tensione tra questi due poli narrativi. In Italia, dove la narrazione storica non fece proprio il linguaggio giuridico dei processi – perché non ce ne furono, almeno non nella stessa misura della Francia o delle due Germanie –, e dove la guerra di liberazione e i suoi morti erano divenuti il passato su cui ricostruire il Paese, si generò più che nelle altre nazioni un racconto interamente declinato sull’antifascismo, ma privo del lessico processuale e di una rielaborazione critica del passato fascista.
Con la divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti e con la Guerra Fredda il paradigma antifascista si incrina, ma resta comunque al centro della cultura politica e storiografica italiana, pur perdendo efficacia sul terreno dell’alleanza politica allargata. L’antifascismo rimane forte e indiscusso soprattutto nei partiti di sinistra – comunisti e socialisti, ma anche nei partiti laici non marxisti – che lo ritengono centrale per la vita democratica del nostro Paese. Per gli uni e per gli altri esso rappresenta l’idea a cui aggrapparsi per proteggersi dagli attacchi della destra conservatrice. Viceversa, non è tanto l’antifascismo quanto l’anticomunismo a prevalere nell’ideologia politica dei partiti che vincono le elezioni nel 1948, emarginando le sinistre dal governo, mentre l’antifascismo e il suo paradigma interpretativo si spostano al centro della sfera culturale. Cultura e politica iniziano una separazione destinata a durare a lungo, il cui impatto e le cui contraddizioni si trascinano fino ad oggi. Alla radice di questa separazione ci sono anche le debolezze intrinseche alla nascita stessa del paradigma antifascista e al suo uso politico: si rimuovono le colpe del fascismo, privilegiando la continuità dello Stato rispetto alla necessità di fare i conti col passato.
Il paradigma antifascista resta tuttavia parte integrante dell’immagine del Paese che, mentre rifiuta il fascismo, trae dalla memoria della lotta di liberazione la spinta ad appellarsi alle masse contadine ed operaie perché partecipino alla vita democratica e dal ricordo della deportazione politica e dello sterminio ebraico – coltivato grazie ad una vasta memorialistica, senza dubbio la più grande in Europa – ricava la dolorosa consapevolezza di una battaglia ancora aperta, da proseguire perché eventi come quelli occorsi non abbiano a ripetersi.
In tale processo, il timore di un possibile rigurgito del fascismo sembra farsi concreto nel dibattito sia politico che culturale della sinistra, e uno sguardo retrospettivo mostra come questa possibilità fosse percepita come una realtà forte e pericolosa, tanto da far diventare l’antifascismo il cardine di ogni discorso politico-istituzionale e culturale sul passato. La destra democristiana e la destra fascista appaiono, in questo contesto, fenomeni quasi del tutto assimilabili, mentre l’anticomunismo sembra a volte stravolgere anche l’antifascismo, persino quando esso torna a farsi carne e sangue dell’Italia politica, soprattutto a sinistra. Il dibattito sul fascismo si fa, allora, vivace e attento, e la storiografia ne approfondisce gli aspetti sociali, politici, culturali. Il processo ad Adolf Eichmann, tenuto a Gerusalemme nel 1961, è un esempio paradigmatico di questa tensione: esso formalizza infatti, sul piano storico, la morte degli ebrei nei campi di concentramento come resistenza al fascismo, oltre a riempire di nuovi contenuti la memoria dello sterminio ebraico, grazie all’emergere della figura del testimone come suo depositario storico. Va precisato, per il nostro discorso, il cambiamento occorso a causa della guerra dei Sei giorni del 1967, il cui impatto e i cui esiti si protraggono fino ai nostri giorni. La guerra lampo israeliana provoca la rottura dell’alleanza fra una parte del mondo ebraico e la sinistra politica, mettendo in questione l’antifascismo ebraico, mentre si afferma una sinistra filoaraba e antisraeliana, e l’antisionismo si presenta, nella nuova lettura postcoloniale, come il riflesso di una società in cui l’odio verso gli ebrei non ha smesso di riprodursi, ma va in cerca di nuovi attributi su cui sfogarsi.
Successivamente il paradigma antifascista comincia a mostrare i primi segni di logoramento e ad apparire ‘sfalsato’ rispetto alla situazione politica e sociale del Paese. Ad isolarlo politicamente sono dapprima la strategia della tensione e poi il terrorismo con la sua pretesa di portare a compimento una Resistenza incompiuta. Sul piano storiografico è la revisione profonda del fascismo avviata in Italia dall’Intervista sul fascismo di Renzo De Felice e dal dibattito nato intorno al libro, dieci anni prima che esplodesse la Historikerstreit in Germania, a rendere fragile l’antifascismo ormai incapace di rappresentare ancora un sostegno ideologico efficace dello Stato. Contemporaneamente anche la memoria dello sterminio ebraico prende le distanze da quella della deportazione politica e della Resistenza, caratterizzandosi per un paradigma “vittimologico” che vedrà il suo maggiore sviluppo dopo la dissoluzione del mondo comunista, e che non comprenderà in sé la lotta contro il nazifascismo ma solo i suoi morti ebrei. L’eclisse del paradigma antifascista in Italia precede così il suo tramonto in tutta Europa con il 1989.
Malgrado sia venuto meno il conflitto ideologico tra i custodi dell’ortodossia marxista e i fautori del mondo libero, l’antifascismo rimane tuttavia il luogo privilegiato per reinterpretare e capire l’Italia repubblicana, quella di ieri ma forse e soprattutto quella di oggi, senza ambiguità ideologiche e senza equivoci. Sine ira et studio.
M.C.
Gerusalemme, dicembre 2014
Ringraziamenti
La mia gratitudine va a tutti coloro che mi hanno aiutata, sostenuta, sopportata, consigliata e accompagnata in questo lavoro.
In particolare ringrazio Sara Airoldi, Reuven Amitai, Michele Battini, Avi Bauman, Louise Bethlehem, Giovanni De Luna, Dan Diner, Bettina Foa, Luigi Goglia, Carina Grossman, Carola Hilfrich, Natalia Indrimi, Shulamit Laron, Eli Lederhendler, Manuela Leoni, Giovanni Levi, Stella Levi, Avishai Margalit, Andrea Marinucci, Dario Massimi, Maren Niehoff, Charlette Ottolenghi, Silvio Pons, Pier Paolo Portinaro, Yoav Rinon, Fegie Schwartz, Fiammetta Segrè, Moshe Shlukowski, Dimitri Shumski, Maurizio Tagliacozzo, Mario Toscano.
E poi grazie agli amici delle sere dello shabbat: Sharon e Zeev Tamuz, Ayelet Gross, Shai Zeltzer e Eytan Horowitz.
Un ringraziamento speciale ai miei genitori.
E un altro ancora ad Anna per la sua pazienza, affetto, per i consigli fondamentali e le parole importanti e decisive.
E, poi, ancora un ultimo grazie ad Abed per la costanza e per la saggezza.
I. Il paradigma politico e culturale
Nei primi anni del dopoguerra l’Italia del postfascismo fu dilaniata da una serie di contraddizioni fra le diverse forze che avevano combattuto insieme nella lotta di liberazione. Questa condizione segnò la fine delle speranze in un mutamento politico e sociale radicale, tale da costituire una chiara condanna dell’esperienza fascista, che aveva trascinato il Paese negli orrori della guerra, della deportazione e dello sterminio, e l’instaurarsi di una complessa dialettica fra le varie forze in campo.
Possiamo riconoscere alle radici dell’ethos repubblicano e patriottico italiano cinque momenti fondamentali: il 25 luglio 1943, con la caduta del fascismo e l’avvento del governo provvisorio di Pietro Badoglio; l’8 settembre 1943, data dell’armistizio firmato a Cassibile; il 25 aprile 1945, il giorno della liberazione di Milano e quello in cui il Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) proclamò ufficialmente l’insurrezione, la presa di tutti i poteri da parte del Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) e la condanna a morte dei maggiori gerarchi fascisti (tra cui Mussolini, che sarebbe stato raggiunto e fucilato a Dongo tre giorni dopo); il 2 giugno 1946, il referendum istituzionale che segnò il passaggio dalla monarchia alla repubblica; il 1° gennaio 1948, giorno in cui, dopo 18 mesi di lavoro, l’Assemblea Costituente approvò il nuovo testo costituzionale. Il fondamento dei valori che legò insieme queste cinque fasi storiche fu il paradigma antifascista, che legittimò la futura democrazia dall’interno, proponendo da subito la Resistenza come il punto di partenza per la riaffermazione dell’identità nazionale italiana ormai smarrita.
La ricostruzione, basata su questo paradigma, della vita politica e culturale della società italiana fu caratterizzata dalla tensione ideologica tra le diverse forze politiche che avevano sconfitto il fascismo e il nazismo, forze che erano tornate ad essere, dopo la breve e comune parentesi resistenziale, ideologicamente antagoniste e in lotta per il potere. L’alleanza che durante la guerra si era stabilita tra libertà e uguaglianza sociale, tra mondo cattolico e liberale e mondo socialista e comunista, era un’alleanza fra ideologie che si presentavano come interpretazioni universali del mondo, in particolare il cattolicesimo e il comunismo. La loro lotta comune contro il nazifascismo era stata una lotta contro un’ideologia altrettanto universale, che interpretava la storia umana in termini razziali, nel contesto di un biologismo politico e sociale. Finita la guerra, venne meno la necessità storica di tale coalizione e le forze in campo tornarono a confrontarsi nell’arena politica, opponendo il principio della libertà individuale a quello dell’eguaglianza sociale.
Da parte del mondo cattolico e liberale l’antifascismo veniva rivendicato soprattutto in quanto capitale simbolico da utilizzare per il controllo dei poteri politici e istituzionali. L’antifascismo socialista e comunista, da parte sua, si richiamava al modello sovietico e comportava la fedeltà al comunismo, entro cui collocava la sua stessa partecipazione alla Resistenza. Fu la tensione tra questi due poli d’attrazione a caratterizzare il paradigma antifascista. Esso, però, fu non solo il risultato dello scontro ideologico e politico contro il fascismo ma, soprattutto dopo la guerra, anche la forma istituzionale attraverso cui si tentò di risolvere il problema della continuità storica dello Stato dopo il crollo del regime fascista. Alla fine della guerra, si trattava non solo di modificare – all’interno di una sostanziale continuità dello Stato – la forma di governo, ma di rifondare l’unità nazionale e il fondamento dei valori su cui si sarebbe basata la legittimità del potere politico. Se il conflitto tra le forze della Resistenza e il fascismo aveva determinato la sconfitta dello Stato fascista, la marcata divisione fra i partiti vittoriosi rendeva necessario un paradigma comune molto forte.
Come osservò Antonio Baldassarre, il paradigma antifascista, nel suo essere universalmente riconosciuto, delimitò lo spazio all’interno del quale le forze sociali e politiche avrebbero potuto radicare la legittimità del nuovo potere democratico forte. Ma determinarne i confini non significava ugualmente stabilire i motivi della legittimazione stessa. Nella situazione storica dell’immediato dopoguerra, il paradigma antifascista funzionò come sostegno ideale e politico della nuova forma istituzionale. Esso ebbe però bisogno di costruire una sua memoria del passato, dal fascismo alla Resistenza, e di renderla politicamente attiva. In questo contesto, l’assunzione storica e morale di responsabilità collettiva verso il passato della guerra, della deportazione e dello sterminio, e la politicizzazione della memoria determinarono due alternative conflittuali e in competizione, caratterizzate durante il processo di transizione verso la democrazia, ma forse e ancora più nel corso della sua stabilizzazione, dalla permanente tensione tra l’idea di aver chiuso i conti con il passato fascista e la consapevolezza di non aver ancora iniziato a farli.
Visto sotto questo profilo il paradigma antifascista svolse quindi una duplice funzione: rappresentò il legame storico con il passato antifascista utilizzato per costruire il nuovo Stato democratico e il modello che pose le condizioni formali per la legittimazione del nuovo ordine, convalidando il riconoscimento reciproco delle forze politiche in campo. La democrazia avrebbe potuto così ricevere la propria giustificazione istituzionale. Al tempo stesso, fuori dalla politica istituzionale, il paradigma antifascista consentì la costruzione di un epos patriottico e antifascista ancorato, nello specifico contesto della memoria, alla tensione ideologica e di opposizione al fascismo che solo la Resistenza e la guerra partigiana potevano offrire. Questo intreccio fece sì che la memoria divenisse un elemento costitutivo del paradigma antifascista.
Dopo la liberazione di Roma nella primavera del 1944, nel Nord le formazioni partigiane rimasero sole a fronteggiare l’attacco nazifascista. La sollevazione, che si concluse con l’insurrezione armata del 24 aprile 1945, ebbe inizio con lo sciopero del 18 aprile a Torino, che si estese poi a tutte le regioni settentrionali, sicché al loro arrivo le autorità alleate trovarono un’Italia del Nord già in parte libera dai tedeschi. Il moto stesso dell’insurrezione antinazista e antifascista aveva determinato una situazione per molti aspetti ‘prerivoluzionaria’ in tutta l’Italia che si trovava a nord della Linea Gotica, la parte più importante del Paese, sotto l’aspetto industriale. Già dal settembre 1943, nel memoriale steso ad uso interno dell’esecutivo piemontese del Partito d’Azione, Giorgio Diena e Vittorio Foa avevano sottolineato questa condizione di fluidità politica, avevano cioè constatato la finis Italiae e la possibilità di un cambiamento in senso rivoluzionario: “In seguito all’armistizio e alla doppia invasione, l’Italia non esiste più come forza autonoma. Essa è oggi un semplice oggetto di destinazione militare, e se non interverrà un fatto nuovo, essa sarà in avvenire un semplice oggetto di destinazione politica”. Secondo la loro opinione, spettava alle formazioni partigiane la responsabilità di creare un nuovo progetto che, con la sua carica di rinnovamento e di rottura, avrebbe potuto estendersi all’intero Paese, permettendo di dare vita, in assenza di ogni carica istituzionale, a nuove autorità con iniziativa autonoma. Solo a queste condizioni l’Italia avrebbe cessato di essere, oltre che “passivo campo di battaglia”, una “semplice espressione geografica”.
In altri termini, Foa e Diena sostenevano che l’unico modo per impedire all’Italia postfascista di avviarsi verso soluzioni politiche reazionarie, e di diventare un agente passivo nelle mani di forze esterne, era un’iniziativa popolare sotto la guida del Comitato di Liberazione Nazionale: tale iniziativa non solo avrebbe dovuto avere un carattere rivoluzionario, di cambiamento radicale, ma doveva aver luogo in sede precostituente, per spostare i rapporti politici e sociali prima ancora della messa in funzione dei meccanismi costituzionali e legislativi, ed inserirsi nella situazione di assenza o di semicarenza dell’autorità che si sarebbe inevitabilmente ripresentata al momento della ritirata tedesca.
Se ciò non avvenne fu – come affermò Palmiro Togliatti nel discorso tenuto al Consiglio nazionale del Partito comunista il 7 aprile 1945, alla vigilia della liberazione del Nord e dell’ordine di insurrezione alle Brigate Garibaldi – grazie alla scelta politica fatta dal Pci con la svolta di Salerno: “Noi sapevamo benissimo che facendo una politica di unità nazionale entravamo in contatto ed anche in collaborazione con elementi che avremmo dovuto combattere (…), ma sapevamo anche benissimo che le condizioni del nostro Paese, dopo il crollo del fascismo come avvenne il 25 luglio e dopo il crollo di ogni resistenza italiana all’invasore tedesco come si sviluppò l’8 settembre, erano tali nelle regioni già liberate che non esisteva la possibilità di liberarsi da questo contatto. Vi era qualcuno più forte di noi e più forte anche di tutte le forze del blocco democratico che lo impediva”. Togliatti comprese, cioè, l’aspetto ‘esterno’, la collocazione internazionale dell’Italia: “Il quadro politico italiano nella sua lotta antifascista” era stato “assolutamente non rivoluzionario”, era stato quello “di un Paese che a causa del fondersi di elementi più avanzati del capitale finanziario con sopravvivenze feudali” aveva conservato “caratteristiche profondamente reazionarie”.
Nella primavera del 1945, con la liberazione e grazie alla presenza di dirigenti politici usciti dalla Resistenza, sembrò che gli ideali della lotta partigiana fossero finalmente giunti al potere, ma il fallimento immediato del primo governo postfascista, formatosi nel giugno di quell’anno sotto la guida di Ferruccio Parri – personaggio di spicco del Partito d’Azione e celebrato comandante partigiano nella guerra al nazifascismo – e comprendente tutte le forze confluite nel Comitato di Liberazione Nazionale, dimostrò che il contrasto tra apparenza e realtà non avrebbe potuto essere maggiore. La vecchia burocrazia e la grande industria, passate quasi indenni attraverso il fascismo e la guerra, continuavano a rappresentare il tessuto connettivo della società italiana. Conservatrici per formazione, l’una e l’altra erano amareggiate dalla riduzione del loro potere sociale ed economico, e ne attribuivano la colpa non alla guerra provocata dal fascismo bensì alla nuova realtà politica e a quei partiti che avevano assunto la direzione del Paese. Il fantasma dell’epurazione politica le spinse ancora più a destra, contrastando attivamente l’indirizzo preso all’interno del Movimento di Liberazione. Di ciò scrisse lo stesso Parri anni dopo, affermando che nonostante la liberazione l’Italia era rimasta in gran parte lo stesso Paese fascista dei vent’anni precedenti.
La spinosa questione dell’epurazione politica dominava la scena nazionale, con la conseguente necessità di punire i colpevoli dei delitti fascisti, insieme al costante pericolo di un ritorno offensivo del fascismo. Sebbene fosse stato lo stesso Badoglio, nel febbraio del 1944, a creare l’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo, l’epurazione politica venne accolta con timore e preoccupazione. Il suo fallimento non fece che riflettere il fallimento politico in atto, nonché la rinuncia a un più generale rinnovamento, che avrebbe dato origine a nuove realtà politiche e istituzionali. Un’epurazione di vasta portata avrebbe potuto realizzarsi solo se il fascismo fosse stato riconosciuto come un fenomeno politico e sociale profondamente radicato nella vita italiana e non fosse stato invece considerato, come sosteneva Benedetto Croce, un incidente di percorso, un’improvvisa e nefasta malattia di un corpo sociale per altro fondamentalmente sano. Dietro la rinuncia all’epurazione politica dello Stato stava il tipo di accordo raggiunto nell’aprile del 1944: il re, quello stesso re che aveva chiamato il fascismo al potere, era rimasto al suo posto anche se aveva ceduto le proprie funzioni; il principe ereditario era diventato luogotenente generale del Regno, e insieme a lui erano stati esclusi da ogni forma di indagine e di punizione il generale Badoglio e tutta una serie di alti ufficiali, anch’essi gravemente compromessi col regime.
L’epurazione così come venne realizzata rappresentò nella sostanza un insieme di provvedimenti che, sia pure del tutto giustificati singolarmente, finirono con l’apparire come il prodotto di procedimenti casuali se non addirittura dettati da desiderio di vendetta. Coloro che ne rimasero colpiti, sia pure in misura inefficace, o che temevano di essere colpiti in seguito, tesero a rialzare la testa, a criticare a voce sempre più alta le commissioni giudicanti e gli atteggiamenti dei partiti che ne erano responsabili. L’eliminazione, nel marzo del 1946, dei prefetti politici (giudici regionali) posti in carica dal Cln nelle zone che erano state liberate fu un altro riflesso di questa tendenza.
Il fallimento dell’epurazione è da considerarsi tutt’altro che un episodio marginale nella ricostruzione italiana del dopoguerra. La sua mancata realizzazione provocò un cambiamento nello stato d’animo di larghi settori dell’opinione pubblica, diventò il catalizzatore di un blocco sociale di orientamento conservatore o reazionario che si opponeva ai partiti che, in un modo o nell’altro, si presentavano come innovatori e progressisti. Difatti una incisiva politica di epurazione avrebbe potuto realizzarsi solo se fosse stata imposta dall’esterno, dalle forze alleate, dopo la sconfitta militare e l’armistizio: in questo modo, in quanto decisa dagli Alleati, non sarebbe apparsa luogo di arbitrio, e avrebbe aiutato la ricomposizione dell’unità nazionale, offrendo al Paese una via condivisa per affrontare il passato fascista. Ma questo avrebbe comportato, appunto, il riconoscimento della natura del fascismo da parte di tutte le forze politiche che lo avevano combattuto. Senza contare che gli Stati Uniti non erano interessati ad imporre una severa politica di epurazione, che avrebbe minato seriamente la loro strategia di opposizione al comunismo nell’area mediterranea.
La rinuncia ad attuare l’epurazione politica attraverso modalità processuali vere e proprie, come avvenne in Francia e in Germania, fu l’occasione persa definitivamente di ricostruire l’Italia democratica e liberale, la prima grande sconfitta politica e morale del mondo uscito dalla Resistenza, dalla deportazione e dallo sterminio. Ricorda puntualmente Pier Paolo Portinaro: “L’aver liquidato (…) il dittatore responsabile dell’instaurazione del regime finì non per favorire ma per ostacolare l’epurazione. In analogia a misure che sarebbero state adottate dagli Alleati in materia di denazificazione, anche la legge del 28 dicembre 1943, riguardante l’epurazione del personale della pubblica amministrazione, stabilì una tipologia degli epurati, che distingueva tra i fascisti di rango, su cui era chiamato a decidere il Consiglio dei ministri; squadristi e fascisti della prima ora, le cui situazioni sarebbero state decise nei ministeri; e iscritti al partito responsabili di atti liberticidi a livello locale, la cui sorte sarebbe stata decisa da Commissioni provinciali presiedute dai prefetti. Ma a differenza delle procedure di denazificazione, che avrebbero previsto un’ampia partecipazione dei partiti politici negli organi di epurazione, in questo caso l’epurazione era posta nelle mani degli organi che si sarebbero dovuti epurare, cioè dell’amministrazione pubblica. (…) Anche la più severa legge del 27 luglio 1944, che pure consentì la costituzione di circa 160 Commissioni d’epurazione che esaminarono migliaia di casi, non avrebbe conseguito esiti durevoli per effetto delle scelte politiche di reintegrazione degli indagati a opera dei maggiori partiti (Dc e Pci)”.
L’epurazione fu segnata da scelte istituzionali che furono il riflesso, la conseguenza, con la soppressione il 1° giugno 1946 dell’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo, della rinuncia allo scontro politico con il governo guidato dal dicembre del 1945 dal leader democristiano Alcide De Gasperi, governo al quale parteciparono tutti i partiti del Cln a esclusione del Partito d’Azione (PdA), che si opponeva alla linea assunta da quel governo proprio sulla questione dell’epurazione politica. Questa scelta riguardava il senso stesso del legame tra Resistenza e continuità dello Stato. Togliatti e i comunisti preferirono guardare alla guerra di liberazione come ad una guerra patriottica combattuta contro l’invasore tedesco e, in tale lettura, i fascisti non esistevano come parte politica responsabile degli orrori della guerra, della deportazione e dello sterminio, diventando semplicemente dei traditori della patria, dei semplici collaborazionisti.
Viceversa per il PdA – come sosterrà molto più tardi Claudio Pavone e prima di lui Roberto Battaglia – la Resistenza era stata soprattutto una guerra civile; per cui sarebbe apparsa più coerente con un’idea di rottura con il passato che non si limitasse a considerare il fascismo ma che investisse anche la democrazia prefascista e potesse farsi portatrice di una rivoluzione democratica nel presente. Ma questa non era una lettura tale da poter creare un consenso politico su cui fondare la nuova democrazia. Nelle sue memorie, così Foa ricordava questa tensione: “L’obiettivo della ricostruzione di un’identità nazionale perduta conferma la tesi della Resistenza come guerra civile. (…) Noi dovevamo combattere il fascismo fra di noi, fra italiani, e poi anche dentro di noi. (…) La costruzione di una ‘vera’ democrazia chiedeva la messa in discussione del ‘nostro’ passato e non solo la sconfitta del nemico esterno”.
Con il governo De Gasperi il fronte politico si cristallizzò e vide schierate da un lato l’Italia conservatrice e dall’altro l’Italia della Resistenza e della lotta antifascista. La concessione di una grande amnistia fu decisa dal governo che aveva portato il paese alla Costituente e al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, l’ultimo governo basato sui criteri paritetici del periodo del Cln.
Dopo la sua ascesa al trono il 9 maggio del 1946, Umberto II aveva chiesto un provvedimento di perdono, in linea con la tradizione monarchica che prevedeva un atto di clemenza in occasione dell’insediamento del nuovo re. Il governo dapprima rifiutò. Ma lo stesso Togliatti, allora ministro della Giustizia, temette che respingere del tutto l’amnistia avrebbe significato consegnare nelle mani della monarchia un’efficace arma di propaganda alla vigilia del referendum istituzionale del 2 giugno. Su sua proposta si decise allora di dare al decreto un contenuto limitato, riproducendo esattamente ciò che Vittorio Emanuele III aveva emanato 46 anni prima, al momento della sua ascesa al trono (amnistia per le pene fino a sei mesi), promettendo però al tempo stesso che un’altra legge, molto più ampia, sarebbe stata approvata subito dopo il 2 giugno. E in effetti fu questo il primo impegno che il nuovo governo dovette assolvere. Non rappresentò un problema rispettarlo perché i ministri e l’intera classe politica sentivano il bisogno di un gesto che sarebbe servito a chiudere, seppure simbolicamente, una pagina difficile della vita nazionale. E poiché l’amnistia riguardava non soltanto i reati degli ex fascisti e dei collaborazionisti, ma anche quelli commessi nel periodo immediatamente successivo alla liberazione, il provvedimento fu accolto anche come il tentativo di impedire che i partigiani diventassero le vittime delle tendenze sempre più apertamente restauratrici di larga parte della magistratura.
Una preoccupazione, questa, presente nel pamphlet Triangoli della morte di Paolo Alatri, storico e giornalista comunista, pubblicato nel 1946. Nel testo, corredato da una breve storia sull’attività della Resistenza in Emilia Romagna, Alatri svolgeva un’inchiesta che partiva dai processi ai partigiani e ai comunisti accusati nel dopoguerra di aver commesso decine di delitti ai danni dei fascisti, per diventare un elogio della Resistenza e insieme un attacco politico alle scelte del governo in materia di epurazione e amnistia. Scriveva Alatri: “Un ‘triangolo della morte’ fra Bologna e Ravenna, un secondo ‘triangolo della morte’, fra Bologna e Modena; decine di delitti, uno più efferato dell’altro, e, in tutti, implicati comunisti, implicati partigiani, i mandanti, sempre figure di rilievo del movimento partigiano, i carabinieri, la polizia, la magistratura all’opera, finalmente, per svelare tutti i misteri, per scoprire e acciuffare i responsabili, questi biechi assassini; arresti a decine, a centinaia; istruttorie, processi: il trionfo, finalmente, della giustizia. (…) Dopo la liberazione, mentre la vita civile va man mano riprendendo in queste terre insanguinate dalla lotta armata e dalle rappresaglie, né la polizia giudiziaria, né la magistratura mostrano di voler aprire dei procedimenti per questi fatti. Poi, d’improvviso, l’atmosfera cambia: polizia e carabinieri si son dati una voce. Cominciano a frugare, a ripescare nel passato; e quando il 18 aprile i democristiani ritengono di aver ottenuto una vittoria tale che consente loro di avere un ‘nuovo corso’ alle direttive del governo, la scena cambia di colpo. Tutti quei fatti su cui pareva che fino ad ora non si sapesse nulla di preciso, diventano chiarissimi: sono tutti volgari delitti comuni, commessi dai partigiani per istigazione e sotto la direzione dei loro capi: ma la politica non c’entra. Grandi e leggendarie figure di combattenti della Resistenza, che hanno avuto il solo torto di non lasciarci la pelle come migliaia di loro compagni di lotta, diventano d’improvviso delinquenti comuni della peggiore specie, assassini, rapinatori. Decine d’arresti vengono a suggellare questa scoperta. Da un giorno all’altro polizia e carabinieri diventano attivissimi, ora non fanno che battere le campagne, arrestare partigiani, denunciarli alla magistratura per omicidio e rapina, dissotterrare cadaveri di giustiziati”.
A pochi mesi dalla sua approvazione l’amnistia, che in pratica portò alla scarcerazione di tutti i fascisti, anche di quelli responsabili dei crimini più abietti, divenne oggetto di polemiche. Soprattutto Togliatti, che in quanto ministro della Giustizia ne aveva studiato il progetto, fu accusato di aver assunto una volontaria linea morbida verso i fascisti per accrescere l’influenza del suo partito e così sottolineare ancora una volta l’aspirazione nazionale della politica del Pci, dando prova di moderazione. Certo Togliatti, nell’elaborare il testo dell’amnistia, tenne conto del fallimento dell’epurazione. I risultati catastrofici dell’amnistia furono la conseguenza, da un lato, di alcune formulazioni infelici – la più famosa fu quella delle “sevizie particolarmente efferate”, che portò alla scarcerazione di quasi tutti i torturatori della Repubblica di Salò – ma ancor più della mentalità con cui la magistratura interpretò l’amnistia. È evidente che i cambiamenti profondi non sono mai conseguenza della legge; piuttosto è la legge che a posteriori sancisce il mutamento dei rapporti di forza che si producono nella realtà. Ma i giudici dimostrarono la loro volontà di non cambiare nulla.
Quella dell’amnistia fu, da parte di Togliatti, una decisione certamente politica che rifletteva la scelta istituzionale fondata sull’incertezza del ruolo politico del Partito comunista, ma rappresentò una decisione che avrebbe segnato il destino dell’Italia postfascista negli anni a venire. Lo strumento dell’amnistia è sempre l’espressione di una forma di memoria rifiutata, poiché attribuisce all’oblio la funzione, istituzionalmente e giuridicamente formalizzata, di seppellire il passato ponendo fine alle reciproche accuse e ritorsioni. La sua scelta fu, nell’Italia del dopoguerra, il riflesso dell’“altra faccia della giustizia politica”, per usare le parole di Pier Paolo Portinaro, l’epitome del timore che una soluzione giudiziaria del passato potesse produrre solo processi politici. Perché l’amnistia rappresenta sempre il fallimento del diritto, la sua dichiarata impotenza a risolvere i grandi conflitti sociali e politici, l’atto con cui viene imposto “un reciproco oblio dei torti patiti” dalle parti in gioco, eludendo il problema della responsabilità. Una scelta che presuppone un vincitore incerto, consapevole della debolezza della sua posizione politica e istituzionale e conscio del fatto che uno scontro, attraverso i processi, può indebolire nella percezione della comunità il suo ruolo di vincitore. Così, alla fine della guerra, e alla fine della guerra civile, nella scelta dell’amnistia prevalsero tre motivi: la ragion di Stato, la neutralizzazione del conflitto interno, e la compromissione morale di una parte della comunità che nutriva “un evidente interesse a cancellare la memoria anche dei suoi crimini”.
Il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 diede la maggioranza dei voti alla soluzione repubblicana. Il passaggio dalla monarchia alla repubblica avvenne in un crescente clima di tensione politica e sociale. Era stato De Gasperi, già nel gennaio del 1946, a suggerire all’ammiraglio Ellery Wheeler Stone, capo della Commissione alleata di controllo in Italia, che fossero i governi alleati, americano e inglese, a imporre al governo italiano un referendum istituzionale. De Gasperi cercava in questo modo di limitare e contenere i poteri dell’Assemblea Costituente, che era molto sensibile nei confronti di un clima politico in cui erano ancora forti gli ideali del 1943-1945.
Il rafforzamento della presenza alleata in Italia spostava ancora di più l’asse istituzionale verso il centro-destra; mentre sulla scena internazionale le due sfere di influenza antagoniste, il blocco occidentale e quello orientale, già delineatesi durante la guerra, si avviavano verso una fase di scontro radicale. Sicché l’anticomunismo si trasformò in una guerra silenziosa e fredda in cui l’Occidente combatteva contro l’Oriente per conquistare l’egemonia sull’intero continente europeo e far pendere a proprio vantaggio la bilancia del potere.
Ragioni ideologiche e geopolitiche, dunque, caratterizzarono l’intervento degli americani in Italia (come in Europa), inizialmente ispirato alla dottrina Truman (12 marzo 1947), la cui strategia era volta a controllare la crescente diffusione del comunismo nell’Europa occidentale. Nel discorso alla nazione, nella primavera dello stesso anno, il segretario di Stato George Marshall aveva espresso la sua preoccupazione nei confronti del continuo deterioramento della situazione politica ed economica dell’Italia: il potere della sinistra era cresciuto in modo esponenziale, mentre quello delle forze più moderate era diminuito. Nel suo messaggio a James Dunn, ambasciatore statunitense a Roma, Marshall scriveva: “Il Dipartimento di Stato le chiede di inviare una stima immediata del futuro dell’Italia alla luce di alcuni preoccupanti eventi accaduti recentemente, fra i quali vi è l’invasione socialcomunista in alcune città del paese (…), il rafforzarsi del comunismo negli enti professionali (…), il successo del comunismo in Sicilia”.
Benché Togliatti avesse accettato la collocazione internazionale, De Gasperi aprì la crisi di governo ricorrendo a un pretesto: un articolo del leader comunista apparso su l’Unità il 20 maggio 1947, intitolato “Ma come sono cretini”. Nell’articolo, violentemente critico contro gli americani per le dichiarazioni anticomuniste rese dall’ex sottosegretario di Stato Sumner Welles, Togliatti sottolineava l’incapacità degli americani di capire la situazione italiana e la politica del Pci: “Prima di tutto perché sono ancora, nell’animo, negrieri: un tempo commerciavano con gli schiavi, ora vorrebbero mettersi a commerciare con i Paesi e i popoli interi, come se fossero partite di cotone in ribasso. Ma in secondo luogo è anche perché sono poco intelligenti, perché mancano di preparazione culturale e storica, di finezza mentale e di capacità di comprensione umana (…). Quanto al signor Welles, egli non ha capito, e forse non capirà mai, che alle ingiurie da lui lanciate contro di me farà seguito senza dubbio un nuovo afflusso al nostro partito di buoni patrioti italiani. Noi non potremmo che rallegrarcene: ma non vi pare che questo tipo di americani anticomunisti siano proprio cretini assai?”.
L’inizio della Guerra Fredda provocò la ripresa febbrile dell’attività di riarmo e l’inasprimento della lotta politica interna nei Paesi che facevano parte della nuova alleanza militare, la Nato, che nacque nel 1949. In Italia le prime ripercussioni della Guerra Fredda si ebbero, all’inizio del 1947, con la scissione all’interno del Partito socialista, in cui un gruppo andò a formare il Partito socialdemocratico italiano, di orientamento anticomunista, e con l’esclusione dei socialisti e dei comunisti dal governo.
L’elaborazione della Costituzione fu comunque portata avanti con spirito unitario e si concluse con il raggiungimento di un accordo su alcuni principi fondamentali molto avanzati di democrazia: il 12 dicembre 1947 essa venne approvata dalla classe politica antifascista di ogni tendenza, reduce dall’esilio, dalla clandestinità e dalla lotta partigiana, ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948.
Le elezioni politiche, indette per il 18 aprile 1948, videro la vittoria della Democrazia cristiana, che ottenne il 48,5% dei voti contro il 35% del Fronte popolare formato da comunisti e socialisti. Con questa clamorosa vittoria elettorale la Dc si assunse la responsabilità del governo, presieduto da Alcide De Gasperi fino al 1953. Nella spartizione del potere del 1948, il blocco cattolico-conservatore ebbe in eredità lo Stato, nella continuità praticamente non scalfita dei suoi apparati e del blocco sociale (economico, istituzionale e politico) che attorno a De Gasperi si ricompattò: grande industria, finanza, burocrazia e ceti medi. Al mondo della Resistenza, che non volle o non poté spezzare la continuità dello Stato, toccò l’ethos della patria antifascista che si espresse nel controllo di vasti settori di consenso culturale e nella conseguente egemonia culturale all’interno della società civile. Una divisione tra Stato ed ethos patriottico che segnò non solo la storia istituzionale e politica italiana del postfascismo, ma influì soprattutto sulla memoria del passato fascista, della guerra, della deportazione e dello sterminio.
In altre parole, accanto all’antifascismo politico – schiacciato dalle scelte istituzionali e di potere – si sviluppò parallelamente una controcultura, una vera e propria forma di resistenza culturale, impegnata a mantenere vivo il ricordo e la memoria della lotta antifascista in generale, e della deportazione e dello sterminio in particolare. Essa rappresentò il fatto nuovo di cui avevano parlato gli azionisti Foa e Diena: una sorta di rivoluzione culturale, dopo gli anni del fascismo, che si espresse in una scrittura che cominciò sulle pagine dei giornali per estendersi all’elaborazione della memoria e che ebbe al suo centro l’esperienza concentrazionaria dei deportati politici e degli ebrei. Questa scrittura memoriale, nata durante la guerra di liberazione, si consolidò nel dopoguerra all’interno del paradigma antifascista, celebrando i sopravvissuti e i morti dei campi di concentramento e di sterminio accanto ai partigiani della lotta di liberazione.
II. Le parole per dirlo
1. Le notizie
Tra le prime notizie di stampa sui campi di deportazione e di sterminio nazisti ci furono quelle apparse sugli organi ebraici di informazione. L’Israel, che aveva appena ripreso le pubblicazioni dopo una interruzione di anni, presentava il 4 febbraio 1945, a p. 4, un articolo dal significativo titolo “I combattenti per la libertà: Gilberto Cohen, Angelo Finzi, Luciano Servi”, e il 25 aprile, sulle stesse colonne, Fabio Della Seta celebrava l’insurrezione del ghetto di Varsavia di due anni prima: “Sei milioni di ebrei sono stati scannati, come un gregge che s’affolla docile sotto il coltello del suo carnefice. Non esiste nella storia del mondo un tale esempio di resistenza passiva (…) Ma pur se umiliati, martoriati, stanchi e disillusi v’è ancora un nome che ci fa fremere e ci fa sperare: Varsavia. Le bandiere issate di Varsavia testimoniarono la fiducia degli ebrei nella causa del buon diritto. Morirono per dare un esempio a se stessi, al mondo democratico in armi e allo stesso furente nemico. Morirono per consacrare una volta di più la volontà di vivere del popolo ebraico (…): per il ricordo santo del ghetto di Varsavia, gli uomini dovranno vincere il male e incamminarsi verso la luce”.
In quel momento, mentre tutti venivano reclutati per la creazione di una nuova identità nazionale democratica e antifascista, il paradigma concentrazionario dei deportati ebrei fu assorbito integralmente nella narrazione resistenziale del mondo antifascista italiano. Gli ebrei, come del resto gli altri deportati, scelsero consapevolmente di aderire al modello eroico proposto dalla Resistenza e favorirono una memoria ebraica di combattenti per la libertà, di caduti in battaglia con le armi in pugno: questo fece di loro, da subito, un importante fattore di mediazione per la normalizzazione del passato e la ricostruzione del presente. Era certamente vero che la loro partecipazione attiva nelle file della Resistenza non solo aveva contato su un numero elevato, circa 2.000 tra uomini e donne, e tuttavia essa era stata condotta all’interno della Resistenza senza dare origine a organizzazioni separate. Questa condizione ebraica di resistenza antifascista è testimoniata da Leo Valiani: “Gli ebrei in quanto tali avevano particolari ragioni per militare nelle file partigiane, ma ciononostante avevano sempre – nella stragrande maggioranza – la sensazione di battersi per la libertà della patria italiana. (…) E perciò non vi fu un antifascismo specificamente ebraico, non vi fu una lotta partigiana specificamente ebraica. Tutti si battevano per l’avvenire della comune patria italiana, sapendo che il destino degli ebrei era inseparabile da quello dell’Italia libera e democratica”. In altri termini, soltanto una vittoria della Resistenza avrebbe creato le condizioni perché gli ebrei potessero non solo sopravvivere ma anche vivere come liberi cittadini: perciò ad essa gli ebrei rivendicarono la propria appartenenza come singoli e come gruppo. Espressione di questa sintesi fra appartenenza nazionale, antifascismo ed ebraismo è la figura di Franco Cesana, staffetta portaordini presso la formazione Scarabello della Divisione Garibaldi, il più giovane partigiano italiano caduto in combattimento all’età di 14 anni.
La stampa ebraica continuò a sottolineare la resistenza antifascista degli ebrei. Dante Lattes, direttore di Israel, concluse la sua nota al XXII Congresso sionista del 1946 con un riferimento di chiaro sapore antifascista: “Sei milioni di morti. È questo il nostro contributo alla lotta contro il fascismo”. Nel clima generale sorto attorno alla nuova repubblica emergeva l’ingiunzione alla memoria, insieme alla considerazione che l’oblio fosse una colpa perché avrebbe reso vano il sacrificio delle vittime.
Questi primi riferimenti ebraici si accompagnavano a un’informazione più diffusa anche sulle pagine dei giornali non ebraici. Uno dei primi articoli fu pubblicato l’8 dicembre 1944 su l’Unità. Era la traduzione di un breve testo del corrispondente di guerra e poeta sovietico Konstantin Simonov, “Un campo di sterminio degli ebrei”, che descrivendo il lager di Majdanek lo definiva come “il macello più grande al mondo”. Contemporaneamente, il 7 dicembre sulle pagine di Israel Carlo Alberto Viterbo lanciava lucide e accorate affermazioni intese a risvegliare la coscienza del mondo, e tali da risuonare con forza nuova sugli spiriti democratici e antifascisti: “La guerra dichiarata agli ebrei da Hitler e dai suoi seguaci fuori e dentro i confini della Germania non è infatti soltanto una lotta di uomini armati contro inermi, non è soltanto il procedere di una enorme macchina guidata da un folle, è intesa a stritolare spietatamente uomini e donne, vecchi e bambini, per raggiungere lo scopo di un totale annientamento e di una totale depravazione”.
Assorti a comprendere cosa fosse realmente accaduto e a valutare la portata dello sterminio del proprio popolo, gli ebrei cercavano di ritrovare con difficoltà il loro posto nel mondo, di riprendere il discorso interrotto così drammaticamente dalla persecuzione prima e dalla guerra dopo. Alla fine del 1944, quando ancora i nazisti occupavano una gran parte dell’Italia, nessuno poteva ancora valutare pienamente la portata dello sterminio; e anche se si pubblicavano notizie come quella del processo tenuto a Lublino, in Polonia, contro sei nazisti per i crimini commessi nel campo di Majdanek, le informazioni apparivano caratterizzate da un tono improvvisato ed occasionale.
L’attenzione si accentuò alla fine del gennaio 1945. Su l’Unità e su l’Avanti! vennero pubblicati articoli corredati da mappe sull’avanzata dell’Armata Rossa in Polonia che descrivevano la liberazione di alcune città, tra cui Auschwitz, indicata con il suo nome polacco, Oswiecim.
Perfino il battesimo di Israel Zolli, rabbino capo della comunità ebraica romana, fu letto da Dante Lattes nel contesto dello sterminio ebraico che aveva duramente messo alla prova la forza morale e lo spirito dei più deboli tra gli ebrei: “Nessuna fede, nessuna dottrina filosofica o politica è uscita con onore da questa catastrofe; nessuna si è infatti opposta al male, alla violenza, alla tirannide con quel coraggio da cui sorgono i martiri (…). Che cosa va a cercare fra i ruderi di questo mondo l’ebreo che è uscito sano e salvo, col suo corpo e colla sua idea, da tante spaventose tempeste? (…) Questo mondo al quale l’ebreo si vende, disertando il proprio, è in sostanza il mondo di cui egli ha paura”. Lattes utilizzava la conversione di Zolli per richiamare al suo dovere il mondo che era rimasto indifferente alla catastrofe, perché si salvaguardasse “quanto v’è di necessario, di legittimo e di giusto nell’aspirazione e nella volontà di dare pace e libertà agli ebrei, non solo come individui ma anche come collettività storica (…). È urgente che si dia massima importanza alla cura dei cuori e dei cervelli degli ebrei: altrimenti c’è il pericolo che la schiera degli apostati si accresca per generazione spontanea o per altrui propaganda”. Il discorso sulla propria identità riemergeva con forza all’interno del mondo ebraico, tanto che il settimanale Israel, il 24 maggio 1945, si fece promotore di un referendum, dal titolo: “Malgrado ciò che è accaduto nell’Europa e nel mondo intero, malgrado le stragi e le deportazioni, siete rimasto ebreo, perché?”.
L’8 marzo 1945, mentre in Palestina veniva proclamato il lutto nazionale per un’intera settimana, su Israel veniva pubblicato il primo articolo di timbro diverso, in cui non erano più l’antifascismo e la lotta armata ad essere al centro della recente storia ebraica bensì lo sterminio di inermi. Si trattò forse della prima riflessione su ciò che aveva e avrebbe significato l’Olocausto per la vita ebraica: “Nessun popolo nella storia ha fatto lutto per 5 milioni di caduti; nessun popolo mai nella storia si è trovato a constatare l’uccisione di un terzo dei propri componenti; nessun popolo ha mai perduto, non in combattimento con le armi in pugno ma per orrende carneficine contro inermi, insieme agli uomini validi, tante donne innocenti, tanti vecchi venerandi, tanti bambini sorridenti alla vita”. Nello stesso numero compariva il primo elenco degli ebrei deportati da Roma, accanto alla recensione, firmata da Carlo Albero Viterbo, all’anonimo fascicolo di 16 pagine intitolato Nove mesi di martirio. La tragedia degli ebrei sotto il terrore tedesco, in cui venivano presentati i fatti più salienti delle persecuzioni antisemite di Roma.
Da allora le pagine del giornale furono quasi interamente occupate dalle notizie sui campi di concentramento. Si parlava di Fossoli e di Auschwitz, ma con un linguaggio incredulo e dubbioso: non era nemmeno chiaro se chi scriveva sapesse dove era Auschwitz. Anche per l’uso del termine “campo di concentramento” bisognerà aspettare l’aprile del 1945. Cominciarono ad arrivare le prime informazioni sull’arrivo a Stoccolma di ebrei sopravvissuti ai lager di Bergen Belsen e di Birkenau, a quali si aggiunsero il 4 maggio 1945 quelli di altri sopravvissuti, forniti al ministero degli Affari esteri attraverso l’ambasciata italiana a Mosca. L’annuncio dell’arrivo a Bucarest di altri ebrei sopravvissuti di Oswiecim, scritto Oszviencim, riempiva la prima pagina del giornale. L’errore non casuale nella trascrizione dei nomi dei campi confermava il senso di estraneità, di distanza, di “ignota destinazione” che circondava la memoria dello sterminio nel suo iniziale tentativo di rielaborazione. L’articolo di Dante Lattes, “Dobbiamo ancora avere fiducia negli uomini?”, che riferiva quasi esattamente il numero e i dati dei 5.000.000 di morti ammazzati, sembra suggerire l’immagine di un mondo ebraico abbandonato a se stesso, separato dal resto, tutto compreso nella rielaborazione del proprio lutto. Si faceva martellante la pubblicazione dell’elenco in ordine alfabetico dei deportati da Roma che includeva, fatto rilevante, anche i nomi degli ebrei massacrati per rappresaglia alle Fosse Ardeatine. La confusione nella memoria segnava il ricordo: la lista, il cui scopo era di determinare il numero dei morti, si era trasformata in un lungo e grande necrologio. Una settimana dopo, fu pubblicato dallo stesso giornale il messaggio di saluto alle proprie famiglie inviato dal campo di Buchenwald da Michele Amati e Sabatino Finzi, deportati da Roma il 16 ottobre 1943.
L’organo del Partito socialista l’Avanti!, il 20 aprile 1945, diede la notizia della liberazione di Buchenwald e Bergen Belsen, avvenuta rispettivamente l’11 aprile e il 15 aprile del 1945; quella di Mauthausen il 5 maggio. Il 13 maggio 1945 Il Giornale del Mattino ruppe il silenzio sui campi di concentramento con un articolo di Paolo Alatri che parlava di Ohrdruf, Buchenwald, Bergen Belsen, Ravensbrück e Nordhausen: era il primo contributo, lungo e dettagliato, che non avesse semplice carattere informativo.
Si moltiplicarono gli articoli su Auschwitz quando cominciarono ad apparire – numerose – le interviste dei sopravvissuti. Mauro Scoccimarro, ministro per l’Italia occupata e responsabile della Commissione centrale per l’accertamento delle atrocità commesse dai tedeschi e dai fascisti ai danni degli ebrei, chiedeva a Israel, il 10 maggio 1945, di pubblicare un appello rivolto alla comunità ebraica di Roma e, attraverso questa, all’intera Unione delle Comunità, in cui si invitavano tutte le famiglie a raccogliere e documentare le notizie relative ai crimini subiti e a trasmettere il materiale raccolto alla Commissione centrale stessa. Si tratta della prima notizia pubblica che testimoni i rapporti tra il governo e la comunità ebraica. Nei mesi successivi gli articoli di Israel saranno sempre più attenti al ritorno dei deportati, alla “torturante attesa” dei familiari desiderosi di avere notizie dei loro parenti scomparsi: Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Oswiecim, Majdanek emergono tragicamente dalle nebbie, prendendo sempre più forma. Si vorrebbe sapere cosa è successo ai convogli che lasciarono l’Italia tra il 1943 e il 1944. Radio Mosca parlava di 11 milioni di assassinati, affermando che nel corso di tre anni nel solo campo di concentramento di Trablianca (Treblinka) erano stati trucidati 7 milioni di uomini, fra ebrei e non ebrei, più gli altri 4 milioni assassinati nei lager di Oswiecim e di Majdanek.
Vale la pena notare l’atteggiamento assunto dalla stampa cattolica, in linea col tono dell’appello rivolto da papa Pio XII ai fedeli nell’aprile del ’45 e che era stato un richiamo ad una pacificazione generale degli animi, definendo gli avvenimenti “crudeli: (…) atroce realtà” e “la guerra: (…) il frutto e il salario del peccato”. La tendenza fu quella di parlare di generici crimini contro l’umanità, senza mai pronunciare la parola “ebrei”. Come si leggeva sulle pagine dell’Osservatore Romano, il 29 giugno 1945: “Le informazioni ottenute da varie fonti danno un quadro impressionante sulle condizioni in cui generalmente si trova la massa degli internati composta da uomini e donne di ogni età, dall’infanzia fino alla decrepitezza. Una particolare compassione fanno coloro che si ritengono ormai senza patria, e sono molti assai (…). Molti altri, a causa della demoralizzazione subita in tanti anni di prigionia, stentano a riprendere la mentalità e le consuetudini del consorzio civile e cristiano…”. O su quelle della Civiltà Cattolica: “Di ritorno dalla Missione in favore dei prigionieri di guerra e degli internati in Germania, Mons. Carroll ha fornito alcuni ragguagli sull’opera di carità cristiana (…) per soccorrere tante vittime della guerra (…). La Missione pontificia si occupa di tutti, senza distinzione di nazionalità o di fede religiosa (…), 8.000 polacchi fra cui 450 sacerdoti”.
Il male della guerra e le sue terribili conseguenze venivano riduttivamente imputati alla semplice dimenticanza di Dio: “Invero la lotta contro la Chiesa si andava sempre più inasprendo: era la distruzione delle organizzazioni cattoliche; (…) era la separazione forzata della gioventù dalla famiglia e dalla Chiesa; (…) era la denigrazione sistematica della Chiesa, del clero, dei fedeli, delle sue istituzioni, della sua dottrina, della sua storia”. Al centro della persecuzione venivano indicati generici “detenuti politici”, insieme a “le falangi di coloro, sia del clero che del laicato, il cui unico delitto era stata la fedeltà a Cristo e alla fede dei Padri o la coraggiosa osservanza dei doveri sacerdotali”.
La definizione delle liste dei deportati tramite le commissioni nazionali e internazionali che le comunità ebraiche nominarono, e che furono attive subito dopo l’inizio della guerra, fu utile ai primi stadi del processo di costruzione della memoria. Chi faceva parte delle commissioni analizzò i documenti trovati negli uffici dei campi e controllò gli elenchi di deportati e sopravvissuti. Una delle liste fu portata in Italia tramite una spedizione di aiuti per i superstiti di Mauthausen e fu letta alla radio italiana il 26 maggio 1945: fu una delle prime testimonianze sulla deportazione di italiani che giunse al grande pubblico e che suscitò una certa impressione.
L’antifascismo ebraico veniva rappresentato come elemento di slancio verso il futuro, la volontà di riaffermare la propria esistenza, il desiderio di ricostruire una società migliore per gli ebrei e per l’Italia democratica. Così scriveva Carlo Alberto Viterbo su Israel il 31 maggio 1945: “Noi lavoreremo perché Israele torni completamente Israele. Riprendendo l’opera interrotta due anni fa con maggiore ardore (…) Ma noi vogliamo lavorare anche per questa Italia risorta, per questi italiani che ci accolsero nelle loro case quando eravamo braccati, che ci sfamarono”. Si riconsiderava il ruolo che gli ebrei dovevano avere nella nuova società civile e si faceva delle loro comunità il nucleo da cui doveva partire il processo di rinnovamento. Ancora una volta Carlo Alberto Viterbo, nel medesimo fascicolo di Israel: “La guerra in Europa è finita, l’Italia è liberata, gli ebrei sono stati restituiti ai loro sacrosanti diritti di uomini e di cittadini. Incomincia difficile e durissima la ricostruzione e incomincia difficile e durissima anche per noi, ebrei d’Italia (…). Noi ebrei abbiamo il compito particolare ed esclusivo di ricostruire le nostre comunità, di sanare le nostre ferite, di riprendere la nostra attività culturale e assistenziale, di svolgere una nostra politica, di riconsiderare le cause che ci hanno condotti sull’orlo del completo annientamento”.
Non senza contraddizione veniva però espressa un’altra posizione, non meno forte e non meno importante. Se ne faceva portavoce lo stesso Viterbo quando spiegava il volontario esilio degli ebrei, come gruppo sociale, dalla politica attiva e la conseguente estraneità alla vita nazionale, l’esclusivo interesse per la ripresa fisica e amministrativa delle comunità ebraiche, tutti aspetti che avevano attirato le critiche e la disapprovazione di una parte del mondo democratico antifascista italiano: “Più volte e in modo particolarmente insistente in questi ultimi tempi ci è stata espressa meraviglia e disappunto perché il nostro giornale non ha preso fino ad ora una posizione nell’accesa lotta dei partiti e delle correnti politiche che agitano l’Italia. E innanzi tutto è necessaria una fondamentale distinzione tra gli ebrei come singoli e come collettività. Gli ebrei come singoli e in quanto cittadini italiani hanno verso il Paese di cui sono parte costituente tutti i doveri e conseguentemente tutti i diritti (…) il diritto di voto, il diritto di iscriversi – come singoli – al partito che più sia conforme alle loro idee ed aspirazioni, di discutere pubblicamente gli affari della cosa pubblica (…) Come collettività gli ebrei non costituiscono un partito, mentre gli Enti e le Istituzioni ebraiche sono rivolti esclusivamente ai loro compiti particolari”.
Lentamente, durante la primavera e l’estate del 1945, lo sterminio ebraico catturò l’attenzione dei giornali. Il vettore essenziale dell’informazione sui campi divennero soprattutto le testimonianze: lettere di scampati, messaggi, racconti, elenchi di nomi che arrivavano alla comunità di Roma, con i nomi di ex internati che si trovavano a Bolzano e Merano già dal marzo 1945. La testimonianza di Leone Fiorentino, il primo ebreo romano tornato dall’inferno di Auschwitz, apparve sull’Italia Libera, Israel e l’Unità che la pubblicarono in prima pagina. Fiorentino, comunista, descriveva Auschwitz con i suoi cinque forni crematori, strumento di morte per i deportati.
Il 6 giugno 1945 l’Unità pubblicò il primo di una serie di articoli di Giuliano Pajetta, fratello di Giancarlo, dedicati al campo di concentramento di Mauthausen dove era stato deportato: rivisitati, essi diverranno il crudo racconto della sua prigionia nel 1946. Pajetta raccontava la sua storia di politico dentro al campo, il ruolo svolto dalla Resistenza clandestina, la grande solidarietà tra i compagni. Da parte sua, L’Italia Libera pubblicò la testimonianza di Gabriele Di Porto internato ad Auschwitz nel marzo del 1944; dalle sue parole scaturiva un’ingiunzione al ricordo e la speranza in un mondo migliore: “Ho solo desiderio di pace; la giustizia che mi hanno chiesto coloro che mi sono morti fra le braccia, la farà chi non ha visto tanto sangue”. Ancora su l’Unità, la storia di Gina Piazza, un’ebrea romana di 29 anni, che nell’articolo “Ritorno da Oswiecim” descriveva e raccontava la sua esperienza di donna nel campo, parlandone come di un luogo di “affamata” e “disumana brutalità”. Negli stessi giorni la Rai (Radio audizioni italiane) trasmetteva l’elenco di alcuni deportati italiani che erano stati liberati a Dachau e Mitterwald. Giungeva intanto agli uffici della Delasem (Delegazione per l’assistenza degli emigranti ebrei) una lista di 652 nomi di ebrei torinesi deportati in Polonia.
Attraverso le pagine del settimanale Israel le comunità ebraiche si mobilitarono per cercare i deportati, promuovendo un nuovo censimento che potesse stabilire con maggiore esattezza il numero degli ebrei italiani e non italiani che erano stati avviati ai campi di concentramento nazisti. Tutti gli ebrei vennero invitati a notificarsi a uno speciale ufficio. Bisognava però superare le difficoltà e i timori di quanti, dopo gli anni bui della persecuzione, non desideravano ufficialmente più fare parte della comunità; bisognava rifondere fiducia e sicurezza nelle loro menti. La richiesta veniva quindi spiegata con l’impellenza di ricostruire amministrativamente e spiritualmente il mondo ebraico; si sosteneva la necessità di rinnovare gli strumenti della vita ebraica: gli istituti religiosi, il collegio rabbinico, gli enti assistenziali ecc.
Nel contempo si chiedevano normative speciali che stabilissero un risarcimento economico per gli ebrei colpiti dalle leggi razziali e dalle persecuzioni. Trapelava dagli articoli del giornale una certa preoccupazione e delusione per l’atteggiamento assunto dal governo sul problema della riparazione economica. Una lettera in data 12 giugno 1945 fu fatta pervenire dal ministro delle Finanze a mezzo della segreteria particolare del presidente del Consiglio alla comunità ebraica di Roma: il governo sosteneva di non dovere in alcun modo ripagare i danni fisici, economici e morali subiti dagli ebrei, perché le sofferenze degli ebrei non erano state poi così dissimili da quelle del resto dei loro concittadini. Il settimanale Israel, che la pubblicò per intero il 5 luglio 1945, così commentava: “Questo ministero considera che vastissime categorie di contribuenti (perseguitati politici, patrioti, sfollati, ecc.) hanno sofferto a causa della guerra danni non meno gravi di quelli lamentati dagli ebrei. (…) Venute meno le discriminazioni razziali gli ebrei potranno beneficiare delle suddette disposizioni generali, senza che si renda necessaria l’adozione di particolari provvedimenti in loro favore”.
È vero che nel maggio del 1945 c’era stata l’iniziativa di Scoccimarro, ma né il governo né la società civile compresero il diritto dei superstiti a un risarcimento materiale e simbolico e non li appoggiarono, né riconobbero la deportazione e lo sterminio come eventi storici senza precedenti. Gli ebrei dovevano guardare al passato per capire l’urgenza di ridefinire il proprio ruolo all’interno della società italiana, che si percepiva, quasi nella sua generalità, non solo di non aver prestato mano alle persecuzioni, ma di essere stata d’aiuto e di aver protetto i perseguitati, “diversamente” – come scrisse Benedetto Croce – “da quel che accadde presso un altro popolo che di gran lunga assai più degli italiani si era giovato del contributo datogli dall’ingegno e dall’operosità ebraica, e della devozione degli ebrei al popolo germanico di cui erano cittadini”. L’insistenza sulla specificità della propria sofferenza e della propria diversità avrebbe solamente arrecato danno; bisognava, quindi, abbandonare l’idea di una elezione del popolo ebraico per giungere invece ad una fusione morale e spirituale con il resto del popolo italiano. Ancora Croce: “Molti danni e molte iniquità compiute dal fascismo non si possono ora riparare per essi come per gli altri italiani che le soffersero, né essi vorranno chiedere privilegi e preferenze”. Il filosofo auspicava che il loro “studio” fosse quello “di fondersi sempre meglio con gli altri italiani, procurando di cancellare quella distinzione e divisione nella quale hanno persistito nei secoli e che, come ha dato occasione e pretesto in passato alle persecuzioni, è da temere che ne dia ancora in avvenire”.
Alla fine dell’estate del 1945, Raffaele Cantoni, eletto dal Clnai commissario straordinario della comunità ebraica di Milano con funzioni di coordinamento per gli ebrei dell’Alta Italia, arrivava a Roma per trattare insieme al nuovo governo tutti i problemi che erano rimasti sul tappeto dopo la liberazione completa dell’Italia e l’abrogazione delle leggi razziali. Ma non solo: Cantoni intendeva ridefinire con il governo il ruolo delle comunità ebraiche italiane e riaffermare l’importanza avuta nella lotta di liberazione da molti ebrei che avevano sofferto insieme ai loro concittadini non ebrei nelle carceri e sulle montagne. Cantoni, in sostanza, non voleva che gli ebrei fossero dimenticati dal governo di Roma.
I racconti delle stragi perpetrate dai tedeschi cominciarono a riempire le pagine dei giornali: l’Unità e l’Avanti! concessero grande spazio al racconto della strage di Marzabotto, il 5 e l’8 luglio 1945. Mentre Israel dava notizia di un altro campo di concentramento scoperto vicino ad Auschwitz, dove altri ebrei italiani avevano trovato la morte: Buna-Monowitz. Il Comitato Ricerche Deportati chiedeva al governo che fossero inviati in Polonia, attraverso il ministero degli Affari esteri, dei diplomatici italiani, insieme alla Croce Rossa e alle altre organizzazioni internazionali, per controllare se ci fossero sopravvissuti tra gli internati italiani. Nel settembre del 1945 solo Israel riportava la notizia del numero di ebrei romani deportati da Roma il 18 ottobre del 1943, due giorni dopo l’assalto al ghetto, con destinazione Auschwitz. Cerimonie di commemorazione e un digiuno vennero indetti dalla comunità di Roma per ricordare il rastrellamento del 16 ottobre e fu fatta coniare una medaglia in ricordo dei martiri.
La Rai continuava ad interessarsi al problema dei reduci e inseriva nella trasmissione “Sulla via del ritorno” uno stralcio delle notizie contenute nel bollettino del Comitato Ricerche Deportati. Il ritorno da Auschwitz di un altro sopravvissuto, Benedetto Di Segni, veniva dettagliatamente descritto sulle pagine di Israel, insieme ai processi contro i criminali nazisti. Il processo di Lüneburg, culminato con trenta condanne alle SS che avevano operato nel campo di concentramento di Bergen Belsen, sarà seguito con grande attenzione dal giornale, come anche quello a carico delle SS accusate di crimini contro ebrei e partigiani a Dachau, che si concluse con trentasei condanne a morte per impiccagione.
Con il processo di Norimberga le cose cambiarono: tutti i giornali se ne occuparono. Ma anche in questo caso la stampa italiana si limitò a utilizzare principalmente i servizi dei corrispondenti delle testate e agenzie estere per “coprire” la cronaca del processo. L’unico giornalista italiano accreditato a Norimberga fu Enrico Caprile, del Corriere d’Informazione: i suoi articoli furono pubblicati tra il 29 novembre e il 15 dicembre del 1945 sulle prime pagine del giornale. Un diverso tono fu assunto dalla stampa cattolica. L’Osservatore Romano e La Civiltà Cattolica considerarono la questione dello sterminio, anche dopo le sconvolgenti rivelazioni che emersero al processo, da un punto di vista squisitamente giuridico. Nel primo articolo apparso sulla Civiltà Cattolica si parlava infatti di questioni legate al diritto, ci si interrogava sulla liceità della pena per i crimini commessi, in assenza di un precedente giuridico che avallasse la condanna: “Verissimo che la guerra è stata dura, e indubbiamente certe crudeltà dovrebbero essere proscritte, ogni necessità a giustificarle dovrebbe venire esclusa. (…) Ci si metta pure una buona volta d’accordo per l’avvenire; ma come si può punire per la trasgressione di una legge che ancora non esisteva quando l’azione fu compiuta? Valga l’esempio della bomba atomica: altro che proiettili antirazzo, rappresaglie, bombardamenti indiscriminati! Eppure nessuno pensa di punire gli aviatori, lo Stato Maggiore o gli industriali americani. Perché? Perché se anche oggi si vietasse l’uso di quegli esecrabili mezzi di strage e di distruzione, la legge varrebbe per domani, non per ieri. A pari, dunque”.
La guerra moderna e totalitaria era la chiave di spiegazione della morte e della distruzione causate dalla Germania nazista che, se responsabile sul terreno diplomatico perché la prima “a dar fuoco alle polveri”, vi era stata, sempre secondo La Civiltà Cattolica, storicamente costretta: “Quando si deve amaramente riconoscere che anche oggi, dopo i tremendi disastri della seconda guerra mondiale e nonostante l’organizzazione della società internazionale su nuove basi (O.N.U.), le grandi potenze che vi spadroneggiano non riescono ad assicurare ai popoli l’agognatissima pace, ma continuano a patteggiare provvisori compromessi a prezzo di flagrante ingiustizia contro i vinti e le potenze minori, viene fatto di domandarsi con quale coerenza, e soprattutto con quale diritto, siansi assise a Norimberga per condannare la Germania di un atto, che esse medesime non mancheranno di fare al momento opportuno, quando lo riterranno inevitabile pei loro interessi!”.
Disquisizioni giuridiche, considerazioni diplomatiche, spiegazioni scientifiche e relativizzazioni storiche: tutto serviva per non confrontarsi sul terreno della responsabilità con la propria storia. Così la rivista dei gesuiti parlava a proposito dei crimini contro l’umanità: “Ma anche in relazione ai delitti contro l’umanità e ai crimini di guerra troviamo avanzata ed ammissibile una eccezione della stessa natura ed efficacia. Il mondo è stato bensì inorridito dai molteplici crimini perpetrati dalle armate naziste; ma lo è stato anche da quelli commessi o comunque addebitati all’altra parte. Già, di delitti contro l’umanità in epoca moderna si è cominciato a parlare precisamente in seguito ai massacri, alle persecuzioni politiche e religiose, alle riduzioni in schiavitù di lavoro verificatesi in uno degli Stati, che ora fa da giudice in Norimberga. Ancora durante la guerra, maltrattamenti di prigionieri si sono avuti dappertutto. In Russia e in Algeria specialmente, la fame ha fatto stragi; e non solo la fame. In certi domini inglesi, l’onore dei prigionieri è stato vilipeso oltre ogni limite umano. E le fosse di Katin? Qui l’accusa era precisa e documentata. E gli stessi bombardamenti aerei angloamericani non hanno superato evidentemente ogni limite di rappresaglie? Si pensi alle innumeri città italiane semidistrutte in pretesa rappresaglia dei duecento in efficientissimi apparecchi, che avrebbero dovuto bombardare Londra. Si ricordino i mitragliamenti a bassa quota di civili e persino di fanciulli intenti a giochi innocenti (chi può dimenticare la ‘giostra’ di Grosseto?) e gli aviatori ubriachi e l’ignominia delittuosa di certe truppe di colore (marocchini), e le ruberie e le violenze dei singoli… Ma il colmo atroce dell’inumanità resta fissato nei secoli dalle bombe atomiche lanciate su città popolatissime e civili, quali Nagasaki e Hiroshima (secondo certa stampa, già dopo l’offerta di resa incondizionata e non solo per ragioni militari). Altro che ‘terra bruciata’, altro che ‘distruzioni indiscriminate’ (capi di accusa contro i tedeschi), altro che mezzi di offesa sproporzionati, non limitabili e perciò vietati dal diritto internazionale bellico e da quello naturale! Si parlerà di rappresaglie? Di necessità logistiche e militari? Noi non sappiamo se e come la Storia potrà accogliere questi argomenti, né come i posteri li giudicheranno. Sappiamo solo che a Norimberga gli imputati hanno assunto a difesa gli stessi principii e avanzato in tal senso analoghe eccezioni (diritto di rappresaglia, diritto di necessità oggettiva o determinata da analoga condotta dei nemici). Sappiamo che queste eccezioni pongono direttamente in stato di accusa le stesse potenze giudicanti tal che, secondo i principii generali del diritto, i giudici non sono più giudici ma parti in causa. In queste condizioni, essi non possono giudicare. Se taluno o tutti gli accusati rappresentano una minaccia per la pace futura, è lecito ai vincitori adottare contro di essi misure di sicurezza. Ma se si vogliono punire come delinquenti le parti lese (tutte e prima di tutte la Polonia) facciano magari da accusatori, non da giudici. Per il giudizio, ci si rivolga a un Tribunale di neutri, per esempio all’Alta Corte di Giustizia internazionale. Secondo giustizia, però, quelle quattro potenze non possono giudicare, non possono condannare”.
La realtà dei fatti è che nella sostanza neppure le vicende e la scoperta delle atrocità commesse durante la guerra riuscirono a modificare l’equilibrio di tali giudizi.
Norimberga aprì la strada a una nuova fase dell’informazione giornalistica. Da questo momento in poi si tentò faticosamente di colmare il ritardo nella diffusione delle notizie sulla deportazione. Come si è detto, però, le ragioni del divario non erano soltanto di natura tecnica, come la difficoltà di accesso alle informazioni o la carenza dei mezzi a disposizione, problema comune alla maggior parte delle testate; l’ostacolo principale era rappresentato dall’atteggiamento assunto verso il passato, verso la guerra, la deportazione e lo sterminio. Va ricordato che il Corriere della Sera, La Stampa e Il Messaggero – le tre grandi testate giornalistiche compromesse col regime fascista e con la Repubblica sociale – erano state chiuse. Il Corriere della Sera subì un’interruzione tra la fine di aprile e la fine di maggio del 1945: un mese dopo la sospensione, imposta dal Comitato di Liberazione Nazionale, il quotidiano tornò in edicola con la testata Il Corriere di Informazione (il 24 marzo del 1946 il giornale, al posto dei festeggiamenti per Mussolini, ricordò il massacro delle Fosse Ardeatine). L’anno successivo uscì come Nuovo Corriere della Sera. La Stampa, che era scomparsa dalle edicole il 25 aprile 1945 per riapparire il successivo 18 luglio grazie all’appoggio degli Alleati, col nome La Nuova Stampa, pubblicò il 26 settembre 1945 il primo articolo che affrontava il problema dello sterminio ebraico; e anche Il Messaggero fu costretto a sospendere le pubblicazioni nel 1944, alla liberazione di Roma, fino al 21 aprile 1946, quando riapparve col nome Il Messaggero di Roma.
Sulla stampa ebraica, intanto, venivano pubblicate le notizie sulla presenza di circa 15.000 profughi ebrei stranieri superstiti dai campi che avevano trovato rifugio in Italia. Il governo italiano si era in qualche modo piegato alle pressioni angloamericane affinché moltissimi sopravvissuti alla Shoah nell’Europa orientale potessero arrivare in Italia. In realtà la presenza dei profughi si trasformò rapidamente in un elemento identitario importante per le comunità ebraiche italiane: essi si organizzarono in un gruppo politico, il Comitato profughi, che faceva capo a Leo Garfunkel e che fondò il giornale Ba Derech (Lungo il cammino), che ne divenne l’organo ufficiale. Il settimanale era scritto in yiddish e voleva essere un foglio di informazione per gli ebrei stranieri in Italia scampati allo sterminio. Il Comitato ebbe intensi e importanti contatti con la leadership ebraica italiana, soprattutto con quella sionista, del quale fece poi parte. Nel convegno dell’Organizzazione sionista che si tenne a Roma tra il 26 e il 28 novembre 1945, il Comitato profughi chiese che fosse diramato un comunicato di ringraziamento a loro nome in cui venivano menzionate non solo le istituzioni ebraiche ma anche le autorità italiane e in cui si sottolineava il forte contrasto tra l’accoglienza fraterna nei riguardi dei profughi ebrei in Italia rispetto a quella ottenuta in Polonia, dove i pochi reduci dai campi versavano in condizioni di povertà e di paura.
Verso la fine del 1945 la Palestina e la questione ebraica divennero oggetto di interesse per parte della stampa. Su Israel le notizie di ciò che succedeva in Eretz Israel avevano trovato da sempre grande spazio; ma ora la novità era rappresentata dalla presenza di articoli e di lettere pubblicati nei quotidiani a tiratura nazionale, come anche in quelli a carattere regionale. Sul numero di Affari internazionali del 25 novembre 1945 un’intera pagina della rivista venne dedicata alla questione ebraica in generale e alla questione palestinese in particolare. L’articolo dal titolo “Gli Ebrei sono una nazione” riprendeva un testo di D.L. Lipson, politico inglese di origine ebraica, che era stato pubblicato dalla rivista The Spectator. Sul Giornale dell’Emilia, in un resoconto dal titolo “Aiutare gli ebrei”, Randolph Churchill, figlio dell’ex primo ministro britannico, si professava ardente sostenitore della nascita di uno Stato ebraico in Palestina. Ancora: un articolo su Risorgimento Liberale dal titolo “La Palestina due volte promessa”; Il Risveglio pubblicò anch’esso un articolo sui sionisti e sugli arabi in Palestina; La Città libera riportò un interessante contributo, “Le lotte per la sovranità in Palestina”, in cui si auspicava la costituzione di una federazione arabo-ebraica; mentre l’Unità e L’Italia Libera trattavano della crisi palestinese e della situazione diplomatica della Gran Bretagna tra ebrei e arabi.
Nel dicembre del 1945 venne pubblicato il libro Le Fosse Ardeatine di Attilio Ascarelli, il medico legale che si occupò dell’identificazione delle vittime della rappresaglia nazifascista, e che raccontava in modo dettagliato la strage avvenuta sull’Ardeatina a Roma. Carlo Alberto Viterbo ne fece la recensione. Nel primo anniversario dell’eccidio si tennero due cerimonie: la prima nel Tempio Maggiore di Roma e la seconda davanti al Campidoglio, in presenza dei rappresentanti delle forze alleate. Nel secondo anniversario della strage furono scoperte al Tempio Maggiore due lapidi al cospetto delle rappresentanze ebraiche, della comunità e delle autorità civili del comune di Roma: la prima in memoria degli ebrei uccisi alle Ardeatine, la seconda a ricordo degli ebrei uccisi in tutta Europa, con una menzione speciale per le vittime italiane. Il testo commemorativo così diceva: Del popolo d’Israele / Sei milioni le innocenti vittime in Europa / Del bieco odio razziale in tutta Italia dal fatale 16 ottobre 1943 / Oltre ottomila i deportati i martoriati e i trucidati / Da Roma / Duemilanovantuno i deportati. Dopo la funzione religiosa officiata dal rabbino capo David Prato, parlarono Ugo Della Seta, Leo Garfunkel, che espresse la solidarietà di tutti i profughi ebrei in Italia, e Raffaele Cantoni, che parlò a nome del Congresso mondiale ebraico.
Il 1946 fu l’anno che sancì la fine della speranza nel ritorno dei deportati. Gli ebrei italiani compresero che, nonostante si cercassero ancora sopravvissuti, e malgrado la febbrile attività del Comitato Ricerche Deportati e della Delasem, nessuno sarebbe mai più tornato. Ancora una volta fu Israel che si fece portavoce della rassegnazione: “Per gli ebrei di Roma il 16 ottobre di quest’anno è data di lutto profondo, perché ogni speranza sul ritorno dei deportati, poveri, innocenti, strappati bestialmente all’affetto dei loro cari, è ormai vana”. La frase è tratta dalla lettera inviata al giornale dall’avvocato Giulio Lombroso che rappresentava al processo contro Celeste Di Porto, detta Pantera nera, quindici famiglie di ebrei romani.
Quella di Celeste Di Porto è una storia drammatica, anomala, dolorosa, che insieme alla conversione di Israel Zolli lasciò un segno indelebile nell’animo degli ebrei, soprattutto romani. Giova ricordarla brevemente. Dopo l’armistizio e con l’occupazione di Roma da parte delle truppe tedesche, iniziarono i rastrellamenti di ebrei: per ogni ebreo consegnato dalla popolazione alla Gestapo era prevista una ricompensa di 5.000 lire (quasi lo stipendio annuo di un operaio). Dopo il 16 ottobre 1943, giorno della razzia nel ghetto di Roma, Celeste Di Porto, di umile famiglia, collaborò alla cattura di numerosi correligionari, al punto da guadagnarsi il soprannome di Pantera nera, essendo risaputo da ogni ebreo il “mestiere” di spia della ragazza, che all’epoca era poco più che diciottenne. L’arresto più noto fu quello del pugile romano Lazzaro Anticoli che, incarcerato in seguito alla delazione della Di Porto il 24 marzo 1944, incise con un chiodo sui muri della cella numero 306, del terzo raggio di Regina Coeli, la scritta: “Sono Anticoli Lazzaro, detto Bucefalo, pugilatore. Si non arivedo la famija mi è colpa de quella venduta de Celeste Di Porto. Rivendicatemi”. Una tragica denuncia, espressa in poche righe. Nel pomeriggio di quel giorno il pugile venne ammazzato alle Fosse Ardeatine.
Le organizzazioni di soccorso ebraiche come la Delasem continuavano nel loro lavoro di ricerca per rintracciare i reduci e per aiutare i profughi che giungevano in Italia per imbarcarsi verso la Palestina. Nel mondo ebraico doveva serpeggiare una certa preoccupazione per questo loro continuo arrivo, aggiunto al timore di un rigurgito di antisemitismo anche in Italia, come traspare dalle colonne di Israel, che il 29 agosto 1946 riporta la seguente notizia: “Il Governo italiano sarebbe stato richiesto da quello americano di ammettere temporaneamente in Italia 25.000 profughi provenienti dalla Polonia, per i quali non c’è possibilità di accoglimento in Austria. Tali profughi sarebbero assistiti dalle organizzazioni alleate, principalmente dall’U.N.R.A., senza aggravio per l’Italia”.
Ancora più preoccupante si fece la situazione allorché l’Irgun Tzavai Leumi si assunse la responsabilità dell’attentato all’ambasciata inglese a Roma, questa volta ampiamente riportato anche dalla stampa non ebraica. I rappresentanti degli ebrei in Italia, la presidenza dell’Unione delle Comunità ebraiche con Raffaele Cantoni in testa, il Comitato profughi ebrei in Italia con Leo Garfunkel, la Federazione sionistica italiana con il suo presidente Carlo Alberto Viterbo reagirono immediatamente alla notizia smentendo qualsiasi legame con gli attentatori. Il presidente dell’Agenzia ebraica Umberto Nahon inviò una lettera al presidente del Consiglio De Gasperi esprimendo lo sdegno e i sentimenti di condanna per l’attentato. Il Congresso mondiale ebraico così si espresse sulle pagine di Israel del 28 novembre: “Le nostre autorità governative conoscono e apprezzano l’opera che anche in America i dirigenti del Congresso Mondiale Ebraico hanno svolto e vanno svolgendo per difendere il buon nome e gli interessi mondiali dell’Italia che risorge, nel mondo che la circonda. Infatti l’ospitalità che il governo italiano ha dato a decine di migliaia di profughi e continua a fornire loro, è stata molto apprezzata dal Consiglio Mondiale Ebraico e posta in rilievo presso tutti gli strati della popolazione americana e presso le autorità governative con le quali esso congresso in America è costantemente in contatto”.
Il governo italiano fu forse obbligato dalle autorità alleate ad accettare così tanti profughi? O forse voleva semplicemente essere identificato il meno possibile come Paese nemico che aveva perso la guerra? Se così fosse, anche i profughi ebrei vennero allora usati come fattore di mediazione, poiché anch’essi contribuirono a restituire all’Italia la dignità che aveva perduto con le leggi razziali, prima, e con la deportazione e lo sterminio dei suoi ebrei, dopo.
2. I codici testimoniali
La scrittura memoriale in Italia fu altrettanto frenetica; i libri sulla deportazione e sullo sterminio cominciarono a uscire quasi a ridosso degli avvenimenti, trentotto in tutto: due nel 1944, tredici nel 1945, diciassette nel 1946, tre nel 1947, due nel 1948 e uno nel 1950. Otto di essi furono scritti da ebrei.
In questo senso l’Italia rappresentò in Europa un caso unico. Come costituì un caso unico per i tre tipi di deportazione che incluse: quella politica, quella razziale e quella militare. Si calcola, per difetto, che furono almeno 32.820 i deportati politici, di cui soltanto il 10% sopravvisse, pari circa a 3.300; i morti furono quindi 29.500. Gli ebrei deportati raggiunsero il numero di 8.556 (dall’Italia e dal Dodecaneso), di essi 1.009 si salvarono, il numero dei morti fu quindi di 7.557, a cui vanno aggiunti i 303 ebrei uccisi nelle stragi razziali in Italia: il totale delle vittime sarebbe di 7.860, di cui 4.125 uomini e 3.735 donne. I militari italiani di ogni arma e grado deportati in Germania ammontano a circa 809.722 uomini, di cui 42.000 morirono nei lager; a queste vittime vanno aggiunti i 13.300 morti per l’affondamento nell’Egeo dei piroscafi che li avrebbero dovuti portare in Germania, i 6.300 militari uccisi su ordine di Hitler dall’Okw (Oberkommando der Wehrmacht) e i soldati – tra i 5.000 e gli 8.000 – morti o dispersi sul fronte orientale dove erano stati trasferiti: il totale in questo caso sarebbe di circa 69.700.
I libri di memorie che vennero pubblicati tra il 1944 e il 1950 ricostruiscono anche la mappa geografica della deportazione italiana nei campi di concentramento e di sterminio. I loro autori, ebrei e non ebrei, donne e uomini, giovani e meno giovani, ognuno con il proprio background sociale e culturale, catturati per delazione o più raramente durante rastrellamenti o come rappresaglia agli scioperi del gennaio e marzo 1944, furono incarcerati nella regione di cattura e dopo gli interrogatori e le torture furono trasferiti nei campi di concentramento e di transito italiani (Fossoli di Carpi, Bolzano-Gries, Risiera di San Sabba), e poi deportati nei campi di concentramento in Germania, Austria o Polonia, classificati come Politisch (prigioniero politico) o Schutzhäftling (prigioniero per motivi di sicurezza), talvolta nell’una o nell’altra categoria a seconda degli spostamenti da un lager all’altro. Per i deportati politici non era prevista l’eliminazione immediata, come per gli ebrei, ma lo sfruttamento fino alla morte. Venivano da molti campi di concentramento e di sterminio: Allach, Ascherleben, Auschwitz-Birkenau, Bad Gandersheim, Bergen Belsen, Buchenwald, Dachau, Dora, Ebensee, Floridsdorf, Flossenbürg, Gusen, Hersbruck, Innsbruck, Kamenz, Klessheim, Kotten, Linz, Malkow, Melk, Mauthausen, Monowitz, Natzweiler, Nordlingen, Punsen, Ravensbrück, Schönberg, Schwechat, Zwickau, Zwieberge.
Tra i libri sussistevano grandi somiglianze, ma anche rilevanti differenze, sotto ogni punto di vista. Se, infatti, le motivazioni che spingevano a scrivere erano solitamente comuni, l’esperienza era sempre individuale, rispecchiando i modi e le forme in cui la prospettiva personale guidava ogni racconto. Solo una piccola minoranza di superstiti riuscì a scrivere anche durante la prigionia: perché scr
Marcello Flores – Mimmo Franzinelli- Storia della Resistenza-Marcello Flores – Mimmo Franzinelli- Storia della Resistenza-
Marcello Flores – Mimmo Franzinelli- Storia della Resistenza-
Editori Laterza
Descrizione di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli-Storia della Resistenza in montagna e quella in pianura. La guerriglia nelle città. Il sostegno della popolazione e il rapporto con la ‘zona grigia’. La collaborazione con gli Alleati e la guerra civile con gli italiani in camicia nera. A 75 anni dalla Liberazione, finalmente una ricostruzione con l’ambizione di proporre uno sguardo complessivo su fatti, momenti e protagonisti che hanno cambiato per sempre il nostro Paese.
I due anni che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 rappresentano un momento cruciale della storia d’Italia. Sono gli anni della guerra mondiale, con le truppe straniere che occupano la penisola. Sono gli anni della guerra civile, con lo scontro tra italiani di diverso orientamento. Sono gli anni della guerra di liberazione, in cui si combatte contro il nazifascismo per far nascere un paese democratico e libero. È il ‘tempo delle scelte’ per una società italiana schiacciata sotto il tallone nazista e fascista. Una nazione divisa politicamente, militarmente e moralmente all’interno di un’Europa in fiamme. Per fare i conti con la storia della Resistenza italiana, il libro ripercorre le varie fasi delle diverse Resistenze: dalle specificità della guerriglia urbana all’attestamento nelle regioni di montagna. Affianca alla lotta armata le varie forme di supporto fornito ai ‘banditi’ dalle popolazioni e la conflittualità interpartigiana, si addentra nella cosiddetta ‘zona grigia’, evidenzia la peculiarità delle deportazioni politiche e razziali. Una ricostruzione nuova, originale, vivida, in cui lo sguardo d’insieme si alterna costantemente con l’attenzione a vicende personali e collettive poco conosciute o inedite. Un libro necessario oggi, quando il venir meno degli ultimi testimoni diretti di queste vicende lascia sempre più spazio a un uso politico della Resistenza che deforma e rimuove i fatti, le fonti e la storia.
Ferruccio Parri
Rifiutiamo per noi le penne del pavone.
Sono gli Alleati che hanno sconfitto il nazismo e la sua triste appendice. Dietro di essi abbiamo vinto anche noi. Non è stato un miracolo, ma è stato il riscatto di fronte al mondo ed all’avvenire dell’onore nazionale; e questo riscatto, pagato col dono così grave del sangue più generoso, resta una cosa grande nella storia di un paese che pareva civilmente e moralmente paralizzato dall’inquinamento fascista.
Ferruccio Parri (1971)
Introduzione
La Resistenza, ancora oggi, rappresenta in Italia un fattore di divisione. Benché costituisca l’antefatto e il presupposto di quello che la volontà popolare sanzionò il 2 giugno 1946 – la nascita della Repubblica e l’avvio del percorso che un anno e mezzo dopo porterà alla promulgazione della Costituzione – essa non gode dell’ampio e condiviso riconoscimento che sia la Repubblica sia la Costituzione hanno saputo guadagnarsi, soprattutto nei decenni successivi, da parte di un’estesa maggioranza della popolazione.
A ben guardare, in realtà, la maggioranza degli italiani non nutre particolare interesse verso la Resistenza, se non in occasione delle ricorrenze, delle celebrazioni, delle memorie – e delle polemiche – che rivisitano ogni tanto questo o quell’evento a essa legato. C’è una forte minoranza, tuttavia, che ritiene giusto insistere nel richiamare la Resistenza non solo come prodromo della Repubblica e della Costituente, ma come momento formativo di quella nuova “morale politica” che si era manifestata e affermata proprio tra il 1943 e il 1945. Una politica che condannava senza esitazione il totalitarismo fascista, l’aver condotto l’Italia nella tragedia della guerra, la mancanza di libertà sofferta da tutti durante il regime e l’offesa alla dignità patita soprattutto dai suoi oppositori; e una morale che vedeva nella partecipazione e nell’impegno individuale – nella “scelta” di stare dalla parte di chi voleva riportare in Europa la libertà e la dignità sottomessa e calpestata dal nuovo ordine nazista – la possibilità di uscire da quello stato di passività, di inazione, di subalternità che si era diffuso e consolidato nell’ultimo decennio di vita del fascismo.
Una minoranza molto più contenuta, da parte sua, considera la Resistenza, se non un atto di tradimento verso la fedeltà all’alleato tedesco – e questi sono i pochi ma rumorosi “seguaci” della RSI che ancora ricordano Mussolini come il migliore degli italiani – come un inutile dramma, che ha anticipato di poco la liberazione del paese da parte degli eserciti alleati e ha offerto il destro per violenze suppletive che un’ordinata obbedienza ai voleri germanici avrebbe potuto evitare.
Tra queste tre posizioni, come naturale, sono presenti numerose sfaccettature, diversità, gradualità, che rendono l’atteggiamento nei confronti della Resistenza molto più frammentato e irriducibile a una casistica limitata. Il dibattito pubblico che si è sviluppato nel corso dei decenni, anche se a volte sollecitato da studi, memorie, approfondimenti, o dall’uscita di romanzi e film (alcuni dei quali capaci non solo di raggiungere un vasto pubblico ma anche di riassumere in modo chiaro ed esemplare problematiche complesse e argomenti controversi), ha fatto prevalere sull’elemento della conoscenza storica quello del giudizio (morale, politico, giudiziario), foriero inevitabilmente di polemiche e contrapposizioni il più delle volte sterili. La ricerca storica, nel frattempo, ha fatto passi da gigante, non solo raccogliendo una documentazione sempre più massiccia e articolata, ma contribuendo, soprattutto con studi a carattere locale, regionale, biografico, su singoli temi, a fornire narrazioni fattuali assai estese, che hanno permesso interpretazioni sempre più accorte e coerenti anche quando sono state fra loro diverse o addirittura controverse.
È in questo contesto, nell’approssimarsi del 75° anniversario della Liberazione e della fine della seconda guerra mondiale, che abbiamo deciso di proporre una narrazione globale e generale della Resistenza, che può fondarsi proprio sulla ricchezza documentaria e storiografica accumulatasi negli anni, e in particolare nell’ultimo quarto di secolo. Una narrazione che vuole al tempo stesso raccontare gli eventi e far parlare i protagonisti, suggerire nuove interpretazioni e individuare i problemi ancora aperti e gli aspetti più controversi, raccontare l’orizzonte ampio della guerra europea e le vicende singole e particolari di eventi che hanno riguardato un numero limitato di persone ma sono state il simbolo e il riassunto di una drammatica epopea collettiva.
È la guerra a creare le condizioni che permettono, sia pure non immediatamente, di rendere sempre più precario il potere di Mussolini e del fascismo. In un intervento profetico dell’ottobre 1943, Giaime Pintor – che morirà poco dopo, il 1° dicembre, dilaniato su una mina nell’attraversamento del fronte, per raggiungere Roma – scrisse:
La condotta rovinosa della nuova guerra diede il colpo definitivo a questo stato di cose, precipitando dalla parte dell’opposizione insieme a pochi fascisti delusi tutta la folla dei pigri e degli opportunisti. L’antifascismo dispose allora di una forza che non aveva mai posseduto prima; l’enorme maggioranza del popolo italiano, contrario al regime e alla guerra, si trovò schierata contro un’esigua minoranza di fascisti stretti senza più convinzione ai loro privilegi e alle loro prerogative.
Dopo aver fustigato senza attenuanti il comportamento di Badoglio e del re, ultimo segnale del fallimento completo di una classe dirigente, Pintor terminava il suo scritto con una forte affermazione:
Questa prova può essere il principio di un risorgimento soltanto se si ha il coraggio di accettarla come impulso a una rigenerazione totale; se ci si persuade che un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere salvato e riscattato soltanto da una vera rivoluzione.
I protagonisti della Resistenza, e gli storici dopo di loro, hanno discusso a lungo se essa potesse essere considerata un «Secondo Risorgimento» (come sostenevano molti ufficiali inglesi che ne furono a contatto diretto). Lo fu, probabilmente, nella combattività di una minoranza capace di una «scelta inequivocabile», come proprio nel 1943 chiamò quella ottocentesca Leone Ginzburg (arrestato il 20 novembre 1943 e morto il 5 febbraio 1944 in seguito alle torture subite) in uno scritto pubblicato nell’aprile 1945.
Se era possibile apparentare gli antifascisti di lunga data o di più recente conversione ai patrioti del Risorgimento, per i giovani e giovanissimi che scelsero la via della montagna si trattava in molti casi di una scelta casuale – come scrisse Italo Calvino nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, uno dei primi romanzi sulla Resistenza pubblicato nell’ottobre 1947, scritto per «lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata» – ma anche di una «volontà di resistere», come scrisse Antonio Giolitti nella sua autobiografia: «Resistenza sì, anche alla tentazione di scappare, di andarsi a nascondere, a rifugiare in qualche asilo […]. Due concomitanti resistenze. Non subire, non sottomettersi, non fuggire. Questa secondo me è stata la moralità collettiva, unificante della Resistenza, almeno per quanto riguarda la guerra partigiana».
Abbiamo voluto raccontare la molteplicità della Resistenza, il suo essere costituita da tante spinte diverse, azioni differenti, partecipazioni ineguali ed eterogenee, ma convergenti – pur con motivazioni ideali e pratiche, individuali e collettive, dissimili – verso un unico fine, quello di riacquistare la libertà, sconfiggere il nazismo, disfarsi dell’eredità fascista che aveva oscurato per vent’anni l’Italia. Abbiamo insistito, più di quanto un coerente equilibrio avrebbe suggerito, su alcuni aspetti che hanno fornito le occasioni più numerose a polemiche e contrapposizioni (il confine orientale, la violenza partigiana e tra partigiani, i rapporti tra Resistenza e Alleati), nella speranza di contribuire a una maggiore conoscenza di realtà e fenomeni estremamente complessi e contraddittori. Abbiamo limitato, non certo con l’intento di sottovalutarne il rilievo, le pagine dedicate ai partiti, condividendo, però, la convinzione che «era stata la guerra a rompere la cappa fascista, insieme agli errori e ai fallimenti di quella classe dirigente, ma la forza dei partiti di massa fu quella di preparare con la guerra di resistenza anche questa nuova classe dirigente. E di riuscire a farlo additando nel fascismo il nemico da sconfiggere e da sostituire con una nuova classe politica antifascista e democratica». L’errore più grande, nel valutare la “politica” nel triennio 1943-1946, sarebbe quello di farlo utilizzando i criteri utili ad analizzare gli anni della guerra fredda se non addirittura quelli della “crisi” dello Stato dei partiti dagli anni Ottanta in avanti. Uno degli antifascisti che s’interrogò maggiormente sul ruolo dei partiti, Vittorio Foa – sui «Quaderni dell’Italia libera», nel marzo 1944, scrisse un lungo articolo su I partiti e la nuova realtà italiana (La politica del CLN) –, avrebbe più tardi ricordato la contraddizione di voler «riformare il vecchio stato centralistico» e doverlo «intanto difendere per non cadere nel caos», sostenendo che la crisi della Resistenza era «cominciata assai prima della Liberazione, del 25 aprile 1945».
Nel ventennale della Liberazione Norberto Bobbio, in un discorso tenuto a Vercelli, ricordava come nel resto d’Europa era esistito un movimento patriottico di guerra allo straniero, mentre solo in Italia «la Resistenza fu insieme un movimento patriottico e antifascista, contro il nemico esterno e contro il nemico interno; ebbe il duplice significato di lotta di liberazione nazionale (contro i tedeschi) e politica (contro la dittatura fascista), per la conquista dell’indipendenza nazionale e della libertà politica e civile». Sulla stessa convinzione si mosse il lungo lavoro da storico che Claudio Pavone pubblicò nel 1991 – Una guerra civile. Saggio sulla moralità nella Resistenza – e che avrebbe segnato una data discriminante nella storia degli studi sulla Resistenza.
La nostra ispirazione, pur se aiutata dalla lunga serie di studi che da allora si sono mostrati capaci di apportare conoscenza e comprensione verso uno dei bienni più intensi della storia italiana ed europea, si muove in questa stessa direzione, inaugurata da due studiosi – uno filosofo della politica, l’altro storico – che appartenevano alla generazione, pur se con dieci anni di differenza tra loro, di chi alla Resistenza aveva partecipato direttamente. Il loro dialogo a distanza sulla Resistenza investiva anche, come ha ricordato David Bidussa, «l’immagine che ne ha la prima generazione di italiani postresistenziali (quelli che hanno vent’anni negli anni sessanta)» e che andava messa a confronto con «la memoria che ne hanno i protagonisti», proprio per accettare, «come sollecitazione a riflettere sul passato», quella «opposizione padri-figli alla fine degli anni sessanta» in cui i secondi erano «convinti che la Resistenza “celebrata” non coincida con l’evento storico».
Tra gli autori di questo libro c’è la stessa distanza di età che esisteva tra Bobbio e Pavone ma pensiamo, anche se con un’estensione cronologica dilatata, di appartenere, soprattutto per la memoria pubblica e il dibattito storiografico sulla Resistenza, a una stessa generazione: che ha vissuto gli slogan emotivi sulla “Resistenza tradita” ma ha cercato di contribuire, soprattutto con la professione di storico, a un orizzonte di conoscenza che potesse evitare di rimanere vittima di interpretazioni ideologiche che selezionavano, a proprio comodo, la realtà dei fatti. Dobbiamo riconoscere, tuttavia, che il nostro debito nello scrivere questo libro non va solo alla generazione dei nostri padri, di cui Bobbio e Pavone erano due straordinari esempi, ma anche a quelle più giovani che ci hanno seguito e che hanno costituito una spinta decisiva nel modernizzare, ampliare e approfondire gli studi sulla Resistenza.
Infine, un pensiero sui protagonisti di queste pagine. A differenza dei loro coetanei, ossessionati dal disvalore della morte eroica e tramutatisi in macchine da guerra di Mussolini e Hitler, hanno guardato verso un futuro libero da guerre e hanno operato conseguentemente:
Chi parla di soccombere eroicamente davanti a un’inevitabile sconfitta, fa un discorso in realtà molto poco eroico, perché non osa levare lo sguardo al futuro. Per chi è responsabile, la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene. Solo da questa domanda storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde, anche se provvisoriamente molto mortificanti. In una parola: è molto più facile affrontare una questione mantenendosi sul piano dei principi in un atteggiamento di concreta responsabilità.
Queste riflessioni, annotate nel 1942 in una prigione del Reich da un teologo destinato all’impiccagione, attestano la valenza liberatoria della lotta contro fascismo e nazismo, alla quale i resistenti italiani forniranno nel 1943-1945 un rilevante contributo, che ancora oggi vale la pena di conoscere e di considerare.
I.
La guerra fascista e i suoi avversari
La guerra aveva posto le premesse per la conquista del potere da parte del fascismo. La guerra prepara le condizioni per il suo tracollo e la sua sconfitta.
La situazione che si crea all’indomani della prima guerra mondiale – la grave crisi economica, i profondi e perduranti conflitti sociali, la volontà di partecipazione delle masse e l’incapacità del liberalismo di dare loro uno sbocco politico, il contesto di violenza diffusa che accompagna il mito della “vittoria mutilata” – costituisce il terreno su cui Mussolini riesce a prevalere sulle velleitarie ipotesi rivoluzionarie dei socialisti e a conquistare il potere con la complicità della monarchia, degli apparati statali, dei ceti imprenditoriali, e con il consenso crescente delle classi medie.
La partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale scatenata da Hitler nel settembre 1939 viene accolta con entusiasmo quando il duce dichiara guerra a Francia e Gran Bretagna il 10 giugno 1940, ma già alla fine dell’anno le sconfitte in Africa e nei Balcani iniziano a creare una frattura con l’opinione pubblica che diventerà più marcata ed esibita nei due anni successivi. Dal novembre 1942 fino al marzo 1943 – mesi caratterizzati da massicci bombardamenti alleati sulle città italiane, dalla scomparsa di generi alimentari e dalla diminuzione delle razioni di pane, dalle notizie su Stalingrado e sullo sbarco americano in Nord Africa, sulla sconfitta di El Alamein e sulla disfatta dell’Armata italiana in Russia (ARMIR), dagli scioperi operai a Milano e Torino – il consenso nei confronti del fascismo crolla rapidamente e verticalmente, anticipando le manifestazioni di gioia che accompagnano la caduta di Mussolini il 25 luglio per mano del Gran Consiglio fascista e del re.
In Europa, la Resistenza era iniziata a ridosso delle vittorie militari compiute dalla Wehrmacht e della conquista nazista del continente. Hugh Dalton, il ministro dell’Economia di guerra britannico – la Gran Bretagna era rimasta sola nel combattere contro la Germania hitleriana – messo da Churchill nel luglio 1940 alla guida del SOE (Special Operations Executive), il nuovo organismo civile incaricato di favorire la ribellione e la guerra sovversiva nei paesi occupati dal nazismo, riteneva che fosse possibile avere
dalla nostra parte non soltanto gli elementi antinazisti in Germania e Austria, non solo i cechi e i polacchi, ma anche l’insieme del mondo democratico e amante della libertà in Norvegia, Danimarca, Belgio, Francia, Olanda e Italia. Inoltre, in tutti questi paesi tranne l’Italia, si farà un appello nazionalista che si può collegare agli ideali di democrazia e libertà individuale. Sono convinto che le potenzialità di questa guerra dall’interno siano davvero enormi. Si tratta oggi di una delle nostre migliori armi offensive se solo riusciremo a imparare ad usarla e costituirà una parte assolutamente essenziale di ogni controffensiva di terra che noi dovremo alla fine intraprendere.
Il rapporto tra gli Alleati e la Resistenza – che fu un problema europeo ma particolarmente complesso in Italia, un paese che per tre anni era stato in guerra insieme alla Germania – ha dato luogo negli ultimi anni a ricerche e interpretazioni che hanno messo in discussione i luoghi comuni sull’appoggio parziale e discutibile che soprattutto la Gran Bretagna avrebbe dato al movimento partigiano italiano.
La guerra parallela vagheggiata da Mussolini, da impostare con propri obiettivi e strategie, «non per la Germania, né con la Germania ma a fianco della Germania», diviene in realtà una guerra subalterna: l’ultima del fascismo, dopo le aggressioni all’Etiopia del 3 ottobre 1935, alla repubblica spagnola nell’estate 1936 e all’Albania del 7 aprile 1939. Che si tratti di guerra fascista – col suo carattere ideologico di avversione per le democrazie, propagandato da stampa, radio e cinema – lo conferma la concentrazione dei poteri nelle mani del dittatore, titolare dei ministeri dell’Interno, della Guerra, della Marina e dell’Aeronautica. Mussolini si è pure attribuito il grado di Primo Maresciallo dell’Impero, ossia di ufficiale più alto in grado delle forze armate operanti.
L’antifascismo prebellico
Nel 1939 sono migliaia gli antifascisti in carcere o al confino, oppure – se liberi – strettamente controllati sotto minaccia di arresto alla minima infrazione. Vent’anni di persecuzione, ordinata dagli ispettorati regionali dell’OVRA, la polizia politica fascista, hanno distrutto le reti clandestine comuniste e gielliste, organizzate dai centri direttivi di Parigi con l’invio in patria di emissari sotto falso nome. Molti di loro vedono la sconfitta militare della Germania, dell’Italia e del Giappone (l’Asse Roma-Berlino-Tokyo) come un passaggio obbligato per il ritorno alla libertà. Questa visione antifascista globale si delinea nell’estate del 1936, come reazione al sostegno di Mussolini e Hitler alla ribellione militare franchista in Spagna. Volontari di cinquanta nazioni accorsero per entrare nelle Brigate internazionali, costituite da circa 40.000 combattenti, e tra di loro c’erano circa 3500 italiani, guidati dai repubblicani Mario Angeloni e Randolfo Pacciardi, dal giellista Carlo Rosselli, dall’anarchico Camillo Berneri, dai comunisti Luigi Longo e Palmiro Togliatti.
Tra i caduti vi è il professore triestino Piero Jacchia, cofondatore il 23 marzo 1919 dei Fasci italiani di combattimento e poi divenuto un avversario del regime. Angeloni, comandante della colonna italiana, è falciato da una mitragliatrice il 28 agosto 1936 mentre lancia una bomba a mano. Berneri viene sequestrato e ucciso a Barcellona nel maggio 1937 da agenti stalinisti, durante una delle fasi più acute delle divisioni intestine del fronte repubblicano. Gli italiani dell’esercito regio e della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (che formano il Corpo truppe volontarie, cui parteciparono quasi 80.000 camicie nere) vengono sconfitti nella battaglia di Guadalajara proprio dagli italiani delle Brigate internazionali. È la prefigurazione della guerra civile, circoscritta per il momento allo scenario della penisola iberica. A Radio Barcellona, il 13 novembre 1936 Carlo Rosselli lancia lo slogan Oggi in Spagna, domani in Italia. Carlo viene assassinato, insieme al fratello Nello, in Normandia il 9 giugno 1937 da cagoulards assoldati dai servizi segreti di Mussolini; la loro morte provoca la crisi di Giustizia e Libertà.
L’unità faticosamente raggiunta dall’emigrazione politica italiana viene messa in crisi dal patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939), preludio alla spartizione della Polonia tra nazisti e sovietici: le organizzazioni non comuniste respingono l’interpretazione proposta dal Komintern della guerra come scontro tra due imperialismi, egualmente nemici del proletariato, e i socialisti chiudono l’esperienza del patto di unità d’azione con il Partito comunista d’Italia (PCd’I).
Giustizia e Libertà, Partito repubblicano e Partito socialista costituiscono nell’autunno del 1939 il comitato promotore della Legione italiana, destinato – come nel 1914-1915 – a battersi contro i tedeschi in Francia e Belgio: in poco più di un mese si raccolgono 15.000 adesioni, ma il governo Daladier rifiuta di inserire reparti italiani nell’esercito, temendo ripercussioni sulla “non belligeranza”. I volontari sono così indirizzati alla Legione straniera, depoliticizzandone il reclutamento; a inizio giugno 1940, quando la situazione precipita, si liberalizzano gli arruolamenti e accorrono circa 7000 antifascisti, solidali con la Francia. Nell’aprile-giugno 1940, altre migliaia di esuli italiani si battono in Norvegia contro i tedeschi.
Tra gli antifascisti in esilio e gli oppositori del regime predomina lo sconforto. I dissidenti, al carcere e al confino, si sentono sempre più isolati. In Francia, dove è concentrato il grosso dell’emigrazione politica, socialisti e giellisti sono in piena crisi; i comunisti vengono arrestati in quanto considerati quinta colonna dell’Urss schierata con il Terzo Reich.
L’Italia in guerra e l’antifascismo
Dal 10 giugno 1940, quando Mussolini getta l’Italia in guerra contro Francia e Gran Bretagna, gli emigrati in quei paesi si ritrovano schedati e internati quali enemy aliens, ossia sudditi di nazione nemica. A Parigi, per reazione alla “pugnalata alle spalle”, assestata nel momento di massima difficoltà con i tedeschi in marcia verso Parigi, si scatena la caccia agli italiani: in un paio di mesi, se ne arrestano circa 2000. Eppure, molti di loro condannano l’avventura mussoliniana.
Il giellista Silvio Trentin considera Germania, Italia e Spagna come l’anti-Europa; prostrato dal crollo della Francia, rivive il naufragio della democrazia avvenuto nell’Italia del 1922 e si considera “un sopravvissuto”. Nonostante versi in pessime condizioni di salute, con problemi cardiaci, chiede l’arruolamento nell’esercito francese. L’anno successivo fonda a Tolosa il gruppo Libérer et Fédérer, aderente al movimento France Libre (costituitosi attorno al generale de Gaulle).
Il 22 giugno la Francia capitola e il maresciallo Pétain la subordina alla Germania. Dopo due giorni viene firmato l’armistizio con l’Italia. Agli esuli non rimane che passare in clandestinità e collegarsi alla nascente Resistenza francese, oppure riparare in Africa settentrionale o nelle Americhe. Il 5 ottobre, l’OVRA consegna alla polizia nazista lunghi elenchi di antifascisti da catturare e consegnare alla frontiera italo-francese. Nella seconda metà dell’anno, sono circa 40.000 i rimpatriati, volontari o forzati. I verbali degli interrogatori mostrano stati d’animo di cocente delusione: dopo anni di privazioni e lotte, ci si ritrova sconfitti, mentre l’Asse predomina e le masse plaudono al dittatore.
Eppure, nonostante tutto, molti partecipano alla “campagna di Francia” e poi passano nei maquis, convinti che contrastare la dominazione hitleriana in Europa significhi servire la causa della libertà italiana. Nel 1940, tuttavia, gli esiliati si ritrovano in piena crisi, con scarsi addentellati con la madrepatria. È questo, con tutta probabilità, il periodo più duro e ingrato dell’antifascismo. Gli stessi comunisti, meglio organizzati rispetto agli altri gruppi, devono dividersi e disperdersi per sfuggire alla repressione. La redazione della rivista teorica «Stato Operaio» si sposta a New York, con scarsi collegamenti con il nucleo allestito segretamente nella Francia di Vichy.
Il SOE e l’Italia
In Europa, ormai, il solo paese a resistere ai nazifascisti è il Regno Unito. Fin dal 1940 il governo Churchill cerca di dar vita, per quanto riguarda l’Italia, a un’“opposizione” indipendente e, su proposta di Hugh Dalton, acconsente nel gennaio 1941 alla creazione di un Comitato dell’Italia libera, affidato al cattolico Carlo Petrone, sconosciuto in patria e all’estero, giunto a Londra nel 1939, personaggio del tutto inadeguato, cui si contrappone nel luglio dello stesso anno un Movimento dell’Italia libera destinato ben presto anch’esso all’impotenza. L’illusione di Churchill di poter creare nella Cirenaica liberata nel gennaio 1941 dai britannici – che avevano catturato 100.000 soldati italiani – una «colonia dell’Italia libera» viene infranta dai successi di Rommel e dell’Afrikakorps che riconquistano la Cirenaica ai primi di aprile.
Si cerca, allora, di reclutare volontari tra i militari rinchiusi nei campi di prigionia in Africa settentrionale e in India; le adesioni si aggirano sul mezzo migliaio di unità, e si allestiscono due battaglioni di pionieri. Anche questa volta viene commesso un irrimediabile errore nella scelta del comandante, individuato nel generale Annibale Bergonzoli, già decorato con la medaglia d’oro nella guerra di Spagna (era comandante della 4a Divisione d’assalto “Littorio”), catturato il 7 febbraio 1941 in Africa settentrionale dopo il fallimento dell’offensiva italo-germanica in Egitto. Il generale Francis Davidson disapprova tale scelta perché Bergonzoli è «ritenuto dai bersaglieri un ciarlatano […] inadatto a diventare il capo di qualsiasi movimento dell’Italia Libera, essendo di temperamento esaltato e vagamente instabile. Ha probabilmente raggiunto il rango che ricopre sottomettendosi al Partito fascista». Il progetto, tuttavia, non prende corpo. Falliti i tentativi di costituire formazioni militari italiane da affiancare ai contingenti britannici, si ripiega su inserimenti individuali in reparti addestrati a colpi di mano e incursioni.
Per quanto riguarda l’Italia, l’attività del SOE si concentrò in gran parte sulla propaganda via radio, con le trasmissioni di Radio Italia (una costola di Radio Londra attiva fin dal 1935), inaugurata a metà novembre 1940. Le voci di Ruggero Orlando, di Umberto Calosso, di Paolo e Pietro Treves (figli dell’ex deputato socialista Claudio Treves) accennano alla presenza nel Regno Unito di esiliati politici, informano sull’attività della Resistenza sovietica, iugoslava e francese, ribadiscono – per esempio il 24 febbraio 1942, a opera del colonnello Stevens – che gli Alleati non prenderanno in considerazione l’Italia finché questa non avrà rovesciato la dittatura.
Il SOE si concentra sulla possibilità di una “guerra irregolare”, mediante incursioni dietro le linee da parte di piccole unità, con l’intento di distruggere infrastrutture civili e militari, e possibilmente collegarsi a nuclei di oppositori. Sono missioni della durata media di pochi mesi, prima dell’inevitabile cattura. Si spera, anche attraverso le operazioni speciali, di innescare ribellioni, ma è un obiettivo del tutto irrealistico per il contesto italiano, nonostante dall’agosto 1941 il Foreign Office studi possibili alternative politiche ai vertici del Regno d’Italia, per una fronda monarchico-militare o per la formazione di un governo in esilio. Un dirigente del SOE per l’Italia, il tenente colonnello Richard Hewitt, descrive una situazione deludente:
Fin dal 1940 la nostra politica mirava a proteggere e sostenere gli antifascisti in Italia e fuori. I primi contatti furono difficili: nel Paese gli elementi di opposizione comprendevano che il momento non era ancora giunto per affrontare rischi all’aperto; fuori del Paese gli antifascisti non erano ancora disposti a divenire volontariamente traditori formali della loro patria. L’opposizione in questo momento era in gran parte circoscritta entro teoria e propaganda e si limitava a sviluppare le cellule e le organizzazioni che un giorno sarebbero potute uscire all’aperto.
Il movimento maggiormente interessato alla collaborazione con gli Alleati è Giustizia e Libertà; chi più di tutti anela all’azione è Emilio Lussu, protagonista di una battagliera “diplomazia clandestina” e ideatore nella prima metà del 1942 di un piano insurrezionale che – coordinato con i progetti angloamericani di un fronte italiano – dovrebbe estendersi dalla Sardegna alla penisola. Egli si reca più volte in Corsica e riceve a Parigi emissari sardi, con i quali discute la fattibilità di un’iniziativa armata. Le trattative con gli inglesi si arenano dinanzi alle pregiudiziali di autonomia operativa e intangibilità dei confini italiani: «Faremmo un buco nell’acqua per la liberazione del nostro Paese se apparissimo venduti agl’inglesi. […] Il meno che possiamo chiedere è che all’Italia sia garantita l’integrità territoriale, metropolitana e coloniale, entro i limiti preesistenti all’avvento del fascismo».
L’opposizione inglese fa fallire anche il Congresso delle organizzazioni antifasciste delle due Americhe convocato a Montevideo il 14 agosto 1942 dalla Mazzini Society (fondata l’anno prima a New York su impulso di Gaetano Salvemini e presieduta da Max Ascoli), dove si annuncia la creazione di un organo politico diretto da Carlo Sforza e di una colonna militare che sotto il comando di Randolfo Pacciardi dovrà collaborare con gli Alleati. La pregiudiziale repubblicana non piace a Churchill, ma pesa anche lo scarso seguito che i promotori hanno presso la comunità italoamericana.
Traditori, o antesignani?
Naufragata l’intesa con le organizzazioni antifasciste, l’intelligence britannica ripiega sul coinvolgimento di singoli italiani nella guerra irregolare. Nel 1940-1943 sono decine i volontari arruolatisi nei servizi segreti angloamericani per missioni ad altissimo rischio, con l’obiettivo di costituire reti interne o per attuare sabotaggi. Sono forme di opposizione individuali alla guerra fascista, equiparate al tradimento e punite con la pena capitale. Chi prende in considerazione tale scelta è Leo Valiani, desideroso a fine 1941 di battersi «come soldato grigio e taciturno, nell’esercito sovietico o in un esercito alleato». Lascia il Messico per il Regno Unito, dove è addestrato dal SOE per l’invio ad Algeri, tappa intermedia della missione in Italia: «sapevano di mandarci allo sbaraglio; se fossimo stati arrestati, i fascisti ci avrebbero fucilati».
Tra i primi italiani inseriti nelle forze speciali del Regno Unito per missioni nella penisola, vi è il fiorentino Fortunato Picchi (Carmignano, 1896). Reduce della Grande Guerra, stabilitosi a Londra nel 1921, era divenuto vicedirettore di sala al Savoy Hotel. Schedato come antifascista all’entrata in guerra dell’Italia, Picchi viene internato sull’Isola di Man; trattato come un potenziale nemico, reagisce orgogliosamente, dichiarandosi disposto a combattere il fascismo al fianco delle forze armate britanniche. Nonostante sia quarantasettenne, il SOE gli assegna il nome di copertura di Pierre Dupont e lo include, con la mansione di traduttore, tra i 35 incursori di un commando del II Special Air Service.
È l’Operazione Colossus: partiti da Malta, gli incursori vengono paracadutati la notte del 10 febbraio 1941 sugli impervi territori dell’Avellinese. Viene fatto saltare il ponte-canale dell’Acquedotto pugliese, nei pressi di Calitri, per interrompere il rifornimento idrico alle città portuali di Bari, Brindisi e Taranto. Il SOE vuol far sentire alle popolazioni il peso della guerra, per acuire il malcontento contro Mussolini. Attuato il sabotaggio, gli incursori si dividono in tre gruppi e marciano verso la costa, dove li attende un sommergibile; individuati da alcuni cacciatori e segnalati ai carabinieri, si arrendono dopo una sparatoria, costata la vita a due persone. Dupont, imprigionato a Napoli con i suoi compagni, viene smascherato da agenti del controspionaggio e fucilato all’alba del 7 aprile in adempimento della sentenza del Tribunale speciale. Scrive alla madre: «Di morire non m’importa gran cosa, quel che mi dispiace è che io, che ho voluto sempre il bene del mio Paese, debba oggi esser considerato come un traditore».
Nel dopoguerra si accenderà una polemica giornalistica sulla figura dell’esule fiorentino e sarà il deputato inglese Ivor Thomas a criticare un articolo di Paolo Caccia Dominioni (già comandante del 31° Battaglione “Guastatori d’Africa” e poi esponente del Corpo lombardo volontari della libertà) apparso sul «Corriere d’informazione» il 16-17 aprile 1949 e intitolato Era un traditore oppure un eroe?. Thomas sosteneva infatti che «Picchi fu tra gli uomini più valorosi dell’età nostra. Amò la sua terra nativa e sacrificò la sua vita per contribuire a liberarla dalla tirannia fascista che la dominava. Credeva di esser fedele alla vera Italia nella sua stessa opposizione al regime fascista. M’inquieta vedere un Suo collaboratore bilanciare così equilibristicamente il problema se Picchi fosse un traditore o un eroe. Se Picchi fu un traditore, allora Mussolini fu un patriota». Quella di Fortunato Picchi fu una scelta estrema, presa in assoluta solitudine, dinanzi alla propria coscienza: «Fu un partigiano prima che in Italia esistessero i partigiani. Arrivò presto, forse troppo presto perché venisse riconosciuto il suo sacrificio (tanto che il governo della repubblica nata dalla Resistenza gli negò il riconoscimento postumo di combattente antifascista). Ebbe il destino degli idealisti solitari: una fossa comune, e l’oblio. Aveva fatto quello che riteneva giusto, senza chiedere il permesso a nessuno, senza porsi problemi troppo complicati».
La preparazione della campagna d’Italia
Nella prospettiva della campagna d’Italia gli Alleati inviano in Sicilia agenti segreti incaricati di raccogliere informazioni e predisporre reti d’appoggio al corpo di spedizione. Il compito, estremamente difficoltoso e a massimo rischio, è affidato a volontari reclutati tra disertori o prigionieri di guerra italiani di orientamento antifascista. Si tratta di incursioni suicide, che al più producono qualche messaggio cifrato prima dell’inevitabile cattura, determinata spesso da cittadini che segnalano ai carabinieri la presenza di estranei. Ogni missione – con base operativa a Malta – è costituita da un paio di elementi, uno dei quali specializzato nelle trasmissioni radiofoniche e l’altro con compiti operativi; quest’ultimo è originario della zona prescelta.
La spedizione che sbarca la notte del 14 ottobre 1942 sul litorale di Acireale si compone del trentaseienne catanese Emilio Zappalà e del trentunenne padovano Antonio Gallo, incaricati di raccogliere notizie sulle strutture militari nelle province di Catania e Messina: difesa costiera, aeroporti, sistemi di vigilanza, dislocazione dei reparti tedeschi ecc. Dopo una notte di marcia i due raggiungono Santa Venerina, paese natale di Zappalà, dal quale egli era partito quindici anni prima per la Libia, dove con alterne fortune aveva svolto attività commerciali, aderendo poi al movimento Libera Italia e impegnandosi nelle reti informative francesi e inglesi. Gallo, mobilitato per la campagna d’Abissinia, era rimasto in Etiopia sino al ritiro italiano, nel 1941, quando si era offerto all’Intelligence Service per missioni nel Regno: addestrato come sabotatore e marconista, deve trasmettere le notizie raccolte dal compagno. Ricostruirà così l’epilogo della missione:
Giunti finalmente alla periferia di Santa Venerina essendo già giorno fatto, lo Zappalà ad una donna che veniva dal paese disse che eravamo dei contrabbandieri e parlando in dialetto siciliano chiese se conoscesse qualcuno presso il quale potessimo lasciare in quei paraggi per poche ore le nostre valigie. La donna gli indicò un casolare poco distante dove essa era diretta e lo Zappalà la seguì, entrandovi mentre io aspettavo con le valigie al margine della strada. Essendo stata respinta l’ospitalità da lui chiesta, mi disse che sarebbe andato lui solo in paese per rivedere dei parenti e che sarebbe tornato dopo una mezz’ora. Prima di allontanarsi nascose le due bombe a mano in una buca presso di me. Rimasi nel posto da lui indicatomi ed attesi per circa mezz’ora che egli tornasse. Tornò in fatti e mi invitò a seguirlo in direzione del paese senza dirmi altro. Sennonché dopo pochi passi ci vennero incontro il maresciallo dei carabinieri con tre carabinieri ed un borghese e ci fermarono, traendoci poi in arresto.
I due prigionieri sono interrogati personalmente dal colonnello dei carabinieri Candeloro De Leo, l’ufficiale più valido del Servizio informazioni militare (SIM), che redige un resoconto con cui il Tribunale speciale motiva le due condanne a morte, eseguite il 28 novembre 1942 con il rituale della fucilazione alla schiena (il colonnello De Leo, fervente mussoliniano, comanderà i servizi segreti della RSI).
A volte i patrioti che intendono contribuire alla sconfitta militare dell’Italia per affrettare il ritorno alla democrazia cadono vittime dell’azione del controspionaggio fascista. Tra quanti aderiscono inconsapevolmente a cordate clandestine le cui fila sono tirate dal Centro controspionaggio dei carabinieri vi è la maestra trentina Clara Marchetto (nata nel 1911 a Pieve Tesino): residente in Liguria, nella primavera copia su fogli lucidi documentazione sulla corazzata Littorio e su altre navi da battaglia, per poi affidarli a una persona che dovrebbe portarli oltre confine. In realtà i carabinieri controllano l’intera organizzazione e a metà maggio 1940 ne arrestano i 15 componenti (alcuni dei quali doppiogiochisti). Il capocordata Aurelio Cocozza e il marinaio Francesco Ghezzi vengono fucilati il 22 dicembre 1940, mentre a Clara Marchetto e a suo marito Giusto Gubitta, disegnatore dei Cantieri Ansaldo, si infligge l’ergastolo. Scarcerata a Perugia nel maggio 1944 per ordine del Comando alleato, Clara Marchetto è tra i fondatori del Partito popolare trentino-tirolese, che rappresenta nel 1948 in Consiglio regionale. Fa richiesta di revisione della sentenza del Tribunale speciale ma viene accusata di tradimento dal democristiano Flaminio Piccoli: il 2 febbraio 1949 è ricondotta nel carcere di Perugia per scontare il resto della pena, in quanto «illegalmente liberata» dagli Alleati; dichiarata decaduta dal mandato elettorale, a fine anno è rilasciata, in libertà provvisoria, in attesa di un nuovo processo, che la condannerà in contumacia a 15 anni per rivelazione di segreti di Stato e complotto politico. Per non perdere nuovamente la libertà, Clara Marchetto si stabilisce dapprima in Austria, quindi in Tunisia e infine a Parigi, dove morirà settantunenne il 17 settembre 1982.
A tradire una combattente per la libertà, “partigiana” prima che nascessero i partigiani, è questa volta lo Stato repubblicano nato dalla Resistenza, incapace di promuovere una forte discontinuità (di leggi, di sentenze ma anche di valori) tra il fascismo e la democrazia. L’idea che la “patria” non vada mai tradita, nemmeno quando si lotta per ridarle una libertà conculcata, sembra una sconfessione del sacrificio che i martiri del Risorgimento patirono da parte dei tribunali austroungarici (da cui vennero condannati nella maggior parte dei casi proprio per tradimento): una contraddizione profonda proprio negli anni in cui si iniziava a parlare della Resistenza come Secondo Risorgimento, ma in un paese in cui la cultura nazionalista era ancora profondamente radicata.
La prima Resistenza nella penisola
Il 18 novembre 1940, al Gran Rapporto ai gerarchi provinciali del PNF, Mussolini aveva annunciato: «Con certezza assoluta, ripeto assoluta, vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia!», mentre le truppe italiane stavano già indietreggiando di fronte alla controffensiva ellenica che costerà, due settimane dopo, le dimissioni del generale Badoglio. Nel giro di qualche mese, nell’aprile 1941, l’esercito di Mussolini torna nei Balcani al seguito della Wehrmacht che ha deciso di invadere la Iugoslavia. Partite da Zara, le truppe italiane raggiungono a metà mese Sebenico e Spalato, Ragusa e Mostar. L’armistizio firmato in fretta il 17 aprile dal generale Danilo Kalafatovi porta alla divisione del regno iugoslavo tra la Germania (in misura preponderante), l’Italia, l’Ungheria e lo Stato della Croazia, satellite tedesco sotto la guida di Ante Paveli.
Una parte della Slovenia diventa così l’italiana provincia di Lubiana, mentre si amplia la provincia di Fiume e si crea il governatorato della Dalmazia. Già nel 1940 erano stati smantellati dall’OVRA diversi gruppi di antifascisti sloveni, sia comunisti sia nazionalisti e rivoluzionari. I brutali interrogatori, nei quali si distinse il commissario Gennaro Perla, condussero a centinaia di arresti: vennero denunciati in 73 al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, poi ridotti di una decina, inizialmente divisi tra comunisti e irredentisti ma poi riuniti tutti come terroristi. Due di loro – Ivan Marija ok e Danilo Zelen – riescono a fuggire anche se quest’ultimo viene ucciso il 13 maggio 1941 dai carabinieri vicino a Ribnica, nel primo scontro armato avvenuto nella nuova provincia di Lubiana tra forze italiane di occupazione e antifascisti sloveni.
Il 2 dicembre 1941 inizia al Palazzo di giustizia di Trieste il processo a 60 imputati, arrestati quasi tutti in seguito a delazioni di loro ex compagni di lotta, sottoposti a estenuanti torture. A presiedere il Tribunale speciale è il generale Antonino Tringali Casanuova, che sarà successivamente ministro di Grazia e Giustizia della RSI e morirà per cause naturali ricoprendo quella carica. Gli imputati sono divisi in tre gruppi: comunisti, intellettuali e terroristi, sono tutti italiani anche se uno non è nato in Venezia Giulia, e tra loro vi è una sola donna, Marija Urbani. Il 14 dicembre vengono pronunciate nove condanne a morte di cui quattro – contro gli “intellettuali”, che lo stesso Alto commissario civile della provincia di Lubiana chiede di salvare per opportunità politica – commutate in ergastolo. L’indomani, al poligono di Opicina, ha luogo l’esecuzione dei “terroristi” Pino Tommasi (Toma�i), Vittorio Bobek, Giovanni Ivancich (Ivani), Giovanni Vadnal, Simone Kos. Dalle carte del processo – ha scritto Marta Verginella – emerge «come la sottrazione dei diritti nazionali, la decapitazione del ceto medio sloveno con la sua esclusione dalle istituzioni statali e dall’amministrazione locale e il suo allontanamento dalla sfera pubblica abbiano prodotto nei superstiti il bisogno di una risposta forte e coerente all’ideologia dello Stato-nazione. Di fronte allo Stato italiano e alla sua politica di assimilazione e snazionalizzazione la rappresentanza politica slovena, non soltanto nella sua composizione liberal-nazionale, ma anche in quella cattolica e comunista, individuava nella comune azione di tutte le forze politiche slovene una scelta di sopravvivenza».
Il 24 ottobre 1942 il Tribunale speciale per la difesa dello Stato aveva decretato la condanna a morte per Antonio Grzina e i suoi collaboratori Vincenzo Hrvatin, Giuseppe Roi, Francesco Vci e Giuseppe Zefrin, immediatamente eseguita a Trieste. Il “Gruppo Grzina”, composto da una decina di contadini e artigiani coordinati da un meccanico fiumano, annotava ubicazioni e caratteristiche di aeroporti, caserme e infrastrutture belliche, ma la sua attività era stata stroncata il 10 ottobre 1941 da una raffica di arresti.
Tra i casi più significativi di opposizione all’oppressione fascista, identificata con la dominazione italiana, vi è il tragico destino dei fratelli Amauri ed Egone Zaccaria (nati a Fiume nel 1913 e nel 1917), appartenenti a una famiglia di sinistra: la madre Maria Soucek a inizio 1941 viene internata nel campo di prigionia di Montefusco, mentre il padre Alessandro, organizzatore partigiano, sarà catturato nell’ottobre 1942 da poliziotti triestini, imprigionato nel Lager di San Sabba e fucilato dai tedeschi il 22 giugno 1944. Arruolati in un “battaglione allogeni”, costituito con reclute considerate infide, disertano e si recano avventurosamente al Cairo, per offrirsi all’Intelligence Service quali volontari per missioni in Italia. Dopo un sommario addestramento, la notte del 9 ottobre 1942 un sommergibile li sbarca al largo della costa campana, nei pressi di Licola, muniti di cifrari, radio ricetrasmittente e una grossa somma di denaro.
Avvistati dalla guardia costiera, sono catturati nel giro di poche ore. Dopo un mese vengono condannati «alla pena di morte con degradazione mediante fucilazione alla schiena». Sentenza eseguita il 10 novembre nella capitale, nel poligono di Forte Bravetta, da un plotone d’esecuzione di camicie nere. Vengono sepolti al cimitero del Verano, nel “riquadro dei traditori”, con false indicazioni nominative.
L’opposizione al regime spinge alcuni irredentisti slavi a raccogliere informazioni per lo spionaggio iugoslavo. Qui entra in gioco un fattore decisivo e innovativo rispetto alle adesioni individuali ai servizi segreti del Regno Unito: la dimensione collettiva, legata a un progetto politico condiviso.
Il 26 aprile 1941, intanto, era sorto l’Osvobodilna Fronta (Fronte di liberazione del popolo sloveno, OF), cui aderiscono tutte le forze che intendono combattere l’occupazione italiana, e che vede una progressiva egemonia del Partito comunista sloveno. La Resistenza cresce man mano che la violenza dell’occupazione fascista si manifesta con tutta la sua ferocia: uccisioni, arresti, massacri di civili, incendi di villaggi, migliaia di prigionieri. Il 1° marzo 1942 il generale Roatta, dopo aver assunto il comando della 2a Armata da cui dipendevano le unita dislocate nei territori ex iugoslavi annessi nella primavera del 1941 e in quelli appartenenti al nuovo regno di Croazia, emana la famigerata circolare n. 3 C, in cui sottolinea che tutti gli abitanti dei territori occupati devono essere ritenuti nemici, che si deve evitare di fare prigionieri, che non devono essere risparmiati i sospetti di favoreggiamento e le loro case. È in quel periodo che entrano in funzione i campi di concentramento di Gonars (costruito nell’autunno precedente nella prospettiva di mettervi i prigionieri russi), operativo dalla primavera, e di Arbe, creato in luglio, dove migliaia di arrestati conoscono condizioni di vita terribili, violenze continue e una forte mortalità.
Ai partigiani sloveni si aggiungono presto anche numerosi antifascisti italiani, delle province di Trieste e Udine. Uno di loro è Vincenzo Marcon, arrestato nel 1937 e inviato poi al confino alle Isole Tremiti, nel carcere di Lucera, sull’Isola di Ponza, nel carcere di Cerchiara in provincia di Cosenza, a Corigliano Calabro e infine a Castrovillari, dove gli viene concessa la libertà provvisoria il 22 dicembre 1941. Nell’aprile 1942 Marcon è a Trieste e insieme a Giovanni Zol si dedica a riorganizzare il Partito comunista e ad avviare una collaborazione con i partigiani sloveni. Con il nome di battaglia di Davilla partecipa a incontri nel maggio e luglio 1942 per collegare le iniziative di lotta tra italiani e sloveni, e reperire e costruire armi. Ondina Peteani, considerata la “prima” staffetta partigiana, così lo ricorderà:
Nella primavera del 1942, al ritorno dal confino, Davilla si mise in contatto con Vinicio Fontanot, abitante in quel periodo a Ronchi. A quei tempi io pure abitavo a Ronchi e avevo continui rapporti con la resistenza. Portavo di frequente materiale propagandistico a Trieste. In uno di questi passaggi incontrai Davilla ed ebbi subito un’impressione molto positiva di lui; essendo io appena diciottenne, Davilla mi pareva, ed ebbi più tardi conferma, un organizzatore indiscusso con una personalità molto forte. Era assai radicato nel suo lavoro politico. Con Vinicio Fontanot e altri compagni del cantiere di Monfalcone andava d’accordo sulle varie decisioni politiche e di lavoro in genere.
A fine dicembre 1942 sono attivi a Trieste una trentina di Comitati rionali sloveni e italiani impegnati nel sostegno alle formazioni combattenti, come risultato degli accordi raggiunti da Drago Maruši, Giuseppe Udovi, Agostino Trobec (in rappresentanza del partito sloveno e dell’OF) e Davilla, Rinaldo Rinaldi, Cesare Gorian (organizzatori della Federazione triestina del PCd’I).
Mentre numerosi comunisti italiani scelgono nel corso del 1942 in modo spesso spontaneo e individuale di aderire alla Resistenza slovena, l’attività dei partigiani sulle alture del Collio e nella Slavia veneta (Beneija) spinge la Federazione comunista di Udine, nell’estate del 1942, a riflettere sull’opportunità di una partecipazione alla lotta armata. La prima richiesta alla direzione del PCd’I viene fatta da Mario Lizzero (Lima), con la proposta di costituire un movimento armato, pronto a partecipare alla lotta assieme ai partigiani iugoslavi, definiti alleati. Il primo incontro tra Lizzero e Mirko Braii, comandante del Briško Beneški Odred (BBO) ha luogo a fine ottobre 1942. «In concomitanza o in conseguenza di questi incontri si verificò un sensibile afflusso di italiani e sloveni nelle formazioni partigiane, tanto che Lizzero si incontrò ancora con gli sloveni all’inizio del 1943, chiedendo che fosse facilitata la riunione in un unico reparto di tutti quei partigiani italiani che erano presenti nelle formazioni slovene: ciò avrebbe permesso di far affluire altri combattenti italiani».
Dal sabotaggio alla Resistenza
Come per tutti gli antifascisti in esilio, in prigione o al confino prima del conflitto, con lo scoppio della guerra chiunque collabori alla sconfitta dell’esercito fascista e per mettere in crisi il governo di Mussolini viene considerato un traditore della patria. «La figura del traditore, in un’epoca contrassegnata dalla guerra, tende a sovrapporsi e a coincidere con quella della spia, anche perché gli apparati di intelligence si sviluppano […] evidenziando una frattura fra lealtà alla nazione e allo stato e fedeltà verso i propri valori e i propri principi». Dallo scoppio della guerra e fino al settembre 1943, l’assenza di referenti nel territorio del Regno rende estremamente rischiose le missioni e, tranne un paio di eccezioni, i loro protagonisti vengono rapidamente individuati e neutralizzati. Traditori o precursori? Nel secondo dopoguerra un velo di silenzio avvolge gli italiani condannati – e in diversi casi fucilati – per spionaggio, ignorando il retroterra politico di scelte esistenziali arrischiate.
La continuità dell’azione antifascista dal 1940 al 1945, in sinergia con il SOE, attraverso le differenti fasi politico-militari della seconda guerra mondiale, è ben rappresentata da Giacomino Sarfatti e da Max Salvadori.
Dopo le leggi antiebraiche Giacomino Sarfatti (Firenze, 1920-Siena, 1985) emigra in Inghilterra e si iscrive alla facoltà di Agraria dell’Università di Reading. All’entrata italiana in guerra viene internato in quanto “straniero nemico” e nel novembre 1940 si arruola come volontario nelle forze armate britanniche. Addestrato nel SOE come operatore radio, è considerato un idealista, dotato di coraggio e autocontrollo, sebbene con qualche inibizione morale: «Come ebreo, è antifascista e non ha nulla in contrario ad attaccare qualsiasi bersaglio militare o fascista, ma ha grandi remore sulla possibilità di provocare la morte di altri italiani». Munito di falsi documenti, opera dapprima a Malta; nel dicembre 1942 entra in Italia dalla Svizzera, per stabilirsi a Milano e trasmettere notizie a John McCaffery, che da Berna dirige i servizi segreti inglesi. Prima della missione, Sarfatti redige il testamento e lascia oggetti personali da consegnare in caso di morte alla famiglia, che a Firenze ne ignora l’affiliazione militare. McCaffery ha affidato l’agente a Eligio Klein, un triestino che in realtà è assoldato dai servizi segreti italiani: per questo motivo Sarfatti sarà controllato passo passo e lasciato operare per l’interesse del SIM a conoscere codici e comunicazioni del SOE. Ritorna brevemente in Svizzera nell’ottobre 1943 per poi riprendere servizio in Italia settentrionale, stavolta a diretto contatto con i partigiani delle Fiamme Verdi operanti nelle valli bresciane. Ha potuto evitare l’arresto e la fucilazione, in realtà, soltanto perché lo si era ritenuto di maggiore utilità in libertà, nell’orbita del doppiogiochista Klein.
Cresciuto a Firenze, Max Salvadori (Londra, 1908-Northampton, 1982) completa gli studi in Svizzera, a causa dei frequenti scontri con squadristi che perseguitano anche suo padre, docente di filosofia morale. Rimpatriato nel 1929, conduce un’esistenza semiclandestina per organizzare il movimento Giustizia e Libertà. Arrestato nel 1932, torna libero dopo un anno grazie a un “rinsavimento” politico simulato, espatria e riprende l’agitazione antifascista. Nel 1938 svolge missioni antinaziste nel Mare del Nord, per conto dei servizi segreti inglesi; dopo aver vanamente proposto al SOE di essere inviato in Italia, recluta in Messico esuli antifascisti disposti a tornare in Europa per battersi nella guerra segreta contro l’Asse. Il 19 gennaio 1943 è accolto nell’esercito britannico, per fungere da elemento di punta nell’imminente campagna d’Italia. Il 25 luglio 1943 sbarca in Sicilia con una missione aggregata alla 7a Armata, effettua una puntata dietro le linee italo-tedesche, agevola l’arruolamento di antifascisti che si batteranno nella guerra di liberazione (tra gli altri: Alberto Cianca, Aldo Garosci, Leo Valiani, Alberto Tarchiani e Giaime Pintor). Partecipa agli sbarchi di Salerno e di Anzio, e svolgerà un ruolo decisivo nel rapporto tra Alleati e Resistenza.
Probabilmente, Max Salvadori è – nel periodo precedente all’armistizio dell’8 settembre 1943 – il solo membro italiano del SOE a non essere individuato, controllato o catturato dal SIM. Ciò è dipeso soprattutto dalla brevità del suo lavoro sul territorio del Regno e dalla decisione dei suoi superiori di non “bruciarlo” in missioni impossibili, come invece accade agli altri antifascisti tornati clandestinamente nella penisola per il desiderio di contribuire alla lotta contro la dittatura di Mussolini.
Testimonianza su Fortunato Picchi
Fu aggregato alla nostra unità nel Regno Unito alla vigilia della partenza per l’Operazione Colossus.
Effettuò i lanci previsti, sia di giorno che di notte, col minimo della preparazione, il che, tenuto conto della sua età, non fu cosa da poco.
Quando vennero impartite le istruzioni per l’Op., mostrò il massimo interesse, e si mostrò senz’altro pronto ad andare ovunque ed a fare qualunque cosa gli si richiedesse. Mezz’ora prima di lasciare la Base avanzata, i soldati coinvolti, incluso Picchi, seppero che l’obiettivo era in realtà in Italia e non, come si pensava, nelle colonie italiane in Africa. Picchi non mostrò apprensione nell’apprenderlo, il che non ci sorprese, perché durante la nostra breve conoscenza eravamo rimasti molto colpiti dalla sua sincera determinazione nel fare ogni sforzo necessario a rovesciare il fascismo.
Durante lo svolgimento dell’Op. in territorio italiano, agì con freddezza e abilità quando fronteggiò vari tipi di italiani, e tutti gli ordini impartitigli – sia che riguardassero il suo compito di traduttore sia che riguardassero l’azione – furono da lui eseguiti meticolosamente. Dopo che l’unità ebbe raggiunto il suo obiettivo, e mentre stava recandosi all’appuntamento prefissato, Picchi mi avvicinò e chiese di essere lasciato indietro, perché non poteva tenere il passo con gli altri e temeva così di mettere a repentaglio le loro possibilità di salvezza. Sapeva perfettamente quale sarebbe stato il suo destino se i fascisti l’avessero catturato. Comunque si decise che egli restasse con noi, e dimostrò rinnovato vigore quando seppe che la sua richiesta, pur essendo stata debitamente accettata, non era stata accolta.
Mantenne poi il morale sempre altissimo nel corso dei noti eventi che portarono alla nostra cattura e, quando lo vedemmo per l’ultima volta a Napoli, prima che subisse da parte degli ufficiali fascisti un interrogatorio simile a quello degli altri membri dell’unità, non mostrò segni di apprensione per le possibilità di sopravvivenza.
Secondo noi era un uomo estremamente coraggioso, animato da un gran bisogno di contribuire alla caduta del fascismo. Questo spirito bastò ad indurlo a tornare in Italia in un modo tanto rischioso, pur sapendo perfettamente cosa avrebbe significato per lui non riuscire a rientrare dalla missione.
Ten. col. Trevor Pritchard, 24 ottobre 1946
Documento presso The National Archives, Kew (London)
II.
Dal complotto monarchico alla fuga del re
(25 luglio-9 settembre 1943)
La seduta del Gran Consiglio del 24-25 luglio 1943, e il conseguente arresto del duce, sostituito alla guida del governo dal generale Pietro Badoglio, testimoniano la debolezza del regime fascista dopo tre anni di guerra. Lo stesso Mussolini, del resto, «narrando l’incontro con Hitler a Feltre del 19 luglio, attribuiva esplicitamente la crisi del regime alle disfatte militari subite dall’Italia». Ed era ormai rassegnato, «fin dal colloquio col re, a considerare la sua destituzione da capo del governo come la fine del regime fascista».
Dalla crisi militare alla crisi politica
Il 1943 segna effettivamente una svolta decisiva nel conflitto: l’esercito tedesco è ormai sulla difensiva, la sua avanzata all’apparenza senza ostacoli è terminata. La radicalizzazione della guerra iniziata con l’aggressione all’Unione Sovietica (le deportazioni, lo sfruttamento economico dei civili oltre che dei prigionieri, l’annientamento degli ebrei) apre la fase della “guerra totale”, che prosegue inesorabilmente anche quando l’iniziativa è passata agli eserciti alleati. La battaglia di Kursk cominciata ai primi di luglio – il più grande scontro di mezzi corazzati mai avvenuto – e terminata dopo dieci giorni con la vittoria sovietica, accentua la nuova direzione del conflitto, già chiara con la vittoria britannica a El Alamein (ottobre-novembre 1942) e la sconfitta tedesca a Stalingrado (fine gennaio 1943).
L’Italia, considerata tra il 1941 e il 1942 dagli Alleati un mero satellite della Germania, da punire e ridimensionare, è oggetto di particolare attenzione alla conferenza di Casablanca del gennaio 1943, dove Roosevelt e Churchill, alla presenza dei generali francesi de Gaulle e Giraud, pianificano la “campagna d’Italia” e sperano di poter infliggere una resa senza condizioni alle potenze fasciste entro l’anno. Al disastro militare in Russia, con il dramma della ritirata, si accompagna l’intensificazione dei bombardamenti sulla penisola, soprattutto nel Meridione, preludio allo sbarco in Sicilia che le forze britanniche e statunitensi, sotto il comando unificato del generale Dwight Eisenhower, hanno messo a punto con l’Operazione Husky, programmata – in una riunione di inizio maggio ad Algeri – per il 10 luglio.
La campagna di Russia – mistificata nel dopoguerra come un’operazione umanitaria, quando invece fu una tipica invasione – si conclude con una “catastrofe”, come ricorderanno tutti i sopravvissuti. Le lettere scritte dai soldati alle famiglie non contengono alcuna «eco significativa dei presupposti ideologici della spedizione e della retorica bellicista di Mussolini», ma trasudano un familismo quasi infantile, e non sono del tutto immuni dalla propaganda fascista ma neppure coerentemente aderenti al regime. Le prime, in ordine di tempo, sono improntate all’ottimismo e a una certa spavalderia nei confronti del nemico: «Presto caro Papà anche la bella Stalingrado fa la morte del sorcio, se sapesti e vedesti quanti bombardieri ci volano sopra scaricando quintali di esplosivo che fanno tremare tutto il suolo russo, oh sì anche per Stalin è fatta non è tanto lontano il giorno che marceremo su Mosca». Quelle successive sprigionano nostalgia e pessimismo.
Sulla ritirata di Russia disponiamo di testimonianze letterarie che sono diventate ormai dei classici. Mario Rigoni Stern, sergente degli alpini mandato a combattere con il Battaglione “Vestone” della Divisione “Tridentina”, ricorda la battaglia di Nikolaevka del 26 gennaio 1943, mentre è in corso la ritirata, con i russi trincerati tra le case del paese. Entrato in un’isba affamato, vi trova soldati dell’Armata Rossa e una donna che gli dà da mangiare: «In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini». Nuto Revelli, ufficiale della “Tridentina” lui pure coinvolto nella battaglia di Nikolaevka, nella prefazione a La strada del davai, volume in cui ha raccolto le testimonianze di molti reduci, ricorda che essi «ignoravano tutto del fascismo. Nei tempi facili non appartenevano alla “gioventù del littorio”: vivevano liberi, lontano dai grandi fatti nazionali. Non avevano nemmeno la camicia nera; a malapena conoscevano poche frasi fatte, i miracoli di Mussolini e basta».
All’inizio del marzo 1943 l’Armir ha perduto il 97% dell’artiglieria, l’80% dei quadrupedi e il 70% degli automezzi, su 230.000 uomini sono caduti o dispersi in 85.000, 27.000 sono stati feriti o congelati, 70.000 fatti prigionieri, e di questi quasi un quarto morirà prima di giungere nei campi di prigionia e la metà nel corso della detenzione in Urss. Il giudizio di Revelli riassume un sentimento diffuso, non solo tra i sopravvissuti di quella tragica esperienza: «La colpa peggiore del fascismo non è di aver tradito la generazione del littorio, di aver tradito noi che abbiamo gridato “viva la guerra, viva il duce”. È di aver tradito questi poveri cristi, a cui la guerra è caduta sulle spalle come una epidemia».
Dall’inizio del 1942 si scatenano bombardamenti a vasto raggio sulle principali città italiane, per provocarne il “collasso morale” secondo l’obiettivo dello strategic bombing: in ottobre furono colpite Genova e Milano, in dicembre Napoli e Torino, mentre il 19 luglio 1943 sarà la volta di Roma, un evento destinato ad accelerare la crisi del regime e dei suoi rapporti con la monarchia. Accanto ai massicci bombardamenti è la situazione alimentare a modificare progressivamente e profondamente l’opinione pubblica, preda adesso di sconforto, paura, delusione e rabbia, sentimenti che accompagnano la caduta verticale del mito del duce.
Che effetto hanno i bombardamenti sulla popolazione? La scelta di compiere bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile, e non solo su impianti militari o obiettivi strategici, sembra produrre soprattutto depressione e paura, rassegnazione e fatalità, anziché spinta alla ribellione come era nelle intenzioni dei comandi alleati.
Le tessere alimentari si sono ormai ridotte a fornire 920 calorie, il livello più basso tra le potenze in guerra: una decina di milioni di italiani è costretta a vivere con una dieta “inferiore al minimo fisiologico”, come documentato da uno dei maggiori statistici, incaricato dal ministero dell’Agricoltura e foreste di uno studio sul problema del razionamento e dei prezzi.
Gli scioperi iniziati nel marzo 1943 alla Fiat costituiscono la prima manifestazione pubblica eclatante di frattura tra regime e popolo: «il primo atto di resistenza di massa di un popolo assoggettato a un regime fascista autoctono». Le autorità fasciste, spaventate dalla compattezza della mobilitazione e sconcertate dalla partecipazione di operai vicini al regime, non possono soffocare la protesta né reprimerla con violenza. Nella memoria successiva, e anche nelle prime ricostruzioni storiche, agli scioperi del marzo 1943 è stato attribuito un significato politico rilevante, giudicandoli con l’ottica dell’anno successivo o per enfatizzare la presenza e il ruolo dei quadri comunisti e alimentare il mito di una Resistenza operaia che si imporrà nei primi anni della guerra fredda.
In realtà (come lo stesso dirigente del PCd’I Umberto Massola rileverà nel 1973), il 5 marzo succede ben poco e il vero sciopero inizierà la settimana seguente. Come ben raccontato da Tim Mason, gli scioperi iniziati l’8 marzo alla Fiat si estendono rapidamente a tutto il Piemonte e in aprile coinvolgono numerose aziende di Milano e di varie città della Lombardia. Essi segnano una grave caduta nel consenso al regime già indebolito dalla guerra, ma tra le cause di questa non si può dimenticare l’impatto profondo dei bombardamenti, che avevano spinto a cercar riparo fuori Torino decine di migliaia di persone e tra loro molti operai, cui era stata concessa a febbraio un’indennità pari a 192 ore di lavoro proprio per questo motivo, e che con lo sciopero si intendeva estendere a tutti, non solo ai lavoratori evacuati. «Gli scioperi alla Fiat non furono la prima protesta contro il dominio fascista a Torino. Piuttosto, gli scioperanti riguadagnarono la fiducia nell’agire a causa di una rottura nello stato fascista e perché furono sostenuti da un movimento molto più diffuso di disordini popolari che si svolse dal novembre 1942. Prima di diventare politiche, le proteste erano “esistenziali”: in risposta a un regime che chiedeva sacrifici per vincere la guerra, i lavoratori cominciarono invece a sostenere che era necessario abbandonare del tutto la guerra».
L’occupazione della Sicilia e la “guerra totale”
È soprattutto nelle regioni vicine alla linea del fuoco, sottoposte a una crescente militarizzazione e a una forte presenza tedesca, che la crisi di consenso al regime si fa più evidente. La Sicilia ne è l’esempio più chiaro: l’attesa dell’arrivo angloamericano – e l’accoglienza delle truppe che il 10 luglio 1943 sbarcano tra Gela e Licata (quelle americane) e tra Pozzallo e Avola (quelle inglesi) – suscita speranze ed entusiasmo. La Sicilia, cioè la «parte più arretrata del Paese si è trovata a dover sostenere l’urto della guerra, dapprima come retrovia del fronte mediterraneo nella guerra “parallela”, poi come zona di guerra con l’intensificarsi della militarizzazione del territorio, delle privazioni, delle distruzioni dovute ai bombardamenti aerei, e infine con l’invasione». L’accoglienza largamente favorevole riservata agli “invasori” alleati si spiega con elementi prevalentemente sentimentali: l’angoscia della guerra, il terrore dei bombardamenti e delle violenze (nel gennaio 1943 erano sfollate da Palermo oltre 60.000 persone), la speranza che l’arrivo angloamericano ponesse fine a quella tragica realtà. I 150.000 uomini sbarcati in Sicilia furono una forza inferiore solo a quella che di lì a poco avrebbe invaso la Normandia.
All’indomani dello sbarco i fascisti attribuiscono la sconfitta alla dissoluzione dell’esercito, imputata ai militari. In realtà i soldati italiani «combatterono certamente meglio e di più di quanto ricordato», anche se questo «non vuol dire che non si registrarono sbandamenti gravissimi. L’episodio della resa della fortezza di Augusta-Siracusa, che tanto sconcertò l’opinione pubblica, al pari dell’elevato numero di prigionieri, specie siciliani, sta lì a ricordarci che vi fu un drastico mutamento di atteggiamento dei soldati italiani». Sulla base di un entusiasmo reale si è costruita successivamente una narrazione tesa a diminuire e ridimensionare il consenso degli italiani per il regime fascista, ma le ricerche più recenti hanno riproposto anche una posizione critica presente nei giorni successivi all’invasione. Non solo quella di fascisti convinti, o di persone danneggiate nelle distruzioni prive di scopi militari, ma di una popolazione che vede con timore la presenza di soldati di colore e racconta – paura o realtà è difficile dirlo, ma gli eventi successivi non possono escludere alcuna ipotesi – di violenze nei confronti delle donne rimaste sole dopo la partenza dei loro uomini per la guerra: «questi racconti ci confermano che l’immagine della “liberazione festosa” non è riuscita a cancellare del tutto le memorie meno concilianti con gli Alleati, che ora riemergono prepotentemente».
Insistere sul quadro della “guerra totale”, che ha preso piede anche per gli italiani nel 1943, permette di cogliere le fasi di passaggio, a volte molto rapide, tra una resistenza “istintiva” scaturita in quel contesto e le forme meno spontanee e più organizzate di una consapevolezza antitedesca e antifascista che crescerà nel tempo. L’attenzione recente per le stragi commesse in Sicilia dall’esercito americano contro soldati prigionieri o civili – quelle presso gli aeroporti di Biscari e Comiso o quella di Gela, quelle di Acate e Piano Stella – permette un confronto con le stragi tedesche che avvennero soprattutto nella prima metà di agosto nella zona etnea, nel momento dell’abbandono della Sicilia da parte dei tedeschi. Le prime portarono anche a condanne dei responsabili e alla critica dell’operato del generale George S. Patton, «propugnatore di una linea dura, in contrasto con le raccomandazioni dello stesso Roosevelt di adottare atteggiamenti amichevoli verso la popolazione», e contribuiscono a «definire meglio la politica da adottare nei confronti della popolazione italiana (oltre che a tentare di contenere comportamenti simili)»; le seconde – rimaste generalmente impunite, per ragioni legate alla guerra fredda – ci mostrano i primi segnali, in Italia, di una dinamica già sperimentata altrove e che porterà lutti e tragedie crescenti dal 1943 al 1945 in tutta la penisola.
Sullo sbarco in Sicilia ha pesato a lungo il mito della “liberazione mafiosa” dell’isola, oggetto di presunti accordi tra autorità americane e mafia siciliana negli Stati Uniti; un mito duro a morire, anche perché rilanciato da libri, articoli di giornale, film e addirittura da una relazione della Commissione antimafia del 1993. Eppure, la ricerca storica ha dimostrato l’inesistenza di un «progetto di collaborazione tra mafia e autorità militari statunitensi per agevolare lo sbarco in Sicilia grazie ad un’opera di spionaggio effettuato da mafiosi siculo-americani».
L’entusiasmo che accompagna la caduta e l’arresto di Mussolini in molte città italiane, soprattutto di chi si sente pienamente ostile al regime – «la gioia grande per aver potuto finalmente passare da una posizione teorica a una posizione pratica» –, è accompagnato da una maggiore prudenza in chi auspicava che la caduta del fascismo non avvenisse per congiura interna. Gaetano Salvemini già nel febbraio 1942, in una lettera a Max Ascoli, era giunto «alla conclusione, dopo molto dispiacere, che esiste un accordo preciso tra il Ministero degli esteri britannico e lo State Department sull’idea che l’Italia debba essere ceduta a fascisti moderati controllati dal Duca d’Aosta, da Papa Pio XII, da Grandi, Badoglio e altri simili mascalzoni».
La caduta di Mussolini non è il risultato di un piano alleato, e infatti Gran Bretagna e Stati Uniti ne sono colti di sorpresa, tanto che nell’incontro di Québec della seconda metà di agosto Churchill e Roosevelt assumono «l’impegno di un trattamento comprensivo verso il popolo italiano», pur senza sconfessare la richiesta di resa incondizionata. Anche se si era trattato di un fatto tutto interno al regime e al suo rapporto con la monarchia, l’antifascismo italiano vorrebbe approfittare della situazione per legittimare ed estendere la propria presenza politica, pur con una cautela maggiore di quello che le manifestazioni popolari di giubilo potevano far intendere. Da crisi militare ed economica, il 25 luglio trasforma l’emergenza – in atto ormai da diversi mesi – in irreversibile crisi politica, in cui prende presto il sopravvento la violenza nei confronti della popolazione.
In agosto, infatti, riprendono con forza i bombardamenti alleati, che ispirano a Salvatore Quasimodo – in riferimento ai raid aerei tra l’8 e il 16 su Milano – una poesia indimenticabile:
Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.
Già il 26 luglio il capo di Stato Maggiore dell’esercito, generale Mario Roatta, dirama una circolare in cui ammonisce che «qualunque perturbamento dell’ordine pubblico anche minimo, et di qualsiasi tinta, costituisce tradimento» e pertanto ordina di sparare ad altezza d’uomo contro i manifestanti, senza preavviso: «siano assolutamente abbandonati i sistemi antidiluviani quali i cordoni gli squilli, le intimazioni e la persuasione. […] Contro gruppi di individui che perturbino ordine aut non si attengano prescrizioni autorità militare, si proceda in formazione di combattimento et si apra fuoco a distanza, anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche. Non è ammesso il tiro in aria; si tira sempre a colpire come in combattimento». Roatta, insieme a Badoglio, di cui è braccio destro, impersona il continuismo del potere: assunta nel 1934 la guida del Servizio informazioni militare, due anni dopo comanda i legionari fascisti nella campagna di Spagna, nel 1939 diviene addetto militare a Berlino e nel 1942 comanda l’esercito italiano nella provincia di Lubiana e poi guida la 2a Armata in Croazia, con il pugno di ferro contro partigiani e civili: «Non occhio per occhio e dente per dente! Piuttosto, una testa per ogni dente!».
In tre giorni le indicazioni di Roatta provocano diverse decine di vittime, quasi trecento feriti e oltre mille arresti. A Bari e a Reggio Emilia avvengono gli episodi più sanguinosi. Nel capoluogo pugliese l’esercito spara su pacifici dimostranti che, sotto le finestre della Federazione del Fascio, chiedono la rimozione dei simboli del regime: i feriti sono 60 e i morti 23 (incluso il figlio sedicenne del meridionalista Tommaso Fiore, detenuto per antifascismo nel carcere cittadino). A Reggio Emilia gli operai delle Reggiane, scesi in strada per chiedere la pace, sono mitragliati dai bersaglieri in servizio di ordine pubblico e da guardie giurate della fabbrica: i morti sono nove e decine i feriti. Manifestanti cadono anche a La Spezia, Volterra, Sesto Fiorentino, e rimangono feriti in moltissimi altri luoghi. Nelle stesse ore il generale Quirino Armellini, comandante della Milizia fascista inserita da Badoglio nell’esercito regio, deplora in un’altra circolare le manifestazioni “inconsulte” della “plebaglia”: «alcuni dei temi che saranno propri della propaganda della Repubblica sociale sono anticipati in questa circolare, mescolati ad altri che troveranno ospitalità nella stampa monarchica e reazionaria del sud» (Armellini diverrà elemento di spicco del fronte militare clandestino romano d’ispirazione badogliana).
L’armistizio e il crollo delle istituzioni
Le vicende che portano all’armistizio dell’8 settembre 1943 sono state ampiamente ricostruite e interpretate: Elena Aga Rossi ha parlato di «inganno reciproco» nelle trattative tra gli Alleati e il re e Badoglio, mentre Gabriele Ranzato ha intitolato «Il disonore e l’onore» il paragrafo in cui ne riassume le vicende. La posizione italiana è caratterizzata da titubanze, contraddizioni e comportamenti diversificati da parte dei principali responsabili, nell’assoluta incertezza su come trattare i tedeschi. La ridicola pretesa di Badoglio di porre condizioni agli Alleati (su luogo e tempo dello sbarco a Salerno, nonché sul numero delle divisioni) viene ovviamente respinta e il 3 settembre il generale Giuseppe Castellano e il generale Walter Bedell Smith firmano l’armistizio “corto”, mentre le clausole più draconiane di quello “lungo”, consegnato in quell’occasione, sono sottoscritte il 29 settembre da Badoglio e dal generale Eisenhower. Gli Alleati non rivelano i loro piani operativi, convinti «della poca serietà dei loro interlocutori e della scarsa o nulla volontà dell’Italia badogliana di affrontare i tedeschi».
Badoglio vorrebbe, al mattino dell’8 settembre, rinviare l’«accettazione dell’armistizio», ma alle 18,30 esso è annunciato dal Comando alleato e alle 19,45 Badoglio legge il comunicato radio che, ripetutamente trasmesso, è ascoltato con gioia e preoccupazione in tutta Italia. Alle 5 del mattino successivo il re, Badoglio, i generali Ambrosio e Roatta e diversi ministri e membri dello Stato Maggiore lasciano la capitale per l’Abruzzo e poi si imbarcano a Ortona su una corvetta che l’indomani approderà a Brindisi, sotto protezione alleata.
Le reazioni alla notizia dell’armistizio sono contraddittorie e spesso contrastanti, ma accomunate dalla consapevolezza che si è aperta una fase nuova, e nulla può più essere come prima. Confusione e sbandamento tra i soldati sono testimoniati da una straordinaria pagina di Beppe Fenoglio, con un animato dibattito attorno a un lacerante interrogativo: «Farsi ammazzare per chi?» (trascrizione al termine di questo capitolo).
Atteso e temuto, esso è accolto festosamente da soldati e cittadini come fine della guerra, ma anche con rabbia, umiliazione e paura per essere stati abbandonati da ogni autorità e dover fare da soli nel momento del “tutti a casa”. È questo secondo sentimento a prevalere, anche perché la rapidità con cui i tedeschi occupano e controllano il territorio spinge a scelte drammatiche e impreviste, che comportano – spesso per la prima volta – una presa di consapevolezza individuale.
Che cosa è successo, in sintesi, l’8 settembre 1943? Davvero si può ipotizzare che quel giorno sia avvenuta la “morte della patria”, espressione coniata dal giurista Salvatore Satta, che è sembrata a qualcuno l’espressione «più adatta per definire la profondità, la ricchezza d’implicazioni, in una parola la qualità tutta particolare che ha avuto in Italia la crisi dell’idea di nazione in conseguenza della guerra mondiale»? Quella data segna senza dubbio «la profondità del baratro in cui la nazione era precipitata», un baratro che era il risultato del fallimento del fascismo, della sua criminale alleanza con Hitler e dell’illusione di vincere la guerra, dell’opportunismo della monarchia e dei comandi militari, della loro vigliaccheria e incapacità di accettare la mano tesa degli Alleati con la proposta di armistizio, del loro rifiuto di incamminare il paese sulla strada della democrazia. Ma un baratro, anche, da cui nel giro di poche settimane il paese – o almeno una parte importante di esso – si risolleva, con la Resistenza.
Non si può dimenticare, comunque, quanto risulti difficile, soprattutto per gli alti ufficiali che hanno fatto carriera nell’esercito fascista, comprendere il ribaltamento di alleanza sancito dall’armistizio e comportarsi conseguentemente. C’è infatti chi mantiene – o addirittura intensifica – le pratiche autoritarie del passato, come mostra l’eccidio di Acquappesa, in provincia di Cosenza, avvenuto proprio l’8 settembre. Gli Alleati, sbarcati a Reggio Calabria, stanno risalendo la penisola quando, il 5 settembre, una ventina di soldati del 76° Battaglione di Fanteria costiera, di stanza ad Acquappesa, abbandonano la caserma per raggiungere le famiglie. Sono, in certo modo, sbandati in anticipo. Cinque di loro, tutti di Gioia Tauro, vengono arrestati il giorno dopo da una pattuglia italiana. Il colonnello Ambrogi propone al suo superiore, il generale Luigi Chatrian, comandante della 227a Divisione, di fucilarli senza processo per diserzione, e lo trova concorde sull’esecuzione capitale. Poi, grazie all’intercessione del cappellano, il provvedimento viene rinviato, finché un assembramento minaccioso di folla circonda la caserma ed esige la liberazione dei condannati. Alle ore 15 dell’8 settembre Chatrian rinnova l’ordine di fucilazione «entro 24 ore», e Ambrogi fa individuare il luogo adatto e preparare le bare. A fine pomeriggio, la radio del reggimento trasmette il messaggio di Badoglio sull’armistizio. «L’esultanza dei militari è enorme: soldati ed ufficiali urlano e saltano per la gioia, si abbracciano felici; i cittadini di Acquappesa scendono in strada e il parroco del paese fa suonare le campane a distesa. Tutti pensano che la fucilazione dei cinque commilitoni verrà definitivamente sospesa». L’ordine, invece, sarà eseguito dopo la mezzanotte, raggelando gli entusiasmi per quella che, nella regione, sembra davvero la fine della guerra. Il generale Chatrian diventerà sottosegretario alla Guerra (e poi alla Difesa) nei governi Bonomi, Parri e De Gasperi, venendo eletto all’Assemblea Costituente per la Democrazia cristiana. «La nascita del Regno del Sud preparata dalla fuga dei governanti, ha come viatico la fucilazione di cinque soldati-contadini».
Per molti antifascisti, militari ed ebrei la Svizzera rappresenta una possibilità di salvezza e una terra d’asilo. Quando a metà settembre Mussolini preannunzia da Radio Monaco la formazione di un governo collaborazionista, oltre 10.000 soldati e ufficiali varcano il confine italo-elvetico; nella metà dei casi, vengono respinti. Si presentano in divisa, con armi ed equipaggiamento personale.
A fine mese, giungono in Svizzera 22.000 militari e circa 4000 civili (1300 dei quali ebrei). In ottobre, giungono altri 3000 profughi. Gli immigrati vengono internati e godono di una relativa libertà. Tra di essi figurano l’economista Luigi Einaudi, il docente universitario Amintore Fanfani, il giornalista Indro Montanelli.
È un luogo comune, confortato da numerosi avvenimenti, ritenere che la Resistenza sia nata con l’8 settembre, quando anche l’Italia si trovò, sia pure in modo contraddittorio e controverso, occupata dalle truppe naziste, come era accaduto all’intera Europa nei tre anni precedenti, quando il nostro esercito aveva affiancato le truppe del Reich nel mettere il continente a ferro e fuoco. Rispetto alle altre nazioni, in Italia la Resistenza inizia più tardi e abbraccia gli ideali di libertà e democrazia con una spinta dal basso, dopo che per tre anni dall’alto i militari italiani avevano impedito, anche con violenza e ferocia inaudita, quella libertà nelle terre di Francia, di Grecia, di Iugoslavia, per non parlare del Nord Africa dove il fascismo costruì l’effimero impero che Vittorio Emanuele III – fuggitosene precipitosamente da Roma a Brindisi all’alba del 9 settembre – si era fino a quel momento intestato.
Anche se episodi di lotta e resistenza contro l’occupazione tedesca e italiana si erano già avuti, come si è visto, soprattutto sul confine orientale (nel Friuli Venezia Giulia e nella provincia di Lubiana), è dopo l’8 settembre che si moltiplicano e si diffondono comportamenti che assumono nel loro insieme un senso compiuto di Resistenza all’occupante tedesco e, successivamente, anche al nuovo regime collaborazionista – la Repubblica sociale italiana – creato al Nord da Mussolini dopo essere stato liberato dai tedeschi il 12 settembre.
È ormai largamente condivisa la convinzione che la Resistenza non fu solamente la lotta armata delle formazioni partigiane in montagna o dei nuclei guerriglieri nelle città, che ne costituirono la parte più evidente e combattiva, ma anche le molteplici “resistenze” che contribuirono alla vittoriosa avanzata alleata e al successo e all’estensione del movimento partigiano: quella dei militari combattenti, degli internati militari e politici, degli ebrei oggetto della persecuzione razziale, degli ex prigionieri alleati rimasti a combattere per la liberazione dell’Italia, di donne e famiglie più o meno attivamente impegnate nelle campagne e nelle città a ostacolare gli obiettivi dell’esercito occupante e delle milizie e istituzioni fasciste. Un’esperienza collettiva in cui una minoranza coinvolse, con consapevolezze diverse, strati sempre più ampi della popolazione abbandonata l’8 settembre dai governanti e dai vertici militari allo sbandamento e al disorientamento. L’ambiguità della formulazione usata da Badoglio nel radiomessaggio di annuncio dell’armistizio – «Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane. Esse, però, reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza» – e la mancanza di ordini chiari consentono a ogni comando militare territoriale di decidere come agire.
I giorni attorno all’armistizio, e soprattutto quelli successivi, favoriscono la crescita e la diffusione di valori nuovi, simili a quelli rivendicati dai resistenti della Francia e della Grecia, oppure della Iugoslavia: che fino ad allora l’esercito del fascismo aveva indicato come banditi e sovversivi e che la circolare n. 3 C emanata nel marzo 1942 dal generale Roatta imponeva di distruggere ed estirpare.
Resistere o collaborare: l’occupazione tedesca
Nella maggioranza dei casi i comandanti decidono di cedere le armi ai tedeschi, vuoi per convinzione e per un frainteso senso dell’onore, vuoi per evitare uno scontro ritenuto già perso in partenza, ma soprattutto perché incapaci di assumersi qualsiasi responsabilità di fronte al silenzio e all’abbandono in cui erano stati lasciati dal re e da Badoglio. Già nelle prime ore di questa situazione si poteva intravedere in nuce la guerra civile che sarà innescata dalla formazione della Repubblica sociale italiana. A Torino, per esempio, il generale Enrico Adami Rossi rifiuta di incontrare gli esponenti dei partiti antifascisti e di distribuire armi alla popolazione per difendersi dai tedeschi, con cui sta già trattando la resa e con i quali continuerà a combattere nei ranghi della RSI. La mancanza di collaborazione, in questo caso, prefigura la collocazione in campi avversi dell’ufficiale collaborazionista e degli antifascisti (tra di essi Franco Antonicelli e Aurelio Peccei) che lo avevano sfidato a scegliere la democrazia. A Milano, il generale Vittorio Ruggero dialoga con gli antifascisti promotori della Guardia nazionale (Gasparotto, Li Causi, Grilli e Pizzoni) e tergiversa fino al 10 settembre, quando si accorda con i tedeschi e l’indomani scioglie la Guardia nazionale (viene peraltro internato in Polonia).
Grazie all’indecisione e alla codardia della monarchia e dei comandi militari – in molte realtà il numero dei soldati italiani era preponderante rispetto ai tedeschi – gli ufficiali superiori rifiutano di armare il popolo e permettono che l’esercito si decomponga e si sciolga in quarantott’ore. A morire non è la patria, ma le istituzioni che formalmente la rappresentano e che sono sempre più lontane ed estranee al paese reale, alla patria che cerca di svegliarsi e ricostituirsi. Anche se sono in minoranza, infatti, non manca chi intende portare alle estreme conseguenze quello che avrebbe dovuto essere per tutti – compresi il re e Badoglio – il senso dell’armistizio: combattere a fianco degli Alleati e accelerare la sconfitta della Germania.
È quanto accade a Roma dopo la precipitosa fuga di Vittorio Emanuele III, di Badoglio e dei generali Ambrosio e Roatta, disonorevole «perché essi avevano deciso, come risultava già dal testo letto da Badoglio alla radio, di rinunciare a qualsiasi organica operazione militare contro i tedeschi e di abbandonare a se stesse tutte le unità». Quella che dovrebbe essere una resa senza condizioni alle forze alleate, diviene in realtà una disfatta nei rapporti con l’ex alleato. Se per i soldati il “tutti a casa” significa ricercare, individualmente o in gruppo, il modo di sopravvivere e la responsabilità di porsi nella nuova condizione di occupati, ufficiali e sottufficiali in diversi casi guidano le proprie unità a resistere alla reazione tedesca.
A Roma le divisioni italiane – la motorizzata “Piave”, le corazzate “Ariete” e “Centauro”, quelle di fanteria “Piacenza” e “Granatieri di Sardegna” – hanno una superiorità numerica imponente ma i generali Roatta e Carboni decidono di non difendere la capitale, spingendo di fatto per una trattativa e per accogliere l’ultimatum tedesco, malgrado alcuni reparti abbiano già iniziato a difendersi dall’attacco germanico tra l’8 sera e il 9 mattina. «Roma, sebbene potesse contare per la sua difesa su un esercito con un numero di effettivi doppio – o quasi triplo secondo alcune fonti – rispetto a quello tedesco, certamente molto meglio armato, fu abbandonata al nemico senza che questo fosse costretto ad affrontare alcun combattimento contro forze veramente capaci di contrastarlo».
Reparti dei “Granatieri” e del reggimento dei “Lancieri di Montebello”, della “Sassari” e dei Carabinieri combattono con gruppi di civili attorno a Porta San Paolo e alla Piramide. «Sparano», ricorda Paolo Monelli, «questa gente nostra che nessuno ha pensato a inquadrare e a dirigere, con armi raccattate dai soldati in fuga, o distribuite da qualche sperduto gruppo di partiti; sparano da dietro gli alberi, stesi a terra, al riparo dei carri abbandonati, con una luce di febbre negli occhi, con manovre elementari e istintive».
Anche se ancora disorganizzato, caoticamente spontaneo, questo è l’inizio della Resistenza. E una delle sue prime vittime ne è, a suo modo, un simbolo. Insegnante di storia dell’arte, poi ufficiale dei granatieri, ferito e congedato, nel 1942 il ventisettenne Raffaele Persichetti aderisce al Partito d’Azione e all’annunzio dell’armistizio decide di agire. Il 10 settembre anima la Resistenza a Porta San Paolo; così lo ha ricordato Ruggero Zangrandi: «Giunse, con un gruppo di civili armati, all’altezza della Piramide di Caio Cestio (sarà stato mezzogiorno) e qui incontrò il comandante del suo reggimento, colonnello Mario Di Pierro, che dirigeva i combattimenti. Tolse a un soldato morto le giberne e le armi e così, vestito come un garibaldino o un brigante, prese il comando di un plotone di granatieri». Ferito a una spalla, continua a sparare contro i tedeschi, finché viene colpito a morte nel primo pomeriggio.
Si sentono patrioti gli ufficiali e soldati che cercano in situazioni spesso impossibili di contrastare l’occupazione tedesca e il disarmo delle truppe italiane, malgrado la mancanza di indicazioni chiare in tal senso. Ha scritto Zangrandi: «È strano: la storia d’Italia tra l’8 settembre ’43 e l’inizio della Resistenza organizzata, è ricca di fatti d’arme, rivolte popolari, casi minori, e non per questo meno eroici, di reazione alla prepotenza tedesca; tutti spontanei e quasi tutti poco noti». A Nepi (Viterbo) un carro armato ferma una colonna tedesca e provoca 40 vittime; a Valenza (Alessandria) artiglieri italiani impediscono ai tedeschi – che arrestano a decine – di passare il Po; a Barletta ha luogo una battaglia di ore, con la colonna motorizzata tedesca respinta; il porto di Bari viene difeso dalle truppe del generale Nicola Bellomo, che impediscono ai tedeschi di impadronirsene e lo consegnano intatto all’esercito alleato; a Luino (Varese) un tenente colonnello dei bersaglieri raccoglie attorno a sé quasi mille uomini: «Quando i tedeschi decisero di sbarazzarsi di quel nucleo di resistenza, impiegarono aerei, pezzi di artiglieria, lanciafiamme combattendo tre giorni. Ebbero 240 morti e un migliaio di feriti. Gli italiani persero 145 uomini, di cui 63 ancora sconosciuti; gli altri o furono catturati o riuscirono a raggiungere la Svizzera attraverso Ponte Tresa». Uno scontro ha luogo a Terracina, un combattimento all’Isola della Maddalena, un conflitto a fuoco davanti alla prefettura di Reggio Emilia anche se il comandante del presidio aveva consegnato le truppe in caserma, mentre il presidio di Piacenza, guidato dal generale Rosario Assanti, combatte per ore e si arrende solo per la minaccia di bombardamento della città e per le notizie che giungevano dal comando di piazza di Milano sull’intesa tra il generale Ruggero e i tedeschi.
È tutto il Meridione, e non solo la Sicilia, a essere coinvolto in ripetute ribellioni di civili e rappresaglie tedesche all’indomani dell’8 settembre, che segnalano come la vicinanza del fronte e il suo permanere costituiscano inevitabili premesse nella costruzione di azioni di resistenza. Qui, più che altrove, è vero che «la Resistenza non la organizza l’antifascismo: vi partecipa, la orienta e ne assume la direzione politica, ma lungo il percorso». Il rifiuto dell’occupazione e l’indisponibilità a collaborare con l’occupante costituiscono il contesto in cui hanno luogo gli eventi più disparati di quel terribile settembre. Anche qui vi sono occupazioni di terre che anticipano quelle degli anni seguenti, e che individuano un’unica battaglia: contro i tedeschi, i fascisti e i proprietari.
Ancor prima dell’armistizio vi sono episodi di resistenza vera e propria, come quello di Mascalucia, alle pendici dell’Etna, dove il 3 agosto 1943 il paese insorge contro le ruberie e angherie dei tedeschi, con l’aiuto di soldati italiani: un evento giudicato «l’unico episodio di resistenza armata di massa verificatosi in Italia prima dell’8 settembre» e che si imprime nella memoria cittadina come “le quattro ore di Mascalucia”.
Con l’armistizio avvengono episodi analoghi nel resto d’Italia. In Sardegna, per esempio, mentre alla Maddalena tra il 9 e il 13 settembre vi sono scontri tra militari tedeschi e italiani, che subiscono le perdite maggiori, e nelle acque al nord dell’isola il 9 viene affondata dalla Luftwaffe la corazzata Roma, provocando la morte di 1352 militari, il 10 vi è il tentativo del colonnello Alberto Bechi Luserna (già comandante del 187° Reggimento della Divisione “Folgore” a El Alamein e ora alla testa della Divisione paracadutisti “Nembo”) di bloccare due compagnie che hanno deciso di passare ai tedeschi, e che per questo viene ucciso a Macomer da un paracadutista insieme a uno dei due carabinieri della sua scorta.
Dopo l’8 settembre per le popolazioni della Sicilia e del Mezzogiorno si fa più confusa la percezione di quale sia l’esercito amico e quale quello nemico, della propria posizione nella tenaglia degli eserciti occupanti, con bombardamenti da una parte e dall’altra, che rendono improbabile la fine imminente della violenza. Molto presto ha luogo un’aggregazione di militari sbandati che avviene in forme spontanee o attorno a nuclei di ufficiali o di combattenti antifascisti – alcuni reduci della guerra di Spagna – i quali hanno deciso di entrare in azione. L’11 settembre a Rionero in Vulture (Potenza), patria di Giustino Fortunato, soldati tedeschi appoggiati dai fascisti locali occupano il paese e sparano il 16 contro la folla accorsa presso i magazzini viveri della 7a Armata, che i tedeschi sembravano intenzionati a distruggere prima della ritirata, uccidendo e ferendo numerose persone. Il 21 è la volta di Matera che si ribella e insorge contro il saccheggio e le violenze commesse dalle truppe germaniche: si tratta di una rivolta che «ebbe la configurazione di un moto spontaneo […]. Ma non va dimenticato che in città, e un po’ in tutta la regione, era rimasta memoria delle violenze dello squadrismo fascista».
A Moschito, un piccolo centro in provincia di Potenza, il protagonismo popolare porta alla deposizione del podestà fascista e all’instaurazione di una repubblica, che per tre settimane, dal 15 settembre al 5 ottobre, cercherà di promuovere misure democratiche – dalla equa tassazione alla distribuzione dei viveri – finché le nuove autorità badogliane non arresteranno gli organizzatori (in seguito tutti assolti).
Al confine opposto dell’Italia, in provincia di Cuneo, negli stessi giorni ha luogo quella che sarà spesso ricordata come la prima strage nazista dopo l’8 settembre (anche se violenze di tipo stragista c’erano già state soprattutto nel Mezzogiorno): quella di Boves. Sui monti che sovrastano la piccola cittadina si è formata una banda, guidata da un ex sottotenente della Guardia di frontiera, Ignazio Vian. Il 16 settembre il maggiore Joachim Peiper, al comando di un battaglione della Panzer Division Leibstandarte delle SS (la stessa che aveva occupato Milano), minaccia rappresaglie contro chiunque aiuti i militari italiani fuggiaschi. Il 19 due tedeschi vengono casualmente intercettati e catturati a Boves e in un successivo scontro a fuoco muoiono un partigiano e un milite tedesco. Peiper, giunto con il grosso del reparto, pretende che gli vengano riconsegnati i prigionieri, pena la distruzione del paese. Il parroco don Giuseppe Bernardi e l’ingegnere Antonio Vassallo, dopo l’impegno da parte del maggiore a non procedere a rappresaglie, negoziano con i partigiani la consegna del prigioniero e del corpo del tedesco morto. «Ottenuto il rilascio, le SS iniziano l’azione di rappresaglia: mentre i carri armati aprono il fuoco verso la collina contro le presunte basi dei resistenti, il paese viene dato alle fiamme e raffiche di mitra sparate a caso colpiscono gli abitanti. In poche ore vengono massacrati ventitré civili, tra cui gli stessi mediatori».
Le azioni con cui soldati italiani e civili resistono all’occupazione tedesca attorno all’8 settembre avvengono in ogni parte d’Italia, in forme largamente spontanee anche quando sono organizzate da ufficiali o da antifascisti di vecchia data tornati da poco in libertà. La maggior parte dei protagonisti di quelle giornate agisce d’impulso, anche se in molti casi consapevolmente e in modo calcolato. La Resistenza sta per nascere, per molti aspetti si può dire che sia già sorta, benché al momento nessuno sappia bene che cosa potrà essere e diventare. Probabilmente non lo sa nemmeno il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), che si costituisce il 9 settembre sulle ceneri del Comitato delle opposizioni creato a Roma all’indomani del crollo del regime fascista e che chiama gli italiani «alla lotta e alla resistenza». Presieduto anch’esso da Ivanoe Bonomi, è costituito da rappresentanti del Partito democratico del lavoro (Meuccio Ruini), del Partito liberale (Alessandro Casati), della Democrazia cristiana (Alcide De Gasperi), del Partito d’Azione (Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea), del Partito socialista (Pietro Nenni e Giuseppe Romita), del Partito comunista (Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola).
Farsi ammazzare per chi?
Gridò: – Venti tedeschi hanno fatto arrendere una caserma con dentro tremila di noi! – Era un meridionale tarchiato e irsuto, una canottiera smagliata sui calzoni d’accatto e scarpe lampantemente militari.
– E gli ufficiali?
Esplosero tutti insieme: – Chiamali ufficiali. Non mi si parli mai più di ufficiali. Scapparono i primi, i bellimbusti, avevano il vestito borghese bello pronto e stirato nelle pensioni. […]
– Il comando non ci ha avvisati dell’armistizio, si sono completamente dimenticati di noi.
– Vedi lì i signori ufficiali. E che aspettate a mollar tutto e puntare a casa vostra?
– Ma ai tedeschi non potevate proprio resistere? Questo non comprendiamo. Se erano venti, hai detto?
– Farsi ammazzare per chi? Per il Re, o per il Principe o per Badoglio? Dovunque stiano, meglio di noi poveri cristi stanno. E poi, nemmeno l’ordine hanno saputo darci. D’ordini ne è arrivato un fottìo, ma uno diverso dall’altro, o contrario. Resistere ai tedeschi – non sparate sui tedeschi – non lasciarsi disarmare dai tedeschi – uccidete i tedeschi – auto disarmarsi – non cedere le armi. Tutti ci serravamo la testa tra i pugni, perché non ci scoppiasse. La truppa non ha tardato ad annusare il quarantotto completo, ha pensato alla pelle e a casa sua e ha mandato l’esercito a fare in culo. Voltavi gli occhi e di cento ne ritrovavi settanta, poi cinquanta, gli ufficiali rimasti allargavano le braccia o piangevano come bambini, i soldati saltavano il muro come tanti ranocchi. Io l’ho vista sì la bellezza di resistere ai tedeschi, ma mi son detto «Debbo crepare proprio io per le migliaia che già corrono verso casa? A casa, a casa! Se la sbrighino gli altri, finisca come vuole», e mi sono lanciato dalla finestra giusto mentre il carro armato tedesco svoltava nel viale della caserma. Io sto a Capua e non sogno altro che casa mia.
– Ce la farai?
– Dovrei, Dio benedetto. Tenendo sempre la campagna, viaggiando di notte e stando fermo e nascosto di giorno pieno. Questi cornuti tedeschi non saranno dappertutto. Son quattro gatti! […]
– Qui si finisce al muro. Abbandono di posto, di deposito munizioni, scherziamo?
– Alle conseguenze io nemmeno ci penso. Come ha detto il soldato, questo è il quarantotto completo. Non ci sarà mai più un esercito in Italia. Pallottola in canna, si rientra a Montesacro. Se arrivando troviamo il battaglione a ramengo, ciascuno se ne va alla sua ventura.
Beppe Fenoglio, Il libro di Johnny, a cura di Walter Pedullà, Einaudi, Torino 2015
III.
Resistenza e guerra civile
Diversamente dalla prima guerra mondiale, quando la difesa della patria risulta prevalente su ogni altra identità che possa venire rivendicata, nel secondo conflitto le cose mutano. La vittoria dei totalitarismi – la Russia comunista, l’Italia fascista, la Germania nazionalsocialista – crea un nuovo problema di fedeltà: Stato, nazione e patria non sempre si identificano e pongono a chi combatte i totalitarismi problemi di coscienza. «Alcuni tedeschi antinazisti hanno desiderato la sconfitta della propria patria e hanno perfino lavorato per favorire questa sconfitta fin quando non si è verificata. Erano traditori? Nei confronti dei nazionalsocialisti di sicuro. Nei confronti della loro coscienza certamente no. Nei confronti della classica nozione di patria forse, ma questa stessa nozione è messa in dubbio nell’epoca delle religioni politiche».
Chi tradisce chi: battaglia e strage di Cefalonia
Una discussione ancora più accesa di quella che ha segnato la “morte della patria” – rimasta per lo più nell’ambito accademico e storiografico – è quella sul presunto tradimento dell’Italia nel momento in cui, l’8 settembre 1943, ribalta le proprie alleanze di guerra.
«Gli italiani, per la loro infedeltà e il loro tradimento, hanno perduto qualsiasi diritto a uno stato nazionale di tipo moderno. Devono essere puniti severissimamente, come impongono le leggi della storia». Queste parole sono di Goebbels anche se presto la propaganda nazista accusa prevalentemente la monarchia, Badoglio e i gerarchi della congiura del 25 luglio, per cercare di riconquistare un consenso che in realtà solo gli aderenti convinti della Repubblica sociale potranno condividere. Claudio Pavone, che ha dedicato un intero paragrafo di Una guerra civile al tradimento, ricordava che «nella situazione italiana seguita l’8 settembre 1943 le contrapposte accuse di tradimento rimbalzavano, si intrecciavano e si contaminavano in vario modo perché tutte, o quasi, avevano in sé qualche frammento di verità». Anche un antifascista integerrimo come Salvemini, ad esempio, aveva dichiarato che «un malfattore non diventa un galantuomo quando tradisce un altro malfattore», ma si trattava di un giudizio morale che serviva a rimarcare la propria opposizione all’esperienza Badoglio nel suo insieme.
Il giuramento al re permette, soprattutto agli ufficiali e ai militari, di resistere con dignità alla prigionia e all’internamento, ma è certo che i conflitti di fedeltà si complicheranno quando la RSI e spesso anche le bande partigiane richiederanno fedeltà a una popolazione che fatica a scegliere la propria collocazione. La rivendicazione di non essere traditori, accusando i nemici di esserlo, non è un sintomo di “morte della patria” ma di quella frantumazione istituzionale in cui – in Italia, come già da tempo in Europa – le uniche identità forti sono costituite da valori politici e morali, primo fra tutti la libertà, che dividono inevitabilmente l’insieme della nazione. Dalla primavera del 1940, come testimonia l’articolo Quislings Everywhere pubblicato sul quotidiano londinese «The Times», esiste ormai anche un neologismo per connotare il tradimento:
Il maggiore Quisling ha aggiunto una nuova parola alla lingua inglese. Per gli scrittori la parola Quisling è un dono degli dei. Se fosse stato loro chiesto di inventare una nuova parola per traditore […] avrebbero difficilmente escogitato una combinazione di lettere più brillante. All’ascolto riesce a suggerire qualcosa al tempo stesso viscido e tortuoso.
Fondatore del partito fascista norvegese e primo ministro dal febbraio 1942, Vidkun Quisling è il prototipo del “collaborazionista” (sarà giustiziato a Oslo il 24 ottobre 1945).
In Italia – a seconda dell’angolo visuale – sono traditori Badoglio e il re, Mussolini e i gerarchi che l’hanno sfiduciato, gli ufficiali che combattono le truppe tedesche e quelli che si alleano con l’invasore tedesco. Molti antifascisti considerano traditori al tempo stesso Mussolini e Badoglio, anche se pochissimi tra loro hanno scelto dall’inizio della guerra di collaborare con gli Alleati in nome della libertà.
Da Monaco, Mussolini il 18 settembre annuncia il rientro sulla scena e la rinascita del suo movimento. Cinque giorni dopo, il primo Consiglio dei ministri del costituendo Stato si riunisce all’ambasciata tedesca, a Roma, dove il segretario del Partito fascista repubblicano, Alessandro Pavolini, rende omaggio al «Capo Supremo della nuova Germania nazionale Socialista, Adolfo Hitler». Una genesi rivelatrice dell’estensione collaborazionista della Repubblica sociale italiana, denominazione assunta a inizio dicembre, quando il governo si è insediato sulla sponda bresciana del lago di Garda, tra Salò e Gargnano, residenza del duce.
Goebbels riporta nel suo diario le impressioni di Hitler dopo il suo incontro con Mussolini liberato:
Il Führer si aspettava che, per prima cosa, il Duce si preoccupasse di vendicarsi ampiamente su chi l’aveva tradito. Ma Mussolini non ha mai dato a vedere di voler far nulla di simile, e con ciò ha dimostrato quali sono i suoi limiti oltre i quali non saprà mai andare. Non è un rivoluzionario come il Führer o Stalin. È così legato alla sua italianità che gli mancano le qualità del rivoluzionario e del sovvertitore mondiale.
Praticamente negli stessi giorni, il 17 settembre, Hitler ordinava alle truppe del maggiore von Hirschfeld, giunto il giorno prima a Cefalonia, di non fare prigionieri tra i soldati della Divisione italiana “Acqui”, considerato il suo «comportamento improntato al tradimento e alla perfidia». Nell’isola greca, occupata dal 1941, sono presenti più di 10.000 soldati e 500 ufficiali italiani, cui si sono aggiunti nell’agosto 1943 circa 1800 tedeschi. Nella primavera di quell’anno i comandi germanici hanno preparato il piano Alarich, che prevede l’occupazione dell’Italia in caso di rottura dell’alleanza, e nell’estate il piano Achse, che stabilisce il disarmo e la deportazione delle truppe italiane che non intendono continuare a combattere con la Germania.
Anche nella penisola i primi tentativi di resistenza sono condotti dai comandi inferiori, mentre quelli superiori si danno alla fuga o collaborano apertamente con i nazisti. In molti casi i tedeschi uccidono in modo illegittimo e vendicativo gli ufficiali che osano prendere alla lettera gli ordini di un governo in fuga derivati dall’armistizio. Soprattutto fra le unità militari fuori d’Italia muoiono «in stragi “sistematiche” uomini con gradi elevati ed elevate responsabilità e giovanissimi sottotenenti di complemento, militari di professione e soldati di guerra, a Kos, Leros, Spalato, Krujë, Kuç, Corfù e Cefalonia e in altri luoghi, la maggior parte dei quali mai entrati nella memoria collettiva del paese. A Cefalonia e non altrove, però, oltre all’eccidio metodico e organizzato degli ufficiali, accadde qualcosa in più, cioè la strage indiscriminata dei soldati che man mano si arrendevano durante i giorni della battaglia».
Sui combattimenti e sulla strage di Cefalonia non esiste ancora una narrazione storica pienamente condivisa, anche per le lunghe e complesse vicende giudiziarie che ne hanno accompagnato la memoria pubblica e per le testimonianze discordanti rilasciate dai sopravvissuti. Già il 10 settembre, comunque, l’OKW (Oberkommando der Wehrmacht), l’alto comando delle forze armate tedesche, aveva dato l’ordine di fucilare gli ufficiali italiani che avessero resistito, considerandoli franchi tiratori, e l’11 e poi di nuovo il 15 settembre esso era stato trasmesso a tutti i reparti. A prevalere, tra i soldati e gli ufficiali italiani, era certamente «la volontà di tornare in patria con sicurezza, con le armi e con il proprio onore», ma la difficoltà di ottenere questo risultato «avrebbe trasformato il punto di svolta rappresentato dall’armistizio in una scelta di lotta».
L’11 settembre, lo stesso giorno in cui dal “Regno del Sud” si ordinava al generale Antonio Gandin di resistere alle forze tedesche, i reparti italiani si ritirano dall’altura di Kardakata, probabilmente per il calcolo dello stesso comandante Gandin di mostrare ai tedeschi la buona volontà di un’intesa: una decisione gravida di conseguenze, poiché «Kardakata avrebbe rappresentato il cuore strategico della battaglia di Cefalonia, e quindi della vittoria tedesca, insieme, ovviamente, al “monopolio” dell’arma aerea da parte delle forze del Reich». Due giorni dopo giunge a Cefalonia il comandante della 22a Armata tedesca, il generale Humbert Kanz, che impone a Gandin la consegna di tutte le armi. A propendere per la resa (in base a una valutazione militare di lunga prospettiva) sono il comandante e la maggior parte del comando di divisione; a volersi battere (sulla base della preponderanza numerica) i comandi di Marina, Artiglieria, Carabinieri e gli ufficiali inferiori. Questo è il motivo della consultazione tra i reparti, passato alla storia come un “referendum” tra i soldati, in ogni modo un «gesto irrituale da parte di un comandante, sensibile verso i sentimenti della truppa in una situazione eccezionale».
La risposta di Gandin, come risulta in quasi tutte le opere a carattere memorialistico e storico, è perentoria: «Per ordine del Comando Supremo italiano e per volontà degli ufficiali e dei soldati, la Divisione “Acqui” non cede le armi». Ma questa risposta costituisce, ancora oggi, un interrogativo irrisolto sulle vicende di Cefalonia. Nell’unico documento disponibile, che è di parte tedesca (il Diario di guerra del 22° Corpo d’armata da montagna), la risposta sarebbe stata meno categorica e assai più articolata: «La Divisione si rifiuta di eseguire il mio ordine di radunarsi nella zona di Sami, poiché teme di essere disarmata contro tutte le promesse tedesche. La Divisione intende restare sulle sue posizioni fino a quando non otterrà assicurazione […] che essa possa mantenere le sue armi e che solo al momento dell’imbarco possa consegnare le artiglierie ai tedeschi. La Divisione assicurerebbe, sul suo nome, che non impiegherebbe le armi contro i tedeschi. Se ciò non accadrà la Divisione preferirà combattere piuttosto che subire l’onta della cessione delle armi ed io, sia pure con rincrescimento, rinuncerò definitivamente a trattare con la parte tedesca, finché rimango a capo della mia Divisione».
La sostanza, in ogni modo, è una risposta negativa all’ultimatum tedesco, anche se si tratta di una “comunicazione neutra” in cui il generale spiega «le ragioni del no alle condizioni tedesche e ribadendo le richieste italiane, ma il tono lasciava ancora aperta la possibilità di continuare le trattative». All’alba del 15 settembre, con un attacco aereo tedesco, inizia la battaglia. La prima fase sembra arridere agli italiani ma presto giungono sull’isola cospicui rinforzi, inclusi il 98° e il 724° Reggimento che, impegnati nella guerra antipartigiana in Iugoslavia e Grecia, avevano massacrato civili nell’ottobre 1941 (a Kragujevac, con centinaia di vittime) e nell’agosto 1943 (villaggio di Kommeno). Il 17-18 settembre inizia la seconda fase della battaglia, durante la quale centinaia di soldati fatti prigionieri vengono uccisi. Nell’ultimo attacco, il 21-22 settembre, massacri ed eccidi avvengono in circa quaranta località dell’isola: la Divisione “Acqui” si arrende e termina la prima fase della strage di Cefalonia. La seconda, quella più nota, è costituita dalla condanna a morte e dall’esecuzione degli ufficiali, in una «rappresaglia “canonica”, simile cioè alle tante che, in quel periodo, riguardarono gli ufficiali italiani ritenuti dai tedeschi colpevoli di avere loro resistito, e quindi traditori».
La tragica fine dei soldati italiani è strettamente connessa alla situazione confusa, sul piano militare come su quello diplomatico, che è conseguenza della gestione dell’armistizio da parte del governo, della monarchia e degli alti comandi militari.
Non è soltanto un episodio isolato, esso rientra nella più complessa e articolata dimensione europea della guerra condotta dal Terzo Reich alla quale non partecipano solo alcuni corpi speciali, ma anche la Wehrmacht, l’esercito tedesco […]. Le stragi, le rappresaglie, i paesi minati, non saranno soltanto l’espressione di una strategia bellica basata, da una parte, sul rallentare la marcia dell’esercito angloamericano e, dall’altra, sul fare terra bruciata attorno ai partigiani sterminando la popolazione civile che li sosteneva; le stragi sono soprattutto la conseguenza prioritaria dell’ideologia razzista del regime nazista e della sua applicazione sul piano militare.
La Resistenza degli internati militari
Quasi 700.000 soldati italiani, che si trovano nei Balcani e nel mar Egeo, all’indomani dall’8 settembre cambiano di stato, passando da militari occupanti a esercito sconfitto. La decisione, presa dal re, da Badoglio e dagli alti gradi militari, di non avvisare le divisioni di stanza all’estero dell’armistizio imminente e la scelta di non accordarsi con gli angloamericani per organizzarne la resistenza con un passaggio nel fronte di guerra ebbero come effetto prevalente la resa senza combattere di fronte all’occupazione da parte dei tedeschi dei territori dove essi fino a quel momento erano stati alleati degli italiani. Se si escludono poche eccezioni – di cui la più rilevante è Cefalonia – nelle regioni in cui il regio esercito era forza di occupazione non fu possibile, o fu impedita, la strada del combattimento e della resistenza contro l’esercito tedesco. Per molti soldati la scelta divenne quella tra la resa e l’internamento in Germania, la collaborazione con i tedeschi proseguendo l’alleanza e sconfessando la scelta del re e del governo, il passaggio tra le file dei partigiani locali (greci e iugoslavi) combattuti fino a quel momento con determinazione. In Montenegro, ad esempio, prevarrà la decisione di collaborare con i partigiani locali creando la Divisione Garibaldi che combatterà fino al 1945, come unità del regio esercito, nel 2° Korpus dell’Esercito popolare di liberazione iugoslavo.
È una sorte analoga a quella dei soldati italiani sbandati dopo l’8 settembre, che in minoranza combattono o fuggono sui monti per creare le prime bande, in maggioranza cercano di nascondersi e in parte vengono disarmati e arrestati dall’esercito tedesco. L’accusa di tradimento mossa immediatamente da Hitler nei confronti degli italiani, la liberazione di Mussolini e la creazione della Repubblica sociale italiana si accompagnano – già dal 20 settembre 1943 – alla decisione di trasformare i prigionieri di guerra in “internati militari” (ItalianischeMilitärinternierten): una definizione priva di senso giuridico, che peserà profondamente sul loro destino.
Il numero complessivo dei militari italiani che si arresero fu di circa 400.000 nell’Italia centro-settentrionale, mentre altri 100.000 vennero catturati nella zona di Roma e nell’Italia meridionale. In Francia i soldati disarmati furono circa 60.000 e in Iugoslavia e Albania furono fatti prigionieri 165.000 militari mentre in Grecia e nelle isole dell’Egeo si arresero circa 265.000 uomini. In totale, quindi, nelle giornate successive all’8 settembre, furono complessivamente un milione circa i militari catturati dai tedeschi. Di questi, solo 190.000 decideranno di continuare a combattere con la Germania.
Tra gli internati vi sono noti intellettuali quali il giornalista Giovannino Guareschi, ufficiale d’artiglieria di sentimenti monarchici, e il vignettista Giuseppe Novello.
Un ufficiale del regio esercito deportato nel settembre 1943 è l’insegnante Paride Piasenti, che svolge nel Lager una funzione di coordinamento (nel dopoguerra fonderà l’Associazione nazionale ex internati e diverrà parlamentare democristiano).
Già all’indomani dell’8 settembre il comando della Wehrmacht, l’OKW, aveva emanato direttive lesive del diritto internazionale ispirando vendette e rappresaglie per il “tradimento” italiano che condussero in numerose località, nella penisola, in Grecia e nei Balcani, a stragi e violenze contrarie al diritto di guerra. Del milione di soldati italiani disarmati sono 650.000 i prigionieri rapidamente condotti nel Reich o nei campi del Governatorato generale che, per il governo nazista, costituiscono l’occasione per far fronte a una forte carenza di manodopera. Circa 100.000, invece, rimarranno nei Balcani e in Francia a lavorare per la Wehrmacht in fabbriche locali. Lo Stato Maggiore tedesco concorda con il ministro degli Armamenti Albert Speer l’utilizzo degli italiani rimasti fedeli all’alleanza non in unità militari, ma al massimo come ausiliari o lavoratori volontari. Il trattamento degli altri dipende dalla volontà di rappresaglia o di sfruttamento da parte dei tedeschi, che intendono far loro pagare il tradimento, senza considerarli prigionieri per sottrarsi agli obblighi che altrimenti avrebbero – sulla base delle convenzioni internazionali – nei loro confronti. La parvenza di un’alleanza rifondata con il nuovo governo mussoliniano legittima l’occupazione militare nel Centro-Nord e pone a tutti gli “internati” la scelta tra l’adesione alla RSI e il lavoro coatto nel Reich. Fino al marzo 1944 si reitera la proposta di scegliere l’alleanza fascista-nazista e sfuggire, così, alle terribili condizioni dei campi di prigionia e lavoro.
Gli internati militari italiani (IMI), sottratti al ruolo naturale di prigionieri di guerra, non erano più garantiti dal rispetto della convenzione di Ginevra e dal controllo della Croce Rossa. Le condizioni cui dovettero sottostare – mancanza di igiene, alimentazione scarsissima (tra 700 e 1000 calorie al giorno), lavoro duro per almeno dodici ore giornaliere, angherie e violenze di ogni genere, sovraffollamento nelle baracche, freddo eccessivo nei mesi invernali, mancanza di informazioni e contatti – dipendevano al tempo stesso dalla volontà di punire e dal suggerimento di cedere da parte dei tedeschi, ma la reazione largamente maggioritaria fu, invece, quella di una resistenza tenace e coerente. Si è calcolato che soltanto tra il 10% e il 20% dei soldati e degli ufficiali accolse l’invito a collaborare con la Wehrmacht o la RSI, mentre la maggioranza rimase fedele al giuramento fatto al re. Dalle tantissime testimonianze accumulate nel tempo emerge come il senso dell’onore patriottico abbia rappresentato la molla più significativa, almeno esplicitamente; insieme, però, a un deciso e crescente rifiuto del fascismo e della guerra che solo per una minoranza si manifestava con una scelta consapevole di antifascismo. Per tutti, comunque, può valere la sintesi lasciata da uno di essi, Giovannino Guareschi (uno degli scrittori più letti del dopoguerra):
Non abbiamo vissuto come i bruti. Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo. La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, uomini con un passato e un avvenire. Ci stivarono in carri bestiame e ci scaricarono, dopo averci depredati di tutto, fra i pidocchi e le cimici di lugubri campi, vicino a ognuno dei quali marcivano, nel gelo delle fosse comuni, diecine di migliaia di altri uomini che prima di noi erano stati gettati dalla guerra tra quel filo spinato.
Le ragioni del rifiuto a sottostare alle pressioni e alle minacce tedesche, estrapolate dalle memorie e testimonianze disponibili, sono state riassunte in una classificazione che vede prevalere (30%) le giustificazioni militari, seguite da quelle etiche (26%) e ideologiche (24%), cui si aggiungono per ultimi motivi legati all’antigermanesimo, alla diffidenza verso le promesse, al fatalismo. Il sentimento di onore militare e di rispetto del giuramento fatto al re risulta al primo posto, come è stato sempre ricordato, ma l’insieme di spinte etiche e ideologiche raggiungono complessivamente la metà delle motivazioni, contribuendo a dare un’immagine più complessa e compiuta della scelta antitedesca degli IMI. Motivi etici e ideologici certamente molto differenziati, ma che possono riassumersi in un ritrovato senso di autostima che la partecipazione alla guerra fascista aveva fatto perdere e che si intuiva dover essere recuperato con un comportamento coerente: «Esamino me stesso e constato che – più di altri – ho conservato, nonostante la fame, un fondo di dignità».
L’inserimento a tutti gli effetti degli IMI nell’ambito della Resistenza, cioè di chi in vario modo si oppose all’occupazione tedesca e fascista dopo l’8 settembre e si adoperò per la liberazione dell’Italia, è stato colpevolmente ignorato per alcuni decenni dopo la fine della guerra, a livello politico come sul piano storiografico. Il caso clamoroso delle memorie di Alessandro Natta – il quale aveva combattuto ed era stato ferito a Rodi e poi catturato e inviato in Germania nei Lager di Küstrin, Sandbostel e Wietzendorf – che nel 1954 vennero rifiutate per la pubblicazione da Rinascita, la casa editrice del Pci (di cui Natta era tra i principali dirigenti), indica come la mitologia della Resistenza “armata” nei confini italiani sia stata a lungo l’unica ammissibile all’interno del discorso pubblico; tant’è vero che solo nel 1998 verrà concessa dallo Stato italiano la medaglia d’oro all’“Internato ignoto” perché «per rimanere fedele all’onore di militare e di uomo, scelse eroicamente la terribile lenta agonia di fame, di stenti, di inenarrabili sofferenze fisiche e soprattutto morali. Mai vinto e sempre coraggiosamente determinato, non venne meno ai suoi doveri nella consapevolezza che solo così la sua patria un giorno avrebbe riacquistato la propria dignità di nazione libera».
Basta pensare a cosa avrebbe potuto costituire l’oltre mezzo milione di internati che resistettero alle promesse e alle minacce tedesche, se avessero accettato di tornare in Italia inquadrati in reparti per proseguire la guerra dalla parte nazifascista. La resistenza degli internati bloccò, in un modo per loro foriero di sofferenze a lungo dimenticate, la possibilità che tanti italiani si schierassero dalla parte sbagliata. In modo analogo, in condizioni diverse, si comportarono coloro che evitarono di presentarsi ai bandi di arruolamento della RSI e che costituirono la larga maggioranza delle classi giovanili richiamate. Si trattò di una resistenza militare e politica al tempo stesso.
E se il no del primo periodo della prigionia aveva avuto soprattutto un significato e un sapore antitedesco, quello dell’inverno 1943-44 si configurò come una netta e vigorosa presa di posizione antifascista, come uno scacco dato al nemico “politico”. In questo mutare della prospettiva e dell’obiettivo principale si può misurare il cammino percorso dalla resistenza, il suo politicizzarsi, perché le ragioni iniziali non avrebbero mantenuto così saldo e compatto il fronte degli internati se esse non fossero state convalidate e inverate da più profondi e seri motivi politici.
È soprattutto tra questi uomini, militari legati a un senso dell’onore diverso da quello che aveva cercato di inculcare in loro il fascismo, che motivazioni ed esperienze differenti finirono per dar luogo a una comportamento condiviso che permise un comune atteggiamento di resistenza accanto ai tanti che, nello stesso periodo, maturavano e si manifestavano in Italia.
Ma a dare vigore e maturità alla resistenza nei lager, facendone un episodio vero e proprio della lotta di Liberazione, contribuì soprattutto l’opera di chiarificazione e di educazione politica e culturale che venne svolta tra gli internati, in particolare nei campi ufficiali. Un ricordo personale mi consente di mettere in luce l’origine e il senso di un’attività che acquistò, a partire dal primo inverno, un rilievo e un’importanza notevoli. La sera in cui il mio gruppo giunse a Mühlberg sull’Elba, dopo l’interminabile viaggio, il colonnello Imbriani mi pregò di fare una conferenza per “tenere su il morale” dei compagni di prigionia. Nella fredda baracca del nostro primo lager dissi tutto ciò che ricordavo di Carlo Cattaneo, delle 5 Giornate, del glorioso ’48. Ascoltarono quasi tutti e in tutti vi fu interesse e commozione.
La Resistenza nel confine orientale: la battaglia di Gorizia
Il problema della patria e del tradimento si pone – su un piano diverso – anche dove la Resistenza è iniziata precedentemente, nella zona della provincia di Lubiana, conquistata con la guerra, e in Istria e Venezia Giulia dove il fascismo ha oppresso per un ventennio con estrema spietatezza le minoranze slave. In entrambe le regioni, sia pure in modo differente, la lotta partigiana si manifesta già nel 1942. Tra il maggio e il dicembre si risponde con il metodo del terrore, rivendicato dal generale Taddeo Orlando, comandante della 21a Divisione fanteria “Granatieri di Sardegna” (successivamente sottosegretario e ministro della Guerra nei governi Badoglio e comandante generale dell’Arma dei carabinieri dal luglio 1944): «Dobbiamo ripristinare la supremazia e l’onore degli italiani, anche se per ciò dovessero scomparire tutti gli sloveni e la Slovenia fosse distrutta».
In Venezia Giulia il clima di “guerra totale”, divenuto dopo l’8 settembre esteso e permanente, imperversava da almeno un anno, a opera dell’Ispettorato generale di pubblica sicurezza, gestito con pugno di ferro da Giuseppe Gueli (che sarà in seguito al 25 luglio il responsabile della prigionia di Mussolini sul Gran Sasso) contro l’attività antifascista in genere e i partigiani slavi in particolare. Nello stesso periodo, la nuova provincia italiana di Lubiana è controllata da quasi 300.000 soldati; altrettanta violenza viene esercitata in Dalmazia, con eccidi e torture: a Podhum, che segna il culmine di una serie di crimini di guerra, in attuazione delle direttive del generale Roatta, vengono uccisi nel luglio 1942 tutti i maschi (circa 200) tra i 16 e i 55 anni, e il paese viene dato alle fiamme; nei campi di concentramento – tra i quali spicca quello dell’isola croata di Arbe, con 10.000 prigionieri in un anno e un tasso di mortalità del 15% – sono stipati oltre 30.000 deportati. Come ammetterà il generale Quirino Armellini, comandante delle truppe in Dalmazia, si era commesso «un grossolano errore» con la fascistizzazione e l’italianizzazione coatta e violenta, ottenendo invece «l’esasperazione degli animi, il rinfocolare dell’odio, il desiderio di rivolta».
Dopo il 25 luglio la Wehrmacht già assorbe nelle regioni balcaniche i reparti italiani, preparando il successo del piano Achse e il disarmo del regio esercito dopo l’8 settembre. L’occupazione dei grandi centri – Trieste, Monfalcone, Lubiana – è rapida e completa, con l’esclusione di Gorizia dove ha luogo tra l’11 e il 26 settembre uno dei primi e più importanti fatti d’arme legati all’armistizio, una battaglia che vede partigiani sloveni e italiani contrapposti alle forze armate germaniche. Alla vigilia dell’armistizio esisteva già il “Distaccamento Garibaldi” con circa una trentina di uomini, comandato dall’operaio di Muggia Piero Mercandel e con commissario politico Mario Karis, condannato dal Tribunale speciale nel 1930, che all’inizio del 1943 aveva creato nel Collio una base di aiuto per gli antifascisti italiani ricercati e di informazioni per i partigiani sloveni.
Si tratta del primo, ancora numericamente modesto, volontarismo partigiano della zona. È un pionierismo che stenta ancora ad incidere sull’opinione pubblica locale ma che ha un significato politico preciso. Con esso si apre una fase nuova per l’antifascismo italiano […]. La realtà partigiana slovena stimola la presa di coscienza della necessità di una lotta armata che ha i suoi precursori italiani sia nella Venezia Giulia che oltre confine.
Un’esperienza analoga, iniziata sul terreno logistico (invio di armi, aiuti, contatti, propaganda, reclutamento), è quella di Vinicio Fontanot, di Ronchi, che per sottrarsi all’arresto aveva raggiunto un reparto partigiano sloveno vicino a Ranziano e contribuito con Mario Lizzero alla creazione delle prime bande nel Friuli e nella Venezia Giulia. Il destino della famiglia Fontanot (il padre Giovanni morto a Dachau, due fratelli di Vinicio, Licio e Armido, morti nel corso della Resistenza nel 1944, due zii e un cugino morti tra i maquis francesi: una brigata del 7° Korpus sloveno nella provincia di Lubiana viene denominata “Fratelli Fontanot”) mostra l’importanza, soprattutto nella fase iniziale, dei legami familiari e amicali nello spingere i giovani a scelte politiche e militari consapevoli.
Dai cantieri di Monfalcone centinaia di giovani – alcune testimonianze parlano di quasi 2000 uomini – vanno a ingrossare le file degli insorti. Complessivamente
si calcolano a 3-4000 i volontari civili (tra cui numerosi ex detenuti politici sia italiani che sloveni, liberati dalle carceri a Trieste sotto la pressione popolare) che si uniscono alle formazioni partigiane in Istria, nel Triestino e nel Goriziano. La maggior parte di questi volontari costituisce gruppi autonomi o si aggrega alle formazioni italiane come la brigata Trieste e i gruppi “gappisti” di Muggia […]. Di queste formazioni non sono più rimasti neanche i nomi. La più celebre delle unità di quel periodo fu senza dubbio la brigata “Triestina”, cioè la “Proletaria”. Il nome di “Triestina” data alla “Proletaria” si spiega con la decisione di attuare una riorganizzazione generale dei reparti italiani e sloveni disposta dal comando sloveno alla vigilia del grande attacco tedesco del 25 settembre.
Alla costituzione della Brigata “Proletaria” partecipa Ondina Peteani – che aveva iniziato la militanza antifascista ai cantieri navali, dove faceva l’operaia, in contatto con il gruppo dell’Università di Padova guidato da Eugenio Curiel –, considerata la prima “staffetta” della Resistenza, poi arrestata e rinchiusa ad Auschwitz e Ravensbrück da dove riuscirà a fuggire nell’aprile 1945.
La “Proletaria”, comandata da Ferdinando Marega, è organizzata in tre battaglioni: alla loro testa ci sono lo sloveno Dušan Faganel, l’ufficiale Giuseppe Petroni e Vinicio Fontanot, che hanno come commissari politici Camillo Donda, Giovanni Calligaris e Valerio Bergamasco. Cerca di raggiungere, senza riuscirci, Gorizia prima dell’arrivo dell’esercito tedesco, secondo il piano preparato dal comando sloveno. Occupa allora la stazione della città e l’aeroporto militare e si posiziona dove riesce a interrompere i collegamenti tedeschi tra Gorizia e Trieste, facendo saltare alcuni ponti sul Vipacco, affluente dell’Isonzo. Anche soldati dispersi dell’esercito italiano si aggregano alla battaglia, che sul fronte goriziano coinvolge circa 5000 combattenti, 700 dei quali appartenenti alla “Proletaria”. Il generale Licurgo Zannini, comandante del 24° Corpo d’armata di stanza a Udine, mentre i partigiani tentano di difendere Gorizia raggiunge un accordo con i tedeschi permettendo loro di attraversare le zone controllate dai suoi uomini e riprendere così il controllo della città. Gli uomini della Divisione “Torino”, che per due giorni si sono opposti ai tedeschi, adesso sono divisi, non sanno se raggiungere i partigiani (alcuni lo hanno già fatto) o obbedire al nuovo comandante dopo che il generale Bruno Malaguti è stato destituito da Zannini perché ostile ai tedeschi. Malaguti riuscirà, prima di venire arrestato dai tedeschi e deportato in Polonia, a liberare i prigionieri politici e i detenuti nei campi di concentramento. Morirà nel dicembre 1945 per gli effetti delle privazioni patite in prigionia.
L’ingresso dei reparti germanici in città avviene tra applausi e lanci di fiori: «Era il segno di quel collasso politico e morale che le vicende armistiziali, la tradizionale ostilità e paura degli slavi, e l’identità fra italianità e fascismo predicata per anni, avevano provocato in alcuni strati della piccola e media borghesia urbana».
La battaglia presso la stazione ferroviaria di Gorizia rappresenta, probabilmente, il primo episodio di guerra civile tra italiani, alcuni dei quali, su versanti contrapposti, appartenenti fino a pochi giorni prima alla stessa divisione. Proprio alla stazione, infatti, che era occupata dal secondo battaglione della “Proletaria”, «in ottemperanza agli ordini di Zannini i carabinieri e la guardia di finanza si erano posizionati, in armi, con l’intento di attaccarla e liberarla dai ribelli». Un primo attacco condotto da tedeschi con l’ausilio italiano è respinto e per ben tre volte i partigiani prevalgono sugli assalitori. Poi, di fronte alla soverchiante forza nemica, decidono di ritirarsi, senza venire inseguiti perché ritenuti numerosi, bene addestrati e armati. La mattina del 14 settembre la bandiera tedesca sventola a Gorizia, anche se il circondario è ancora in mano ai ribelli e anche se vicino a Merna e a Peci, sul fiume Vipacco, i restanti battaglioni della “Proletaria” bloccano i tedeschi in arrivo da Trieste e Monfalcone.
Mentre iniziano le deportazioni di soldati e ufficiali della Divisione “Torino” (che resiste ai tedeschi sino all’11 settembre, ma deve poi cedere per ordine del comando della 24a Armata di Udine), tra il 12 e il 16 i combattimenti proseguono senza segnare la vittoria di uno dei contendenti; la “Proletaria” cerca di sabotare l’aeroporto riconquistato dai tedeschi e respinge gli attacchi lungo il Carso vicino a Merna. Tra il 18 e il 20 settembre la pressione tedesca aumenta, dopo l’ordine del Führer – registrato dal Diario dell’OKW alla data del 15 settembre – di combattere “le bande italiane” nell’Italia settentrionale, con chiaro riferimento ai partigiani operanti nella Adriatisches Küstenland, la zona di operazioni che include Venezia Giulia, Friuli e le province di Lubiana, Gorizia e Fiume, sotto il diretto controllo germanico.
La battaglia di Gorizia, tra circa 10-15.000 partigiani e 45-50.000 soldati tedeschi, termina il 26 settembre con la vittoria tedesca, ed è considerata «un episodio-chiave del ciclo operativo germanico nell’Italia del nord e la prima fase di una serie di operazioni predisposte da Rommel e collegate agli importanti settori sloveno e croato». Un rapporto dell’OF (Osvobodilna Fronta, Fronte di liberazione del popolo sloveno) afferma che la ritirata si è svolta in ordine e con scarse perdite; a fronte delle rappresaglie e degli eccidi di truppe tedesche e reparti fascisti contro i villaggi e le popolazioni locali, piccoli gruppi partigiani si mimetizzano in luoghi fuori mano, alcuni si sbandano e altri ancora occultano le armi per disseppellirle all’occasione propizia: «L’esperienza fatta, la forte coscienza antifascista, la presenza di unità partigiane sul Carso, sulle Prealpi Giulie, il germinare di gruppi “gappisti” quasi sempre di estrazione operaia, nel Monfalconese e nella Bassa friulana, indussero centinaia di uomini a riprendere la lotta». A fronte del centinaio di morti della Brigata “Proletaria” nei combattimenti contro i tedeschi, vi sono, in quella stessa zona, migliaia di soldati e ufficiali italiani arresisi e internati nei campi di prigionia e di lavoro della Germania.
Sul terreno militare si era trattato certamente di una sconfitta, ma i tedeschi avevano dovuto riconoscere – scrivendolo con preoccupazione sul proprio bollettino militare – che le bande nei dintorni di Gorizia erano numerose e agivano con determinazione. Considerando che prima dell’armistizio, tranne diversi casi individuali e piccoli gruppi, gli italiani non avevano mai accolto l’invito fatto loro dagli sloveni fin dal 1941 a imbracciare le armi, pur contribuendo in molte occasioni ad aiutare i partigiani dell’esercito di liberazione iugoslavo, si poteva sostenere che «la battaglia di Gorizia era stata un turning point della lotta antifascista nella regione, gli operai italiani avevano imbracciato le armi per la prima volta ma non sarebbe certo stata l’ultima».
Le foibe istriane del 1943
Mentre infuria la battaglia di Gorizia, in Istria il Comitato popolare di liberazione (CPL) proclama, il 13 settembre, l’annessione alla Croazia, confermata nelle settimane successive dal Consiglio antifascista di liberazione nazionale iugoslavo (AVNOJ), anche se questa notizia suscita una reazione negativa da parte di Tito. In una parte del territorio istriano, già prima dell’8 settembre privo di controllo, con l’armistizio si vive un vuoto di potere che favorisce l’emergere del potere partigiano e di rivolte rurali contro i possidenti. In questo clima e in questa situazione, mentre l’esercito tedesco procede a riconquistare quella che è diventata la Zona d’operazioni del Litorale Adriatico (OZAK), hanno luogo violenze contro i civili che coinvolgono il movimento partigiano: le “foibe istriane” del settembre-ottobre 1943. Il presidente del CPL istriano, Joakim Rakovac, aveva assicurato i comunisti italiani che dopo l’insurrezione i fascisti sarebbero stati sottoposti a processo impedendo vendette e procedimenti sommari.
L’insurrezione, accreditata poi come tale dalla storiografia ufficiale iugoslava, è in realtà un movimento spontaneo e poco coordinato che, in una prima fase, crea organismi provvisori di potere che solo in seguito – con il controllo militare e politico del Movimento popolare di liberazione iugoslavo e l’arrivo in Istria di quadri dirigenti del Partito comunista croato – troveranno una sia pur estremamente provvisoria sistemazione.
Sulla base della documentazione e dei contributi che storici croati, italiani e sloveni hanno prodotto nell’ultimo ventennio, si può sintetizzare il massacro delle foibe istriane in questi termini. Nella situazione di vuoto di potere si assiste parallelamente all’occupazione di cittadine e villaggi da parte dei partigiani iugoslavi, con rivolte popolari caratterizzate da violenze contadine contro i proprietari terrieri. L’anelito a lungo compresso alla libertà e il desiderio di vendetta per le sofferenze e i soprusi patiti da una popolazione che nell’entroterra è a maggioranza slava favoriscono l’intreccio tra spinte nazionalistiche e tendenze rivoluzionarie, tra il desiderio di cacciare gli invasori italiani e la volontà di eliminare la borghesia e far trionfare un progetto socialista.
La violenza si manifesta, inizialmente, contro gerarchi e funzionari civili e militari del governo fascista, ma anche contro possidenti e notabili che rappresentano, agli occhi degli insorti, gli elementi della minoranza nazionale italiana che hanno collaborato a opprimere la maggioranza croata e slovena della popolazione. A uomini del Partito fascista si affiancano soldati e ufficiali della Milizia, funzionari statali di vario grado, proprietari terrieri, farmacisti, insegnanti, commercianti. Le vittime di queste prime foibe sono – per quanto sia difficile fare un computo preciso – tra 500 e 700. Ad agire, in molti casi, sono “giustizieri improvvisati”, tra i quali figurano anche italiani, che si presentano come “guardie della rivoluzione” e danno un carattere al tempo stesso politico e sociale alla propria aggressività: «scene di violenza si ripetevano un po’ dappertutto a opera delle forze popolari improvvisate che s’impossessarono tra il 9 e l’11 settembre dell’intera penisola, a parte Pola, Dignano (Vodnjan), le isole Broni, Capodistria e Isola».
Il numero degli insorti si aggira attorno ai 12.000 uomini, guidati prevalentemente da quadri comunisti, anche se non sempre è così. Le direttive politiche di non procedere a esecuzioni sommarie sono spesso ignorate, anche per il carattere fluido dell’occupazione e la presenza di persone che, per ideologia politica o motivi personali, intendono procedere come “vendicatori” di un ventennio di angherie e persecuzioni. La 13a Divisione del NOVJ, dopo aver sconfitto un battaglione di alpini, tra l’11 e il 12 settembre occupa Pisino, quasi al centro dell’Istria, e istituisce nel castello di Montecuccoli un tribunale rivoluzionario, capeggiato da Ivan Matka, presidente della Commissione regionale del Fronte di liberazione nazionale per l’Istria.
Anni più tardi un esponente del Partito comunista della Croazia in Istria, Bo�o Kali, si vantò pubblicamente di avere “liquidato” 82 fascisti per vendicare le 82 vittime “cadute all’incrocio di Tina” (località dove si verificò uno scontro tra partigiani e tedeschi). Le prime esecuzioni ordinate dal Tribunale di Pisino furono eseguite il 19 settembre alle cave di bauxite locali; dato però che uno dei condannati riuscì a fuggire, si decise che in futuro le fucilazioni sarebbero avvenute nelle vicinanze di “foibe” dove seppellirli.
La giustificazione, data sin da allora, di «fenomeni marginali, dovuti in maggioranza a singoli elementi locali irresponsabili» o al carattere spontaneo di una reazione popolare alla lunga oppressione fascista, o alla presenza di «elementi estremisti e facinorosi o anche psicopatici» è accettabile solo in minima parte, sebbene vi fossero eventi ascrivibili a simili cause. Al di là delle uccisioni maggiormente “spontanee”, quelle stabilite dal Tribunale rivoluzionario giudicarono e giustiziarono gli arrestati sulla base del loro essere “nemici del popolo”, una categoria abbastanza ampia in cui far confluire non solo fascisti e collaboratori del regime ma chiunque non si schierasse apertamente con l’esercito partigiano. Una categoria, non va dimenticato, che aveva avuto soprattutto negli anni Trenta una sua grande rilevanza nella tradizione comunista sovietica, e che sarà ampiamente ripresa negli anni successivi alla fine della guerra.
A testimoniare la gravità delle violenze perpetrate nelle foibe istriane non vi è solo la ferocia ingiustificata e del tutto illegale di quelle azioni, ma la stessa riflessione che, poco più di un mese dopo, avviene all’interno del movimento partigiano croato e italiano. Il 6 novembre Zvonko Babi-�ulje relaziona al comando dell’Armata di liberazione popolare di Croazia: «La lotta contro i nemici del popolo è stata condotta in modo diseguale, che in alcune località si è rivelata del tutto inadeguata e in altre è stata invece radicale. È sintomatico a riguardo il fatto che in molti luoghi gli istriani non volevano eseguire le esecuzioni […]. Non è stato costruito nessun campo di lavoro e i nemici nazionali sono stati puniti con la morte, fra loro anche alcuni sacerdoti».
La confessione di Anton Gregorovich, giudice istruttore presso il comando partigiano di Pisino, arrestato il 15 ottobre a Pola dai tedeschi, rievoca «lo stato di caos in cui versava il Movimento di Liberazione, l’improvvisazione e il potere arbitrario dei singoli, assetati di vendetta, ma anche la loro adesione al modello della “violenza rivoluzionaria” bolscevica, oppure a quella mussoliniana della “violenza militare”. In fin dei conti, questi erano gli unici due modelli cui potevano fare riferimento». Nella conferenza dei comunisti istriani tenutasi nel dicembre 1943, dopo che il Partito comunista italiano aveva espresso una protesta ufficiale, il dirigente di Rovigno Giuseppe Budicin, condannato due volte dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato (e che sarà ucciso dai fascisti nell’aprile 1944), «rivolse un aperto rimprovero ai dirigenti del PCC in merito alle responsabilità sui fatti delle foibe e ad altri incidenti di stampo nazionalista verificatisi durante l’insurrezione, rinfacciando loro di avere mancato alla parola data: fatto che, a suo dire, stava causando un certo disorientamento tra l’elemento italiano e non pochi danni al Movimento di liberazione».
Tra le motivazioni della violenza, tanto nelle testimonianze quanto nella riflessione storica, permangono contrapposti, quasi si dovesse scegliere tra l’uno o l’altro, motivi di classe e di comportamento rivoluzionario, tipici della tradizione comunista dell’epoca che aveva alle spalle la vicina esperienza della guerra civile spagnola, e scelte di carattere nazionalistico ed etnico, tentativo di escludere, nella guerra di liberazione, la convivenza con chi aveva assunto complessivamente l’immagine e l’identità del nemico: «le azioni di polizia contro i “nemici del popolo” decise dal Comando di Pisino sono un’indicazione di percorso nella quale s’inseriscono le rabbie popolari, aprendo spazi di discrezionalità dove trovano posto le esecuzioni politiche mirate, ma anche gli odi personali e gli atti di criminalità comune». Non si può negare che la violenza, come accadde spesso e ovunque, «esercitava su molti combattenti una sua seduzione, anche se a posteriori venne giustificata come atto necessario, come risposta alla violenza altrui. L’esercizio della violenza diventava anche per numerosi combattenti una sorta di sfogo della pressione a lungo accumulata».
Le quattro giornate di Napoli
L’8 settembre nel Mezzogiorno è accompagnato da un elemento contrastante in modo palese con l’atteggiamento pavido, ambiguo o addirittura codardo mostrato dal re e da Badoglio in fuga proprio verso il Sud dell’Italia. Si è già visto come la resistenza mostrata a Barletta e a Bari, a Rionero in Vulture e poi a Matera, per non parlare della piccola “repubblica” di Maschito, costituissero momenti diversi di un fenomeno comune: la difesa contro la violenza dell’occupazione che le forze naziste stanno rapidamente imponendo in tutto il paese. «In Campania il lungo settembre del ’43 è scandito da eccidi, scontri a fuoco, rappresaglie, insorgenze popolari e assalti ai municipi».
La storia ha sempre ricordato quasi esclusivamente Napoli – e le sue “quattro giornate” – come centro di un episodio significativo di resistenza al Sud, di cui si è voluto spesso rimarcare la diversità e l’alterità rispetto alla Resistenza che avrebbe preso piede, negli stessi giorni, nel Centro-Nord della penisola. L’11 settembre a Castellammare di Stabia vengono giustiziati ufficiali e civili ribelli, incendiate le industrie della zona (Cirio, Voiello) e rastrellate migliaia di persone da deportare in Germania. La stessa violenza si manifesta a Napoli dopo la morte di sette tedeschi in una prima protesta popolare, mentre prefetto e commissario prefettizio collaborano con il comando germanico, e i generali Riccardo Pentimalli ed Ettore Del Tetto, dopo aver rifiutato di armare il popolo come richiesto dal Comitato dei partiti antifascisti, fuggono lasciando l’ordine di sparare sugli assembramenti di civili.
Il 12 settembre, debellata la resistenza di gruppi di militari e carabinieri, i tedeschi accerchiano e poi incendiano l’università: «Un’offesa certamente premeditata data la presenza, attestata da più testimoni oculari, di una macchina cinematografica montata su un camioncino parcheggiato dinnanzi all’ingresso dell’Ateneo». È da questo momento che le angherie e le violenze si susseguono e si moltiplicano: il 13 è affissa la proclamazione dello stato d’assedio e qualche giorno dopo si ordina lo sgombero della fascia costiera per trecento metri, lasciando senza casa 35.000 famiglie; vengono saccheggiati depositi militari e distrutti impianti industriali; si mettono a fuoco l’Ilva di Bagnoli ma anche i grandi alberghi del centro in via Partenope (Excelsior, Santa Lucia, Vesuvio, Royal, Vittoria). Le “quattro giornate” di Napoli, quindi, sono un evento assai più esteso cronologicamente: gli scontri dureranno tutto il mese.
Oggi si riconosce quasi unanimemente che, con questo evento, «si è in presenza di un episodio di lotta armata da inscrivere nella guerra partigiana. L’antifascismo propriamente inteso arriva dopo».
È naturalmente la guerra a catalizzare la ribellione, che coinvolge tutto il popolo, donne e uomini, ragazzi e anziani, impiegati e studenti, lavoratori e intellettuali, soldati e ufficiali. Le agitazioni si diffondono nei quartieri di antica tradizione antifascista e nei rioni borghesi. Già il 22 settembre al Vomero gruppi di civili si impadroniscono delle armi abbandonate dal regio esercito, e l’indomani solo 150 persone si presentano al servizio di lavoro obbligatorio imposto dal colonnello Walter Scholl con la minaccia di fucilare i 30.000 renitenti; il 26 sono le donne ad assaltare i camion che dovrebbero trasportare i rastrellati. Il terrore della deportazione forzata spinge all’insurrezione generalizzata.
Si insorge perché stanchi delle angherie dei tedeschi – dal 23 al 24 settembre oltre 200.000 napoletani si ritrovano senza casa per l’evacuazione forzata di alcuni quartieri –, ci si batte per impedire l’invio di migliaia di “schiavi” nelle officine belliche del Terzo Reich, per scongiurare la riduzione della città a “fango e cenere”, ma anche sotto la spinta di imperativi civili e politici, che ispirano la scelta di affrontare a viso aperto i “moderni unni meccanizzati” nonché i “cainifascisti”, sulla cui presenza – ci si riferisce soprattutto al ruolo dei cecchini – spesso è caduto il silenzio.
Sono 17 i gruppi rionali armati che si formano in quei giorni e tra essi ci sono oltre 700 militari e una cinquantina di ufficiali e sottufficiali. Si combatte dappertutto: al Vomero come a piazza Garibaldi, a piazza Trieste e Trento come a Capodimonte e nei sobborghi, a Ponticelli come a Piscinola, a Barra come a Soccavo. I cittadini coinvolti sono oltre 2000, in molti casi adottano tecniche di guerriglia che prendono alla sprovvista i tedeschi e li costringono alla ritirata; è la prima città europea a liberarsi da sola. Le quattro giornate di Napoli «nacquero come moto spontaneo ma svilupparono processi di organizzazione, nacquero come rivolta spontanea di resistenza civile e raggiunsero l’obiettivo di impedire la deportazione degli oltre ottomila napoletani rastrellati. Nel corso degli eventi acquisirono la configurazione di rivolta armata».
Tra i gruppi che partecipano alla battaglia si distingue il Fronte unico rivoluzionario – che ha sede nei locali del Liceo Sannazzaro – costituito dal professor Antonio Tarsia in Curia, ma tra i tanti protagonisti merita una speciale menzione Maddalena “Lenuccia” Cerasuolo, protagonista degli scontri armati al quartiere Materdei e in difesa del Ponte della Sanità – dove opera anche suo padre, sotto la guida del tenente colonnello Ermete Bonomi – e che da ottobre collaborerà con i servizi britannici del SOE partecipando a diverse missioni fino al febbraio del 1944. L’insurrezione del rione Materdei viene ricordata per lo scontro decisivo sul ponte, minato dai tedeschi, costretti a ritirarsi senza poter farlo esplodere, per i tram rovesciati a impedire l’avanzata dei carri Tigre che scendevano da Capodimonte, per il dodicenne Gennaro Capuozzo, ucciso dopo aver aiutato a sparare con un mitragliatore da un terrazzo, cugino di Lenuccia e medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
L’ultima rappresaglia tedesca viene attuata il 1° ottobre, con un fuoco di artiglieria da Capodimonte accompagnato da azioni isolate di nuclei fascisti. Con la ritirata germanica, la violenza si sposta altrove, mentre nello stesso giorno, nel primo pomeriggio, entrano a Napoli i reparti corazzati della 5a Armata, accolti da una folla in festa che aveva già reso onore ai propri caduti per la libertà.
Anche in una zona limitrofa, quella di Salerno, vi furono scontri, morti e feriti. Qui, accanto all’opera instancabile in aiuto di soldati sbandati e prigionieri alleati fuggiti (mentre soccorre un ferito, viene uccisa la crocerossina Filomena Galdieri), scoppiano rivolte contadine culminate nella proclamazione della Repubblica di Sanza, il 10 ottobre. «Un anziano contadino antifascista, Tommaso Ciorciari, fu nominato sindaco; i dipendenti comunali ritenuti responsabili di aver vessato i contadini vennero licenziati in tronco, mentre le terre del latifondista locale venivano occupate». Un mese dopo l’avventura finisce, e il sindaco e trenta braccianti verranno condannati dalla giustizia del Regno del Sud.
Negli stessi giorni dell’insurrezione di Napoli, in Abruzzo avviene uno scontro armato poi ricordato da Parri come il primo conflitto «nostro in campo aperto» contro i tedeschi. Ha luogo a Bosco Martese, a 1400 metri d’altezza e a 40 chilometri da Teramo, dove si sono radunati dopo l’8 settembre centinaia di giovani: «ci sono carabinieri, soldati, civili italiani, ex prigionieri alleati, slavi, apolidi, ex internati politici, comunisti, socialisti, monarchici, azionisti, borghesi, contadini, artigiani, intellettuali, operai. Uno spaccato di varia umanità accomunata dalla consapevolezza che il tedesco è il nemico di tutti». Il comando di questo insieme eterogeneo di gruppi è affidato al capitano dei carabinieri di Teramo, Ettore Bianco. Il 25 settembre, su segnalazione di una spia (linciata dalla folla senza che intervengano i tedeschi), una colonna motorizzata tedesca, che ferma alcuni patrioti incontrati casualmente, viene attaccata dai partigiani che distruggono venti autoblindo e catturano il maggiore Rhodas Hartmann, comandante della Wehrmacht. Le azioni di rastrellamento e rappresaglia, in seguito alle quali Hartmann verrà giustiziato, provocano alcuni morti, ma il grosso dei combattenti, divisi in gruppi, continuerà la lotta fino alla liberazione di Teramo nel giugno 1944.
Anche solo a scorrere nomi, luoghi, partecipanti e dinamiche delle azioni di lotta e di contrasto all’occupazione tedesca avvenute nel mese di settembre – e di cui qui se ne sono ricordate pochissime tra le più importanti – si può concludere con quella che oggi sembra una constatazione ampiamente condivisa: la Resistenza è stata molteplice, articolata, sfaccettata, è stata l’insieme di scelte e comportamenti differenti che si sono intrecciati e sommati in un arco di tempo molto compresso (venti mesi). Anche solo nel primo caotico mese essa ha avuto tappe e tipologie diverse, che si sono accavallate nel tempo con grande rapidità e che hanno mostrato la versatilità e l’ampiezza delle possibilità di lotta e di solidarietà nella battaglia contro il nazifascismo. Nei mesi successivi prevarranno tipologie più marcate e definite, che diventeranno più facilmente il simbolo – anche visivo, anche nell’immaginario – di tutta la Resistenza.
L’ampiezza e la diversità che si manifestano in questo primo mese, di reazione all’occupazione tedesca ma anche al ritorno in forma di regime collaborazionista di Mussolini e dei fascisti, e di lontananza, ostilità e disagio per il comportamento della monarchia e dei comandi militari, rimarranno comunque un segno distintivo che la Resistenza si porterà dietro in tutti i venti mesi che condurranno alla Liberazione. Ogni partigiano, patriota, armato o disarmato che sia, soprattutto in queste prime settimane, ha una propria idea di cosa significhi «resistere» al nazifascismo, all’occupazione, al disonore, alla vigliaccheria. Ma tutti hanno in comune un obiettivo semplice e chiaro: la riconquista della libertà, la fine dell’incubo totalitario in cui è precipitata l’Europa intera tra il 1939 e il 1943.
Esumazione e distruzione delle salme degli ufficiali trucidati a Cefalonia
Io sottoscritto Sabattini Alberto, dichiaro di aver personalmente assistito al trasporto di oltre 200 salme da San Teodoro al porto di Argostoli, e questo avvenne come segue:
La sera del 27 settembre 1943, verso le ore 21, fui chiamato da alcuni graduati tedeschi per seguire da vicino, con la mia automobile, una loro macchina; nei pressi di San Teodoro ci siamo fermati e subito dopo la macchina che mi precedeva partiva, mentre io fui trattenuto.
Davanti a me, un po’ a destra, da un’incavatura naturale abbastanza profonda, perveniva un grandissimo fetore. Nelle immediate vicinanze si trovavano un autotreno con un autista italiano, attorno al quale lavoravano in silenzio alcuni marinai italiani, mentre 7 o 8 tedeschi assistevano imperterriti, con le pistole in pugno, a quel macabro andirivieni.
Il mio compito – disse un ufficiale tedesco – era di proiettare la luce dei fari della mia auto carretta nell’interno delle buche e che scegliessi il posto migliore per tale scopo. Quando il posto fu illuminato, ciò che vidi mi impressionò talmente che mi imposi di non guardare mai più da quella parte. Ma involontariamente l’occhio scrutava: corpi inanimati, deformi ed irriconoscibili, giacevano senza ordine, senza posa, senza cura uno sopra l’altro, imbevuti nel sangue. Erano gli ufficiali italiani fucilati in precedenza.
I marinai, muniti di barelle, portavano i cadaveri dalla buca all’autotreno. Quando l’autotreno fu carico, venne fatto partire, accompagnato da due tedeschi. Ma un altro autotreno arrivava con la stessa missione, partito il secondo, arrivò di nuovo il primo e seppe dall’autista quanto segue: le salme dei nostri ufficiali venivano trasportate dal luogo della fucilazione al porto di Argostoli per essere caricate su uno zatterone tedesco; ogni autocarro ne trasportava 32-33. I marinai che lavoravano nella buca facevano parte della batteria marina costiera di Faraò. Quando il quarto autotreno fu ultimato, il lavoro fu cessato e con l’autocarretta io trasportai italiani e tedeschi alla casetta rossa, dove noi italiani siamo stati piantonati da due guardie tedesche: erano le 4 del nascente 28 settembre. […] I marinai rimasero al porto e da allora nessuno li ha più visti.
NB – Posso aggiungere che le fosse di San Teodoro contenevano 18 salme di marinai, esumate il 25 ottobre 1944 alla mia presenza. Ciò potrebbe spiegare perché quei marinai di cui parla il Sabattini non furono più visti.
24 ottobre 1944 Il cappellano militare p. Luigi Ghilardini
Romualdo Formato, L’eccidio di Cefalonia, Mursia, Milano 1968
IV.
Il tempo delle scelte
Gli sconvolgimenti dell’autunno 1943 pongono l’imperativo delle scelte, ossia la necessità di prendere posizione dinanzi all’occupazione tedesca, alla ripresa del fascismo in forma repubblicana, alle prime manifestazioni di resistenza. Fattori ambientali, appartenenze familiari, frequentazioni amicali, retroterra personali si intrecciano e si sovrappongono nel determinare atteggiamenti e coinvolgimenti nella fase di incubazione della guerra civile, sotto la pressione di circostanze imprevedibili e spiazzanti.
Tra quanti sciolgono pubblicamente questo nodo, vi è il magnifico rettore dell’Università degli Studi di Padova, Concetto Marchesi, che il 9 novembre 1943, nella cerimonia d’apertura dell’anno accademico, tiene un discorso ambiguo apprezzato anche dalle autorità della RSI, per poi passare alla clandestinità e rivolgere un fiero appello antifascista alla gioventù italiana (trascritto in chiusura del capitolo).
I due principali filoni alla base della Resistenza sono quello dell’antifascismo storico, sconfitto nella prima metà degli anni Venti e sopravvissuto – con qualche innesto – tra carcere, confino ed esilio, e quello di una parte della gioventù, indottrinata nel ventennio mussoliniano e gettata al macello nella seconda guerra mondiale, che passa risolutamente all’opposizione, sentendosi ingannata dal duce. La guerra disillude anche molti fascisti, alcuni dei quali – soprattutto quelli legati idealmente alla dimensione rivoluzionaria – passano dalla fronda al dissenso e infine alla contrapposizione.
Ernesto Rossi, resistente di lungo corso
Ernesto Rossi (1897-1967), prima di diventare un personaggio tra i più rappresentativi dell’antifascismo non comunista, vive e attraversa le contraddizioni di tanti giovani maturati anzitempo nelle tragedie della trincea, segnati nel corpo dalle ferite e nello spirito dalla morte di tanti amici. Partecipa volontario diciannovenne alla Grande Guerra, infervorato da idealità democratiche coniugate con le aspirazioni al completamento dell’unità nazionale, viene ridotto in fin di vita e rimane mutilato. Nell’immediato dopoguerra pubblica articoli di natura economico-finanziaria su «Il Popolo d’Italia», «l’Unità» e «La Rivoluzione Liberale». Si avvicina nel 1919 al nascente movimento dei Fasci italiani di combattimento, staccandosene però prima della marcia su Roma. Nel 1923 fonda con i fratelli Rosselli il Circolo di cultura di Firenze, la cui sede viene distrutta l’anno successivo dalle camicie nere. Svolge attività clandestina nel movimento Italia Libera e anima nel 1925 con Gaetano Salvemini il giornale murale «Non Mollare», stroncato dalla polizia dopo diversi mesi di indagini. Docente di economia in un istituto superiore di Bergamo, conduce una doppia vita e nel 1928 costituisce a Milano un gruppo clandestino repubblicano con Riccardo Bauer, Vincenzo Calace, Umberto Ceva, Ferruccio Parri, Dino Roberto e altri intellettuali di estrazione borghese. I cospiratori, legati al centro parigino di Giustizia e Libertà, da cui ricevono opuscoli e materiale propagandistico, estendono la loro rete in varie città centro-settentrionali, finché il 30 ottobre 1930 il tradimento dell’avvocato Carlo Del Re (che vende i compagni al capo della polizia, in cambio di grosse sovvenzioni) determina decine di arresti e lo sradicamento del Centro interno giellista. Imprigionato a Regina Coeli, Rossi rivendica la propria opposizione:
Sono nettamente e decisamente antifascista; gli stessi principi democratici liberali che già mi condussero a fare la guerra quale volontario nella ferma idea di combattere la Germania, nella quale vedevo una forma di oppressione anti-liberale, e che mi condussero ad oppormi al bolscevismo nel periodo immediatamente dopo la guerra, gli stessi principi demo-liberali, ripeto, mi hanno portato dalla marcia su Roma in poi ad assumere una posizione nettamente contraria al fascismo.
Condannato a vent’anni, subisce una carcerazione durissima, con periodi di isolamento e riduzione del vitto per l’irriducibilità alle soperchierie carcerarie. Assegnato nel novembre 1939 al confino quale “elemento socialmente pericoloso”, nell’isola di Ventotene approfondisce con Eugenio Colorni e Altiero Spinelli l’analisi della situazione europea, scrivendo nel 1941 l’appello ai resistenti «Per un’Europa libera e unita», poi divenuto noto come Manifesto di Ventotene.
Nel 1942 anche sua moglie Ada, docente di matematica a Bergamo, finisce al confino. A inizio luglio 1943 viene ricondotto da Ventotene a Regina Coeli in regime di isolamento con Riccardo Bauer e Vincenzo Calace, nell’ambito di una montatura per attribuire ai giellisti la strage della Fiera campionaria di Milano del 12 aprile 1928. Crollato il regime, il 30 luglio torna libero e si reca nell’abitazione della madre di Altiero Spinelli, dove trova Colorni e altri federalisti, che redigono il secondo numero del giornale «l’Unità Europea», critico del governo Badoglio e della prosecuzione della guerra a fianco dei nazisti: Rossi vi pubblica uno scritto intitolato Le tendenze federaliste. Viene poi preparato un volantino con la richiesta di abdicazione del re e l’appello alla mobilitazione antitedesca: è il primo documento pubblico distribuito in Italia evocante la Resistenza. In serata Rossi viene imprigionato con due compagni per la distribuzione di questo volantino, ma, dopo averne verificato la recentissima scarcerazione, lo si libera per la seconda volta nel giro di poche ore.
I quaranta giorni del governo Badoglio sono vissuti in un vorticoso susseguirsi di riunioni private e di attività pubbliche tra Roma, Firenze, Torino e Milano, per recuperare i 12 anni di segregazione inflittigli dal regime. Dopo alcune titubanze aderisce al Partito d’Azione, sostenendovi la linea di incompatibilità con il Partito comunista, nell’ottica di una coalizione democratico-socialista-repubblicana che respinga l’egemonia comunista sull’antifascismo, con un programma che coniughi in una prospettiva federalista l’opposizione al nazifascismo. Trova affinità, tra gli altri, con Enzo Enriques Agnoletti, Piero Calamandrei, Eugenio Colorni, Leone Ginzburg, Ada Gobetti, Mario Alberto Rollier. Riprende i contatti epistolari con Altiero Spinelli, liberato a inizio agosto 1943. Condivide il progetto di Colorni, entrato nel Partito socialista per condizionarlo in senso federalista. È invece distante da altri azionisti, per esempio Ugo La Malfa, critici della priorità federalista, concepita da Rossi quale piattaforma su cui fondare il nuovo assetto continentale, in un’Europa pacificata e senza nazionalismi. A metà agosto organizza una riunione a Monte Oriolo, in una casa di parenti, sulle colline di Firenze, per discutere della fondazione del movimento federalista; vi partecipano anche Colorni e Rollier, che il 28 agosto sono a Milano, con Altiero Spinelli e una ventina di altri militanti.
A inizio settembre Rossi partecipa a Firenze al congresso costitutivo del Partito d’Azione, poi si reca a Bergamo, dove incontra un gruppo di giovani sensibilizzati al federalismo da Ada Rossi.
La sera dell’8 settembre, pur febbricitante e afflitto da esaurimento psicofisico per il peso degli anni di prigionia e confino, e per l’intenso impegno profuso nelle settimane trascorse in libertà, è l’oratore al raduno popolare tenutosi alla Torre dei Caduti alla notizia dell’armistizio. Invita alla lotta antinazista in corso in tutta Europa e addita quale obiettivo politico la formazione degli Stati Uniti d’Europa. Rielabora quel discorso – intitolato Guerra al nazismo – per la pubblicazione sul terzo numero dell’«Unità Europea», edito clandestinamente a Bergamo.
L’esposizione pubblica pregiudica la sua permanenza a Bergamo, dove è in testa alla lista degli antifascisti da arrestare. Recatosi a Milano per collegarsi ai primi nuclei di resistenti, si ritrova isolato e ripara in Svizzera, per riprendere le fila dell’azione federalista. Il 17 settembre partecipa a Lugano al primo incontro tra emissari della Resistenza italiana e Alleati, alla presenza dei direttori dello Special Operations Service (SOE) John McCaffery e dell’Office of Strategic Services (OSS) Allen W. Dulles. Al secondo appuntamento, il 3 novembre, intervengono anche Ferruccio Parri e Leo Valiani; in quell’occasione viene distribuito agli angloamericani un memoriale elaborato da Rossi, ispirato alle posizioni azioniste e con riferimenti alla visione postbellica di «un nuovo ordine europeo che consenta il pacifico sviluppo dei diversi Paesi del continente entro le direttive generali espresse dalla carta Atlantica».
In ottobre si stabilisce con la moglie a Lugano e nel marzo 1944 a Ginevra. Insieme a Spinelli svolge un’intensa opera propagandistica e organizzativa federalista, con interlocutori quali Luigi Einaudi, Adriano Olivetti, Ignazio Silone e Umberto Terracini. Scambia con Gaetano Salvemini – in esilio negli Stati Uniti – lunghe lettere e densi memoriali sulla situazione politica. Nell’estate 1944 cura per «l’Unità Europea» la Dichiarazione federalista internazionale dei movimenti della Resistenza Europea. Lavora intensamente tra Lugano e Ginevra, a contatto con la delegazione elvetica del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia (CLNAI), finché il 19 aprile 1945 rimpatria e si stabilisce a Milano, collegandosi al partigianato azionista. Il suo sguardo si spinge costantemente ai futuribili assetti del dopoguerra, che vorrebbe fondati sui valori della pace e della collaborazione tra i popoli, cui dedica L’Europe de demain (revisione e traduzione di Gli Stati Uniti d’Europa, saggio apparso qualche mese prima in italiano). Si rende peraltro conto della divaricazione esistente tra gli ideali federalisti e le logiche di potenza sottese ai rapporti politico-militari tra gli stessi Alleati. Nonostante comprenda che la rivoluzione democratica da lui auspicata sia lungi dal realizzarsi, è tra i promotori a Ginevra di organismi quali il Comité provisoire pour la Fédération Européenne (giugno 1944) e il Centre d’action pour la Fédération Européenne (dicembre 1944) che, nati dopo gli incontri ginevrini tra i movimenti della Resistenza europea, consentono di mantenere vive le relazioni con i federalisti elvetici e gli emissari del maquis francese, in preparazione del primo Congresso federalista internazionale, svoltosi nel marzo 1945 nella Francia liberata, a Parigi, presso la Maison de la Chimie.
Il socialismo come redenzione: l’architetto Giuseppe Pagano
Vi sono personaggi essenziali per comprendere le contraddizioni e le ricchezze, le varie fasi sperimentate in una vita, nell’Italia tra la prima e la seconda guerra mondiale. Uno di essi è sicuramente l’architetto Giuseppe Pagano Pogatschnig (Parenzo, 1896-Melk, 1945), la cui esistenza, straordinariamente avventurosa e significativa, si dipana dalla Grande Guerra al fascismo, dalla campagna di Grecia alla guerriglia partigiana, dal carcere alla deportazione, con un eccezionale lavoro nei campi dell’architettura e dell’urbanistica, segnato da linearità e discontinuità, da compromessi anche dolorosi – in particolare il rapporto con Marcello Piacentini –, atteggiamenti in parte connaturati al suo temperamento irruente e in parte condizionati dai processi storici. Il rapporto con il fascismo passa dall’adesione giovanile all’impegno politico durante gli anni Trenta in battaglie culturali coniugate con una forte sensibilità sociale; alla disillusione segue – quale logica conseguenza – la lotta aperta.
Originario dell’Istria, si batte per il compimento dell’unità nazionale, nella posizione di “traditore” vissuta da Cesare Battisti e da altri intellettuali di nazionalità austroungarica. A inizio 1915 varca illegalmente il confine per arruolarsi nell’esercito italiano; in quella circostanza cambia il cognome da Pogatschnig in Pagano. Ferito in combattimento, viene catturato due volte e per due volte fugge dai campi d’internamento. Nel dopoguerra è tra i fondatori del fascio del suo paese natale, Parenzo; partecipa all’occupazione dannunziana di Fiume.
Laureatosi nel 1924 al Politecnico di Torino, intraprende un’attività professionale che dal 1927 – con la nomina a capo dell’Ufficio tecnico dell’Esposizione internazionale di Torino – lo vede impegnato a promuovere un’architettura razionale. Un’attività che, affiancata alla collaborazione alla rivista «La Casa Bella» (di cui è redattore dal 1930, direttore dal 1939), lo schiera contro monumentalismo e accademia, per un’architettura aperta alla tradizione modernista europea e al servizio delle esigenze sociali, per il miglioramento della qualità della vita. Individua in Mussolini l’artefice del rinnovamento nazionale ed è direttore artistico della Scuola di mistica fascista.
Secondo il suo collega Ernesto Nathan Rogers: «La fede nell’architettura spinse e guidò Pagano nella pericolosa strada del collaboratore prima, del dissidente poi e infine dell’avversario del fascismo». Il distacco avviene anzitutto sul terreno dell’architettura, con il rifiuto del concetto di romanità esaltato dal duce e il sequestro della rivista «Costruzioni-Casabella» per scritti politicamente scorretti.
Pagano partecipa come volontario alla campagna di Grecia. Richiamato alle armi nel 1942 con il grado di colonnello, esce dal Partito nazionale fascista e dalla Scuola di mistica fascista. È la formalizzazione della fine del lungo viaggio dentro il fascismo. Inadatto a mediazioni e mezze misure, diviene un risoluto oppositore, con il risentimento accumulato in anni di frustrazioni. Nel periodo badogliano diffonde il giornale clandestino «Avanti!» e svolge azione propagandistica nell’esercito. Su «Costruzioni-Casabella» dell’agosto 1943 invita gli artisti italiani
a quell’azione pratica e personale che si svolgerà in circostanze certamente eccezionali e che richiederà ad ognuno di noi un impegno morale elevatissimo, un’obbedienza assoluta alla voce della coscienza, una coerenza rigorosa con la missione che ognuno di noi si è prescelta, impegnando tutta la nostra vita e la nostra arte a quel bel modo di pagar di persona che i nostri uomini del risorgimento, da Cattaneo e Pisacane, ci hanno opportunamente insegnato.
L’8 settembre 1943, quando la divulgazione dell’armistizio senza direttive chiare getta le forze armate italiane nel caos, Pagano si trova a Milano e propugna l’azione armata contro i tedeschi. L’esperienza si dimostra poco produttiva, in quanto il comandante della Piazza, generale Vittorio Ruggero, promette agli antifascisti la distribuzione delle armi ma poi le consegna ai tedeschi. Dopo aver organizzato in Lombardia i primi nuclei delle Brigate Matteotti, Pagano ritorna a Carrara, dove aveva prestato servizio militare, per allestire una rete clandestina nelle caserme; la sera del 9 novembre viene catturato all’esterno di una postazione della Milizia, armato di pistola. Deferito al Tribunale speciale, nell’attesa del processo è trasferito al carcere di Brescia, dove rimane otto mesi. Il curriculum combattentistico e la trascorsa militanza fascista potrebbero fargli ottenere la liberazione, al prezzo di un adattamento opportunistico, tanto più che qualche gerarca – segnatamente l’ex segretario fascista Scorza – vorrebbe giovargli in nome della vecchia amicizia, ma Pagano scarta questa strada: «Non posso né voglio assolutamente nessuna soluzione di compromesso. Preferisco prendermi i miei trent’anni di galera piuttosto che dichiararmi pentito o magari filofascista. Ormai Basta! con queste porcherie!». Durante la prigionia studia un sistema di prefabbricazione della casa, documenta con tre rullini fotografici la condizione carceraria e commenta nel suo diario il tentativo di legittimare il fascismo di Salò con l’appello ai programmi socialistoidi del 1919:
Chi comanda ha confusa la responsabilità morale del potere con la libidine di un arbitrio assurdo, pazzescamente illusi di essere investiti da un destino grottesco di dominio su tutti e su tutto, come se non bastasse l’evidente sfiducia di tutta la maggioranza degli italiani per questo regime di volta-gabbane che si trasforma adesso in un grande stato socialista e repubblicano, copiando come gli scolaretti testoni quel che non vollero capire in tempo utile.
Durante un bombardamento notturno, alle tre di mattina del 13 luglio 1944, evade con circa duecento detenuti. Riacquistata la libertà, torna a Milano, dove prende la direzione delle Brigate Matteotti. Nei primi giorni di vita clandestina si fa fotografare in posa sarcastica, con un gesto di sfregio per i suoi ex carcerieri.
Scrive per la stampa clandestina Reazione artistica in berretto frigio, contro Ugo Ojetti (vicepresidente dell’Accademia d’Italia) e gli intellettuali collaborazionisti, suggellato da una frase emblematica: «Ormai tutto è chiaro: da una parte il nazismo con la sua corte di sguatteri nostrani; dall’altra la gente che non vende la propria coscienza e che lavora e sogna e opera “come ditta dentro”». Un breve e intenso interludio di libertà. La sera del 5 settembre partecipa a una riunione del Partito socialista e concorda per l’indomani mattina un appuntamento cospirativo, ma tre traditori informano la Banda Koch – formazione di polizia speciale al servizio dei nazisti – che lo cattura. Imprigionato nella cella n. 4 della palazzina di via Paolo Uccello n. 17-19 (Villa Triste), viene ripetutamente torturato. Rilasciato a fine mese sulla parola con Eugenio Dugoni (futuro deputato socialista alla Costituente e sindaco di Mantova) e Alessandro Nardini, per trattare con i dirigenti socialisti milanesi la liberazione di alcuni prigionieri in cambio dell’incolumità per Pietro Koch, quando l’iniziativa si rivela infruttuosa rientra nella prigione, per evitare rappresaglie sui suoi compagni (differentemente da Dugoni e Nardini, che scelgono la libertà).
L’atmosfera di terrore respirata a Villa Triste è descritta nel memoriale elaborato da Pagano nell’autunno 1944, appena uscito da quell’esperienza:
Lo sgomento che afferrava immediatamente ogni detenuto, era lo stato d’animo che regnava nei sotterranei: disperazione di non potersi difendere; inutilità di ogni tentativo di sincerità; panico continuo per ogni rumore e per ogni passo che rimbombava sulle nostre teste; disagi continui di chi doveva dormire sul cemento, a mucchi, con un solo materasso ogni 8 prigionieri. E per di più i lamenti dei feriti febbricitanti, parecchi con costole rotte; allucinanti angosce dei più terrorizzati e disperate paure per le probabili future torture che si sarebbero svolte nella notte. Era difatti la notte che si raggiungeva il colmo delle nostre sofferenze. Non si poteva dormire: sopra di noi, al piano rialzato, si svolgevano gli “interrogatori”: si sentivano i colpi delle cadute, l’urto dei corpi sollevati e buttati a terra; rimbombavano nel sotterraneo gli urli e le minacce, e ognuno di noi viveva le stesse sofferenze del compagno che era “di sopra”.
Durante la carcerazione, anima il collettivo dei detenuti con utopiche descrizioni della città del futuro, in conversazioni che si sviluppano con il contributo dei compagni di pena, molti dei quali avvocati e insegnanti di fede socialista. L’ex deputato bresciano Guglielmo Ghislandi descriverà quei momenti di vita comune, sospesi tra l’incertezza del presente e la fiducia nell’avvenire:
L’architetto amava portare la conversazione sulla sua arte e descrivere a se stesso e a noi la visione di un’Italia nuova e rinnovata anche nelle sue esigenze edilizie ed urbanistiche. Ci parlava di un suo progetto di città-giardino, a immagine e somiglianza di quanto egli aveva visto ed ammirato nei suoi viaggi nei più progrediti paesi di Europa, specialmente in Svezia: case ampie, chiare di pitture esterne ed interne, con locali razionalmente disposti, secondo la tecnica più moderna, accoppiata a opportuni ma non ristretti criteri di economia, finestre amplissime da cui entrasse il beneficio dell’aria purificata dal verde tutt’attorno e dove la luce, la luce, la luce dominasse risanatrice sovrana.
Pagano aveva chiamato quel suo progetto Città Verde; qualcuno di noi disse: «Meglio forse Città Luce, perché, ancora più del verde, pur tanto necessario ed augurabile, la luce costituirebbe la caratteristica più significativa in quelle case e città di un’Italia futura, finalmente libera e redenta». «Luce» aggiunse altri «che non sarà dunque soltanto di sole, ma di nuova civiltà e di nuova storia». «Luce» concludemmo quindi, tutti o quasi tutti, «di socialismo, perché soltanto in una società socialista sarebbero possibili iniziative tanto grandiose e concrete di rinnovamento della nostra terra e della nostra gente».
Ed ecco Città Luce significare per noi, dopo di allora, qualche cosa di assai più vasto che non il geniale, ma limitato, progetto di un architetto urbanista, e cioè la visione non di una sola città-modello, ma di tutta una nazione risorta sulle vie del più luminoso progresso e benessere civile e sociale; la realizzazione concreta di un ideale e, in definitiva, l’ideale stesso della nostra fede, della nostra lotta, del nostro sacrificio. Insomma: Città Luce = Socialismo.
Pagano prepara un piano di fuga, fallito a causa del trasferimento dei prigionieri a San Vittore. Il 9 novembre viene internato nel campo di Gries, alla periferia di Bolzano, e il 22 novembre è deportato a Mauthausen. Dopo un paio di settimane è assegnato al sottocampo di Melk, vicino a Linz. Il lavoro coatto nelle miniere è inasprito dalle percosse di un guardiano, che gli provocano broncopolmonite traumatica e febbre alta.
Ricoverato nell’infermeria in condizioni disperate, scrive un testamento morale sui due lati di un foglietto, ricoperto con grafia fitta e irregolare, affidato a Alessandro Nardini (al termine della guerra, lo consegnerà ai familiari). «Non piangere troppo e sii fiera della mia vita generosa. Pago di persona», scrive alla moglie Paola, sintetizzando le contraddizioni del proprio itinerario esistenziale. «Ricordatemi bene uomo vivo e pieno di volontà. Sono stato stroncato di violenza», confida al fratello Zanetto, mentre il suo tempo si consuma: «Non posso né voglio scrivere di più». All’architetto Palanti affida la propria eredità spirituale. Le righe finali, leggibili solo a tratti, ribadiscono la fede socialista e la propria dignità: «Ho dato la vita per il Partito e ne sono fierissimo. Avevo tanti sogni, tanti progetti e tante speranze quasi certe. Finito! A Voi continuare bene e meglio. Addio». Si spegne il 22 aprile 1945. In un altro sottocampo di Mauthausen, Gusen, erano morti due suoi amici e collaboratori: in gennaio il critico Raffaello Giolli, a inizio aprile l’architetto Gian Luigi Banfi.
Teresio Olivelli, da littore della razza a Fiamma Verde
Negli anni Trenta, gli ecclesiastici sono un vettore di consenso al regime. Dal rettore dell’Università cattolica del Sacro Cuore, Agostino Gemelli, all’influente gesuita Pietro Tacchi Venturi, dall’arcivescovo di Milano cardinale Schuster al più umile parroco di campagna, il clero italiano omaggia “l’uomo della Provvidenza”, che ha riconciliato Chiesa e Stato con il Concordato del 1929 e schierato l’Italia nella crociata antibolscevica in terra di Spagna. Il clerico-fascismo è un tratto distintivo della pedagogia del regime, che condiziona profondamente la gioventù.
Teresio Olivelli, nato nel 1916 a Bellagio (Como) in una famiglia di commercianti, dispiega un notevole attivismo nelle organizzazioni cattoliche e in quelle di regime. Crede che nell’Italia di Mussolini si costruisca una nuova civiltà rispettosa dei valori comunitari cristiani, alternativa a quella basata sui precetti dell’individualismo liberale e pure al modello collettivista sovietico.
Laureatosi in Giurisprudenza a Pavia nel 1938, attivista della Gioventù universitaria fascista (GUF), l’anno successivo vince con una dissertazione sul razzismo il concorso di Dottrina del Fascismo ai Littoriali della cultura. La sua concezione della “razza italiana” si richiama alla Roma imperiale e alla tradizione della Chiesa cattolica.
Nel maggio 1940 diviene segretario dell’Ufficio studi e legislazione del Partito nazionale fascista, nonché delegato del PNF nel Consiglio superiore della demografia e della razza presso il ministero dell’Interno. Quell’estate frequenta a Berlino il corso di politica nazionalsocialista per stranieri. In ottobre, quando l’Italia combatte al fianco della Germania, è relatore al primo Convegno interuniversitario italo-tedesco di studi politici. Nel febbraio 1941 torna a Berlino per un nuovo corso di politica nazionalsocialista.
Alberto Caracciolo, suo primo biografo, crede che il fascismo di Olivelli non si possa spiegare come un tentativo di influenzare il regime in senso cattolico:
Bisogna anche dire che questo sforzo egli non [lo] compì dall’esterno, che il tentativo di modificare segue a una reale immedesimazione in quel mondo: in altre parole, mentre tenta di trasformare il fascismo, egli ne assorbe le idee, lo spirito, lo stile stesso. Sarebbe errato pensare il suo fascismo come una posizione puramente strumentale rispetto al suo cristianesimo.
L’esigenza etica di coniugare idee e comportamenti concreti lo spinge a presentarsi volontario di guerra, per il fronte russo, dove entra in azione nel luglio 1942, rimpatriando il 20 marzo 1943.
Torna dalla guerra profondamente disilluso e ora valuta il fascismo come un’infausta dittatura, i cui danni vede rispecchiati nelle città semidistrutte dai bombardamenti e nel dilagante deficit morale.
Inviato in licenza da aprile a luglio, ottiene dal ministro Bottai l’incarico di rettore del Collegio “Ghislieri” di Pavia.
Tornato al suo reparto, dislocato a Vipiteno, in Sud Tirolo, a metà settembre è catturato e internato nei pressi di Salisburgo. Evade il 20 ottobre 1943 e l’11 novembre giunge a Brescia, dove contatta alcuni intellettuali cattolici promotori del movimento delle Fiamme Verdi e dopo una decina di giorni si trasferisce a Milano presso l’ingegner Carlo Bianchi (titolare di un’azienda cartografica), accanto al quale esplica un rilevante lavoro organizzativo in Lombardia. Con Bianchi – figura chiave della Resistenza cattolica lombarda, ancorché trascurato dalla storiografia – nel febbraio 1944 promuove il giornale clandestino «il Ribelle», distribuito clandestinamente a inizio marzo e che sul numero d’esordio riporta il motto «Insorgere per risorgere». Sul secondo numero Olivelli spiega il programma dei ribelli («così ci chiamano, così siamo, così ci vogliamo»), chiarendo che l’8 settembre 1943 è nata l’autentica Patria, aperta all’umanità decisa a strappare le catene delle dittature:
L’8 settembre è uno spartiacque: di qui rampolla e dirompe la vita nuova della nazione che ci divampa nello spirito, s’illumina di verità, freme nell’azione. Per chi non ne sente il flusso suggestivo e possente e lo disperde nei fondigli dell’animo o nell’impotente pettegolezzo, per i complici, i titubanti, i frigidi, non c’è posto. […] Uno è il dato di partenza nella sua crudezza veritiera: niente più c’è da salvare. La parola d’ordine è ricostruire, scartando le ambigue esitazioni. […] Lottiamo giorno per giorno perché sappiamo che la libertà non può essere elargita dagli altri. Non ci sono “liberatori”. Solo uomini che si liberano. Lottiamo per una più vasta e fraterna solidarietà degli spiriti e del lavoro, nei popoli e fra i popoli, anche quando le scadenze paiono lontane e i meno tenaci si afflosciano: a denti stretti, anche se il successo immediato non conforta il teatro degli uomini, perché siano consapevoli che la vitalità d’Italia risiede nella nostra costanza, nella nostra volontà di resurrezione, di combattimento, nel nostro amore.
Al giornale è allegata la Preghiera del ribelle, nella quale traspare l’ispirazione cristiana che sorregge Bianchi e Olivelli:
Signore che fra gli uomini drizzasti la Tua Croce segno di contraddizione, che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dominanti, la sordità inerte della massa, a noi, oppressi da un giogo numeroso e crudele che in noi e prima di noi ha calpestato Te fonte di libera vita, dà la forza della ribellione. […]
Tu che dicesti: «Io sono la resurrezione e la vita» rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa. Liberaci dalla tentazione degli affetti: veglia Tu sulle nostre famiglie!
Sui monti ventosi e nelle catacombe della città, dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai dare.
Dio della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore.
Il 26 aprile 1944 l’arresto di un collaboratore della rete partigiana cattolica, il medico Giuseppe Jannello, da parte dell’Ufficio speciale di polizia, organizzato da Luca Osteria sotto protezione tedesca, si rivela gravido di conseguenze. Il prigioniero cede al ricatto di ritorsioni contro sua madre e – lusingato dalla prospettiva della liberazione – attira con una telefonata Bianchi e Olivelli a un appuntamento, nel quale l’indomani saranno entrambi catturati. Le prove raccolte dagli investigatori contro i dirigenti del «Ribelle» convince don Giuseppe Bicchierai, elemento di raccordo tra l’arcivescovado e il comando germanico, a raccomandare al cardinale Schuster la massima prudenza, cioè a evitare un forte intervento in favore degli arrestati, rinchiusi nel frattempo a San Vittore (tra di essi figurano i tipografi Luigi Monti e Franco Rovida, e l’ex militare Rolando Petrini che – come Bianchi e Olivelli – verranno uccisi dai nazisti).
Dopo pochi giorni Olivelli invia di nascosto a Claudio Sartori (nuovo direttore del «Ribelle») un messaggio a tratti ironico e allusivo delle torture subite, indicandogli come limitare i danni inflitti dalla polizia alla rete partigiana.
Il 9 giugno è trasferito nel campo di Fossoli; l’11 luglio, selezionato per la fucilazione con una settantina di compagni, si nasconde arrampicandosi sulle travi del capannone; grazie alla copertura di alcuni internati si sottrae alle ricerche, ma viene scoperto durante la smobilitazione del campo. Il 5 agosto è trasferito a Bolzano e un mese più tardi deportato al sottocampo di Hersbruck. Oltre a lavorare nello scavo e nella sistemazione delle fognature del Lager, svolge mansioni di interprete e scrivano del blocco degli italiani. Muore il 17 gennaio 1945, per le conseguenze delle percosse inflittegli da un kapò polacco, irritato da un gesto di solidarietà verso un prigioniero ebreo. Il cadavere viene cremato e le ceneri disperse.
Come ha rilevato uno studioso della gioventù italiana tra dittatura e democrazia, «non solo la maturazione di una nuova coscienza critica, ma, soprattutto, la tragica e altruistica fine del giovane intellettuale cattolico valevano indubbiamente a riscattare gli errori e le ingenuità degli anni precedenti». Secondo la tradizione cattolica, molti biografi hanno evitato di confrontarsi con il problema della continuità esistenziale, contrapponendo la prima e la seconda vita di Olivelli, nel segno della conversione e del martirologio. E, per meglio esaltarne la figura, hanno sminuito se non ignorato il ruolo dell’altro artefice del «Ribelle», Carlo Bianchi, di cui Olivelli fu intimo collaboratore. Decorato con medaglia d’oro al valor militare alla memoria, il 3 febbraio 2018 Teresio Olivelli è stato proclamato beato ed è attualmente in corso il processo di santificazione.
La dimensione solidarista: Maria e Delfina Borgato
Nelle giornate caotiche seguite all’armistizio, quando ancora non si è delineata un’organizzazione resistenziale e sembra non esservi alternativa al predominio tedesco, vi sono migliaia e migliaia di persone solidali che, ognuna nel proprio ambiente, spesso in modo volontaristico e non coordinato, soccorrono i soldati fuggiaschi, li riforniscono di abiti borghesi e li ospitano, esponendosi in tal modo a forti rischi. Nella stragrande maggioranza si tratta di donne, spesso a loro volta madri, mogli o sorelle di soldati disseminati su fronti lontani dalla patria. Sono interventi spontanei, immediati e prepolitici, prestati per un senso di umanità a chi è braccato e ricerca vie di fuga. L’ambiente è costituito solitamente dalle vallate montane e dalla dimensione urbana, dove le caserme si svuotano l’8 settembre in una fuga generalizzata o divengono una trappola per chi vi si ferma. Non di rado le catene solidaristiche sono prestate da gruppi familiari di tradizione contadina.
Forme consimili di solidarietà, con grande esposizione a rischi, si attuano a favore degli Alleati prigionieri di guerra, fuggiti a migliaia dai campi di internamento, nelle giornate caotiche del post-armistizio.
Tra i tanti nuclei parentali espostisi in iniziative solidaristiche vi è la famiglia Borgato, residente nella borgata agricola di Saonara (una ventina di chilometri a est di Padova), dove è affittuaria di alcuni campi.
L’esistenza di Maria Borgato, nata nel 1898, prima di quattro figli, è segnata da una malformazione alla gamba destra, che la rende zoppicante e le impedisce di realizzare il sogno della sua vita: divenire suora. La sua tensione religiosa la porta tra le figlie di Sant’Angela Merici, come suora laica. Per mantenersi, ricama corredi e tovaglie, aiutando come può i familiari nei lavori campestri.
Nella temperie del settembre 1943, trova un’intesa operativa con il fratello Giovanni e con sua figlia Delfina, sedicenne cresciuta nei valori evangelici. L’abitazione dei Borgato si trasforma in ospitale rifugio per ex prigionieri alleati e soldati italiani sbandati. Zia e nipote li accompagnano nottetempo a Padova, da padre Placido Cortese, direttore del «Messaggero di Sant’Antonio», che alla Basilica del Santo produce documenti falsi e affida i fuggiaschi alla rete clandestina Fra-Ma per il trasferimento verso il confine elvetico, in contatto con i professori Ezio Franceschini dell’Università Cattolica di Milano e Concetto Marchesi dell’Università di Padova.
Dai Borgato, passano prevalentemente ex prigionieri inglesi, australiani e neozelandesi, che in numero di 2000 erano stati internati in provincia di Padova per essere impiegati in lavori agricoli: c’è chi chiede asilo per una notte e chi si ferma più a lungo per essere affidato alla rete Fra-Ma. Anche qualche ebreo usufruisce di analogo sostegno, con il fattivo aiuto delle studentesse universitarie Teresa e Liliana Martini, due sorelle antifasciste, allertate da Maria Borgato che dal posto telefonico pubblico le informa: «Sono pronti due o tre polli». Varie altre famiglie padovane forniscono punti d’appoggio, nonostante dall’ottobre 1943 il comando germanico alterni punizioni a lusinghe, prevedendo l’incendio delle case ospitali con i ricercati, e promettendo 1800 lire o il rilascio di un parente internato nel Reich a chi denunci il nascondiglio di un ex prigioniero.
Alla cognata (madre di dieci figli), che la sconsiglia di esporre la famiglia ai rischi della ritorsione tedesca, risponde: «Un giorno anche i tuoi figli andranno per il mondo, e non sai che sorte avranno: saresti contenta che fosse fatto per loro quello che si fa ora per questi poveretti». Grazie alla famiglia Borgato, oltre 200 persone sfuggono alle ricerche dei nazifascisti.
La notte del 13 marzo 1944 le SS – informate da un altoatesino presentatosi ai Borgato come disertore – catturano Maria, il fratello Giovanni e la nipote Delfina, devastando abitazione, stalle e fienili. Le due donne vengono picchiate dinanzi ai familiari attoniti. La retata include anche le sorelle Martini.
Anche padre Cortese è catturato: trasferito nella sede della Gestapo di Trieste, sarà ucciso verso la fine del 1944, dopo prolungate sevizie.
I tre Borgato vengono condotti nel carcere veneziano di Santa Maria Maggiore; al momento della separazione, Maria dice al fratello: «Ho una sola preoccupazione: la sorte tua e di Delfina, perciò ti scongiuro di accusare me, di’ che sono stata io!». Rinchiusi in rigido isolamento per una quarantina di giorni, i tre prigionieri sono percossi per far loro confessare i complici e distruggere l’intera organizzazione clandestina.
Maria si assume ogni responsabilità per le azioni illegali e il fratello riacquista la libertà. Delfina rivede la zia a metà luglio 1944 in occasione del loro trasferimento nel Lager di Bolzano e la trova patita, smagrita. Maria invia ai parenti quattro lettere, improntate a spirito di sacrificio e profonda religiosità.
Il 5 agosto Delfina (di cui si riproduce la fotografia nel documento d’identità fornitole dai nazisti) è deportata a Mauthausen. La zia vorrebbe lei pure essere inserita nel numero dei partenti, ma la menomazione fisica la fa giudicare inadatta al lavoro coatto.
Tre giorni più tardi, scrive ai familiari: «iò fatto il posibile per seguirla mamie stato respinta ma con molta bontà dal Comando Tedesco per letà e per lemie condizione fisiche che voi gia micomprendete». La sua insistenza per condividere il destino della nipote le vale, dopo un paio di settimane, l’invio a Ravensbrück, nel blocco 17, dove però non ritrova Delfina, deportata a Mauthausen. Una compagna di deportazione ha ricordato che ogni mattina alle 4 Maria si alzava e, inginocchiata accanto al pagliericcio, recitava la Messa; durante il giorno rammendava le uniformi delle compagne, lieta di poter servire il prossimo; in una sola occasione si mostrò addolorata: «Un giorno fu detto alle prigioniere di spogliarsi perché dovevano passare una visita medica; Maria, con le altre, si spogliò; poi, una alla volta, in fila, attraversammo un corridoio per recarci alla visita. Maria veniva avanti lentamente, zoppicando, con le braccia incrociate sul petto, per coprirsi, mentre lunghe lacrime le rigavano il volto: fu l’unica volta che la vidi piangere». Maria porta sulla casacca il triangolo rosso dei politici, ed è munita di un cartellino rosa per indicarne l’inabilità al lavoro a causa dell’handicap fisico.
Destinata all’eliminazione, viene inviata nella camera a gas in data imprecisata. A casa, ci si aggrappa a un filo di speranza e si continua a tenere in ordine la sua stanza, nel miraggio della sua ricomparsa. Un giorno l’anziana madre confida alla nipote Delfina (rimpatriata il 29 giugno 1945): «È meglio che sia tornata tu che lei…». Alla fine, ci si deve arrendere all’evidenza e viene compilato l’atto di morte presunta.
Ludovico Ticchioni, patriota diciassettenne
Nella Resistenza confluisce con impeto una parte della gioventù, risoluta a battersi per la liberazione della patria da tedeschi e fascisti. Al fattore ideale si somma per molti la volontà di sottrarsi all’arruolamento nelle costituende forze armate fasciste. L’impatto con guerra civile e occupazione straniera è condizionato da fattori amicali e dall’inserimento in gruppi ove elementi più attempati ed esperti esercitano un richiamo su personalità ancora in formazione. Le prime difficoltà consistono nello stabilire un rapporto continuativo con nuclei mobili, i cui organici si espandono o restringono a seconda dei fattori ambientali e delle fasi della lotta. Laddove precarietà e labilità delle bande espongono a rischi imprevisti (violente repressioni, o soprassalti di conflittualità interpartigiana), sono i più giovani a pagare il prezzo maggiore, a causa dell’inesperienza e dell’idealismo.
La sorte del liceale ferrarese Ludovico Ticchioni (Mestre, 1927-Codigoro, 1945) è rivelatrice di slanci, impegno, delusioni e tragedie di chi, adolescente, si gettò nella temperie del 1943-1945 animato da amor patrio.
Figlio di un colonnello del regio esercito, Ludovico assorbe dal padre idealità liberal-democratiche, l’attaccamento ai Savoia e la convinzione che il maresciallo Badoglio sia l’uomo giusto per risollevare il paese dal baratro in cui lo aveva spinto Mussolini. Gli bruciano le modalità dell’armistizio, aggravate dalla contestuale fuga da Roma del re e dei ministri militari: «Questa guerra ha dato una dolorosa smentita a quella che era sempre stata la mia illusione, la mia fierezza di essere Italiano. Ma il massimo di questa delusione si è manifestata per me dopo l’8 settembre, durante il periodo della repubblica», annota nel suo diario, che sulla prima pagina riporta la frase di Metastasio «La patria è un nume a cui sacrificar tutto è concesso».
Al giovane studente – che vive a Ferrara con madre e sorelle – pesa l’inazione. Vorrebbe attraversare le linee e combattere nell’esercito monarchico insieme al padre, comandante del Raggruppamento speciale “Granatieri di Sardegna”, formazione scontratasi con i tedeschi nei giorni successivi all’armistizio, e successivamente inquadrata nel Gruppo di combattimento “Friuli”, a fianco degli Alleati nella campagna d’Italia. Compie per suo conto arrischiate iniziative propagandistiche come scritte murali e compilazione di volantini. Iniziative minime, ma che lo segnalano ai fascisti, i quali a metà dicembre 1943 lo includono tra i predestinati alla fucilazione per rappresaglia in seguito all’uccisione del segretario federale Ghisellini; a salvarlo è il vicequestore Poli, amico di famiglia, che confida alla signora Ticchioni: «Io ho fatto tutto il possibile; ora dica a suo figlio di stare attento».
Al termine dell’anno scolastico 1943-1944 Ludovico rompe gli indugi: «Finalmente il mio sogno di poter fare qualcosa per la cacciata del tedesco dall’Italia, si è avverato! […] Chi comanda qui è un sergente maggiore, un ragazzo sulla trentina, molto in gamba e pieno di entusiasmo giovanile. Lui è del Comitato Nazionale di Liberazione e riceve ordini direttamente da un capitano che a sua volta è comandato dalla Romagna» (annotazione diaristica del 30 agosto). Vede la militanza partigiana come preludio alla carriera militare che vuol intraprendere nel dopoguerra, anche se mette in conto la possibilità di una fine tragica: «Per quanto son giovane non temo la morte: è l’incoscienza della gioventù che mi fa dire questo. Se devo morire, pazienza! Fatto sta che mi dispiacerebbe finire tutto adesso a soli 17 anni di vita!».
Appartiene al “Gruppo del Gatto”, nucleo garibaldino aggregatosi nella zona di Serravalle attorno all’operaio ventitreenne Olao Pivari (nome di battaglia “Gatto”), già sergente di un reparto costiero, cui i fascisti avevano bruciato l’abitazione per punirne la diserzione. I suoi uomini disseminano chiodi a tre punte prima del passaggio di colonne nemiche e disarmano qualche milite della RSI poco propenso al combattimento. Ticchioni sceglie come nome di batta
Giuseppe Bartoli –Militare antifascista, Partigiano, Autore del libro il libro
-Edizioni Zero Lire-
25 aprile
. 25 APRILE
L’importante è non rompere lo stelo
della ginestra che protende
oltre la siepe dei giorni il suo fiore.
C’é un fremito antico in noi
che credemmo nella voce del cuore
piantando alberi della libertà
sulle pietre arse e sulle croci.
Oggi non osiamo alzare bandiere
alziamo solo stinti medaglieri
ricamati di timide stelle dorate
come il pudore delle primule:
noi che viviamo ancora di leggende
incise sulla pelle umiliata
dalla vigliaccheria degli immemori
Quando fummo nel sole
e la giovinezza fioriva
come il seme nella zolla
sfidammo cantando l’infinito
con un senso dell’Eterno
e con mani colme di storia
consapevoli del prezzo pagato
Sentivamo il domani sulle ferite
e un sogno impalpabile di pace
immenso come il profumo del pane
E sui monti che videro il nostro passo
colmo di lacrime e fatica
non resti dissecato
quel fiore che si nutrì di sangue
e di rugiada in un aprile stupendo
quando il mondo trattenne il respiro
davanti al vento della libertà
portato dai figli della Resistenza.
Giuseppe “Pino” Bartoli- “Il fiore della libertà”
AD UN PARTIGIANO CADUTO
E’ un fiume di ricordi ormai amico
la strada che conduce
a quei giorni lontani di smeraldo
dove sostammo come creduli ragazzi
a creare coi sogni nelle vene
fantasie di speranze e di parole
fra pugni di “canaglie in armi”
Forse potrei dimenticare il giogo
che mi lega all’arco dei rimpianti
se soltanto le voci dei compagni
tornassero a cantare
come quando la vita dilagava
e tu portavi alla gioia di tutti
il tuo sorriso di fanciullo
e la forza serena dei tuoi occhi
Ma anche se il tempo non ricama
che fili d’ombra sulla memoria
e il tormento di quell’assurdo giorno
quando attoniti restammo
davanti alla pietà della tua forca
è pur sempre l’ora della tua lotta
del tuo caldo vento di libertà
immenso come grembi di colombe
in volo fra fiori d’acquadiluna
Tu solo amico adesso
puoi scegliere i ritorni
e dirci ancora
col battito delle tue ali
le bellezze della vita
e le dolci innocenze della morte.
NOI CHE CADEMMO
Fummo una zolla qualunque
al taglio del vecchio aratro
che il nuovo trattore ferisce
inpianto, sudore e lavoro
Ora ascoltiamo i sospiri
di neri e snelli cipressi
dipinti da soffi di sole
in chicchi di riso azzurrino
che l’acre piovasco flagella
Viviamo in bellezze di morte
fra pioppi inclinati sul rio
E siamo la gialla pannocchia
che nutre la fame del povero
che accende la fede nell’uomo
Siamo promessa di pace
che tesse tovaglie d’altare
e bianchi lini di sposa
per alta promessa di vita
…………………………………….
noi che cademmo a vent’anni
nel sogno sublime dei liberi.
CA’ DI MALANCA
Se non sai leggere
negli occhi rossi
delle ginestre
nate dal sangue
della libertà
la muta preghiera
che scuote le catene
dei tiranni . . . .
Se non t’inginocchi
sulla brace
della carne accesa . . . .
Se non piangi
sui muri di corallo
delle case arse
e se non baci
la paglia insanguinata
dalle vene di tuo fratello
sei solo un fardello inutile
che non paga
il giusto prezzo ai Morti
Solo quando capirai
tutto questo . . . .
Solo quando ricorderai
come mordevi con dente di lupo
l’ultimo pane
nel cavo della mano contadina
potrai rivivere
quella primavera colma di rosso
per il primo fiore della Libertà
Giuseppe “Pino” Bartoli
I MORTI ASPETTANO UN RAGAZZO DAGLI OCCHI DI SOLE LA MÖRT ED CURBERA LA MORTE DI CORBARA I DISCORSI D’ALLORA A CRESPINO LA DISFATTA UN BARATTOLO DI LATTA UNA FARFALLA DI CENERE
INTRODUZIONE
Udimmo il tonfo delle rane
negli alti silenzi dei meriggi
e il respiro lieve dei cavalli
nelle estese vele delle notti
gonfie di lucciole e di fremiti
Sulle nostre tavole di fieno
abbiamo mangiato
lacrime e canti
fra grappoli di rondini
in giostra nel cielo
Udimmo la scure abbattersi
sui letti deserti dei boschi
mentre carri di ricordi
si trascinavano lenti
Poi arrivò l’alba
d’una rossa primavera
con brezze di mandorli avvolte
nell’immemore pianto della terra
Tornammo dalle nostre madri
dopo una lunga notte insonne
intonando canti senza dolore
Le culle delle foglie
che ci furono compagne
raccolsero il vagito
della rinata libertà
e sui crateri di sangue
– scavati –
dalla nostra lotta
mani nude di orfani
sfidarono il cielo
Dal buio delle fosse
vergini di croci
gli occhi spalancati
dei partigiani caduti
si chiuderanno solo
se la loro speranza
diventerà la nostra.
Sono tornato dove un ragazzo
dai grandi occhi di sole
ha maturato le sue radici
Sono tornato dove abbiamo
sepolto la nostra giovinezza
e dove il nome di battaglia
nasceva tra bagliori di fuoco
Ed ho ritrovato la mia estate
L’estate dei ramarri sui muri
la fionda dall’elastico rosso
i piedi scalzi color di terra
e tutta la luce del giorno
a tingerci d’ambra le mani
Qui “giocavamo” alla guerra
fra siepi di rovi e di more
dietro lo scudo delle foglie
povera “canaglia” della libertà
inerme come grembi di colombe
Raccogliemmo morte e mirtilli
e tra cappotti di lune rosse
rubammo l’oro alle lucciole
Quando tua madre ingobbita
come la collina che ti colse
soffocò l’urlo e i singhiozzi
nella “tana” d’uno scialle nero
per te cantarono le cicale
e si schiusero nidi di viole
C’era un profumo di ginestre
nel cielo della tua ultima estate
Ora ti guardo senza piangere
compagno dagli occhi di sole
e mi chiedo se non fu fortuna
quel tuo andartene allora
col freddo sudore di morte
sul tenerume delle labbra
ancora ebbre di latte materno
Te ne andasti e forse fu meglio
perchè adesso solo le pietre
urlano come monumenti nudi
e perchè ragazzo senza nome
siamo ormai pochi a ricordare
il “sorriso” delle tue tenere vene
che si svuotavano come calici
per l’ultimo brindisi alla vita.
I s’arbuteva coma spig’d grân Si rovesciavano come spighe di grano
cun del biastèm che pareva preghir con delle bestemmie che sembravano preghiere
e vers e’ zêl e verso il cielo
pal’d s-cióp spudedi fra i dént palle di schioppo sputate tra i denti
l’andeva e’nom’d Maria e chietar sént andava il nome di Maria e degli altri santi
E prèm a caschê e fo Curbera Il primo a cadere fu Corbari
e par la bòta e per il tonfo
o tremê la tëra e o fo sobit sera tremò la terra e fu subito sera
A lé stuglé, ribèl senza pio’ él Lì disteso, ribelle senza più ali
u raspeva da e’ mêl raspava dal male
cun cla manaza grânda e cuntadéna con quella manaccia grande e contadina
……. bôna l’era la tëra ……….. ……………… buona era la terra
grasa e féna ……………. grassa e fine
Raspa Curbera, raspa stvò truvé Raspa Corbari, raspa se vuoi trovare
l’eteran cunzem dla libartê: l’eterno concime della libertà:
e’ sangue rumagnöl il sangue romagnolo
cla imbariaghê ogni côr che ha ubriacato ogni cuore
Strèca, strèca la tëra Stringi, stringi la terra
l’è sèmpar cl’udôr è sempre quel profumo
l’è sèmpar l’amôr dla stesa mâma è sempre l’amore della stessa mamma
cut fa da lët pövar fiol’d Rumâgna che ti fa da letto povero figlio di Romagna
Strèca ed elza la tësta, so canàja! Stringi ed alza la testa, su “canaglia”!
L’as drèza la camisa sanguneda Si alza la camicia insanguinata
la pê ôn lôm a Mérz, lôm’d premavera sembra un lume a marzo, lume di primavera
l’è bèl finì e’ su dé par na bangera è bello finire la vita per una bandiera
E cvànd che la prema sfója’d sôl E quando la prima sfoglia di sole
la spôrbia d’ôr tota la campagna spolvera d’oro tutta la campagna
e’partigiân e mör il partigiano muore
Bsén a lô ôn pòpul’d cuntadén Vicino a lui un popolo di contadini
o prega e o biastèma a tësta basa prega e bestemmia a testa bassa
Sôra a lô na bânda d’asasén Sopra di lui una banda d’assassini
la rid cun la vargôgna in faza ride con la vergogna in faccia
E’ sôl c’nas e dà vita a la brèza Il sole che nasce da vita alla brezza
nud coma Crèst, inciudê tna trèza nudo come Cristo inchiodato in una treggia
e pasa per l’amiga campâgna passa per l’amica campagna
l’ultum re dla muntâgna l’ultimo re della montagna
Brigant dla libartê e preputént Brigante della libertà e prepotente
ma s-cét com l’è s-cét la su zént ma schietto come è schietta la sua gente
s-cét coma i nost dê pasê bsén el stël schietto come i nostri giorni passati vicini alle stelle
fra e’ piânt’d mâma e cvèl de parabël tra il pianto di mamma e quello del parabello
(1) Silvio Corbari, medaglia d’oro della Resistenza.
Parlavamo di noi
quando la sera maturava
la stanchezza del giorno
e le contadine velate di nero
raccontavano al cielo
i guasti della pioggia
del vento e della guerra
Parlavamo di noi
all’acqua vergine di fonte
mescolando al grattare del mitra
la ragione di crederci uomini
e il diritto di lasciare
alle bestie da soma
il vanto pesante del basto
Parlavamo d’idee
mescolando bestemmie
ai rosari di pietra
per lasciare lontano l’inverno
che marciva nei solchi
e la fame
che uccideva le ultime favole
negli occhi dei bambini
Parlavamo di noi
cercando nei boschi la vita
e nei sentieri di piombo
le nostre radici di uomo
Parlavamo di noi
quando albe di fuoco
scoprivano i nostri fantasmi
già stanchi al primo mattino
già vecchi a soli vent’anni
Parlavamo del nostro domani
davanti alla salma nuda
d’un compagno caduto
e ad un ventre di terra
– che ingoiava –
le noste tenere radici
lasciandoci in bocca
la voglia rabbiosa
d’un tempo migliore
in cui ancora sperare
Giuseppe “Pino” Bartoli
Vennero i giorni della primavera
La terra si coprì d’allegria
cantò tutti i colori del cielo
andò a piangere sui seminati
Nell’antica valle del Lamone
fiorì il natale sacro dei ciliegi
e le spighe in curva preghiera
baciarono il rosso dei papaveri
I campi non furono più tristi
quando sopra sbocciarono gentili
le rose selvatiche del maggio
Nessuno parlava di morte
fra le spine dei rossi lamponi
Ma la morte era in ogni pietra
nel filo dell’erbe e delle foglie
La morte vagava lungo il fiume
negli occhi delle bestie inquiete
nel taglio affilato della scure
E venne il giorno del martirio
sull’inerme cuore contadino
sulle mani rotte dal lavoro
sulla vanga ancora impastata
di buona terra e sacro sudore
Quando i barbari furono pronti
tacque il mormorio dell’acque
e una nube scura salì al cielo
a nascondere la rosa del sole
Le mani strinsero altre mani
Le parole e un pianto disperato
narraron sogni e favole smarrite
e negli occhi grandi delle madri
si posò il bacio dei figli
E l’ultimo pensiero andò lontano
ai fuochi spenti alla terra arata
all’oro reciso delle spighe
e ai giorni senza più domani
ai canti che si spegnevano
a loro che salivano il Calvario
e a noi, a noi, che siamo rimasti
a cogliere i frutti d’una stagione
nata da vittime innocenti
Era l’intera valle delle Scalelle
e dei castagni sacri a Campana
che consumava l’ultima ora
Non li chiamavano per nome
per non spaccare la cesta dell’odio
Un cenno, una spinta, un urlo
e la morte li coglieva sul petto
unendo il gemito di chi andava
all’angoscia di chi attendeva
Il campo diventò bara immensa
nel tiepido meriggio estivo
Noch ein! Noch ein! Noch ein!
Ancora uno! Ancora uno! Ancora uno!
E un colpo dopo l’altro
rompeva il grido della carne viva
e il sangue si fondeva in grumi
nel rosario dei ceppi delle mani
nella coppa umida della terra
Quando il silenzio raccolse dai pendii
l’ultimo colpo e l’ultimo grido
– lontano –
oltre la malinconia dei roveti
un requiem di coralli accesi
si scaldava al lume delle case
e noi,, noi, quelli ancora vivi
attendevamo un “nuovo” mattino
P.S. Questa poesia intende ricordare l’eccidio di 42 inermi contadini vittime della barbaria nazista a Crespino sul Lamone – Luglio 1944.
Questa poesia intende ricordare l’eccidio di 42 inermi contadini vittime della barbaria nazista a Crespino sul Lamone – Luglio 1944.
Io non ho perso la guerra quando combattevo
nella nuda terra africana
seppellito come un pidocchio
dentro una gabbana
fatta di sabbia e di sete
mangiando cavallette
Io non ho sporcato
l’argento delle mie stellette
nella steppa russa
mordendo con dente di lupo
le ossa condite di ghiaccio
dei miei fratelli caduti
Io perdo ancora la guerra
tutte le volte che penso
a me e agli altri ragazzi
che col fucile in mano
tenevamo Anna Frank
sepolta in una soffitta
E fra l’occhio spento del cielo
e l’odio assassino della terra
l’ebrea costruiva col sangue
quel monumento di pace
che schiaccia ancora adesso
l’anima di tutti i boia
Quella si che fu la vera disfatta
il marchio d’una sconfitta
che mi urla sempre addosso
con una bocca larga
come una camera a gas
La stella dalla coda
aveva appena perso
l’ultimo filaccio
ancora pregno di sangue
Adesso il mondo
poteva piangere
rannicchiato
fra gli spigoli
delle case arse
Ma un bambino
aveva tanta
tanta voglia di vivere
di correre sulla rugiada
che non appassiva più
sulla terra dischiusa
Cercava un barattolo
per giocare a palla
per capire dal suono
di quel giocattolo
che rideva fra i sassi
che il macello era finito
Ma nessuna luna d’argento
– rotolava –
sul grembo della terra
e allora spense
i suoi piedi nudi
fra spine di pietra
e diventò subito un uomo
Sarà festa grande
al taglio del maggese
per coriandoli di farfalle innamorate
libere dalle culle
dell’amore agreste
Voleranno
verso la vela
tenera del cielo
tra grida pulite
di bambini
frammenti ansiosi
d’albe serene
nati dalla brace
della carne accesa
E tornerà puntuale
il ricordo
della bimba di Bologna
che sognava
una farfalla di fiordaliso
da chiudere
nella gabbia del cuore
Vedo la sua immagine
dibattersi prigioniera
fra i rovi delle schegge
come rosa di macchia
nella siepe
Ogni anno
– per non dimenticare –
un filo di calendule d’oro
illuminerà
il sentiero di cenere
grigio
come la dolcezza
d’un settembre
Angela
non rivedrà più
gronde di luna
né si scalderà
all’abbaino del sole
con occhi
di passero sperduto
Di lei resta solo
un volo immenso
di cenere
che si posò leggero
sui suoi capelli
“come solinga
lampada di tomba”
Giuseppe “Pino” Bartoli
Qualcuno di fronte a questa pubblicazione potrebbe intanto giustamente chiedersi a cosa serve la poesia. Rispondo con una frase dello scrittore americano William Carlos Williams laddove afferma che «niente di utile si trova nella poesia, ma l’umanità sta morendo miseramente ogni giorno per mancanza di ciò che si trova nella poesia». Pur ritenendo valido questo concetto si potrebbe pensare che la poesia possiede uno status specifico che la destina, lo si voglia o no, ad un pubblico di elite, a ristrette minoranze.
Ma così non è.
Abbiamo intanto un ricco patrimonio di versi dia-lettali che affonda le sue radici proprio nell’animo più popolare della nostra gente. E’ sufficiente ricorrere al lirismo di Aldo Spallicci o alla satira di Olindo Guerrini, alias Stecchetti, che esaltano la sensibilità più riposta e il diapason spirituale dei romagnoli, per capire l’importanza e il valore di immagini espressive che si richiamano alla fatica e al dolore dell’uomo, all’amore per la propria terra e le proprie tradizioni, concetti questi ancora profondamente radicati nell’animo più schietto del popolo.
La poesia è anche pensiero e fantasia, immagine e sentimento e lo sarà sempre fino a quando il sole risplenderà sulle sciagure umane.
Ed è proprio partendo dalla grande tragedia dell’ultima guerra che intendo dipanare il filo delle mie parole evidenziando, in particolare, l’olocausto di milioni di persone che assieme all’antifascismo, va visto come il substrato della Resistenza.
Ho avut o modo di leggere poesie scritte da bambini che hanno vissuto, prima di essere polverizzati nei lager tedeschi, momenti dilaganti di morte e disperazione. Si può cogliere in questi scritti una testi-monianza d’amore, un grido di condanna, un canto di speranza, un anelito di libertà che trascende la ricerca stessa della vendetta. Sono versi che diven-tano humus e linfa vitale offrendosi ad un’epoca in cui l’uomo barcolla alla ricerca di una luce che rischiari sentieri futuri per non morire per sempre.
Sentite cosa ha scritto, prima di entrare nei forni crematori, un ragazzo di quattordici anni: “Prova, amico, ad aprire il tuo cuore alla bellezza quando cammini tra la natura per intrecciare ghirlande con i tuoi ricordi e anche se le lacrime ti cadono lungo la strada vedrai che è bello vivere”
E non va dimenticato neanche il monito del piccolo ebreo Hanus “gasato” ad Auschwitz quando dice “che l’uomo non deve più lasciarsi riprendere dal sonno”. E il sonno in questo caso significa accettare supinamente le libertà perdute.
Ed Alena Synkova sogna orizzonti di pace, pur sapendo di dover morire, lasciandoci questi versi: “Vorrei andare sola dove c’è altra gente migliore in qualche posto sconosciuto dove nessuno uccide” Ho voluto di proposito far precedere alle mie poesie le stupende parole di alcuni dei tanti ragazzi che con il tappeto delle loro ceneri innocenti prepararono la Resistenza di tutta Europa. C’è una poesia che per il suo alto contenuto va inclusa in questa breve documentazione. Non è mia, ma del poeta siciliano Ottavio Profeta. “Se la mia voce morirà sulla croce di pietra cittadina portatela sulla cima del mio monte che s’alza nel vento e si corica nella nebbia Se la mia voce morirà nella mia pianura cercatela nel canneto nella conchiglie del mare e nell’acqua del fiume Se la mia voce morirà ridatemela viva fra gli alberi del bosco dove ogni sera canta un usignolo” –
Disegni di Terezin: l’Olocausto visto dai bambini
Tornando ai bambini di Terezin e degli altri campi di sterminio, è sorprendente constatare la consonanza della poesia con la natura del fanciullo, il gusto estetico essenzialmente contenutistico, che non disdegna l’aspetto formale, le continue trasfigurazioni in immagini semplici e profonde. L’età evolutiva rivaluta il suo copioso scrigno di sogni. di intuizioni, di amore. Nel caso dei ragazzi di Terezin, il realismo è esaltato dalla virtù della speranza. Di fronte al bivio del “day after”, la storia e la poesia ripropongono la missione millenaria dell’umanità che si può sintetizzare in pochi versi: “…..e la speranza libera dalla gabbia colorerà la nebbia delle ore”. Questa pubblicazione, voluta dalla Comunità Montana nell’ampio quadro delle celebrazioni del cinquantenario della Resistenza, è indirizzata, in particolare, verso i ragazzi affinchè il ricordo dei loro coetanei che si aggiravano come passere bianche tra i fili spinati dei campi di prigionia, non sia dimenticato. Siamo di fronte alla tragedia di una adolescenza senza dimensione che va vista come un bozzolo di sole spento da uomini in delirio. L’olocausto dei ragazzi polverizzati nelle camere a gas, fu forse segno d’incantesimo, di cenere che s’innalzò come un vortice sulla notte di una civiltà calpestata. Ognuno di noi deve finalmente capire che l’innocente battito d’ali e il solco di terra che “annegava” tenerezza di ossa, appartiene all’umanità tutta come un monito tremendo.
«…..non è più tempo amico di trascinare uomini col giogo sui «Golgota» affamati di croci Non è più tempo delle gioie né di rimembranze serene se capisci che affondi i piedi sul sangue degli innocenti Resta coi bambini di Terezin e vedrai che dopo la lunga notte i licheni tenaci della libertà chiuderanno le crepe profonde delle nostre coscienze stanche» –
Giuseppe “Pino” Bartoli
Breve biografia di Giuseppe “Pino” Bartoli, nato a Brisighella il 18/07/1920 e deceduto il 20/06/2004. Ex Ufficiale di Stato Civile ed ufficiale della formazione partigiana “Silvio Corbari”, grado riconosciutogli dal Ministero della Difesa, ha ricoperto, nel comune di Brisighella, tutti gli incarichi pubblici: Sindaco, Presidente della Comunità Montana, della Pro Loco, delle Opere Pie e del Museo del Lavoro Contadino. Poeta in lingua e vernacolo nonché prosatore, si è affermato in oltre 500 concorsi letterari, molti dei quali di livello nazionale ed internazionale. Cavaliere della Comunità Poetica Europea e Commendatore dell’Ordine Militare di S.Andrea, socio di 10 Accademie di lettere, arti e scienze, ha conseguito per due volte l’Oscar di Letteratura “Romagna”.
In sua memoria, si tiene annualmente un concorso di poesia, elaborati, disegni, ceramiche, ecc. riservato agli
Giuseppe “Pino” Bartoli
quei giovani in cui Giuseppe riponeva la sua speranza per il futuro e che credeva fossero la gioia più bella del mondo.
Piero Calamandrei- Uomini e città della Resistenza-
Discorsi, scritti ed epigrafi
a cura di Sergio Luzzatto, prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Editori Laterza-Bari
Piero Calamandrei
Il testo fondatore della nostra epica resistenziale. Noi non dimentichiamo.Piero Calamandrei.. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata.Carlo Azeglio Ciampi.Uomini e città della Resistenza, pubblicato una prima volta nel 1955, in occasione del decennale della Liberazione, ha il merito di individuare una fra le dimensioni fondamentali della Resistenza: la sua natura tellurica, il legame
Non piangetemi, non chiamatemi povero.
Muoio per aver servito un’idea.
Guglielmo Jervis
VIVI E PRESENTI CON NOI
FINCHÉ IN LORO
CI RITROVEREMO UNITI
MORTI PER SEMPRE
PER NOSTRA VILTÀ
QUANDO FOSSE VERO
CHE SONO MORTI INVANO
Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Carlo Azeglio Ciampi
Mi compiaccio vivamente della decisione dell’Editore Laterza di ripubblicare il volume Uomini e città della Resistenza di Piero Calamandrei, a cinquant’anni dalla prima edizione, e nel cinquantesimo, anche, della morte dell’Autore.
A distanza di mezzo secolo, questa raccolta di discorsi, scritti ed epigrafi di Piero Calamandrei su uomini ed eventi della Resistenza ci appare, se possibile, ancor più attuale. È una testimonianza diretta, e al tempo stesso una riflessione su quella che fu l’ispirazione profonda della Resistenza, il carattere «religioso e morale, prima che sociale e politico» che essa ebbe, nella concezione, e nell’esperienza, di Piero Calamandrei; il suo essere stata, «più che un movimento militare, un movimento civile».
Questo volume raccoglie testi che l’Autore scrisse tra il 1944, subito dopo la liberazione di Firenze, e il 1955. Si rileggono con commozione sia i discorsi e gli scritti, sia le bellissime e famose epigrafi da lui dettate per monumenti della Resistenza. Subito dopo la Liberazione, Calamandrei venne chiamato ripetutamente, in diverse «città della Resistenza», per parlare della Resistenza. Ho ancora un vivido ricordo di un discorso da lui pronunciato a Livorno, nel 1945. Quel discorso non compare in questa raccolta, pur vasta e ricca: ma in essa ho ritrovato diverse riflessioni che non avevo dimenticato.
Lo ascoltavamo allora con una passione che questi scritti, a distanza di oltre mezzo secolo, suscitano ancora in me. Così come sollecitano una rinnovata riflessione su ciò che fu, e su ciò che ci ha lasciato, la Resistenza; che cosa «è rimasto di vivo della Resistenza nelle nostre coscienze».
Questa è la domanda che lo stesso Calamandrei si poneva nel testo con cui si apre questa raccolta – il discorso del 28 febbraio 1954, tenuto a Milano alla presenza di Ferruccio Parri. Cinquantuno anni dopo, sono tentato di dare una risposta forse più fiduciosa di quella che allora proponeva lo stesso Calamandrei.
Le solenni cerimonie tenute a Roma e a Milano, al Quirinale e in Piazza del Duomo, nel sessantesimo anniversario del 25 aprile 1945; le innumerevoli altre occasioni in cui ho partecipato, come Presidente della Repubblica, a commemorazioni di eventi tragici o gloriosi della Resistenza (ricordo per tutte la visita-pellegrinaggio a Marzabotto, compiuta con al fianco il Presidente tedesco Rau, nell’aprile 2002); l’appassionata partecipazione popolare a tutte queste manifestazioni, mi dicono che la Resistenza è ancora viva nella memoria degli Italiani.
Questa memoria è fondamento della nostra passione per la libertà. Dalla Resistenza discende la Carta costituzionale, garante dei diritti democratici per tutti gli Italiani, di ogni parte politica. Coloro che in quella lotta diedero la loro vita vollero un’Italia libera e unita. Il loro sacrificio ci insegna la concordia, insieme con l’amore per la Repubblica democratica.
Dalla Resistenza discende anche la nostra scelta europeista, stella polare, ancora oggi, della politica dell’Italia repubblicana.
Noi non dimentichiamo. A noi, i sopravvissuti, è toccata la fortuna di essere partecipi di una grande rinascita democratica della nostra Patria; partecipi altresì della miracolosa costruzione di una unione di Stati e di popoli, che assicura a tutte le nazioni europee, dopo millenni di guerre, una pace irreversibile. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata. Il ricordo della Resistenza incita ad andare avanti sulla strada intrapresa.
Giugno 2005
Introduzione di Sergio Luzzatto
Sul Calamandrei fondatore dell’epos resistenziale circola una sorta di vulgata, il cui primo artefice e propagandista è stato il più illustre fra i suoi allievi spirituali, Norberto Bobbio. Seguace politico del «maestro e compagno» dal 1945 in poi, oltreché collaboratore assiduo del «Ponte», Bobbio ha tenuto a presentare quello di Calamandrei con la Resistenza come un incontro naturale, quasi obbligato. «Dal suo rifugio in un piccolo paese dell’Umbria, seguì con trepidazione, con fierezza, con struggimento, la crescita del movimento partigiano, la graduale trasformazione dell’insurrezione popolare in guerra di liberazione», si legge nell’introduzione di Bobbio agli Scritti e discorsi politici di Calamandrei. «Nacque in lui durante quei mesi il sentimento di ammirazione e di gratitudine per l’Italia del popolo, che avrebbe trasfigurato la guerra di liberazione in epopea popolare e dato impeto, vigore, forza di persuasione e di commozione, ai discorsi coi quali sarebbe passato di città in città per celebrarla».
Le cose furono più complicate di così. Fra 1943 e ’44, a dispetto del suo viscerale antifascismo, Calamandrei esitò a riconoscere nei partigiani i giusti vendicatori di un popolo oppresso, i sospirati eroi di una guerra di liberazione nazionale. Beninteso, non si tratta qui di fargliene rimprovero: meno che mai al giorno d’oggi, quando una nuova storiografia va finalmente ragionando sul carattere tutt’altro che lineare del rapporto intercorso fra l’antifascismo politico e la lotta armata. Piuttosto, si tratta di risalire alle origini dell’apparente paradosso per cui il più tenace forgiatore del mito della Resistenza poté assistere alla nascita del movimento partigiano non soltanto senza contribuirvi di persona, ma considerandolo con sufficienza o addirittura con diffidenza. Si tratta di individuare le molteplici ragioni (ideologiche o psicologiche, confessate o segrete, politiche o personali: insomma pubbliche e private) che spinsero un antifascista integrale come Calamandrei ad accogliere la Resistenza senza sollievo, quasi a malincuore. Si tratta di scoprire per quali vie egli sarebbe giunto a imboccare, dopo il 1944, la strada maestra dell’epica. Infine, si tratta di chiedersi se la memoria della Resistenza possa sopravvivere, fin dentro il nostro ventunesimo secolo, declinata nella forma che fu più cara a Calamandrei: come una necrologia prima ancora che una mitologia.
1. L’altra patria
Risalire all’8 settembre 1943 non basta a rendere conto di questa storia. Data fatidica per quanti si trovarono a viverla da ventenni o poco più (per la generazione cui apparteneva il figlio stesso di Calamandrei, Franco), l’8 settembre non rivestì un significato altrettanto epocale per la generazione dei padri: per chi, come Piero, ne fece esperienza a cinquant’anni suonati da un pezzo. Nella sensibilità di questi ultimi, che si erano fatti adulti nelle trincee della Grande Guerra e per cui il ventennio fascista aveva coinciso con la maturità, la data decisiva va situata fra il 1939 e il ’40: quando dapprima la prospettiva, poi la realtà della seconda guerra mondiale aveva obbligato tutti i padri di famiglia italiani, o almeno i più consapevoli tra loro, a fare i conti con se stessi e con la propria vita. Nel caso di Piero Calamandrei, il momento decisivo – quello senza capire il quale nulla si intende di lui negli anni successivi – era scoccato nel mese di maggio del 1940: dunque in anticipo sul 10 giugno, sull’entrata in guerra dell’Italia. A stravolgere la sua esistenza era stato il crollo della Francia, la caduta della Terza Repubblica a fronte del Terzo Reich.
Strumento imprescindibile per ritrovarne la vita interiore, il diario di Calamandrei attesta senza equivoci la portata del trauma. 13 maggio: «La morte è sulla Francia e sul Belgio, sulla nostra famiglia, sulla nostra patria che è là». 18 maggio: «Se sapessi pregare oggi pregherei in ginocchio per la Francia». 24 maggio: «I giorni trascorsi dal 19 a oggi sono i giorni più angosciosi della mia vita»; «finita la Francia è come se fosse spento il sole: non si vedranno più i colori». Per chi ricordava di avere vissuto, venticinque anni prima, un ben diverso 24 maggio («la notte fummo fino a tarda ora a cantare Trento e Trieste per le vie del centro»; «si andava con la Francia, contro gli assassini del Belgio»), riusciva sin troppo naturale di ravvisare nella tragedia francese la propria tragedia. Durante le settimane seguenti la fine della drôle de guerre, quando le fortificazioni della linea Maginot si rivelarono pateticamente inadeguate a contenere il Blitzkrieg hitleriano, Calamandrei sperimentò – in fondo – qualcosa come la morte della patria. E dopo il 10 giugno, considerò un sesto atto del dramma il fatto che l’Italia di Mussolini infierisse sulla Francia pugnalandola alle spalle.
«Peggio di questo nulla potrà accadere: né mai più vergogna di così»: l’angoscia non velava lo sguardo del compilatore del diario, nell’ora in cui pure sentiva che si era toccato il fondo. Con una lucidità che pareggiava lo sgomento, Calamandrei avvertiva come da quell’abisso, individuale e collettivo, si potesse soltanto risalire. Qui va riconosciuto, in effetti, l’inizio della sua nuova vita interiore e, alla lunga, della sua nuova vita pubblica. Non a caso, esattamente tra il maggio e il giugno del ’40 le pagine del diario si infittiscono di appunti sopra un tema che diventerà capitale per lui: il rapporto fra politica e religione. Stimolato dal dialogo con uomini di lettere come Pietro Pancrazi e Luigi Russo, il giurista fiorentino prende allora a meditare intorno ai nessi tra morale laica e fede cristiana, giustizia umana e giustizia sovrumana: secondo parole sue, tra le mischie dell’aldiqua e la credenza nell’aldilà, fra i moventi del terreno operare e i risarcimenti di un ultraterreno sopravvivere. Da allora Calamandrei si interroga sulle virtualità di quanto chiama (memore forse di Péguy) una mistica, mentre altri l’avrebbero detta una religione civile. E da allora si affatica intorno al modo di rendere la patria agli italiani attraverso un sacrificio originario, un olocausto glorioso.
I martiri di una qualche forma di resistenza vengono da lui invocati ben prima della Resistenza. Eccolo – in quel solito, cruciale mese di maggio 1940 – discorrere con Guido Calogero sui valori da contrapporre agli appetiti hitleriani, alla furia animalesca della conquista e della violenza: «Ci vorrebbe un cristianesimo eroico, con martirî e supplizi». Eccolo annunciare a Pancrazi che, presto o tardi, sarebbe toccato in sorte agli italiani «un urto a morte con i tedeschi»: e che l’unica opportunità per vincere sarebbe venuta non già dal diffondere fra le masse gli ideali liberali, ma dal risuscitare in esse «la fede cristiana dei primi martiri». Lungi da Calamandrei la tentazione di convertirsi al cristianesimo; anzi, agli amici egli confessava di allontanarsene sempre più a misura che l’invecchiare gli andava rivelando, con l’irrazionalità della vita, la vanità di ogni speranza postuma. La religione petrina gli appariva né più né meno che come un instrumentum regni: l’unica arma disponibile per sottrarre gli italiani al tallone dei nuovi Unni, a un futuro di schiavitù sotto i barbari ritornati.
Durante gli anni successivi, Calamandrei approfondì la propria riflessione sia sul ruolo politico della religione, sia sui modi per sollecitarlo nella storia. E se dobbiamo giudicare dal diario e dall’epistolario, sempre più egli lo fece nella forma di un congedo intellettuale da Benedetto Croce (cui pure capitava di frequentare l’eletta schiera di umanisti che si riunivano intorno a Calamandrei nella sua nuova casa in Versilia, a Marina di Poveromo). L’intero sistema crociano dei rapporti fra storia e morale, critica e azione, giudizio e fede, gli sembrò spaventosamente inadeguato all’ora presente: quasi un incitamento all’indifferentismo o, peggio, al collaborazionismo. L’atteggiamento stesso di un Russo, che rimproverava a Calamandrei la sua fede «esclamativa» e lo canzonava quasi fosse un catecumeno, gli parve un gesto di remissività che sconfinava nella vigliaccheria. Per tutta risposta, il giurista prese a carezzare l’idea di un’estetica così anticrociana da riuscire, in se stessa, una politica.
C’è una lettera, risalente all’agosto 1941, che dice molto del Calamandrei di allora e della sua evoluzione di poi. A Pancrazi – il confidente più intimo di quel giro di anni – egli spiegava di apprezzare enormemente lo «stile mazziniano» di Giani Stuparich nel suo ultimo libro dedicato all’esperienza della Grande Guerra; e di valutarne come massimo pregio proprio il «carattere oratorio», perché la vera arte non si contenta di esprimere gli umani sentimenti, ma sceglie di stabilire una gerarchia fra essi, «in modo da far apparire in primo piano soltanto i sentimenti grandi ed eterni». Il romanzo di Stuparich, dove pure il lavoro della fantasia tendeva a prevalere sui depositi della memoria, era un libro sui due volti della guerra triestina: da una parte i volontari al fronte, dall’altra la città in attesa. Per parte sua, Calamandrei trovava istintivo di leggerlo confrontando la poesia del «maggio radioso» alla prosa dell’attualità italiana, e sospirando il giorno in cui giovani allevati da balilla si sarebbero dimostrati altrettanto capaci dei loro padri di immolarsi per la patria.
2. I «pietromicchismi» che fanno la storia
Il futuro cantore dell’epopea partigiana non aveva atteso dunque la caduta del fascismo e l’armistizio con gli Alleati – la tragedia necessaria del suo paese – per arrovellarsi intorno alle questioni decisive del dopo 8 settembre: il problema morale della scelta, la funzione storica dell’esempio, il carattere trascendente del sacrificio.
In un appunto del diario vergato nell’estate dello stesso 1941, Calamandrei si era interrogato sull’olocausto personale di Lauro de Bosis (una figura che sarebbe ritornata a occuparlo in Uomini e città della Resistenza). Quale significato poteva mai rivestire, nella storia politica e civile d’Italia, il gesto del giovane aviatore dilettante che in un giorno d’ottobre del 1931 aveva sfidato l’Aeronautica di Balbo per lanciare nei cieli di Roma quattrocentomila volantini di tenore antifascista, salvo inabissarsi nel Tirreno lungo la rotta di ritorno verso la Costa Azzurra? Tanto gravida di intenzioni quanto leggera di effetti, la missione aerea era valsa forse a riflettere la superiorità etica dell’antifascismo sul fascismo? De Bosis andava considerato un eroe estemporaneo ma possibile, un Pietro Micca del ventesimo secolo? Sì, aveva risposto Calamandrei a se stesso. Perché «sono questi pietromicchismi che fanno la storia», ed «è alla fine che bisogna giudicarli».
Poche settimane più tardi, il 13 luglio 1941, il diario del giurista aveva registrato un impressionante vaticinio su quanto sarebbe effettivamente avvenuto fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943. Il popolo italiano – profetizzava Calamandrei – non sarebbe stato capace di compiere da solo una rivoluzione antifascista. Il regime di Mussolini sarebbe stato tuttavia rovesciato, non appena gli anglo-americani avessero preso il sopravvento sui tedeschi nella guerra mondiale: gerarchi fascisti quali Grandi e Bottai, d’accordo con Casa Savoia, avrebbero organizzato un colpo di stato contro Mussolini e i suoi compari più stretti. Infine, nell’ultimo periodo del conflitto mondiale, l’Italia sarebbe entrata in guerra contro la Germania. Nella prospettiva di un tale futuro, Calamandrei aveva smesso di invocare dai soli giovani il coraggio della scelta militante, aveva formalmente rinunciato alla soluzione di comodo della delega: «allora – si era impegnato – anche noi vecchi andremo volontari».
Lasciamo trascorrere ventiquattro mesi debordanti di storia e di sangue, per ritrovare Calamandrei esattamente due anni dopo, il 13 luglio 1943. Come sempre d’estate, il professore fiorentino sta alloggiando nella bella casa versiliese del Poveromo, ch’egli ha fatto costruire da poco secondo i dettami della più ortodossa architettura modernista. Senonché la sua non somiglia affatto a una villeggiatura. Tre giorni prima, gli Alleati sono sbarcati in Sicilia. Alla radio, Calamandrei segue con animo sospeso l’avanzata degli anglo-americani «sulle terre ove sbarcò Garibaldi» (mentre «ogni città che il nemico conquista […] pare che sia una città liberata…»). Molto più vicino a lui, lungo le strade stesse della Marina di Poveromo, un altro nemico – il medesimo della Grande Guerra, il nemico ereditario – si prepara al tradimento dell’alleato italiano, serra le file nell’imminenza di un’occupazione militare:
Stamani un reparto in armi faceva esercitazioni qui sul vialone: non potevo lavorare a sentire quei comandi secchi come starnuti rientrati. Sono sceso a vedere dietro la siepe. Facevano ordine chiuso e ordine sparso colla maschera antigas a proboscide: mostruosi, sotto gli elmi col viso a scheletro di gorilla. A un certo punto il plotone si è ricomposto, e colle maschere sul viso si son messi in marcia per tornare all’accampamento, e il tenente, senza maschera lui, ha dato lo scatto del coro: cra-cra-cra. E allora s’è sentito questo coro cantato dentro le maschere: lontano, funebre, con quel tremolio metallico che hanno le musiche rimaste chiuse dentro una scatola. Uno spettacolo terribile questo corteo di scheletri che si allontanava cantando con voce remota, soffocata, come quella dei fantasmi che viene dall’altro mondo: questo è proprio il simbolo della marcia della Germania.
In tale manovra del luglio 1943 sembra già di riconoscere i tedeschi dell’estate successiva: quei soldati freddi e fieri, insieme robotici e nibelungici, che faranno strage di italiani anche nelle immediate vicinanze del Poveromo, a Vinca, alle Fosse del Frigido, a Sant’Anna di Stazzema. E la penna di chi li descrive sembra già possedere la qualità icastica, lapidaria, della sua scrittura post-bellica. Ma quest’ultima è solo un’impressione, poiché l’urgenza dell’ora batte alle porte della casa di Calamandrei, vietandogli il distacco pensoso e solenne del moralista. «Sulla strada corrono motociclisti coll’elmetto prussiano che abbiamo imparato a odiare nell’altra guerra»: nascosto dietro la siepe, il compilatore del diario si accorge di spiarne le mosse come il soldato nascosto dietro una macchia sorveglia i movimenti del nemico da uccidere, o da cui essere ucciso.
Il fotogramma successivo ci porta – tre mesi dopo – in un’altra casa dei Calamandrei, non fresca di calce, questa: la casa avita di Montepulciano, dove il piccolo Piero era stato cresciuto all’«arte magica della scrittura» grazie alla scuola estiva del nonno, magistrato a riposo. Per intanto, in Italia è successo di tutto. Mussolini è stato deposto dal colpo di stato del 25 luglio, imprigionato dapprima a Ponza, poi alla Maddalena e quindi al Gran Sasso, liberato da paracadutisti tedeschi per dirigere una Repubblica di Salò nei fatti asservita al Terzo Reich. Badoglio ha tergiversato per quarantacinque giorni dopo la nascita del suo governo, prima di decidersi a sottoscrivere con gli Alleati un gravoso armistizio. Quanto a Calamandrei, ha fatto appena in tempo, dopo la caduta del fascismo, a indossare le vesti di rettore dell’università di Firenze, prima di doverne scappare a causa dell’occupazione tedesca. Presto, il ritiro stesso di Montepulciano riuscirà insidioso per un docente da sempre nel mirino dei fascisti fiorentini, obbligandolo a fuggire anche da lì per riparare presso parenti a Colcello Umbro, nel Ternano. Già il 12 settembre la villa del Poveromo è stata sequestrata da militari tedeschi, che ne hanno fatto un alloggio per il loro comando. Eppure, quando ci ripensa, quando pone mente alle circostanze frenetiche quanto patetiche del passaggio di consegne dai legittimi proprietari ai profanatori germanici, Calamandrei non può fare a meno di riconoscere come si tratti – in ultima istanza – di una «giusta sanzione». Troppo bella la villa del Poveromo, per meritarla nello sfacelo d’Italia. E troppo drammatica la rovina della nazione, perché al prof. avv. Calamandrei non toccasse di condividerla con milioni di altri perseguitati o fuggiaschi.
È un uomo altero quello che si china sul proprio diario in questo 9 ottobre 1943. Più che sull’ingrato destino del Poveromo, egli riflette sul bisogno di «armare un esercito» che combatta la Germania anche quando l’occupante sarà stato ricacciato oltre l’Appennino e le Alpi: «un esercito di volontari» che siano «pronti a sacrificarsi a centinaia di migliaia». Soltanto così, precisa Calamandrei, l’Italia avrebbe potuto redimersi: «altro sangue, altre stragi per lavare altro sangue e altre stragi…». Tuttavia, l’uomo che dalla sua casa di campagna va baldanzosamente programmando tale levée en masse (mai e poi mai «far finire tutto senza sangue, senza tragedia, senza possibilità di fare i conti») è il primo a non sentirsi sicuro che i connazionali rispondano presente al nuovo appello delle armi. Annota sul diario, subito dopo aver discettato dell’esercito di volontari:
Pancrazi mi scrive una cartolina ottimistica: dice che attraverso questi febbroni il ragazzo rifarà le ossa. Ma per rifar le ossa ci vuole il midollo: c’è il midollo in questa Italia? Non so, a me par di vedere in tutti, nei giovani e nei vecchi, una generale rassegnazione, un desiderio di non morire: di scegliere sempre, a ogni bivio, la strada che porta alla viltà pur che viva, anziché alla dignità con pericolo di morte. Anche ai giovani migliori manca forse, per la nostra civiltà, questa capacità quasi meccanica di esercitare la violenza, di far saltare il ponte, di uccidere il tedesco: questa mollezza umanitaria che ci fa impietosire dinanzi al sangue porta con sé una fiacchezza svirilizzata che per esempio non hanno i croati e i serbi, meno civili ma aspri e inflessibili.
Così, mentre la Resistenza italiana andava muovendo i primi difficilissimi suoi passi, colui che – ex post – meglio di ogni altro avrebbe saputo dirne la necessità o addirittura la poesia, consegnava al prudente segreto di un diario la più scorata tra le professioni di impotenza.
3. Guerriglia civile
Alla Resistenza Piero Calamandrei non andò volontario, come pure si era ripromesso. Trascorse a Colcello Umbro il periodo compreso fra l’ottobre 1943 e il giugno ’44, quando l’avanzata anglo-americana diede luogo alla liberazione di gran parte dell’Italia centrale; dopodiché visse tra Roma e Firenze, ormai da leader politico dell’Italia nuova, i dieci mesi necessari perché l’azione congiunta degli eserciti alleati e delle brigate partigiane sfociasse nell’insurrezione popolare dell’aprile 1945. Nel frattempo, i «giovani migliori» del paese – gli stessi che a Calamandrei erano sembrati affetti da una «fiacchezza svirilizzata» – intrapresero la via della lotta armata, compirono la scelta di «uccidere il tedesco»: e l’unico figlio suo, Franco, contò tra i loro capi.
Inutile almanaccare qui sulle ragioni che dissuasero Calamandrei padre da un impegno diretto nella Resistenza. Forse, cinquantaquattro anni gli parvero troppi per vivere un’esperienza fondamentalmente giovanile come quella della macchia. O forse, più semplicemente, prevalse in lui il «desiderio di non morire». Certo è che gran parte della successiva evoluzione psicologica e ideologica di Calamandrei – sia nel rapporto con il figlio, sia in quello con la patria – avrà a che fare con questo atto mancato: con la sua non-resistenza. Le pagine stesse, famose, sulla «desistenza» dell’Italia degasperiana, acquistano intero il loro senso se le si rilegge non soltanto come una critica, ma anche come un’autocritica: perché il demone della desistenza si era annidato, tra 1943 e ’44, fin nel cuore di Calamandrei. Da qui, nel resto del tempo che gli restava da vivere (lo straordinario decennio in cui il noto avvocato e il colto giurista si sarebbero trasformati in ben altro: nell’uomo politico, nel legislatore costituente, nel venerando epigrafista, insomma nel «padre della patria»), qualcosa di più, in Calamandrei, che una vaga nostalgia per l’azione non compiuta, del genere di quella che l’amato Carducci si era trovato ad avvertire per i fasti del Risorgimento. Piuttosto, si direbbe, un vero e proprio senso di colpa: e l’elaborazione di qualcosa come una strategia destinata a sublimarlo.
È ancora dal Diario che bisogna partire, se si vuole riconoscere gli ingredienti essenziali di questa vicenda. In particolare, si tratta di riprendere in mano le tante pagine che Calamandrei vergò a Colcello durante la sua stagione da sfollato. Sono questi, del resto, gli unici frammenti del journal intime ch’egli avrebbe deciso di pubblicare da vivo, sul «Ponte», nel 1954; ma in una versione fortemente ridotta, e dove l’autore avrebbe comunque rinunciato a trascrivere i passi più significativi e più gravi, i più rivelatori dello stato d’animo ch’era stato il suo quando in Italia infuriava la guerra civile. A cominciare dal dubbio che lo aveva assalito non appena giunto a Colcello, dopo la fuga da Montepulciano: «Come sarà giudicata questa mia assenza?». «Quale sarà la mia situazione, dopo che ho tagliato i ponti così, e creato a me stesso questa situazione singolare di fuoruscito in patria?». Quello di Calamandrei non era solo, evidentemente, lo scrupolo del pubblico funzionario lontano dal suo posto di lavoro all’università, né solo il fastidio del libero professionista costretto a sospendere la pratica forense; era anche, più in profondità, il disagio dell’antifascista consapevole di mancare all’appuntamento con la storia. «Questa mia assenza da Firenze sarà quasi da tutti interpretata per fuga e viltà. E si dirà che nei momenti del più cupo dolore, quando nella mia città tutte le persone di buona volontà tenevano il loro posto, io ho disertato».
Neppure per un istante, nei nove interminabili mesi in cui rimase nascosto a Colcello Umbro, un uomo con la moralità (e con le ambizioni) di Calamandrei poté celare a se stesso quanto vi era nella sua condizione di sorprendente e, in fondo, di deludente. Lui, l’antifascista della prima ora, il sodale dei fratelli Rosselli, l’erede fiorentino di Salvemini come simbolo della resistenza culturale alla dittatura; lui, cui l’intellighenzia liberalsocialista e la dirigenza azionista guardavano come a un sicuro primattore sulla scena dell’Italia nuova, ridotto alla striminzita quotidianità di una vita da sfollato «che si interessa del proprio sonno e della propria digestione, collo scaldino e colla candela che puzza di moccolaia». Certo, quando più nettamente prevaleva in lui un umanissimo istinto di conservazione, Calamandrei confidava al diario niente più che il sollievo di esserci ancora: «basta vivere, per ora…» (non diversamente, nella Francia del Termidoro, l’abate Siéyès aveva replicato con tre sole parole a chi gli chiedeva ragione della sua eclissi sotto il Terrore: J’ai vécu…). Ma almeno altrettanto spesso, Calamandrei era abitato dalla «pena» e assediato dall’«umiliazione». Che cosa avevano materialmente fatto, lui e quelli come lui, per far cadere il fascismo? E adesso, che cosa andavano concretamente facendo per combattere il nazifascismo? «Parole e parole: non uno che si faccia uccidere, non uno che sia pronto a dare un esempio di sacrificio personale. Sempre gli stessi: e io che scrivo, con loro». La vergogna di Calamandrei, il suo tormento, era scoprirsi incapace di qualunque pietromicchismo.
Quando poi, all’uscita dell’inverno 1943-1944, fu dato al profugo di Colcello di cogliere i primi segnali di un progressivo organizzarsi della Resistenza, non per questo egli ne trasse immediato conforto. Il 16 marzo lo raggiunse la notizia dei gravissimi scontri di Poggio Bustone, presso Rieti: dove un commando partigiano aveva attaccato un contingente della Guardia nazionale repubblicana seminando la morte nei ranghi fascisti. Sia la temerarietà dell’azione compiuta dalla brigata Gramsci, sia la ferocia con cui la popolazione locale si era accanita contro i cadaveri dei militi sarebbero rimaste lungamente impresse nella memoria collettiva degli abitanti del Ternano: a Poggio Bustone, la Resistenza dell’Italia centrale aveva conosciuto il suo battesimo di sangue. Ma Calamandrei, sfollato poco lontano, non maturò dell’episodio che un’immagine tanto più negativa quanto più la sua visione delle cose riusciva laterale e distorta. «La gente scappa da Rieti, terrorizzata da questa guerra civile»; «questi ribelli sono comandati, a quanto si dice, da ufficiali inglesi: salutano col pugno chiuso. In una scaramuccia sono stati fatti prigionieri un gruppo: su settanta, cinquanta erano tedeschi disertori!». Pugni chiusi, ufficiali inglesi, disertori tedeschi: nell’isolamento di Colcello, un intellettuale raffinato come Calamandrei si trovava a dipendere totalmente dal chiacchiericcio popolare, dall’immancabile rincorrersi bellico di voci, notizie false, leggende.
Il sor Piero (come gli abitanti del villaggio avevano l’abitudine di chiamarlo) risultava tributario dei «si dice» anche nella rappresentazione delle brigate partigiane come un movimento surrettiziamente infiltrato dal comunismo russo. Era con la falce e martello ricamata sui berretti che i «ribelli» si avvicinavano sempre più ad Amelia, dunque a Colcello! «Giorni fa hanno catturato e tenuto tre giorni sotto accusa di essere fascista un omino che fa l’esattore della luce elettrica e che pochi giorni fa vidi io stesso qui, all’uscio di casa a riscuoter la bolletta». La segretaria di una scuola del circondario era giunta ad Acquasparta sconvolta, fuggendo da un paesino sopra Terni dov’era sfollata, perché i «ribelli» erano andati a casa sua, avevano bastonato il marito accusandolo di essere un gerarca, avevano devastato la mobilia… «Guerriglia civile – concludeva Calamandrei – che si inasprirà e diventerà rapidamente una lotta contro i “borghesi”». E tutto in questa sua pagina di diario, dalla scelta dei termini all’uso delle virgolette, diceva di un uomo più preoccupato che entusiasta all’approssimarsi della Resistenza in corpore vili.
Nella notte fra il 14 e il 15 giugno 1944, quando l’offensiva dell’esercito anglo-americano si fece più decisa dopo la conquista di Roma, la linea del fronte passò fragorosamente oltre Amelia, lasciando i pochi abitanti di Colcello – e Calamandrei con loro – dalla parte giusta, nell’Italia liberata. Ma una banda di partigiani si era manifestata in paese già pochi giorni prima, mentre ancora la zona era sotto il controllo dei tedeschi. Senza che il sor Piero si lasciasse incantare dall’epifania della Resistenza:
Ieri Colcello fu «occupato» per due ore da patrioti. Ciro mi venne ad avvertire del loro arrivo: non si sapeva che volessero. Erano una diecina, al comando di un capo che è un socialista di Amelia: tra essi vi erano due ex carabinieri ex guardie repubblicane, un disertore austriaco di Vienna (diciottenne), un prigioniero russo, un sottotenente che è stato molti mesi in prigione a Perugia imputato di diserzione e che appena lasciato libero si è dato alla macchia, un sottufficiale di aviazione ed altri due o tre: tutti armati di moschetto o rivoltella, e il capo col binocolo.
Uscii con Ciro: qui sulla piazzetta dinanzi a casa su una panchina dove stanno a sedere di solito le donnine, c’erano due di essi, seduti, col moschetto sui ginocchi. Più su, alla Buca, c’era l’austriaco e un altro attorniati da ragazzi e donne. Ci dissero che il capo era a conferire con Guido Valentini, che viene considerato l’esponente antifascista del borgo: il resto della squadra era andato a occupare le diverse vie d’uscita del villaggio. Il capo, in pullover, senza cappello, con occhiali neri e zucca spelacchiata, piuttosto buffo, dice che avevano l’ordine «da Roma» di disarmare i fascisti. […] Ci trattenemmo a lungo con tutta la squadra, tra i quali il sottotenente. Quando sentì il mio nome mi disse di essere studente di lettere a Roma, allievo di De Ruggiero: è un ragazzo con grandi occhi febbricitanti in una faccia pallidissima resa più sparuta da una barba non fatta da due settimane. Che cosa voglion fare non lo sanno bene neanche loro.
Adesso che gli studiosi della Resistenza hanno cominciato a scriverne la storia indipendentemente dal mito, noi andiamo scoprendo come – per molti aspetti – le cose stessero proprio quali Calamandrei le registrò nell’unico incontro de visu che mai gli capitò di avere con dei partigiani. I resistenti non sapevano bene che cosa volevano fare. Volevano cacciare i tedeschi, certo, e volevano farla pagare ai fascisti; ma non avevano chiare le coordinate del mondo nuovo da costruire, né antivedevano il proprio ruolo nella città futura. D’altronde, i più sinceri fra loro lo avrebbero ammesso, in testi scritti a caldo dopo l’avventura della macchia o della clandestinità, nei più riusciti fra i racconti o le memorie di ambientazione partigiana: come tutte le rivoluzioni che si rispettino, la Resistenza era stata un guazzabuglio inestricabile di determinazione e di confusione, di ordine e di disordine, di pulizia e di sporcizia, di umiltà e di prosopopea… Il che non toglie che vi sia qualcosa di stonato nella rappresentazione dei «ribelli» che Calamandrei consegnava al proprio diario. Perché davvero si fatica a riconoscervi un qualunque elemento in comune con la rappresentazione dei partigiani ch’egli avrebbe diffuso dopo la Liberazione, nei «discorsi, scritti ed epigrafi» raccolti in Uomini e città della Resistenza. Semmai, le pagine del Calamandrei di Colcello ricordano quelle di un altro diario coevo, tenuto da uno scrittore scettico e vagamente qualunquista come l’Andrea Damiano di Rosso e Grigio: il quale pure, nell’unica occasione in cui si incontrò con una banda di partigiani, ne trasse un’immagine picaresca e maccheronica, da armata Brancaleone avanti lettera.
4. Una questione privata
La pagina di diario in cui Calamandrei descrisse l’epifania della Resistenza au village appare tanto più significativa in quanto – dietro il velo di una toscanissima ironia – risulta impregnata di umori professorali, o comunque generazionali. Fra le ragioni per cui Calamandrei faticò a capire e ad apprezzare la Resistenza va annoverata questa: egli faticava a capire e ad apprezzare i giovani ai quali, dalla sua cattedra di docente universitario, si era trovato a rivolgersi negli ultimi anni, sino alla vigilia immediata dell’8 settembre. Mentre erano soprattutto quei giovani borghesi che, con altri di estrazione popolare, andavano combattendo nella Resistenza.
Niente di più normale, d’altronde, dello sconcerto di Calamandrei. Fra 1943 e ’44, non era facile comprendere – nel corso stesso del suo sviluppo – la parabola umana e politica dei «redenti»: della generazione intellettuale che dopo avere militato, alla fine degli anni Trenta, entro i ranghi della «sinistra» fascista, andava scoprendo nella lotta armata contro il nazifascismo (e all’occorrenza nel comunismo) una nuova risposta alla propria domanda di giustizia e di rivoluzione. Né era facile comprendere come, nella mente e nel cuore dei giovani, la Resistenza potesse essere insieme una questione di immaturità e una questione di maturità, come potesse fondere la dimensione leggera del gioco da bambini con quella onerosa del diventare grandi. Nel caso di Calamandrei, una complicazione supplementare nasceva dal fatto di avere un redento in famiglia: suo figlio Franco, che dopo una giovinezza trascorsa, con ovvio scorno del padre, negli ambienti della sinistra fascista, all’indomani dell’8 settembre gli aveva lasciato intendere – durante un burrascoso faccia a faccia – di sentirsi votato a un futuro da militante comunista.
Per oltre tre anni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, Calamandrei aveva disseminato nel proprio diario giudizi inclementi sulla gioventù universitaria, di cui il padre antifascista considerava il «figlio fascista» un degno rappresentante: «gioventù di merda», capace bensì di obbedire, ma non di credere né di combattere; patetica genia di «egotisti incorreggibili», «letteratucoli» occupati dall’ermetismo più che preoccupati dell’hitlerismo; «sparuto gruppetto di poveri ragazzi presuntuosi malati di narcisismo». Cos’era stato l’intero regime dei Bottai o dei Pavolini, se non un desolante esempio di «paidocrazia»? Nell’Italia che fosse riuscita a estrarsi dalla catastrofe, dopo la fine della dittatura fascista e della guerra mondiale, «bisognerà che i ragazzi tornino a fare i ragazzi», aveva severamente concluso il professore universitario. Secondo i taccuini di guerra di Piero Calamandrei come secondo quelli coevi di Benedetto Croce, il cosiddetto problema dei giovani si riduceva al problema di un’«immaturità» che il regime dei fasci aveva avuto l’astuzia di elevare a professione, la gioventù dei Guf l’ingenuità di sbandierare come merito.
Alla severità del giudizio che i padri davano sulla generazione dei balilla corrispondeva però, nel vissuto emotivo e politico dei figli, una severità uguale e contraria. Fra le molle che dopo l’8 settembre spinsero alcune migliaia di giovani italiani sulla strada della lotta armata fu precisamente il disprezzo per l’inane atteggiamento dei padri. Anche quando i vecchi antifascisti finivano col rivelarsi buoni per scrivere gli articoli di fondo dei giornali clandestini, i loro figli naturali o putativi non li trovavano convincenti per davvero; rifiutavano di pensare che tali sussiegosi maestri di retorica, con le guerre del Risorgimento sempre in bocca, potessero valere da figure-modello nella lotta contro Mussolini e contro Hitler: «Credevamo in un corpus di sapienza anti-fascista; ma rigettavamo l’idea che ne fossero questi i custodi». E poi, di là dalle parole, in quale maniera la generazione dei padri si era mai espressa nei fatti? Dove, come, quando si era mai sacrificata? Per riscattare il male storico del fascismo – pensavano le reclute di una banda partigiana come quella vicentina di Luigi Meneghello – qualcuno doveva pur soffrire. Dal momento che tanti padri non si erano resi disponibili, certi figli dovevano farlo per loro.
Vent’anni dopo, il titolo stesso della memoria resistenziale di Meneghello, I piccoli maestri, avrebbe offerto un’immagine trasparente del modo in cui i giovani partigiani avevano inteso replicare ai vecchi «professori addottrinati»: sarebbe riecheggiato come lo schiaffo dei figli resistenti ai padri desistenti. Ma senza attendere così a lungo, senza rimetterlo all’arte sincera o bugiarda della memoria, c’era chi quello schiaffo lo aveva dato da subito, secondo il tempo impaziente e divisivo della storia. Tale fu il caso di Franco Calamandrei. Come documentano le pagine del diario ch’egli riuscì a tenere nel pieno della Resistenza romana, fin dentro la sua clandestina quotidianità di comunista e di gappista, la scelta partigiana di Calamandrei figlio maturò nella consapevole forma di un «congedo» da Calamandrei padre. Il risultato fu, per entrambi, qualcosa di estremamente lacerante: un autentico psicodramma, senza penetrare il quale si rischia di intendere poco del cammino che avrebbe fatto di Piero l’autore di Uomini e città della Resistenza.
Franco Calamandrei non aveva atteso l’8 settembre 1943 per prendere le distanze da un ingombrantissimo padre. Un po’ tutte le sue decisioni di vita successive alla laurea in giurisprudenza (ch’egli aveva conseguito ventiduenne nel ’39) si erano configurate come le tappe di un progressivo allontanamento non solo dalla città di Firenze, ma dalla figura di Piero: la frequentazione degli ambienti letterari fascisti, la rinuncia a perfezionarsi da avvocato, l’entrata nella funzione pubblica come impiegato presso l’Archivio di Stato di Napoli. Nell’agosto del ’41, un verbo aveva fatto capolino nella prosa del suo diario, in relazione al rapporto con l’ambiente d’origine e segnatamente con il padre: era il verbo salpare. Sicché rinunceremo a stupirci se all’indomani dell’8 settembre – dopo che Piero e Franco avevano avuto il loro drammatico faccia a faccia, e il figlio aveva comunicato al padre la propria intenzione di arruolarsi da comunista contro il nazifascismo – il diario di Franco aveva ospitato la trascrizione dei versi di un poeta americano, nella traduzione che Fernanda Pivano ne aveva appena dato per l’editore Einaudi. Era la finta lapide di George Gray, nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: «E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino / dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre alla follia, / ma una vita senza senso è una tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio, / è una barca che anela al mare eppure lo teme».
Qualcosa come trentasei anni più tardi, nel novembre del 1979, Franco Calamandrei avrebbe ancora fatto ricorso al verbo salpare per rendere conto della propria scelta resistenziale nella fatidica notte dell’8 settembre 1943; spiegando come, pur di raggiungere i lidi di un antifascismo fattivo anziché parolaio, si fosse sentito pronto a «passare sul corpo di [suo] padre». Dettaglio rivelatore: nel romanzo di ambientazione partigiana da lui rimuginato per decenni, Franco avrebbe organizzato la scena madre dell’incontro-scontro fra il padre desistente e il figlio resistente sulla base di criteri strettamente autobiografici: salvo immaginare che quello del padre non fosse il mestiere dell’avvocato, ma il mestiere del giudice. Altrettanti modi per esprimere, agli sgoccioli della vita, quanto gli era stato comunque ben chiaro già al tempo della Resistenza. Da un lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato un esercizio tanto continuo quanto logorante di recitazione, nel tentativo di presentarsi allo sguardo indagatore del padre in una postura che gli riuscisse soddisfacente. «Scrivo una lettera per i miei genitori» – leggiamo nel diario di Franco alla data del 28 febbraio 1944, cinque giorni dopo ch’egli aveva guidato a Roma il commando gappista di via Rasella – «con il solito disagio, il solito sentimento di scrivere in una lingua straniera, di porgere in vece mia un manichino, una figura retorica». Dall’altro lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato una precisa assunzione di responsabilità. «I figli devono educare i genitori», si legge pure nel diario, come una citazione di Marx secondo Lafargue.
Se volessimo riprendere la terminologia di Meneghello, diremmo che Franco ce l’aveva avuto in casa, il professore addottrinato cui servire da piccolo maestro. Se invece ci volessimo nuovamente affidare alla ricostruzione retrospettiva del figlio, diremmo che il trauma originario aveva coinciso con un banale incidente capitato in Versilia durante una vacanza al mare. A causa di un’onda anomala, il padre aveva rischiato di affogare, e il figlio che gli nuotava accanto aveva letto sul suo viso un’angoscia senza limiti, il terrore di morire: «Brusca rottura dell’immagine dell’autorità paterna. Un “poveruomo”». Il poveruomo del Poveromo: per il resto della vita, dopo la crisi della Resistenza, Franco non avrebbe smesso di rielaborare l’immagine del padre, provando fierezza per la sua vigorosa «moralità», ma rabbia per una «meschinità» patetica o addirittura «ripugnante». Un egoista, Piero Calamandrei, nell’animo del quale l’attaccamento alla moglie e al figlio si confondevano con l’eterna paura di soffrire; un velleitario, la cui unica forma di opposizione al fascismo era consistita nella pluriennale tenacia con cui aveva raccolto da destra o da sinistra barzellette antiducesche.
Quello della psicoanalisi è un terreno scivoloso per lo storico, che si trova nell’ovvia impossibilità di trattare i propri personaggi alla maniera di Freud con i suoi pazienti. Nondimeno, la natura del rapporto fra Piero e Franco Calamandrei sollecita una ricostruzione storiografica che non escluda a priori la dimensione della psicologia del profondo. Quali risultano dai taccuini privati di entrambi, alcune situazioni avevano un contenuto freudiano addirittura flagrante. Così, se la metafora del salpare era centrale nel modo in cui Franco si figurava il congedo da Piero, un’identica metafora occorreva – rovesciata di segno – nelle nostalgie e nelle fantasie di Piero, a proposito di un riavvicinamento con Franco. Il 16 gennaio 1944, registrando le proprie impressioni di lettura sulle Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini, il Calamandrei di Colcello si diceva commosso dalle pagine in cui l’oppositore dei Borboni aveva evocato «con tanta tenerezza» la figura del figlio Raffaele; in particolare, da «quelle in cui racconta del figliuolo, che s’imbarca come cameriere sulla nave per liberare il padre». Due mesi più tardi, rimpiangendo la mancanza di notizie riguardo alla vita romana di Franco, Piero annotava: «L’ho sognato stanotte […] in una specie di grande adunata in cui egli era senza cappello e in camicia nera, e così tutti noi: io sono arrivato in ritardo, e lui mi ha fatto cenno di andarmi a mettere in un certo punto della folla, e mi par che m’abbia detto: “Lì, vicino alla ringhiera, non tirano”, come per rassicurarmi».
Sarebbe certo imprudente spingersi oltre sulla strada della psicoanalisi, fino a sostenere che nella vita interiore di Franco Calamandrei la suprema prova di virilità – «l’uccisione», «l’uccisione del fascista» – abbia rappresentato una forma sublimata di uccisione del padre. Sta di fatto che soltanto dopo aver praticato l’esperienza perigliosa e inebriante della clandestinità, l’attività sabotatoria e terroristica, insomma la guerra civile guerreggiata, Franco si scoprì disponibile a recuperare un qualche rapporto con i genitori. Ebbe allora l’impressione che i ruoli si fossero invertiti, e che ormai toccasse a lui, al comandante partigiano, di prendersi cura di un padre e di una madre irrimediabilmente scavalcati dalle correnti della storia. Si legge nel diario di Franco alla data del 2 aprile 1944, dieci giorni dopo l’attentato di via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine: «Una lettera triste della mamma: tutto viene meno intorno a loro. E temo che non abbiamo più parole ormai con cui io possa cercare di consolarli. Vorrei poterlo fare, vorrei tanto trovare un contatto». Due settimane più tardi si legge nel diario di Piero: «Ieri Franco ha scritto da Roma: in tono genericamente fiducioso e virile: lui, per sua fortuna, ha dinanzi a sé l’avvenire. Non può sentire questo logoramento del tempo che fugge inutile, che si prova all’età mia…». Così, la virilità del figlio non sembrava possibile che a prezzo della senilità del padre.
Ma per quanto si sentisse vecchio, stanco e colpevole, il sor Piero di Colcello non aveva rinunciato all’antica abitudine di salire in cattedra. Poteva dunque – nella medesima pagina di diario in cui ripicchiava sul tasto della «vergogna» per l’inconcludenza e la vigliaccheria della sua propria generazione – assumere un tono di condiscendenza verso «questi giovani ingenui, i nostri figliuoli, che a rischio della vita si danno alla macchia come “ribelli” o preparano nella città la riscossa». Viceversa, Calamandrei padre poteva parlare sia dell’attentato di via Rasella (quando ancora non lo sapeva guidato dal figlio!), sia della rappresaglia delle Fosse Ardeatine, con accenti sorprendentemente leggeri, analoghi a quelli di certa vox populi capitolina: «Ogni tanto a Roma qualche camion tedesco è fatto saltare dai “comunisti”: l’ultimo in cui furono uccisi da una bomba 32 tedeschi, ha portato come rappresaglia la fucilazione di 320 ostaggi innocenti…». Senza percepire il valore politico e militare dell’azione compiuta dai Gap in via Rasella, momento simbolicamente fra i più intensi della Resistenza europea, Calamandrei si contentava dunque di alludere alle responsabilità degli attentatori, colpevoli indiretti dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. E anche in questo il profugo di Colcello era in buona compagnia, se è vero che i gappisti di via Rasella dovettero subito difendersi dall’accusa di avere sulle proprie mani – oltre al sangue dei carnefici tedeschi – il sangue delle vittime italiane.
5. Un segnalatore d’incendio
Soltanto a partire dal luglio 1944, dopo che l’arrivo degli anglo-americani in Umbria gli ebbe permesso di concludere la propria esperienza da sfollato e di raggiungere Roma, Piero Calamandrei prese a guardare alla Resistenza attraverso nuove lenti. Né avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che il suo arrivo nella capitale coincise con l’inizio di un’attività politica frenetica, a stretto contatto con i capi del Partito d’Azione, i dirigenti del Cln, le autorità alleate. Dopo nove mesi di completo isolamento, e dopo venti lunghissimi anni di censura e di autocensura, al giurista fiorentino era dato ora di ritornare a essere se stesso; e al suo antifascismo intellettuale era dato di riconciliarsi con l’antifascismo militare di chi andava combattendo nella Resistenza.
Per Calamandrei padre, questo significò anzitutto l’opportunità – e il sollievo – di una riconciliazione con il figlio. Al limite, proprio la scoperta del contributo di Franco al gappismo romano («non c’è stato attentato che non abbia fatto lui, o a cui non abbia assistito») spinse Piero a riconoscere come «eroico» il «contegno dei giovani» dopo l’8 settembre: fu l’agnizione intorno al ruolo del figlio che mutò l’atteggiamento del padre rispetto alla Resistenza. Non che le retrouvailles fra Piero e Franco avessero dissipato ogni ombra nel loro rapporto. Ben presto dopo l’arrivo nella capitale, il diario del padre ospitò acidi commenti sulla maniera in cui il figlio aveva trasformato la propria passione letteraria per l’ermetismo in passione politica per il comunismo. L’intuizione stessa del coinvolgimento di Franco nell’attentato di via Rasella («arrossisce quando si parla della bomba sotto il Quirinale») mosse Piero a riflessioni intransigenti. Quanto vi era, nel coraggio di chi compiva simili gesti, di residuo libresco, di un maldigerito Gide da Sotterranei del Vaticano («Lafcadio che uccide il compagno di viaggio per prova»)? Ma al di là di queste e di altre riserve affidate al segreto del diario, per Calamandrei ritrovare il figlio fece tutt’uno col ritrovare la patria.
Nel vissuto di Piero durante quel fervido mese di luglio del 1944, il primo uomo della Resistenza fu Franco, la prima città della Resistenza fu Roma. Pochi giorni dopo essere giunto nella capitale, Calamandrei prese parte – con il figlio stesso, e la moglie Ada – a qualcosa come un pellegrinaggio verso la famigerata pensione Iaccarino di via Romagna: là dove Franco, tratto in arresto alla fine di aprile, era sfuggito per un soffio alle torture di Pietro Koch e del suo Reparto speciale di polizia. Ecco l’ingresso della pensione da cui Franco era entrato in catene; ecco il «giardinetto con oleandri fioriti» dove il prigioniero, approfittando di una disattenzione dei po-liziotti collaborazionisti, si era gettato da una finestra al piano rialzato, riuscendo poi a dileguarsi oltre una cancellata. Senonché, nella Roma da poco libera, i pellegrinaggi sentimentali di un uomo come Calamandrei non potevano limitarsi a questo. Era inevitabile ch’egli sentisse il bisogno di spingersi sino alla «fossa della via Ardeatina», luogo di scempio che andava rapidamente trasformandosi in luogo di memoria.
Per una somma di pulsioni private e di pubbliche ragioni, capitò quindi a Calamandrei di avvertire doveroso l’omaggio sia all’attentatore di via Rasella, sia alle vittime della successiva rappresaglia. Logiche familiari e logiche politiche si combinarono per sottrarlo alla tentazione di insistere sulla responsabilità morale dei gappisti romani nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. In generale, con l’estate del ’44 il pensiero di Calamandrei conobbe un processo di radicalizzazione: piena fu la sua adesione alla richiesta azionista di una Resistenza inflessibile, di una guerra civile senza prigionieri. «Gli inglesi e il governo Bonomi sono troppo miti: i fascisti bisogna spengerli», a costo di «snida[rli] con lanciafiamme», era il commento del diarista alla notizia della liberazione di Perugia. Tuttavia, la sensibilità di Calamandrei inclinava meno all’elogio della violenza impartita e più al necrologio della violenza subita. Fin dalla giovinezza, quella del giurista-letterato era stata una poetica della morte e della resistenza alla morte; prima ancora della Grande Guerra, nell’Italia della belle époque, la sua poesia aveva ruotato intorno alle figure dei defunti anzitempo e della loro sopravvivenza spirituale nel mondo. Perciò, fu quasi giocoforza che il Calamandrei del ’44 si trovò ad abbozzare – senza ancora saperlo – il progetto di Uomini e città della Resistenza: «Quale lista di martiri, quando tutta la storia potrà essere raccontata!».
Ma un passo restava da compiere al professore fiorentino, prima di recuperare la propria vena funeraria per farsi ineguagliabile poeta di una Repubblica nata viva dai morti della Resistenza: gli restava da elevare il genere stereotipato del martirologio a riflessione originale intorno alla specificità storica del nazifascismo. È il passo che Calamandrei mosse nel corso medesimo del 1944, quando trasformò un invito editoriale dell’amico Pancrazi – in apparenza, poco più che una proposta erudita: scrivere per Le Monnier una prefazione a Dei delitti e delle pene di Beccaria – nell’occasione per un confronto intellettualmente serrato con alcuni caratteri distintivi della violenza nazifascista. Poiché Calamandrei percepì nettamente come le vittime di Hitler e di Mussolini non fossero, se così si può dire, vittime come le altre. La «carneficina d’Europa» alla metà del ventesimo secolo non andava confrontata con alcuna strage del passato; la tortura sistematicamente praticata sui corpi di «person[e]» ridotte a «cos[e]», la fucilazione in massa di «donne innocenti» e «bambini ignari», la deportazione di «popoli come mandrie», la messa a punto dell’«esterminio» quale «un’industria “razionalizzata”», rappresentavano un sovrappiù nella vicenda storica del male.
L’edizione Le Monnier di Beccaria uscì nelle librerie dell’Italia liberata il 17 gennaio 1945: quando la parte settentrionale del paese ancora si trovava sotto l’occupazione tedesca, e quando – molto più a nord – i cancelli di Auschwitz ancora non erano stati abbattuti dai blindati dell’Armata Rossa. Ma in anticipo sui ritmi della competizione militare, la prefazione del libretto conteneva il sugo di tutta la storia. Nel lessico ermeneutico di oggi, diremmo che Calamandrei identificò chiaramente l’essenza del nazifascismo come aberrazione biopolitica: irrimediabile attentato contro l’homo sacer, contro la sacralità della nuda vita. Annichilito il principio della personalità della pena, i carnefici di Berlino avevano oliato una macchina capace di gestire «la tortura metodicamente inflitta a popoli interi», «intere regioni accuratamente attrezzate da sale di supplizio». E se il colmo dell’efferatezza era stato raggiunto dagli aguzzini germanici nell’Europa centrale e orientale, i loro collaboratori di Salò avevano fatto il possibile per reggere il confronto al di qua delle Alpi.
Il nome di Piero Calamandrei va aggiunto a quello dei rari segnalatori d’incendio i quali – all’uscita dalla seconda guerra mondiale – riconobbero nell’«esterminio» un punto di non ritorno della storia universale. Nel decennio successivo il 1945, la sua voce di cantore della Resistenza sarebbe risuonata tanto più alta, quanto meglio Calamandrei sapeva che l’innocenza del mondo era perduta per sempre.
6. Monumenti
Il 7 ottobre 1945, nel piccolo comune di Bellona presso Caserta, venne inaugurato un monumento alla memoria dei cinquantaquattro abitanti del paese trucidati due anni prima in una feroce rappresaglia nazista. La cerimonia davanti alla lapide fu semplice e decorosa: benedizione del prete, discorso del sindaco. Un po’ discosto, defilato, l’unico personaggio davvero illustre presente quel giorno a Bellona, che era poi l’autore dell’epigrafe incisa a ricordo delle vittime: Benedetto Croce. Ma la discrezione dell’anziano filosofo non lo preservò dall’emozione: «Vedendo da un lato il folto gruppo delle persone vestite a lutto, madri, figlie e figli e padri degli uccisi, e udendo tra i repressi gemiti il prorompere di qualche grido angoscioso verso il monumento, “Papà! papà!”, mi sono commosso a segno da dover tergere le lacrime».
Quella di Bellona non fu la sola epigrafe che Croce ebbe a dettare alla memoria delle vittime di eccidi nazisti: fu invitato a scriverne un’altra per una lapide poco lontano, a Caiazzo; un’altra ancora a Santa Maria Capua Vetere, presso l’albero dove era stato impiccato un eroico sedicenne. Né Croce fu l’unico grande intellettuale che al riemergere dalla guerra accettò di contribuire al genere delle scritture epigrafiche, quali proliferarono ovunque in Italia e in Europa dopo la fine dell’occupazione tedesca. Alle nuove autorità locali, nei borghi e nelle città finalmente libere, dovette riuscire spontanea l’idea di rivolgersi a questo o quel letterato, affinché trovasse le parole per esprimere uno strazio comunitario altrimenti indicibile. Ai letterati, o comunque agli umanisti, dovette riuscire preziosa l’opportunità di trascendere il cordoglio rinnovando un genere fondativo della tradizione occidentale. Nel dopoguerra, «innumeri stele» furono dunque scolpite ai quattro angoli del continente, tragici segnaposti di un’inopinata geografia dell’orrore. In terra italiana, particolarmente memorabili apparvero gli epitaffi dettati da Piero Calamandrei: come quello, più di tutti famoso, murato il 21 dicembre 1952 nel Palazzo comunale di Cuneo, Il monumento a Kesselring.
Ma il filosofo di Napoli e il giurista di Firenze condividevano qualcosa di più che l’arte della retorica e la gravitas dei moralisti. Comune a entrambi era una forma di sensibilità che potremmo definire insieme archivistica e museale: la cura di conservare e di esporre le vestigia del passato, foss’anche un passato ignominioso. Così, per quanto le loro opinioni divergessero sull’interpretazione storica da dare del fascismo, Croce e Calamandrei precocemente misurarono il rischio che l’uscita dalla dittatura si traducesse nella dispersione del patrimonio culturale (o inculturale) prodotto dal regime. Già nel maggio del 1944, da ministro nel secondo governo Badoglio, Croce si adoperò per disciplinare l’«abbattimento dei monumenti fascistici», che s’andava compiendo «in modo tumultuario». Pochi mesi dopo, con eccezionale lungimiranza rispetto allo spirito del tempo, Croce immaginò addirittura un «futuro museo storico dell’età fascista». Per parte sua, già da prima dell’8 settembre Calamandrei aveva ragionato intorno al modo di conservare, ed eventualmente di esibire, fatti e misfatti del fascismo. Nel ’48, il progetto assunse la forma – molto provvisoria, per la verità – di una rete di biblioteche che valessero da «archivi dell’“antiresistenza”».
Dalla Liberazione in poi, «Il Ponte» fu anche questo: una specie di supporto cartaceo al quale appendere gli orrori del fascismo. Sulla rivista, Calamandrei pubblicò persino il testo di lapidi finte. Come l’epigrafe immaginaria ch’egli volle dettare dopo le elezioni politiche del 7 giugno 1953, quando varcarono l’ingresso di Montecitorio – da deputati del Msi – alcuni veterani del Ventennio e di Salò: a cominciare da quel Filippo Anfuso che era stato coinvolto, nel 1937, nell’assassinio dei fratelli Rosselli, prima di solidarizzare con Goebbels e la nomenklatura nazista in qualità di ambasciatore italiano a Berlino. Per l’occasione, il direttore del «Ponte» non esitò a sollecitare un «raccoglitore di curiosità storiche», Carlo Galante Garrone, affinché ristampasse sulla rivista, tali e quali, vecchi scritti o discorsi di Anfuso e degli altri gerarchi fascisti trionfalmente rientrati a Montecitorio. Quasi altrettanto che di elevare un monumento materiale e immateriale alla Resistenza, premeva infatti a Calamandrei di elevare un monumento infamante all’Antiresistenza. E l’etimologia latina della parola monumento lo confortava in tale duplice intenzione, in quanto conteneva, con la nozione di un ricordo del passato, quella di un monito rispetto all’avvenire.
Per Calamandrei forse più che per qualunque altro intellettuale italiano dell’epoca, tutto ciò aveva a che fare con la Shoah: non ce ne stupiremo, dopo averlo individuato come uno dei rari «segnalatori d’incendio» nel distratto Occidente post-bellico. Ad aprile del 1945, la prima pagina del primo numero del «Ponte» contenne una descrizione dei campi di sterminio così vivida da risultare stupefacente, ove si consideri che fu scritta quando fotografie e filmati dei Lager ancora non avevano preso a circolare nell’Europa liberata. Pochi mesi dopo, enumerando i cinquantacinque milioni di vittime della seconda guerra mondiale, Calamandrei evocò anzitutto le ombre dei prigionieri «sigillati senza cibo e senz’acqua nel carro bestiame», dei deportati «spinti in ordine chiuso nelle camere a gas». A qualche anno di distanza, il direttore del «Ponte» indugiò sui «magazzini di balocchi usati» che si conservavano «come sale di museo» presso i crematori di Auschwitz. Oggi queste cose fanno parte integrante della nostra memoria collettiva; al tempo in cui Calamandrei le metteva nero su bianco, Primo Levi faticava a trovare un editore disposto a stampare Se questo è un uomo.
Il bisogno che Calamandrei avvertiva di esporre (nel duplice significato del termine: raccontando e mostrando) le nefandezze del nazifascismo, fu all’origine di un’idea ch’egli ebbe per «Il Ponte» nel 1948, in occasione del decimo anniversario delle leggi razziali di Mussolini: ripubblicare il Manifesto della razza accompagnandolo – «perché la loro gloria non si estingua» – con i nomi di coloro che lo avevano firmato. Nel numero d’ottobre di quell’anno, sulla rivista comparvero effettivamente alcuni stralci del manifesto del ’38, sia pure senza la menzione dei firmatari. Di lì a poco, Calamandrei tornò a sollecitare Carlo Galante Garrone, questa volta per una ricerca storica, appunto, sul razzismo fascista. Al giudice torinese, il direttore del «Ponte» chiedeva di fare luce sulle origini politiche della campagna razziale, sulla maniera in cui la magistratura si era prestata a contribuirvi, sulla teoria e sulla prassi delle discriminazioni, su «quell’altra misteriosa faccenda delle arianizzazioni». Proponeva uno «spoglio accurato delle riviste e dei giornali», «per vedere chi scriveva articoli feroci contro gli ebrei, chi speculava sui loro dolori…». E forse non sapeva, Calamandrei, che fra quanti avevano scritto di questioni razziali era un uomo ch’egli considerava suo pupillo, che gli era amico e collaboratore, che sarebbe stato il suo biografo: il fratello stesso di Carlo, Alessandro Galante Garrone. Anch’egli giudice del tribunale di Torino, nel ’39 aveva discusso di ariani e di ebrei, di cattolici e di catecumeni, di matrimoni misti e di battesimi fasulli, sulla «Rivista del diritto matrimonale italiano e dei rapporti di famiglia».
Magistrato di fermo sentire antifascista, Galante Garrone si era quasi certamente ripromesso – commentando una sentenza della Corte d’Appello di Torino sulle modalità di «accertamento della razza» – di identificare alcuni strumenti giuridici che riducessero al minimo l’ambito di applicabilità delle leggi antiebraiche: aveva inteso cioè sottrarre spazio giurisdizionale al ministero dell’Interno, restituendo competenza decisionale al potere formalmente indipendente dei giudici. Ma la semplice scelta di intervenire in punta di diritto sopra una questione del genere aveva autorizzato certi fascisti a dedurne che risultava comunque ammessa la plausibilità giuridica della legislazione razziale; dunque a concludere, trionfalmente, che esperti di ogni specie ne riconoscevano la legittimità politica. Tale fu il ragionamento dei redattori di un neonato periodico dal titolo assai parlante, «Il Diritto razzista»: i quali, a insaputa dell’autore, pensarono bene di riprodurne il commento sulle pagine della loro propria rivista, ed ebbero buon gioco nel sottolineare l’importanza del contributo prestato alla causa antisemita dal «camerata Alessandro Galante Garrone».
Fra i componenti il comitato scientifico del «Diritto razzista» figurava nientemeno che Santi Romano, professore ordinario dell’università di Roma nonché presidente del Consiglio di Stato: un autentico luminare del diritto costituzionale e amministrativo, giurista fra i massimi del nostro Novecento, arruolato da un pugno di carneadi per fregiare con il suo nome la copertina di una rivista svergognata e vergognosa. Legislazione razziale a parte, la dittatura mussoliniana era durata troppo a lungo nel tempo, e aveva infiltrato troppo a fondo la società italiana, per non produrre tra fascisti e antifascisti forme di collaborazione o di accomodamento, con un inevitabile séguito di appropriazioni politiche e di travisamenti morali. Piero Calamandrei in persona non aveva forse prestato aiuto al ministro della Giustizia di Mussolini, Dino Grandi, per mettere a punto la riforma del Codice di procedura civile promulgato nel 1942? È ben vero che in tale codice fascista egli aveva tenuto a infondere tutto quanto aveva imparato dai suoi maestri liberali sulla legalità del processo e sulla funzione del giudice; ed è ben vero che nel medesimo torno di anni, dopo avere militato nel movimento clandestino di Giustizia e Libertà, egli aveva contribuito alla nascita del Partito d’Azione. In ogni caso, dopo il 1945 l’argomento di una collaborazione puramente tecnica al codice Grandi – quale Calamandrei lo aveva addotto prima di tutto a se stesso, scrivendone a più riprese nel diario – poteva ben apparire una coperta troppo corta per mascherare la realtà di un’expertise politicamente significativa. Quanti fra i soloni dell’Italia libera erano scesi a patti con il regime fascista! Calamandrei compreso, come ricordava un intellettuale «epurato», lo storico Gioacchino Volpe.
Nous sommes tous des ci-devant: la formula impiegata da un giornalista del Direttorio a proposito della Francia post-termidoriana calzava a pennello per l’Italia post-fascista. In un modo o in un altro, tutti i cittadini della neonata Repubblica erano uomini ex. Il che contribuiva a spiegare quanto pure suscitava, con la delusione di tanti ex partigiani, lo scandalo di tanti ex azionisti: il fatto che l’antifascismo e la Resistenza scaldassero il cuore di pochi, nell’Italia dei tardi anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta. Più in generale, il tono liquidatorio che gli ex azionisti riservavano alla linea politica di De Gasperi e della Democrazia cristiana – bollandola come una versione aggiornata del clericofascismo – riusciva gravemente inadeguato sia rispetto ai meriti intrinseci di quella politica, sia rispetto alla domanda di cambiamento che saliva dalla società civile. Si voleva allora guardare avanti piuttosto che volgersi indietro; si voleva costruire il futuro piuttosto che rivangare il passato; si voleva ricominciare a vivere piuttosto che reimparare a morire. E Piero Calamandrei, volente o nolente, se ne rendeva conto. Verso la fine del 1947 aveva bensì pensato di porre mano a «una specie di antologia» delle «cose più belle» sulla Resistenza; aveva presto rinunciato al progetto, poiché nell’intera penisola non vi sarebbe stato un solo editore «disposto a pubblicare un’opera così lontana, in questo momento, dai gusti del pubblico».
7. In stile lapidario
Quell’editore, Calamandrei lo trovò sette anni più tardi (con l’unica differenza che nella specie di antologia le cose più belle sulla Resistenza, anziché scaturire da più penne, vennero tutte dalla sua): fu Vito Laterza, giovane dirigente della casa editrice che per mezzo secolo era stata di Benedetto Croce. All’approssimarsi di una scadenza significativa – nel 1955 ricorreva il decimo anniversario della Liberazione – la Laterza aveva mobilitato una piccola schiera di intellettuali di provenienza genericamente ciellenista per una riflessione senza eufemismi intorno ai caratteri e ai limiti della «vita democratica italiana»: come recitava il sottotitolo del corposo volume messo fuori per il 25 aprile, Dieci anni dopo. Anima dell’iniziativa era stato Leo Valiani, e Calamandrei vi aveva contribuito con un impegnativo saggio sulla Costituzione. Fu nell’ambito dei rapporti intrattenuti con Vito Laterza per la preparazione di tale volume collettivo che Calamandrei concepì l’embrione di Uomini e città della Resistenza:
Già che le scrivo vorrei sottoporle un’idea. In questi ultimi anni mi è avvenuto moltissime volte (circa una ventina) di dover dettare epigrafi che ricordano eventi o figure della Resistenza, alcune delle quali, come quella per il monumento a Kesselring, ho visto riprodotte a mia insaputa e affisse nei più svariati luoghi d’Italia. Mi sono persuaso che questa rievocazione in stile lapidario di episodi degni di esser ricordati dal nostro popolo può avere una notevole forza suggestiva; per questo avrei pensato se non fosse il caso di raccogliere queste epigrafi in un volumetto, magari accompagnandole con disegni, uno per ciascuna, di Carlo Levi (se egli fosse disposto a farli). Che ne dice?
È una lettera istruttiva, che dimostra quanto – nella logica culturale e morale di Calamandrei – la meditazione sulla Resistenza fosse esposizione della Resistenza, e la parola su di essa fosse gesto. Riflessi pavloviani di un avvocato, aduso alla scenica e alla mimica della vita forense? No, molto di più. Tanto è vero che il progetto originario del «volumetto» pareva non poter prescindere dal contributo di Carlo Levi: un artista che era anche un moralista (oltreché un ex azionista), e che fin dal ’44 era andato cercando una sua maniera antiretorica per figurare l’esperienza resistenziale.
Quale si conserva presso gli archivi della casa editrice, la successiva corrispondenza fra Calamandrei e Laterza documenta nel dettaglio la genesi di Uomini e città della Resistenza. L’editore aderì alla proposta con entusiasmo. All’autore, che titubante gli domandava se l’immaginato volume avesse «qualche probabilità di interessare il pubblico», rispondeva senza esitare che in ogni caso, «a parte l’interesse» dei potenziali lettori, un libro simile rappresentava il più degno dei contributi possibili alla celebrazione del decennale repubblicano. Peraltro, Vito Laterza invitò Calamandrei ad «andare al di là» del progetto originario, accompagnando ciascuna epigrafe con un racconto più disteso dell’episodio o del momento ricordato dal testo epigrafico. A fronte della ritrosia di Calamandrei a impegnarsi in una vera e propria ricostruzione storica, l’editore gli suggerì di raccogliere in volume, con le epigrafi, i principali discorsi ch’egli aveva dedicato alla Resistenza: «allora le due parti si integrerebbero a vicenda e ne verrebbe un insieme di interesse veramente unico». Calamandrei accettò; e sua fu la proposta di «intercalare» i discorsi e le epigrafi. Il titolo venne suggerito invece da Laterza, così come l’ordinamento interno del volume.
…
L’autore
Piero Calamandrei
Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, scrittore e uomo politico, fu tra i fondatori del Partito d’Azione e tra gli artefici della Costituzione repubblicana. Nel 1945 fondò a Firenze la rivista “Il Ponte”, animando il dibattito politico, culturale e civile del primo decennio della Repubblica. Nel catalogo Laterza anche: Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) (a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato); Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) (con Franco Calamandrei, a cura di Alessandro Casellato); Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei); Non c’è libertà senza libertà senza legalità; Il fascismo come regime della menzogna.
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