Marco De Paolis e Paolo Pezzino- La difficile giustizia-
Marco De Paolis e Paolo Pezzino- La difficile giustizia-
-I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013-
Viella Libreria Editrice Roma
Descrizione del libro di Marco De Paolis e Paolo Pezzino- La difficile giustizia-Al termine del secondo conflitto mondiale, l’individuazione degli autori dei gravi crimini commessi durante l’occupazione tedesca in Italia contro le popolazioni civili rimase circoscritta a pochi casi eclatanti: gli Alleati abbandonarono il progetto di punire i massimi responsabili delle forze armate tedesche in Italia, e gli italiani, a parte poche condanne (Kappler per le Fosse Ardeatine, Reder per Marzabotto e altri eccidi), ben presto posero fine a quella stagione processuale. Una nuova se ne aprì invece dopo la scoperta, nel 1994, di quello che una felice intuizione giornalistica definì l’“armadio della vergogna”: in realtà una stanza di Palazzo Cesi, a Roma, sede della Procura generale militare, in cui erano conservati centinaia di fascicoli giudiziari sui crimini di guerra commessi sulla popolazione italiana tra il 1943 e il 1945, illegalmente archiviati dal procuratore generale militare nel 1960.
Ragion di Stato, protezione dei criminali di guerra italiani, culture militari poco sensibili al tema della difesa dei civili in guerra, e attente a proteggere in ogni caso l’immunità dei combattenti in divisa: queste alcune delle cause di una giustizia limitata, tardiva e quindi negata.
INDICE
Paolo Pezzino, La punizione dei crimini di guerra commessi in Italia dai tedeschi (anni Quaranta e Cinquanta)
Marco De Paolis, L’indagine penale sui crimini di guerra in Italia e all’estero dopo il 1994
Documenti
1. Lettera della Procura generale militare di trasmissione dei fascicoli rinvenuti (1994)
2. Circolare della Procura generale militare sui fascicoli crimini di guerra (1966)
3. Articoli di legge
4. Sedi e circoscrizioni dei Tribunali militari territoriali
5. Scheda riassuntiva dei procedimenti e processi su crimini di guerra in Italia
6. Interrogazione parlamentare 2 ottobre 2015 (De Maria e altri)
Indice dei nomi
AUTORI
Marco De Paolis
Marco De Paolis ha diretto la Procura militare della Repubblica di La Spezia dal 2002 al 2008, e qui ha istruito oltre 450 procedimenti per crimini di guerra durante il secondo conflitto mondiale. È stato pubblico ministero, tra gli altri, nei processi per le stragi nazifasciste di Sant’Anna di Stazzema, Civitella Val di Chiana, Monte Sole-Marzabotto, e per l’eccidio di Cefalonia. Attualmente dirige la Procura militare della Repubblica di Roma.
Paolo Pezzino
Paolo Pezzino ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Pisa ed è stato consulente tecnico della Procura militare di La Spezia nelle indagini sulle stragi nazifasciste in Italia. Coordina il Comitato scientifico del progetto per un Atlante delle stragi nazifasciste in Italia, promosso dall’Associazione nazionale dei partigiani d’Italia e dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia.
Marco De Paolis e Paolo Pezzino- La difficile giustizia-
Questo volume fa parte delle iniziative dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia per il settantesimo anniversario della Resistenza ed è stato realizzato con il contributo della Regione Toscana.
John Keats (1795-1821)-Poeta inglese,unanimemente considerato uno dei più significativi letterati del Romanticismo. Peculiarità della poetica di Keats è la vivace rispondenza alla bellezza della poesia e dell’arte.
Cinque anni di bassa marea ha conosciuto il mare del tempo,
E le ore lunghe han lasciato la sabbia scorrere invano
Da quando, preso nella relativa della tua bellezza,
Fui colto al laccio dal denudarsi della tua mano.
Pure, quando il cielo buio della notte guardo senza posa,
La ben ricordata luce dei tuoi occhi rivedo,
Né posso guardar la tinta lieve della rosa
Senza che l’anima mia alla tua guancia voli.
Nessun fiore che sboccia riesco a guardare
Senza che il mio orecchio innamorato, al bersaglio teso
Delle tue labbra o d’un immaginario suono d’amore,
La tua dolcezza in un abbaglio dei sensi cominci a divorare.
Eclissa ogni gioia il tuo ricordo, e di dolore
In ogni piacere neonato risuona un accordo.
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John Keats-Poeta inglese (Londra 1795 – Roma 1821). Uno tra i più significativi poeti del romanticismo inglese, la sua opera è sostanziata dai temi della bellezza intesa in quanto valore di trascendenza e quindi animata da un profondo senso etico (Endymion, scritto 1817, pubbl. 1818; Hyperion, 1819-20) e del drammatico e incessante dissidio tra ragione e sentimento (Lamia, 1819). La poetica di K. raggiunse forse i suoi esiti più convincenti nelle odi (tra le più note Ode to a nightingale, Ode on a Grecian urn, Ode on melancholy), in cui l’idea della morte si fa dominante e la ricercatezza stilistica è magistralmente potenziata da altissimi toni evocativi. L’intensissima attività spirituale e intellettuale di K. è documentata dal suo epistolario.
Vita e opere
Orfano, fu messo dai tutori come apprendista presso un chirurgo; superati (1816) gli esami di licenza all’Apothecaries’ Hall, fu nominato assistente al Guy’s Hospital. Intanto le letture, e in specie The Fairie Queene di Spenser, gli rivelarono la sua vera vocazione (il suo più antico componimento a noi noto è appunto la Imitation of Spenser, forse del 1813). J. H. L. Hunt riconobbe subito il genio di K. e ne pubblicò alcuni sonetti in The Examiner; la sua influenza è evidente nel primo volume di K. (Poems, 1817). Il periodo di raccoglimento che seguì la decisione di dedicarsi esclusivamente alla poesia (1816) fu occupato da K. nello studio serio, e per lui decisivo, di Shakespeare; nello stesso tempo risentì l’influenza di Wordsworth, che è sensibile nella poesia Sleep and poetry, la più importante di Poems. Nell’Endymion volle, sotto l’allegoria di un mito, dimostrare l’unicità della bellezza che si rivela in tutte le attività umane. Giudicato dai critici come un tipico prodotto della scuola poetica di Hunt (la cosiddetta Cockney School), Endymion fu stroncato nel Blackwood’s Magazine e nella Quarterly Review; ma che il dolore per queste stroncature fosse la causa prima della tisi di K. è leggenda. In Hyperion, scritto in blank verse, che mostra progresso nella concentrazione e nella forza artistica, è presente la medesima posizione di pensiero: la bellezza è forza che viene dalla conoscenza, la quale si acquista con lotta e dolore. In Lamia, sotto l’influsso delle Fables di Dryden, K. si concentrò in una presentazione drammatica del contrasto fra ragione e sentimento. Tutti e tre i poemi traggono materia dal mondo greco cui il poeta fu orientato anche da quella rinascita d’interesse per la Grecia, comune a molti romantici (Peacock, Shelley, Hölderlin, ecc.). In Hyperion echi miltoniani danno al poema un vigore e una dignità che l’Endymion non lasciava presentire. Peraltro, K. non poté sostenersi in quel tono di classica solennità e lasciò il poema interrotto (il tentativo di riprenderlo in The fall of Hyperion non ebbe successo). Meglio riuscì in soggetti romantici: Isabella, or the pot of basil (da Boccaccio); The eve of St. Agnes; The eve of St. Mark; La belle dame sans merci (da rilevare l’influsso di queste due ultime poesie sui preraffaelliti). K. scoprì nell’ode una forma lirica atta a esprimere le qualità essenziali del suo genio. Tutte le odi, a eccezione della Ode to sorrow (Endymion, IV) e del frammento della Ode to Maia, appartengono al 1819; in esse K., attraverso il presentimento della morte, sente la Bellezza che, immortale e impassibile, assiste al vanire delle vicende umane. L’Ode to autumn, con la sua perfetta serenità, chiude una carriera poetica breve quanto gloriosa. Nel sett. 1820 K. partì per l’Italia, ma troppo tardi: la consunzione lo divorava già irreparabilmente. È sepolto a Roma nel cimitero presso la piramide di Cestio. Nei tre anni scarsi che intercorsero tra il momento della sua dedizione alla poesia e il cedimento della sua salute, K. toccò le cime più alte della lirica romantica in Inghilterra. Fonte- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
1925-2025: cento anni di storia della scienza. Il Museo Galileo celebra il suo centenario-
Il Museo Galileo celebra il suo centenario-Oltre 1.000 strumenti in esposizione permanente, un patrimonio librario di oltre 250.000 volumi, più di 209.000 visitatori e 25.000 partecipanti alle attività didattiche (per oltre 1.500 appuntamenti annuali) nel solo 2024: sono queste oggi le cifre del Museo Galileo di Firenze, che il 7 maggio celebrerà il centenario della sua fondazione, un traguardo storico che rappresenta un’occasione straordinaria per riflettere sull’evoluzione della storia della scienza in Italia.
Fondato nel 1925 come Istituto di Storia delle Scienze, il Museo è divenuto nel tempo un punto di riferimento internazionale per la ricerca e la divulgazione della cultura storico-scientifica, un luogo di incontro per studiosi di storia della scienza, appassionati e curiosi.
Museo Galileo
Eventi speciali, spettacoli, aperture serali, mostre e convegni: sono numerose le iniziative che il Museo Galileo dedicherà ai suoi 100 anni di storia. A cominciare dal 15 aprile a Palazzo Vecchio nel Salone dei Cinquecento, quando si terrà l’apertura delle celebrazioni, con la lectio magistralis di Martin Kemp, professore emerito della Oxford University e storico dell’arte di fama mondiale, “Icons of Science”, e la lettura dell’attore Sergio Rubini di testi del celebre scienziato fiorentino nell’“Omaggio a Galileo”, accompagnata da brani eseguiti dai Musici della Scala (partecipazione su invito, prenotazione obbligatoria).
A giugno aprirà la mostra “Cento anni di storia della scienza a Firenze” (20 giugno – 19 ottobre 2025), che esporrà edizioni rare e pregiate, manoscritti e documenti scientifici raccolti e conservati nella biblioteca del Museo Galileo.
Tra i progetti del 2025, da segnalare la pubblicazione del volume Dieci storie per un museo (Edizioni Museo Galileo) con i testi di dieci scrittori di fama nazionale, ispirati alle collezioni del Museo: Valerio Aiolli, Giuliana Altamura, Teresa Ciabatti, Ilaria Gaspari, Helena Janeczek, Walter Siti, Filippo Tuena, Chiara Valerio, Giorgio van Straten, Sandro Veronesi.
Le novità non finiranno nell’anno in corso ma si estenderanno al biennio seguente (2026-2027), con l’apertura del GalileoLab nei locali del Complesso di Santa Maria Novella, che ospiterà eventi curati dal Museo con l’obiettivo di offrire ai residenti, alle scuole, al turismo nazionale e internazionale percorsi di conoscenza alternativi rispetto a quelli tradizionali.
Un secolo tra ricerca e divulgazione
Inaugurato il 7 maggio 1925, sotto la direzione di Andrea Corsini, l’Istituto di Storia delle Scienze della Regia Università di Firenze, primo nel suo genere in Italia, aveva sede in via degli Alfani 33. Una delle prime iniziative realizzate dall’Istituto fu l’Esposizione Nazionale di Storia della Scienza del 1929 a Firenze, un evento di eccezionale portata, inaugurato dal re Vittorio Emanuele III, durante il quale furono esposti 10.000 tra strumenti, macchine, libri, manoscritti, sculture, pitture e altri documenti relativi alla storia della scienza e della tecnica italiane.
Dal 1930 il Museo ha sede in Palazzo Castellani, edificio di antichissime origini, ed è per l’importanza delle collezioni – tra cui spiccano gli unici telescopi originali di Galileo giunti fino a noi – uno dei principali musei storico-scientifici a livello internazionale, impegnato tanto nella ricerca quanto nella diffusione della cultura scientifica. La ricorrenza del 2025 rappresenta un’occasione importante per celebrare anche i 150 anni dalla nascita del fondatore Andrea Corsini (nato a Firenze nel 1875) e i 250 anni dalla fondazione del Regio Museo di Fisica e Storia Naturale, creato nel 1775 dal granduca di Toscana Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, da cui provengono le collezioni conservate nel Museo Galileo.
Durante la direzione di Corsini (1925-1961), nonostante i difficili anni della guerra e le risorse esigue, l’Istituto consolidò la sua posizione come centro di riferimento per gli studi storico-scientifici. Maria Luisa Righini Bonelli direttrice dal 1961 al 1981, infuse nuovo slancio alle attività dell’Istituto e riuscì a superare brillantemente il duro colpo inferto dall’alluvione del 1966, anche grazie alla solidarietà internazionale che seppe attrarre. Negli ultimi decenni, sotto la direzione di Paolo Galluzzi (1982-2021), l’Istituto ha registrato una forte espansione, con l’organizzazione di esposizioni temporanee, l’incremento imponente delle raccolte librarie, l’impegno assiduo nella promozione della ricerca, la fitta pubblicazione di riviste e collane editoriali e l’investimento nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione al servizio della ricerca storico-scientifica.
Il programma degli eventi
Le celebrazioni del centenario del Museo Galileo si articolano in un ricco programma di eventi che prenderà il via il 15 aprile 2025 nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio. Dopo i saluti istituzionali e una breve presentazione delle tappe principali dell’Istituto e dei principali progetti in corso si proseguirà con “Icons of Science” lectio magistralis di Martin Kemp, professore emerito della Oxford University (ore 18). Il Prof. Kemp, storico dell’arte di fama mondiale e autorità indiscussa nel campo degli studi su Leonardo da Vinci, si è occupato in particolare dei rapporti tra arte e scienza. Si conclude poi con “Omaggio a Galileo”, lettura di testi galileiani selezionati dallo storico della scienza Massimo Bucciantini, affidata a Sergio Rubini, accompagnato da una selezione di brani musicali eseguiti dai Musici della Scala (partecipazione su invito, prenotazione obbligatoria).
Il 7 maggio 2025, in occasione dell’anniversario ufficiale della fondazione, le porte del Museo Galileo saranno aperte in via straordinaria fino alle 23. Alle 21 sarà il momento del debutto dello spettacolo teatrale “Caterina, la madre di Leonardo”, un dialogo a cura della Compagnia Oltre, liberamente tratto dal romanzo Il sorriso di Caterina di Carlo Vecce. Proprio negli spazi occupati oggi dal Museo, secondo la ricostruzione del Prof. Vecce, Caterina aveva prestato servizio come balia, nell’allora Castello d’Altafronte, oggi noto come Palazzo Castellani (ingresso per lo spettacolo su prenotazione, gratuito per i possessori del biglietto del Museo del giorno 7).
A giugno sarà inaugurata la mostra “100 anni di storia della scienza a Firenze” (20 giugno – 19 ottobre 2025), che esporrà edizioni rare e pregiate, manoscritti e documenti scientifici conservati nella biblioteca del Museo nel suo secolo di vita. Una sezione documenterà le ricerche da cui sono derivate le esposizioni organizzate nel corso dei decenni in prestigiose sedi italiane ed estere, in collaborazione con importanti istituzioni culturali.
Dal 19 al 21 novembre si terrà il convegno internazionale “Scaling the Cosmos: Instruments and Images of the Universe”, tre giornate di studi interdisciplinari, organizzate in collaborazione con il CNRS-Centre André Chastel, che intendono sviluppare una storia visuale dell’universo analizzando come le immagini e gli strumenti abbiano plasmato la comprensione dei fenomeni celesti nell’età moderna.
Dal 24 al 28 novembre si terrà la Winter School di Storia della Scienza, organizzata in collaborazione con la Società Italiana di Storia della Scienza: un’attività di alta formazione rivolta a trasferire alle giovani generazioni conoscenze, strumenti e metodi per la ricerca storica e per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio museale e documentale (bando disponibile su www.museogalileo.it).
Galileo Lab
Nel 2027 si inaugurerà il GalileoLab, un nuovo spazio nel Complesso di Santa Maria Novella che ospiterà eventi curati dal Museo Galileo con l’obiettivo di offrire ai residenti, alle scuole, al turismo nazionale e internazionale percorsi di conoscenza alternativi rispetto a quelli tradizionali. Firenze è infatti stata nel corso dei secoli un centro di primaria importanza nel campo delle scienze, anche se questo ruolo è stato spesso oscurato dalle più note e celebrate eccellenze artistiche. Ricreare quell’equilibrio tra arte e scienza che fa parte della nostra tradizione culturale è l’ambizioso obiettivo di questo progetto che poggia sulla solida esperienza del Museo Galileo.
Alfonsina Storni-è una figura leggendaria in Argentina e in tutto il Sud America. Pochi possono reggere il confronto con il mito nato intorno alla sua vita e alla sua morte – forse la messicana Frida Kahlo, di quindici anni più giovane, anche lei figlia di un immigrato.
DOS PALABRAS
Esta noche al oído me has dicho dos palabras
comunes. Dos palabras cansadas
de ser dichas. Palabras
que de viejas son nuevas.
Dos palabras tan dulces, que la luna que andaba
filtrando entre las ramas
se detuvo en mi boca. Tan dulces dos palabras
que una hormiga pasea por mi cuello y no intento
moverme para echarla.
Tan dulces dos palabras
que digo sin quererlo -¡oh, qué bella, la vida!-
Tan dulces y tan mansas
que aceites olorosos sobre el cuerpo derraman.
Tan dulces y tan bellas
que nerviosos, mis dedos,
se mueven hacia el cielo imitando tijeras.
Oh, mis dedos quisieran
cortar estrellas.
(de El dulce daño, 1918)
DUE PAROLE
All’orecchio questa notte mi hai detto due parole
comuni. Due parole stanche
di essere dette. Parole
che da vecchie si son fatte nuove.
Due parole così dolci, che la luna che passava
filtrando tra i rami
nella mia bocca si è fermata. Due parole così dolci
che una formica mi cammina sul collo e resto immobile
non provo nemmeno a scacciarla.
Due parole così dolci
che senza volerlo esclamo: oh, che bella, la vita!
Così dolci e così mansuete
che oli profumati scorrono sul corpo.
Così dolci e così belle
che nervose, le mie dita,
si muovono verso il cielo imitando una forbice.
Vorrebbero le mie dita
tagliare stelle.
(da Il dolce danno, 1918)
PRESENTIMIENTO
Tengo el presentimiento que he de vivir muy poco.
Esta cabeza mía se parece al crisol,
purifica y consume,
pero sin una queja, sin asomo de horror.
Para acabarme quiero que una tarde sin nubes,
bajo el límpio sol,
nazca de un gran jazmín una víbora blanca
que dulce, dulcemente, me pique el corazón.
(de El dulce daño, 1918)
PRESENTIMENTO
Ho il presentimento che vivrò molto poco.
Questa mia testa assomiglia a un crogiolo,
purifica e consuma,
ma senza un gemito, senza un accenno di orrore.
Per uccidermi chiedo che un pomeriggio senza nubi,
sotto il limpido sole,
nasca da un grande gelsomino una vipera bianca
che dolce, dolcemente, mi punga il cuore.
(da Il dolce danno, 1918)
HOMBRE
Hombre, yo quiero que mi mal comprendas,
hombres, yo quiero que me des dulzura,
hombre, yo marcho por tus misma sendas;
hijo de madre: entiende mi locura…
(de Irremediablemente, 1920)
UOMO
Uomo, io voglio che tu comprenda il mio male,
uomo, io voglio che tu mi dia dolcezza,
uomo, io vado per i tuoi stessi sentieri;
figlio di madre: comprendi la mia pazzia…
(da Irrimediabilmente, 1920)
BORRADA
El día que me muera, la noticia
ha de seguir las práticas usadas,
y de oficina en oficina al punto
por los registros seré yo buscada.
Y allá muy lejos, en un pueblecito
que está durmiendo al sol en la montaña,
sobre mi nombre, en un registro viejo,
mano que ignoro trazará una raya.
(de Languidez, 1920)
CANCELLATA
Il giorno in cui morirò, la notizia
seguirà le solite procedure,
da un ufficio all’altro con precisione
dentro ogni registro verrò cercata.
E là molto lontano, in un paesino
che sta dormendo al sole su in montagna,
sopra il mio nome, in un vecchio registro,
mano che ignoro traccerà una riga.
(da Languidezza, 1920)
PECHO BLANCO
Porque yo tengo el pecho blanco, dócil,
inofensivo, debe ser que tantas
flechas que andan vagando por el aire
toman su dirección y allí se clavan.
Tú, la mano perversa que me hieres,
se aquello es tu placer, poco te basta;
mi pecho es blanco, es dócil y es humilde:
suelta un poco de sangre… luego, nada.
(de Languidez, 1920)
PETTO BIANCO
Perché io ho il petto bianco, docile,
inoffensivo, dev’essere che le tante
frecce che vanno nell’aria vagando
prendono la sua direzione e lì si piantano.
Tu, la mano perversa che mi ferisce,
se questo è il tuo piacere, poco ti basta;
il mio petto è bianco, è docile ed è umile:
fuoriesce un po’ di sangue… dopo, nulla.
(da Languidezza, 1920)
VERSOS A LA LA TRISTEZA DE BUENOS AIRES
Tristes calles derechas, agrisadas e iguales,
por donde asoma, a veces, un pedazo de cielo,
sus fachadas oscuras y el asfalto de suelo
me apagaron los tibios sueños primaverales.
Cuánto vagué por ellas, distraída, empapada
en el vaho grisáceo, lento, que las decora.
De su monotonía mi alma padece ahora.
-¡Alfonsina!- No llames. Ya no respondo a nada.
Si en una de tus casas, Buenos Aires, me muero
viendo en días de otoño tu cielo prisionero
no me será sorpresa la lápida pesada.
Que entre tus calles rectas, untadas de su río
apagado, brumoso, desolante y sombrío,
cuando vagué por ellas, ya estaba yo enterrada.
(de Ocre, 1925)
VERSI ALLA TRISTEZZA DI BUENOS AIRES
Tristi strade dritte, ingrigite e uguali,
da cui s’intravede, talvolta, uno spicchio di cielo,
le sue scure facciate e l’asfalto del suolo
hanno spento i miei tiepidi sogni primaverili.
Quanto vagai da quelle parti, sbadata ed intrisa
nel vapore grigiastro, lento, che le decora,
Della loro monotonia la mia anima soffre tutt’ora
– Alfonsina! – non chiamare. Ormai non rispondo a niente.
Se in una delle tue case, Buenos Aires, morirò
osservando in giorni autunnali il tuo cielo recluso
per me non sarà una sorpresa la tua lapide pesante.
Che tra le tue strade dritte, unte dal suo fiume
spento, plumbeo, desolante e ombroso,
quando vagai da quelle parti, già stavo sottoterra.
(da Ocra, 1925)
De POEMAS DE AMOR
Da POESIE D’AMOREVIPor sobre todas las cosas amo tu alma. A través del velo de tu carne la veo brillar en la oscuridad: me envuelve, me trasforma, me satura, me hechiza. Entonces hablo para sentir que existo, porque si no hablara mi lengua se paralizaría, mi corazón dejaría de latir, toda yo me secaría deslumbrada.VIAl di sopra di tutto amo la tua anima. Attraverso il velo della tua carne la vedo brillare nell’oscurità: mi avvolge, mi trasforma, mi satura, mi affascina. Allora parlo per sentire che esisto, perché se non parlassi la mia lingua si paralizzerebbe, il mio cuore smetterebbe di palpitare, tutta mi disseccherei abbagliata.LIISiete veces hicimos en media hora el mismo camino. Íbamos y volvíamos al lado de la verja de un jardín, como sonámbulos. Respirábamos la humedad nocturna y olorosa que subía de los canteros y, como de pálidas muertes de ultratumba, por entre los troncos negros de los árboles, veíamos, por momentos, la carne blanca de las estatuas.
LII
Sette volte facemmo in mezz’ora lo stesso tragitto. Avanti e indietro di fianco all’inferriata di un giardino, come sonnambuli. Respiravamo l’umidità notturna e odorosa che usciva dalle pietre e, come pallide morti dell’oltretomba, in mezzo ai tronchi neri degli alberi, vedevamo, a tratti, la carne bianca delle statue.
YO EN EL FONDO DEL MAR
En el fondo del mar
hay una casa
de cristal.
A una avenida
de madréporas
da.
Un gran pez de oro,
a las cinco,
me viene a saludar.
Me trae
un rojo ramo
de flores de coral.
Duermo en una cama
un poco más azul
que el mar.
Un pulpo
me hace guiños
a través del cristal.
En el bosque verde
que me circunda
-din don… din dan…-
se balancean y cantan
las sirenas
de nácar verdemar.
Y sobre mi cabeza
arden, en el crepúsculo,
la erizadas puntas del mar.
IO SUL FONDO DEL MARE
In fondo al mare
c’è una casa
di cristallo.
A una strada
di madreperle
conduce.
Un grande pesce d’oro,
alle cinque.
mi viene a salutare.
Mi porta
un ramo rosso
di fiori di corallo.
Dormo in un letto
un poco più azzurro
del mare.
Un polipo
mi fa l’occhietto
attraverso il cristallo.
Nel bosco verde
che mi circonda
– din don… din dan… –
dondolano e cantano
le sirene
di madreperla verdemare.
E sulla mia testa
ardono, al crepuscolo,
le ispide punte del mare.
Traduzione dallo spagnolo di Alessio Brandolini.
OPERE DI ALFONSINA STORNI
La inquietud del rosal (1916)
El dulce daño (1918)
Irremediablemente (1919)
Languidez (1920)
Ocre (1925)
Poemas de amor (1926)
Mundo de siete pozos (1934)
Mascarilla y trébol (1938)
Antología poética (1938)
Poesías completas (1968)
in Italia sono state pubblicate le antologie:
Vivo, vivrò sempre e ho vissuto (2008, Ulivo)
Utratelefono – poesie (1997, Noubs)
Poemas de amor (1988, Casagrande)
Biografia della Poetessa Alfonsina Storni
ALFONSINA STORNI, Poetessa Argentina
Alfonsina Storni- nata a Sala Capriasca (Svizzera), 1892 – morta a Mar del Plata (Argentina), 1938-
Alfonsina Storni-è una figura leggendaria in Argentina e in tutto il Sud America. Pochi possono reggere il confronto con il mito nato intorno alla sua vita e alla sua morte – forse la messicana Frida Kahlo, di quindici anni più giovane, anche lei figlia di un immigrato. I primi anni da espatriata, la sua fama di poetessa ribelle e di declamatrice carismatica (oggi diremmo performer), la sua condizione di militante socialista e di madre nubile, le sue rubriche ora impegnate ora poetico-sperimentali, la sua audacia di fronte ai grandi interrogativi della modernità, le riflessioni sulla vita nella metropoli e in una società sopraffatta dalle migrazioni, e poi l’autodeterminazione dimostrata fino alla morte (si suicida, ammalata di cancro, il 25 ottobre 1938 a Mar de Plata), il suo congedarsi dal mondo con la poesia Voy a dormir (Vado a dormire) e, infine, la canzone Alfonsina y el mar (Alfonsina e il mare), resa celebre da Mercedes Sosa: tutto questo ha fatto di Alfonsina Storni un simbolo per generazioni di latino-americani. Lei stessa giudicò alquanto irrilevanti le dicerie che correvano sulla sua persona. Si considerava un’artista della parola e voleva essere letta. Fu poetessa, elzevirista, saggista, autrice di testi teatrali e regista. Alfonsina Storni, nata il 29 maggio 1892 a Sala Capriasca, un paesino vicino a Lugano, era emigrata con la sua famiglia nel 1896. Ottenuto un diploma di “maestra rural” (‘maestra nelle scuole di campagna’), divenne a Buenos Aires una selfmade woman. Nel 1912 nacque suo figlio Alejandro (Storni non ha mai rivelato il nome di suo padre). Nella sua veste di madre nubile, di immigrata e di socialista, compose poesie, si fece strada con il suo primo volume di poesia (1916), fu la prima scrittrice a entrare negli ambienti culturali e intellettuali della capitale, insegnava in una scuola di teatro per bambini, al Conservatorio de Musica y Declamación a Buenos Aires e altre scuole per ragazzi e adulti: «Sono una donna del XX secolo», disse di sé. Ha scritto sempre in spagnolo; l’unica frase in italiano che ci resta di lei si trova in un telegramma che da Parigi, il 25 febbraio 1930, mandò ai parenti in Svizzera: «Ancora abbraccio tutti. Alfonsina». La sua attività di poetessa la portò a frequentare Gabriela Mistral, Pablo Neruda e Federico García Lorca. Fu autrice di elzeviri per giornali e riviste, nei quali demolì la convinzione, diffusa all’epoca, che le donne dovessero sposarsi e crescere i figli senza aver prima potuto maturare una propria esperienza di vita. Fu anche autrice di opere teatrali e scrisse pièce d’avanguardia in cui sperimentò forme di rottura dell’illusione scenica. A lei si devono i primi testi teatrali per l’infanzia, che spogliò dai pregiudizi ideologici. Inoltre, in qualità di regista, docente di recitazione e guida spirituale, organizzò e diresse laboratori teatrali per bambini. Ma è come poetessa che viene ricordata, e generazioni di alunni argentini hanno imparato a memoria le sue poesie.
Storni pubblicò nove raccolte di poesie, fra il 1916 e il 1938, e ancora oggi viene ricordata come poetessa, non come prosatrice o autrice di testi teatrali per adulti e bambini. Fra il 1919 e il 1921 pubblicò settimanalmente una crónica (cioè un reportage narrativo) nel settimanale «La Nota» e nel prestigioso quotidiano «La Nación»; firmò la maggior parte dei suoi pezzi con lo pseudonimo Tao Lao, ad eccezione di alcuni che siglò con il suo nome. Con questa sua doppia identità giornalistica espresse la propria visione della vita in testi che si collocavano a metà tra finzione letteraria e giornalismo: un genere ibrido destinato a diventare straordinariamente importante nella letteratura latino-americana.
“Trovate la signora voluminosa sul sedile di una metropolitana. Ce l’avete davanti, a portata di bisturi. La signora voluminosa non è sola. Seduto accanto a lei c’è un uomo, il marito. Rasenta i quarantacinque, la signora, e l’età la discolpa dagli sguardi intemperanti e acuminati, verso di te che ne hai venti, non sei adiposa e hai buon umore e allegria da vendere. Allora immagini una storia.” (Alfonsina Storni, La Nota, 1 agosto 1919; in: Cronache, 2017)
La metropoli era il regno di Storni, che aveva un fiuto formidabile e uno sguardo straordinariamente acuto per cogliere e descrivere i modelli di vita urbani, la propensione al consumo e la maniera in cui uomini e donne si mostravano in pubblico. Con la sua penna graffiante ritraeva tipi di donna e di uomo a caccia del sesso opposto, tratteggiava scenette agli angoli delle strade, in auto, in metrò o in tram, e discorreva di moda, stili di vita e tango. Osservava le persone che popolavano la giungla d’asfalto, gli abitanti della capitale (porteños), impegnati nel lavoro o intenti a vagare per le vie della città, gli immigrati, le giovani donne dedite allo shopping, le madri con i figli, le famiglie al parco e le coppie alle serate danzanti. Metteva in luce il vero e il falso splendore degli anni Venti a Buenos Aires. Storni aveva sviluppato qualità letterarie che avevano fatto di lei un’elzevirista dotata di uno stile inconfondibile. Con lo pseudonimo Tao Lao praticò un giornalismo undercover, penetrò nel mondo delle acquerelliste a cottimo e delle lucidatrici di mobili e scrisse sfavillanti satire sulle condizioni di lavoro riservate alle donne argentine alla loro prima esperienza. Affrontò il tema della dura competizione tra i sessi e quello della professionalizzazione, effettiva o apparente, con cui uomini e donne dovevano fare i conti.
“Nella terra d’origine, l’emigrata aveva una personalità: si chiamava María, Juana o Rosa, ed era uno dei sei o sette membri della sua famiglia. Risultava il fiore di un piccolo giardino, una possibilità e una promessa (…). Gli alberi dei viali parevano dire: quella che sta passando si chiama María, o Juana, o Rosa… Gli alberi di Buenos Aires, invece, dicono che colei che passa è un libretto di risparmio.” (Tao Lao, La Nación, 1 agosto 1920, da: Cronache, 2017
Pur vivendo in una grande città, Storni provava nostalgia per la natura. I suoi quadri in prosa, come anche le sue poesie, parlano del tributo che il vivere in città richiede agli uomini che si muovono in flussi di pendolari. Buenos Aires esplodeva letteralmente e, nei primi decenni del Novecento, il rapporto fra centro e periferia cambiava senza sosta. Metropoli di una società di immigrati provenienti da tutta Europa, Buenos Aires era divenuta per lei un «gigante» dagli occhi di vetro. Immigrata lei stessa, disegnò con penna ora pungente ora poetica gli effetti della deformazione di una città, il cui carattere ortogonale non si fermava nemmeno di fronte alle lacrime umane. Con perspicacia descrisse anche gli effetti che la spinta al conformismo aveva sulle donne e che si palesava nel logoramento psichico e mentale, nella spersonalizzazione e nella tendenza all’emulazione. Storni mostrava invece una sincera ammirazione per tutti coloro che se ne infischiavano delle convenzioni sociali e che, a posizioni di privilegio, preferivano esercitare quella libertà d’azione capace di guidare la «macchina» sociale verso nuove strade. Fra il 1894 e il 1930 negli Stati Uniti si diffuse il modello della «new woman», la cui presenza nei nuovi media e, in particolare, nel mondo della pubblicità, scatenò controversie sul piano socio-politico. Alfonsina Storni fu, in Argentina e in America Latina, una delle figure che si fecero contagiare per prime da questa scintilla, diventando così tedofore della donna moderna – anche se lei non avrebbe mai rivendicato per sé un‘immagine tanto stilizzata.
Quando, nel 1929, Virginia Woolf pubblicò A Room of One’s Own (Una stanza tutta per sé) – un’arringa in favore di uno spazio economico, intellettuale e poetico da riservare delle donne scrittrici –, Storni vantava già quasi due decenni di esperienza di un «proprio spazio»: uno spazio un po’ eccentrico, come afferma nel suo testo Cicaleccio: “Dovremmo definirci le fuori-posto. Stiamo come fuori dal centro. Non ci inseriamo come si deve in nessun ambiente. Alcuni ci stanno stretti, altri larghi”.
Storni voleva essere una donna-uomo – ambiva a diventare una donna autonoma e rivendicava per sé una «morale virile», come spiegò in più di un’intervista. Fu il germe dell‘autonomia a rendere così preziosi ai suoi occhi i bambini: osservò in loro capacità espressive immediate e incorrotte e una saggezza genuina, costantemente minacciata dal mondo adulto. Inoltre, come intellettuale presente sulla scena pubblica, spezzò una lancia a favore dell’apertura e della tolleranza in anni in cui un numero sempre minore di intellettuali osava schierarsi. Dialogò con i morti, si mise all‘ascolto del battito della Terra e fu un’autrice inconfondibile, unica per i suoi tempi.
Sensibile al proprio tempo e alle spinte della contemporaneità, Storni provoca le sue lettrici e i suoi lettori e suscita il loro smarrimento. Rimprovera gli indolenti, provoca i mentalmente pigri e li incita ad avere il coraggio di pensare con la propria testa. Il linguaggio espressionista, talora surrealista, di Alfonsina Storni caratterizza le sue rubriche. Le crepuscolari è ad esempio un testo in cui l’individuo è assente. Gli esseri umani sembrano animali che diventano attivi solo ad un dato momento. Come cittadini e consumatori, sono una massa e un’onda che invade le strade e si riversa nei negozi. Sono prigionieri delle cose: delle scarpe, di un ascensore… E sono dei manichini a guidare le visitatrici di una sfilata di moda.
Nel 1935 le fu diagnosticato un cancro al seno; Storni si sottopose a un‘operazione, ma la malattia non si fermò. Nel 1938 maturò in lei la decisione di porre fine alla propria esistenza. L’arte di vivere e quella di morire non devono venir distinte l’una dall‘altra, come dice la protagonista della sua pièce teatrale Polixena y la cocinerita (Polissena, la piccola cuoca) (1932). Nella sua ultima poesia, Voy a dormir, Storni incoraggia le lettrici e i lettori a interpretare il suicidio del 25 ottobre 1938 come una decisione tanto naturale quanto l’andare a dormire. Il tempo, ha detto la poetessa nella prefazione al suo ultimo libro, scritto poco tempo prima di togliersi la vita, fa ordine nell’opera di uno scrittore: elimina qualcosa, mantiene qualcos’altro. «Il tempo ci fa cadere sopra badilate di terra, e va bene così». Ma il tempo continua a tenere in mano il badile, seppellisce dei nomi, ma ne dissotterra altri. Tra questi ultimi, e noi oggi lo sappiamo, c’è il nome di Alfonsina Storni.
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Alfonsina Storni: Cronache da Buenos Aires. A cura di Hildegard Elisabeth Keller. Traduzione di Marco Stracquadaini. Bellinzona: Edizioni Casagrande 2017
Alfonsina Storni, Una lacrima quadrata, Napoli, ilfilodipartenope 2014
Alfonsina Storni, CHICAS. Curato e tradotto da Hildegard E. Keller, prefazione di Georg Kohler, Zurigo, Edition Maulhelden 2021
Alfonsina Storni, CUCA. Curato e tradotto da Hildegard E. Keller, prefazione di Elke Heidenreich, Zurigo, Edition Maulhelden 2021
Alfonsina Storni, CARDO. Curato e tradotto da Hildegard E. Keller, prefazione di Denise Tonella, Zurigo, Edition Maulhelden 2021
Alfonsina Storni, CIMBELINA. Curato e tradotto da Hildegard E. Keller, prefazione di Daniele Finzi Pasca, Zurigo, Edition Maulhelden 2021
Alfonsina Storni, Senza Rimedio, curato e tradotto da Lucia Valori e Rosaria Lo Russo, postfazione di Martha Canfield, Firenze: Edizioni Le Lettere 2011
Alfonsina Storni, Vivo, vivrò sempre e ho vissuto. Poesie (1892-1938), testo spagnolo a fronte, a cura di Franca Cleis e Marinella Luraschi Conforti, Balerna, Edizioni Ulivo 2008
Alfonsina Storni, Ultratelefono, curato e tradotto da Pina Allegrini, Chieti, Noubs 1997
Alfonsina Storni, Poemas de amor, testo spagnolo a fronte, a cura di Franca Cleis, Marinella Luraschi e Pepita Vera, traduzione di Augusta López-Bernasocchi, introduzione di Beatriz Sarlo, Bellinzona, Edizioni Casagrande (1988) 2002
A venticinque anni intraprese l’attività di giornalista al quotidiano L’Idea Nazionale, diretto da Domenico Oliva, come vice dello stesso Oliva nella rubrica teatrale, e in seguito, alla morte del direttore, nel 1917, divenendone titolare. Diresse la rubrica di critica drammatica su La Tribuna (con cui l’Idea Nazionale si era fuso) dal 1925 al 1940.
In questi anni affermò la preminenza del poeta e della parola, al cui servizio deve mettersi l’attore, e, negli anni in cui il teatro di regia stentava ancora a nascere, teorizzò la necessità della figura del regista.
Fondò, e dal 1932 al 1936 diresse, la rivista Scenario, insieme a Nicola De Pirro.
Dal 1937 al 1943 diresse la Rivista italiana del dramma (poi Rivista italiana del teatro), edita dalla Società degli Autori. Scrisse su Il Giornale d’Italia dal 1941 al 1943. Interruppe le collaborazioni in seguito all’occupazione tedesca della capitale.
Dopo la liberazione riprese a collaborare coi quotidiani: dal 1945 al 1955 è il critico de Il Tempo. Sempre dal 1945 diresse la rubrica Chi è di scena? della Rai.
Curò la collana Il Teatro del Novecento, per le edizioni Treves (5 volumi) e la collana di testi teatrali Repertorio (21 volumi). Rimasta nella storia la raccolta di più testi sulla Storia del Teatro Drammatico, oggi in edizione riveduta e aggiornata. Diresse e curò una imponente Enciclopedia dello Spettacolo in 11 volumi (1954-1975).
Morì a Roma nell’aprile 1955; alla notizia della sua morte, i teatri della capitale restarono chiusi per lutto. È sepolto nella tomba di famiglia al quadriportico del cimitero del Verano.
SILVIO D’AMICO-MESSINSCENA ITALIANA DEL DRAMMA SACRO- SILVIO D’AMICO-MESSINSCENA ITALIANA DEL DRAMMA SACRO- SILVIO D’AMICO-MESSINSCENA ITALIANA DEL DRAMMA SACRO- SILVIO D’AMICO-MESSINSCENA ITALIANA DEL DRAMMA SACRO- SILVIO D’AMICO-MESSINSCENA ITALIANA DEL DRAMMA SACRO- SILVIO D’AMICO-MESSINSCENA ITALIANA DEL DRAMMA SACRO- SILVIO D’AMICO-MESSINSCENA ITALIANA DEL DRAMMA SACRO- SILVIO D’AMICO-MESSINSCENA ITALIANA DEL DRAMMA SACRO- SILVIO D’AMICO-MESSINSCENA ITALIANA DEL DRAMMA SACRO-Ugo OjettiRivista PAN n°8 del 1935 diretta da Ugo Ojetti
Letizia Battaglia- A cura di Walter Guadagnini-Dario Cimorelli Editore-
lI volume su Letizia Battaglia , a cura di Walter Guadagnini ,nasce in occasione della grande retrospettiva dedicata dal Jeu de Paume alla fotografa e attivista italiana .Letizia Battaglia(1935-2022) e presentata allo Château de Tours.
Letizia Battaglia-
Famosa per il suo lavoro su Cosa Nostra, la mafia siciliana che regnò negli Anni di Piombo, il suo lavoro colossale – ha prodotto più di 500.000 fotografie – è tuttavia molto vario. Questo volume rivela il viaggio incandescente della fotografa dai suoi esordi a Milano negli anni ‘70 fino alla sua morte nel 2022 nella sua città natale. Mette in risalto, attraverso una selezione di circa 200 stampe originali e moderne, la straordinaria capacità di Letizia Battaglia di mostrare al mondo con passione ardente, in modo diretto, senza nascondere alcun aspetto, da quello più spaventoso a quello più poetico.
Allegati
Alcune immagini del libro
Indice
Letizia Battaglia. Diventare il mondo / Letizia Battaglia. Become the world Walter Guadagnini “Non c’era niente di erotico”. Letizia Battaglia giornalista / “There was nothing erotic there.” Letizia Battaglia, journalist Monica Poggi Sorelle di lotta: Letizia Battaglia e Donna Ferrato, Mary Ellen Mark e Susan Meiselas / Sisters-in-arms: Letizia Battaglia and Donna Ferrato, Mary Ellen Mark and Susan Meiselas Melissa Harris Essere una fotoreporter non bastava: l’impegno di Letizia Battaglia nell’editoria (1986-2006) / Being a photo reporter was not enough: Letizia Battaglia’s (1986-2006) Marta Sollima Opere / Works
Gli inizi / The beginnings
Palermo e Sicilia, gli anni Settanta / Palermo and Sicily, the 1970s
Mafia, gli anni Settanta / The mafia, the 1970s
Palermo e Sicilia, gli anni Ottanta / Palermo and Sicily, the 1980s
Mafia, gli anni Ottanta / The mafia, the 1980s
Palermo e Sicilia, le feste religiose / Palermo and Sicily, religious festivals
Real casa dei matti: l’istituto psichiatrico di Palermo / Real casa dei matti, Palermo psychiatric hospital Nuovi orizzonti: gli anni Ottanta / New horizons, the 1980s
A cavallo tra i secoli, la Sicilia, la mafia, il mondo / From one century to the next, Sicily, the mafia and the world
Biografia di Letizia Battaglia / biography of Letizia Battaglia
Biografie degli autori / Biography of the authors
Walter Guadagnini
Walter Guadagnini
Walter Guadagnini è nato a Cavalese (Trento) nel 1961. Si è laureato in Lettere Moderne alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bologna nel 1985, con una tesi in Storia dell’Arte Contemporanea. Vive e lavora a Bologna, dove dal 1992 è titolare di una cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti. Dal 2011 tiene la cattedra di Storia della Fotografia ed è coordinatore del Biennio Specialistico in Fotografia della stessa Accademia.
Ha diretto dal 1995 al 2005 la Galleria Civica di Modena. Dal 1995 al 2003 ha diretto la manifestazione internazionale Modena per la fotografia. Presidente dal 2004 della Commissione Scientifica del progetto UniCredit e l’Arte, nel 2007 cura la mostra Pop Art! 1956-1968 alle Scuderie del Quirinale, Roma. Nel 2007 è Commissaire Unique per la sezione italiana all’interno di Paris Photo. Nel 2008 cura insieme a Francesco Zanot Faces -Ritratti nella fotografia del XX secolo alla Fondazione Ragghianti di Lucca. Nel 2009 cura la mostra Past Present Future – Highlights from the UniCredit Group Collection al Kunstforum di Vienna. Nel 2011 cura le mostre Things are queer al MARTa Museum di Herford e People and the City al Winzavod Centre for Contemporary Art di Mosca. Nel 2013 cura la mostra Andy Warhol – Una storia americana a Palazzo Blu di Pisa (con C.Ceppi Zevi) e le mostre collettive Territori instabili – Confini e identità nell’arte contemporanea al CCC Strozzina di Firenze (con F.Nori) e La Grande Magia al MAMbo di Bologna (con G.Maraniello). Nel 2014 cura la mostra Facts and Fictions al MAMM di Mosca.
Nel 2000 ha pubblicato il volume Fotografia per l’editore Zanichelli, Bologna. Nel 2007 pubblica il volume 100 – La fotografia in cento immagini per Motta Editore, Milano. Nel 2010 pubblica Una storia della fotografia del XX e del XXI secolo per Zanichelli, Bologna.
È curatore del progetto editoriale La Fotografia, in 4 volumi pubblicati dal 2011 al 2014 dalla casa editrice Skira, edizione italiana e inglese.
Dal 1995 al 2003 ha collaborato come critico d’arte con il quotidiano «La Repubblica». Dal 2006 è responsabile della sezione fotografia de «Il Giornale dell’Arte». Dal 2008 al 2009 è stato co-direttore della rivista «FMR – Bianca».
Elvira Notari, la pioniera del Cinema italiano e la sua visione autentica
Elvira Notari, la pioniera del Cinema italiano e la sua visione autentica. “Il cinema è la più grande arte del nostro secolo, ma come tutte le cose umane è soggetta ai capricci della fortuna e della creatività.”Federico Fellini
Elvira Notari, la pioniera del Cinema italiano
Elvira Notari è una delle figure più straordinarie e poco celebrate nella storia del cinema italiano. Direttrice, produttrice, sceneggiatrice e attrice, è stata la prima donna a realizzare film in un’Italia ancora dominata da una visione patriarcale e tradizionalista. Nata a Napoli nel 1886, Elvira Notari è diventata un’icona di una cinematografia che cercava di raccontare la realtà del popolo, la sua vita quotidiana, e le sue tradizioni, in un periodo in cui il cinema era visto principalmente come un prodotto di intrattenimento e non come uno strumento di narrazione profonda e culturale. Ha vissuto in un’epoca in cui il cinema italiano stava facendo i suoi primi passi. Il suo percorso nel mondo del cinema inizia negli anni ’10 del Novecento, quando nel 1913 decise di aprire la sua casa di produzione, la Cines Napoli. In un momento in cui la gran parte delle donne si limitava a ruoli passivi nell’industria cinematografica, Elvira si distinse per il suo spirito imprenditoriale e per la sua volontà di essere una protagonista assoluta.
Una pioniera che non solo recitava nei suoi film, ma li scriveva, li produceva e li dirigeva. Era una donna che non si accontentava di essere solo un volto davanti alla macchina da presa, ma desiderava costruire una sua visione cinematografica, affermandosi come figura creativa. I suoi film sono stati ispirati dalla sua città natale, Napoli, e dalla cultura popolare napoletana. Elvira Notari ha raccontato storie di vita quotidiana, di amore, di sacrificio, di passione, ma anche di lotta sociale e di critica ai costumi. La sua Napoli, rappresentata nei film, era una città vibrante e pulsante, dove i protagonisti erano spesso lavoratori, pescatori, contadini e figure della tradizione. Attraverso il suo cinema è riuscita a immortalare una Napoli che non si vedeva nelle pellicole più conosciute dell’epoca.
Il Cinema popolare e la nascita di un Linguaggio
Elvira Notari è soprattutto nota per aver contribuito alla nascita del cinema popolare. Nei suoi film, infatti, emerge un’attenzione particolare per le classi più umili, per le donne, per le dinamiche familiari e per le tradizioni del Sud Italia. La sua visione non era solo una rappresentazione dei costumi locali, ma anche una critica e una riflessione sulle difficoltà e le speranze di chi viveva ai margini della società. Il suo lavoro è stato un precursore del cosiddetto cinema neorealista che avrà il suo apice negli anni Quaranta, ma il suo stile era decisamente più intimo e focalizzato sulla semplicità e sull’autenticità della vita quotidiana. Nonostante i limiti tecnologici e le difficoltà economiche, Elvira Notari riuscì a girare film che catturavano le emozioni più autentiche, utilizzando spesso attori non professionisti, scelti tra la gente comune. I suoi film, infatti, rappresentano una fusione tra il documentario e la fiction, in cui l’aspetto visivo e realistico della vita napoletana era al centro della narrazione. La sua capacità di raccontare storie vere, autentiche, senza filtri, rendeva i suoi film assolutamente innovativi per l’epoca. La sua attenzione al linguaggio popolare e alla vita di strada risuonava con la gente comune, creando una connessione emotiva profonda con il pubblico.
I film di Elvira Notari: un ritorno alle radici del Cinema italiano
Tra i film più significativi di Elvira Notari spiccano “Cavalleria”(1915), un dramma intenso e passionale, che rappresenta una delle prime incursioni nella vita delle classi popolari e nel mondo rurale, e “Assunta Spina”(1915), una delle sue pellicole più celebri. “Assunta Spina” è tratto da una novella di Salvatore Di Giacomo, un autore napoletano di grande rilievo, e racconta la storia di una donna forte e coraggiosa che affronta le difficoltà della vita con dignità. Questo film segna un importante passo nella rappresentazione di figure femminili forti nel cinema italiano, un tema che Elvira Notari esplorerà spesso nel suo lavoro. Il film, pur nelle sue limitazioni tecniche, presenta una grande intensità emotiva e una riflessione sociale che si distingue per la sua forza.
Un altro film che merita attenzione è “L’ultima corsa” (1919),che presenta un mondo di miseria e di lotte quotidiane, ma allo stesso tempo una grande passione e speranza. Questo film, sebbene non tanto conosciuto, è significativo per il suo approccio realistico e la sua capacità di raccontare la vita del popolo con un’umanità straordinaria. Elvira Notari non si limitò a raccontare storie di passione e sacrificio, ma affrontò anche tematiche più complesse e sociali. In “Il ventre di Napoli” (1923), ad esempio, la regista esplora la vita dei quartieri più poveri della città, offrendo una rappresentazione crudele ma realistica delle disuguaglianze sociali. Anche in questo film emerge un forte legame con la tradizione napoletana e con la sua cultura popolare, ma c’è anche una critica sociale che denuncia le ingiustizie della società del tempo.
Il Cinema di Elvira Notari: una Rivoluzione femminile
Ciò che rende ancora più straordinaria la figura di Elvira Notari è il fatto che, oltre a essere una pioniera nel campo del cinema, ha avuto anche il coraggio di sfidare le convenzioni di genere. In un mondo cinematografico dominato dagli uomini, Elvira ha avuto la forza di affermarsi come regista, produttrice e sceneggiatrice, ruoli che, all’epoca, erano pressoché impossibili per una donna. La sua figura rappresenta un esempio di emancipazione femminile in un contesto dove il cinema era una prerogativa maschile. Non solo, ma Elvira Notari è stata anche una delle prime registe a dare spazio e voce alle donne nei suoi film, non più solo come semplici comparse o figure romantiche, ma come protagoniste reali con una propria individualità. La sua capacità di raccontare storie di donne forti, indipendenti, ma anche fragili e vulnerabili, le ha dato una visione unica e profonda del mondo femminile.
Il declino e l’oblio
Nonostante il grande successo iniziale e la popolarità che i suoi film riscossero, il cinema di Elvira Notari subì una crisi con l’arrivo del sonoro e la nascita di nuove tendenze artistiche. Nel 1930, la sua casa di produzione fallì e, di lì a poco, l’opera di Elvira Notari cadde nel dimenticatoio. Il suo nome fu lentamente oscurato dalla grande storia del cinema italiano che vedeva la nascita di registi come Fellini, De Sica e Rossellini. Tuttavia, i suoi film continuano a essere apprezzati oggi per il loro spirito autentico e per la loro capacità di raccontare una Napoli che è ormai leggenda.
Conclusioni
Elvira Notari è stata una donna straordinaria che ha segnato indelebilmente la storia del cinema italiano. Il suo contributo alla nascita di un cinema popolare e alla valorizzazione della cultura napoletana è inestimabile. Con il suo spirito innovativo e la sua determinazione, Elvira Notari ha dimostrato che il cinema può essere uno strumento potente di narrazione, capace di raccontare le storie delle persone comuni e di farle diventare universali. La sua figura merita oggi una riscoperta e una valorizzazione, affinché il suo nome non resti nell’ombra ma brilli di quella luce che, fin dalla sua nascita, ha saputo emanare.
Fonte-La Notizia.net è un quotidiano di informazione libera, imparziale ed indipendente che la nostra Redazione realizza senza condizionamenti di alcun tipo perché editore della testata è l’Associazione culturale “La Nuova Italia”, che opera senza fini di lucro con l’unico obiettivo della promozione della nostra Nazione, sostenuta dall’attenzione con cui ci seguono i nostri affezionati lettori, che ringraziamo di cuore per la loro vicinanza. La Notizia.net è il giornale online con notizie di attualità, cronaca, politica, bellezza, salute, cultura e sport. Il direttore responsabile della testata giornalistica è Lucia Mosca, con direttore editoriale Franco Leggeri.
Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960- A cura di Walter Guadagnini, Monica Poggi- Dario Cimorelli Editore-
Margaret Bourke-White (1904-1971), è una tra le fotografe più autorevoli della storia del fotogiornalismo. Fu tra le prime donne fotografe ad affrontare un ambiente ed un settore fino ad allora prettamente maschile, la prima fotografa straniera ad avere il permesso di scattare foto in URSS e la prima donna fotografa a realizzare una copertina di Life.
Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960-
Il volume monografico presenta l’opera di questa pioniera dell’informazione e dell’immagine, Margaret Bourke-White ha esplorato ogni aspetto della fotografia: dalle prime immagini dedicate al mondo dell’industria e ai progetti corporate, fino ai grandi reportage per le testate internazionali più importanti; dalle cronache sul secondo conflitto mondiale, ai celebri ritratti di Stalin prima e poi di Gandhi; dal Sud Africa dell’apartheid, all’America dei conflitti razziali fino al brivido delle visioni aeree del continente americano.
Allegati-Alcune immagini del libro
Indice
Margaret Bourke-White Una vita sul tetto del mondo Monica Poggi Il talento di Miss Bourke-White Margaret e la scrittura Alessandra Mauro I primi servizi di “Life”
L’incanto delle fabbriche e dei grattacieli
Ritrarre l’utopia in Russia
Cielo e fango: le fotografie della guerra
Il mondo senza confini: i reportage in India, Pakistan e Corea
Oro, diamanti e Coca-Cola
Biografia
Bibliografia
Nacque nel Bronx il 14 giugno 1904, figlia di Joseph White, inventore e naturalista e Minnie Bourke; avviata agli studi di biologia frequentò, ancora studentessa del college, alcuni corsi di fotografia[1].
La carriera professionale inizia nel 1927. All’età di vent’anni iniziò a scattare fotografie industriali.
Nel 1929 si compì la svolta professionale: conobbe Henry Luce, caporedattore di Time, che la invitò a trasferirsi a New York per collaborare alla fondazione di una nuova rivista illustrata: Fortune[2].
Erano gli anni della Depressione e dell’importante campagna fotografica della Farm Security Administration e anche la Bourke-White con il futuro marito, lo scrittore Erskine Caldwell, intraprese un viaggio di ricerca e documentazione sociale nel sud, che sfociò nella pubblicazione del libro You Have Seen Their Faces. La fotografia della Bourke-White fu emblematica sia per i contenuti che per lo stile. Fin dagli inizi, la sua carriera abbracciò la visione moderna tipica di quegli anni, di un mondo dominato dalla fede nel potere della macchina e della tecnologia.
Nonostante i suoi viaggi e il rapporto con Fortune, fino al 1936 mantenne un proprio studio, per i lavori industriali e di corporate senza per questo trascurare le diverse possibilità per libri, mostre e lavori indipendenti.
Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960-
Il primo numero della rivista Life, del 23 novembre 1936, utilizzò una sua foto per la copertina. Era uno scatto dei lavori finiti (grazie al New Deal) della diga di Fort Peck, nel Montana: un’immagine che fece il giro del mondo e che segnò un punto di svolta della professione del fotografo nell’universo femminile.
Da quel momento Margaret Bourke-White iniziò un’assidua collaborazione con la prestigiosa rivista e copre reportages dalla Seconda Guerra mondiale, all’assedio di Mosca, dalla guerra in Corea, alle rivolte sudafricane. Al fotogiornalismo la Bourke-White dedicherà la maggior parte della sua carriera[3].
La Bourke-White si considerò sempre una fotografa seria e impegnata in un’altrettanto seria missione. Dopo aver scattato le fotografie della Cecoslovacchia invasa dai tedeschi nel 1938, credette che la macchina fotografica potesse salvare la democrazia del mondo: “sono fermamente convinta che il fascismo non avrebbe preso il potere in Europa se ci fosse stata una stampa veramente libera che potesse informare la gente invece di ingannarla con false promesse”.
Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960-
Fu con il marito in Unione Sovietica nel 1941, quando venne invasa dai nazisti (la Bourke-White fu non solo l’unica fotografa americana testimone dell’evento, ma anche la sola fotografa straniera a Mosca).
Grazie all’intervento di Roosevelt scattò il primo ritratto non ufficiale di Stalin, anche l’unico per molti anni, con circolazione autorizzata al di fuori dell’URSS. Nel 1943 fu la prima donna ad accompagnare i caccia statunitensi che bombardavano e fotografò quello che fu uno dei più violenti attacchi all’esercito tedesco.
A seguito del reggimento statunitense, fotografa gli assedi della linea gotica (zone di Loiano e Livergnano nell’Appennino Emiliano)[4]. Entrò a Buchenwald il giorno dopo la liberazione dei prigionieri e fece parte del gruppo che scoprì, prima ancora dell’esercito, il campo di Erla. Nel 1952 capì per prima i tragici risvolti della guerra di Corea.
Perseguendo la sua missione lei stessa divenne leggenda: nel 1937 durante un servizio nell’Artico il suo aereo fece un atterraggio di fortuna e si interruppe per giorni e giorni ogni contatto; nel 1942 in navigazione verso il Nord Africa la nave fu silurata nel Mediterraneo e passò una notte e un giorno su una scialuppa di salvataggio.
Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960-
Nel 1953, all’età di 49 anni, le venne diagnosticata la malattia di Parkinson. Quando nel 1959 non fu più in grado di lavorare, si sottopose ad un intervento chirurgico al cervello che fu documentato sui giornali. Da quel momento ridusse drasticamente l’attività di fotografa e si dedicò alla scrittura. L’autobiografia Il mio ritratto, venne pubblicata nel 1963 e fu un bestseller.
Dopo una caduta nella sua casa di Darien, nel Connecticut, morì il 27 agosto 1971, all’età di 67 anni[2].
Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960-
Stile
Nel 1928 affermò su un giornale che “l’industria è il vero luogo dell’arte” e due anni più tardi che “i ponti, le navi, le officine hanno una bellezza inconscia e riflettono lo spirito del momento”.
Nella composizione delle sue prime immagini, si può notare una stretta relazione con la pittura cubista, la sovrapposizione dei piani, le geometrie astratte, la riduzione da tridimensionale a bidimensionale; e fu senza dubbio altrettanto importante l’influenza del cinema espressionista russo e tedesco, da cui derivano la drammaticità degli effetti di luce e la suggestione per l’astratto. Accanto all’aspetto teatrale, e a volte retorico, della sua fotografia industriale, ha sicuramente contribuito alla sua fortuna anche un certo aspetto romantico: la nazione aveva bisogno di credere e sognare della tecnologia, una delle poche speranze per controbattere l’insorgere della Depressione.
Negli anni Trenta la Bourke-White muove la sua ricerca sulla scia di altri fotografi, da László Moholy-Nagy a Edward Steichen, verso il dinamismo dell’astratto: le fotografie della Elgin Watch Company o della Singer rivelano un’immagine senza alto né basso, senza punto focale, così che l’occhio è costretto a vagare sull’intera superficie. L’immagine è una successione di oggetti senza fine ed un’inquadratura puramente arbitraria di un mondo che si estende ben oltre di essa. Uno straordinario esempio di questa pratica è il foto-murales per il palazzo della NBC al Rockfeller Center datato 1933, conservato sul luogo fino agli anni ’50 e successivamente rimosso e mai più mostrato in pubblico.
Solo verso la fine della sua lunga e brillante professione, nei primi anni ’50, ritorna la passione per l’astratto con alcuni interessantissimi esperimenti di fotografia aerea che precorrono molta pittura della fine degli anni cinquanta e sessanta.
Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960-
Della sua professione di donna fotografa disse più volte: “la fotografia non dovrebbe essere un campo di contesa fra uomini e donne” e più tardi rivelò ad un editore: “in quanto donna è forse più difficile ottenere la confidenza della gente e forse talvolta gioca un ruolo negativo una certa forma di gelosia; ma quando raggiungi un certo livello di professionalità non è più una questione di essere uomo o donna”.
Primo Levi -Poesie-Ritroviamo nel volume le poesie scritte a caldo dopo Auschwitz, riarse da quell’esperienza, e poi, più avanti nel tempo, i testi ispirati a una vena didascalico-morale rara nel Novecento italiano. Qui di seguito diamo la premessa scritta da Levi per il suo libro.
SHEMÀ
(anche epigrafe che apre Se questo è un uomo)
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca
I vostri nati torcano il viso da voi.
AGLI AMICI
Cari amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola:
Moglie, sorella, sodali, parenti,
Compagne e compagni di scuola,
Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita:
Purché fra noi, per almeno un momento,
Sia stato teso un segmento,
Una corda ben definita.
Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita:
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo,
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via;
In ognuno la traccia di ognuno.
Per il bene od il male
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.
Ora che il tempo urge da presso,
Che le imprese sono finite,
A voi tutti l’augurio sommesso
Che l’autunno sia lungo e mite.
16 dicembre 1986
LE PRATICHE INEVASE
(una poesia che parla in qualche modo magari un po’ nascosto del suo suicidio)
Signore, a fare data dal mese prossimo
Voglia accettare le mie dimissioni.
E provvedere, se crede, a sostituirmi.
Lascio molto lavoro non compiuto,
Sia per ignavia, sia per difficoltà obiettive.
Dovevo dire qualcosa a qualcuno,
Ma non so più che cosa e a chi: l’ho scordato.
Dovevo anche dare qualcosa,
Una parola saggia, un dono, un bacio;
Ho rimandato da un giorno all’altro. Mi scusi,
Provvederò nel poco tempo che resta.
Ho trascurato, temo, clienti di riguardo.
Dovevo visitare
Città lontane, isole, terre deserte;
Le dovrà depennare dal programma
O affidarle alle cure del successore.
Dovevo piantare alberi e non l’ho fatto;
Costruirmi una casa,
Forse non bella, ma conforme a un disegno.
Principalmente, avevo in animo un libro
Meraviglioso, caro signore,
Che avrebbe rivelato molti segreti,
Alleviato dolori e paure,
Sciolto dubbi, donato a molta gente
Il beneficio del pianto e del riso.
Nel troverà traccia nel mio cassetto,
In fondo, tra le pratiche inevase;
Non ho avuto tempo per svolgerla. E’ peccato,
Sarebbe stata un’opera fondamentale.
19 aprile 1981
ALZARSI
(anche epigrafe de La Tregua)
Sognavamo notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
“Wstawac”:
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre è sazio,
abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
“Wstawac”.
11 gennaio 1946
APPRODO
Felice l’uomo che ha raggiunto il porto,
Che lascia dietro sé mari e tempeste,
I cui sogni sono morti o mai nati;
E siede e beve all’osteria di Brema,
Presso al camino, ed ha buona pace.
Felice l’uomo come una fiamma spenta,
Felice l’uomo come sabbia d’estuario,
Che ha deposto il carico e si è tersa la fronte
E riposa al margine del cammino.
Non teme né spera né aspetta,
Ma guarda fisso il sole che tramonta.
10 settembre 1964
LA BAMBINA DI POMPEI
Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra
Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
Che ti sei stretta convulsamente a tua madre
Quasi volessi ripenetrare in lei
Quando al meriggio il cielo si è fatto nero.
Invano, perché l’aria volta in veleno
È filtrata a cercarti per le finestre serrate
Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
Lieta già del tuo canto e del tuo timido riso.
Sono passati i secoli, la cenere si è pietrificata
A incarcerare per sempre codeste membra gentili.
Così tu rimani tra noi, contorto calco di gesso,
Agonia senza fine, terribile testimonianza
Di quanto importi agli dei l’orgoglioso nostro seme.
Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella,
Della fanciulla d’Olanda murata fra quattro mura
Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:
La sua cenere muta è stata dispersa dal vento,
La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.
Nulla rimane della scolara di Hiroshima,
Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli,
Vittima sacrificata sull’altare della paura.
Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
Tristi custodi segreti del tuono definitivo,
Ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo.
Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.
20 novembre 1978
PARTIGIÀ
Dove siete, partigia di tutte le valli,
Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse?
Molti dormono in tombe decorose,
Quelli che restano hanno i capelli bianchi
E raccontano ai figli dei figli
Come, al tempo remoto delle certezze,
Hanno rotto l’assedio dei tedeschi
Là dove adesso sale la seggiovia.
Alcuni comprano e vendono terreni,
Altri rosicchiano la pensione dell’Inps
O si raggrinzano negli enti locali.
In piedi, vecchi: per noi non c’è congedo.
Ritroviamoci. Ritorniamo in montagna,
Lenti, ansanti, con le ginocchia legate,
Con molti inverni nel filo della schiena.
Il pendio del sentiero ci sarà duro,
ci sarà duro il giaciglio, duro il pane.
Ci guarderemo senza riconoscerci,
Diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi.
Come allora, staremo di sentinella
Perché nell’alba non ci sorprenda il nemico.
Quale nemico? Ognuno è nemico di ognuno,
Spaccato ognuno dalla sua propria frontiera,
La mano destra nemica della sinistra.
In piedi, vecchi, nemici di voi stessi:
La nostra guerra non è mai finita.
23 luglio 1981
IL SUPERSTITE
a B. V.
Since then, at an uncertain hour,
Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia in petto il cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni
Lividi nella prima luce,
Grigi di polvere di cemento,
Indistinti per nebbia,
Tinti di morte nei sonni inquieti:
A notte menano le mascelle
Sotto la mora greve dei sogni
Masticando una rapa che non c’è.
“Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non è colpa mia se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni”.
4 febbraio 1984
CANTO DEI MORTI INVANO
Sedete e contrattate
A vostra voglia, vecchie volpi argentate.
Vi mureremo in un palazzo splendido
Con cibo, vino, buoni letti e buon fuoco
Purché trattiate e contrattiate
Le vite dei vostri figli e le vostre.
Che tutta la sapienza del creato
Converga a benedire le vostre menti
E vi guidi nel labirinto.
Ma fuori al freddo vi aspetteremo noi,
L’esercito dei morti invano,
Noi della Marna e di Montecassino
Di Treblinka, di Dresda e di Hiroshima:
E saranno con noi
I lebbrosi e i tracomatosi,
Gli scomparsi di Buenos Aires,
I morti di Cambogia e i morituri d’Etiopia,
I patteggiati di Praga,
Gli esangui di Calcutta,
Gl’innocenti straziati a Bologna,
Guai a voi se uscirete discordi:
Sarete stretti dal nostro abbraccio.
Siamo invincibili perché siamo i vinti.
Invulnerabili perché già spenti:
Noi ridiamo dei vostri missili.
Sedete e contrattate
Finché la lingua vi si secchi:
Se dureranno il danno e la vergogna
Vi annegheremo nella nostra putredine.
14 gennaio 1985
(purtroppo il danno e la vergogna durano, mio povero Primo…)
Ad ora incerta raccoglie sessantatré poesie e dieci traduzioni. Le poesie coprono un arco di quarant’anni, dal 1943 (Crescenzago) al 1984, quando Levi usava pubblicarle sulle pagine culturali del quotidiano torinese «La Stampa».
Primo Levi -Poesie
Ritroviamo nel volume le poesie scritte a caldo dopo Auschwitz, riarse da quell’esperienza, e poi, più avanti nel tempo, i testi ispirati a una vena didascalico-morale rara nel Novecento italiano. Qui di seguito diamo la premessa scritta da Levi per il suo libro.
«In tutte le civiltà, anche in quelle ancora senza scrittura, molti, illustri e oscuri, provano il bisogno di esprimersi in versi, e vi soggiacciono: secernono quindi materia poetica, indirizzata a se stessi, al loro prossimo o all’universo, robusta o esangue, eterna o effimera. La poesia è nata certamente prima della prosa. Chi non ha mai scritto versi?
Uomo sono. Anch’io, ad intervalli irregolari, «ad ora incerta», ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico. In alcuni momenti, la poesia mi è sembrata più idonea della prosa per trasmettere un’idea o un’immagine. Non so dire perché, e non me ne sono mai preoccupato: conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte, e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti. Posso solo assicurare l’eventuale lettore che in rari istanti (in media, non più di una volta all’anno) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale.
Primo Levi»
Introduzione di Primo Levi alla prima edizione Garzanti 1984, collana «Poesie».
La poesia di Levi ragiona, descrive (animali, soprattutto), gioca con le parole, si lancia verso geografie lontane e verso storie sprofondate nel mito. Gli esercizi di traduzione riguardano un anonimo scozzese del Seicento, Rudyard Kipling e soprattutto – otto testi su dieci – Heinrich Heine: versioni, come dice lo stesso autore, «più musicali che filologiche, e piuttosto divertimenti che opere professionali». A seguire un brano critico del poeta Giovanni Raboni.
«[…] a me sembra che la scrittura poetica di Levi abbia, sin dall’inizio […], lo stesso solenne acume morale, la stessa forza di memoria, ammonimento e pietà, che rendono così sostanziosa, così giusta, così naturalmente memorabile la sua prosa. […] In Levi lo scatto, l’impulso iniziale di ogni singola poesia […] nasce dalla ragione, dalla lettura morale della realtà, da quella capacità di capire la propria sofferenza e di vivere la propria indignazione come patrimonio comune a tutti gli uomini, che formano la peculiarità e oserei dire l’insostituibilità della sua prosa».
Giovanni Raboni, Primo Levi un poeta vero ad ora incerta, «La Stampa», 17 novembre 1984, poi nell’antologia critica che chiude l’edizione economica di Ad ora incerta, Garzanti, Milano 1990.
Ad ora incerta vinse nel 1985 il Premio Abetone della Provincia di Pistoia e il Premio nazionale Giosué Carducci di Pietrasanta. Per sottile ironia, il penultimo testo della raccolta, Pio, consiste in un rovesciamento parodico della celebre Il bove di Carducci
Primo Levi –
Primo Lèvi, scrittore ebreo italiano (Torino 1919-1987), giunse alla letteratura attraverso la tragica esperienza vissuta nei lager che lo segnò fino al punto di diventare per lui un’ossessione che lo portò dopo tanti anni al suicidio. Il racconto delle traversie subite ad Auschwitz è consegnato a Se questo è un uomo (1947), denuncia della tragica e subumana vita nel lager. Dopo la raffinata e complessa raccolta di racconti Lilit e altri racconti (1981), ebbe un grande successo con Se non ora, quando? (1982, premio Viareggio e premio Campiello) in cui narra, in chiave epica e picaresca, l’epopea di un gruppo di partigiani dalla Russia a Milano.
Nato il 31 luglio del 1919 a Torino, da genitori di religione ebraica, Primo Levi si diploma nel 1937 al liceo classico Massimo D’Azeglio e si iscrive al corso di laurea in chimica presso la facoltà di Scienze dell’Università di Torino. Nel ’38, con le leggi razziali, si istituzionalizza la discriminazione contro gli ebrei, cui è vietato l’accesso alla scuola pubblica. Levi, in regola con gli esami, ha notevoli difficoltà nella ricerca di un relatore per la sua tesi: si laurea nel 1941, a pieni voti e con lode, ma con una tesi in Fisica. Sul diploma di laurea figura la precisazione: «di razza ebraica». Comincia così la sua carriera di chimico, che lo porta a vivere a Milano, fino all’occupazione tedesca: il 13 dicembre del ’43 viene catturato a Brusson e successivamente trasferito al campo di raccolta di Fossoli, dove comincia la sua odissea. Nel giro di poco tempo, infatti, il campo viene preso in gestione dai tedeschi, che convogliano tutti i prigionieri ad Auschwitz.
È il 22 febbraio del ’44: data che nella vita di Levi segna il confine tra un “prima” e un “dopo”.
«Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome privo di significato, allora e per noi» (P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi 1998, p. 15).
In fretta e sommariamente viene effettuata una vera e propria selezione: «In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente» (Op. cit., p. 17).
L’autore è deportato a Monowitz, vicino Auschwitz, in un campo di lavoro i cui prigionieri sono al servizio di una fabbrica di gomma. Al lager, persi nei loro pensieri, presi da mille domande, da ipotesi continue che per quanto catastrofiche, non si avvicinano neanche lontanamente alla verità, si ritrovano ,in pochissimo tempo, rasati, tosati, disinfettati e vestiti con pantaloni e giacche a righe. Su ogni casacca c’è un numero cucito sul petto. I prigionieri vengono marchiati come bestie. Il loro compito: lavorare, mangiare, dormire, OBBEDIRE. Il loro intento: sopravvivere. Dietro quel numero non c’è più un uomo, ma solo un oggetto: häftling, cioè “pezzo”. Se funziona, va avanti. Se si rompe, è gettato via.
“Se questo è un uomo” di PRIMO LEVI
Levi è l’häftling 174517. Funzionante.
Primo Levi è tra i pochissimi a far ritorno dai campi di concentramento. Ci riesce fortunosamente, grazie a una serie di circostanze e solo dopo un lungo girovagare nei Paesi dell’est.
Quale testimone di tante assurdità, sente il dovere di raccontare, descrivere l’indescrivibile, affinchè tutti sappiano, tutti si domandino un perché, tutti interroghino la propria coscienza: comincia a scrivere, elaborando così il suo dolore, il suo annientamento, il suo avventuroso ritorno a casa. Nel ’47, rifiutato dalla Einaudi, il manoscritto Se questo è un uomo è pubblicato dalla De Silva editrice.
Il libro ottiene un discreto successo di critica ma non di vendita. Solo nel ’56 la Einaudi comincia a pubblicare tutti i suoi lavori: Se questo è un uomo è tradotto in diverse lingue, La Tregua vince la prima edizione del Premio Campiello. Nel ’67 raccoglie i suoi racconti in un volume intitolato Storie naturali adottando lo pseudonimo di Damiano Malabaila. Nel ’71 esce Vizio di forma, nuova serie di racconti e nel ’78 La chiave a stella che vince il Premio Strega. Nel ’81 viene edita un’antologia personale dal titolo La ricerca delle radici nella quale sono raccolti tutti gli autori che hanno contato nella formazione culturale dell’autore. Nel novembre dello stesso anno esce Lilìt e altri racconti e l’anno successivo Se non ora quando? che vince il Premio Viareggio e il Premio Campiello.
“Se questo è un uomo” di PRIMO LEVI
Nel frattempo Levi lavora anche come traduttore. Nell’ottobre del ’84 pubblica Ad ora incerta e a dicembre Dialogo in cui riporta una conversazione avuta con il fisico Tullio Regge. Nel novembre dello stesso anno esce l’edizione americana del Sistema periodico e nel gennaio del ’85 una cinquantina di scritti pubblicati precedentemente su diverse testate, raccolti in un volume unico intitolato L’altrui mestiere. Nel 1986 pubblica I sommersi e i salvati.
L’ 11 Aprile 1987, in un periodo di depressione, ancora tormentato dai ricordi di Auschwitz, Primo Levi muore suicida nella sua casa di Torino. Dirà di lui Claudio Toscani: «L’ultimo appello di Primo Levi non dice non dimenticatemi, bensì non dimenticate».
Quando l’arte incontra la logistica: lo spirito PARKlife arriva a Roma-
Roma-Lo spirito PARKlife arriva a Roma-Valorizzare i parchi logistici attraverso l’arte urbana al fine di renderli luoghi di lavoro più attraenti, punti di socializzazione e d’incontro con le comunità locali. È questa la mission di Prologis che, con la filosofia PARKlife™, arriva alla sua quarta straordinaria tappa, approdando nella città di Roma.
Roma-PARKlife
È proprio qui che, il 3 aprile 2025 in via Licini 12, dalle 17.30 alle 20.00, verrà inaugurato l’ultimo progetto realizzato da Prologis, in un evento unico durante il quale l’arte incontra la logistica e lo spazio tutto intorno si trasforma in un vero capolavoro.
Perché è qui che street artists di fama internazionale quali Macs, Ale Senso e Rame 13 hanno ridipinto i luoghi di quello che, da semplice posto di lavoro, si trasforma in un punto di aggregazione che, attraverso grandi opere di urban art, si integra nel tessuto sociale e artistico di una delle città più vivide d’arte, qual è la città di Roma.
“Il tutto parte da una filosofia sviluppata a livello mondiale da Prologis che si chiama PARKlife™ e che mira a rendere i nostri parchi logistici esteticamente più gradevoli e ad offrire a quanti vi lavorano una gamma di servizi che vanno dal benessere fisico, alle zone relax, alle aree break attrezzate – sottolinea il Senior Vice President Regional Head Southern Europe Sandro Innocenti – da qui l’intuizione che le grandi superfici dei nostri edifici, dei serbatoi e dei containers, possano essere trasformati in enormi opere di urban art.”
In quest’ambito s’inseriscono i progetti di Prologis che, attraverso PARKlife™ e tramite anche la realizzazione di monumentali opere di street art, intende arricchire ancor più questi spazi, nei quali il contributo essenziale di quest’arte ha il fine di valorizzare aree quotidianamente frequentate da centinaia di utenti.
Uno spirito che si sposa perfettamente con la mission dell’azienda, in un connubio tra arte e logistica, bellezza e funzionalità, che la rende unica nel panorama nazionale.
“Un luogo esteticamente più attraente grazie all’arte contribuisce al benessere di tutti noi” (Sandro Innocenti).
Roma-PARKlife
Alla presenza degli artisti, in un ambiente vivace e conviviale, nel quartiere La Rustica di Roma si creeranno quelle sinergie che stanno alla base degli obiettivi di Prologis: creare parchi logistici accoglienti, confortevoli e ricchi di servizi come zone ufficio luminose, aree per socializzare, attività sportive all’aperto, piste ciclabili, percorsi benessere nel verde e diversi altri servizi dedicati.
Prologis offre molto di più di semplici edifici logistici, creando ambienti di lavoro e di vita che favoriscono il benessere di clienti e collaboratori all’interno delle realtà in cui opera: questa iniziativa è chiamata PARKlife™.
Roma-PARKlife
PARKlife™ mette a disposizione strutture e servizi, in modo permanente o temporaneo, all’interno dei suoi parchi e dei suoi edifici, destinati sia alle persone che vi lavorano sia alle comunità circostanti. L’obiettivo è supportare le attività, migliorare il benessere dei collaboratori e rendere i parchi logistici luoghi sempre più piacevoli da vivere.
Parallelamente Prologis sta lavorando all’ampliamento delle opere di arte urbana sul territorio romano nel parco logistico di Tiburtina – con Rame13 – e a Castelnuovo di Porto dove, in aggiunta al murales di Hitnes, Ale Senso sta lavorando a una nuova imponente opera di urban art.
Roma-PARKlife
Dopo il parco Prologis Interporto Bologna e i parchi di Lodi e Romentino, il parco di Roma è ora il quarto ad essere caratterizzato dalla street art.
Perché, citando Pablo Picasso, “l’arte scuote dall’anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni.”.
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