Altritaliani-Exposition Artemisia Gentileschi – organise pour ses lecteurs deux visites-guidées en italien de l’exposition “Artemisia, héroïne de l’art” au Musée Jacquemart-André, Paris 8e, le lundi 31 mars et le mardi 29 avril 2025 à 16h30. Notre guide-conférencière sera Barbara Musetti, docteur en histoire de l’art. Les inscriptions pour cette sortie culturelle à Paris sont ouvertes! Voir comment procéder en bas de page.
Présentation de l’exposition « Artemisia, héroïne de l’art »
Le Musée Jacquemart-André met à l’honneur à partir du 19 mars et jusqu’au 3 août 2025 l’artiste romaine Artemisia Gentileschi (1593 – vers 1656). Personnalité au destin hors norme, cette protagoniste de la peinture caravagesque est l’une des rares artistes femmes de l’époque moderne ayant connu de son vivant une gloire internationale et qui put vivre de sa peinture. Elle sera la première femme académicienne de Florence. À cette distinction, elle devra sa gloire et surtout la liberté – essentielle pour elle – de créer et construire sans répit son œuvre.
À travers une quarantaine de tableaux, réunissant aussi bien des chefs-d’œuvre reconnus de l’artiste, des toiles d’attribution récente, ou des peintures rarement montrées en dehors de leur lieu de conservation habituel, cette exposition met en valeur le rôle d’Artemisia Gentileschi dans l’histoire de l’art du XVIIe siècle et de l’Italie baroque.
L’exposition tend notamment à démontrer la profonde originalité de son oeuvre, de son parcours et de son identité, qui demeurent encore aujourd’hui une source d’inspiration et de fascination. L’histoire d’Artemisia traverse les siècles, et la lecture que l’on peut faire de son oeuvre – reflet de son vécu et de sa résilience – s’avère intemporelle et universelle.
Certaines de ses œuvres seront mises en regard de tableaux d’artistes avec qui elle entretenait des liens professionnels ou familiaux, notamment son père Orazio Gentileschi ou le peintre français Simon Vouet.
[ Le musée Maillol lui avait consacré une exposition en 2012. Domenico Biscardi avait alors réalisé pour Altritaliani une interview-son du commissaire de cet événement. Nous vous proposons de la ré-écouter ICI ou ci-dessous. ]
Visites-conférence Altritaliani en langue italienne ouvertes à tous et toutes sur inscription (15 personnes maximum). Durée autorisée 1h15.
DATES :
Lundi 31 mars à 16h30 – rendez-vous à l’entrée du musée à 16h15
Ou
mardi 29 avril à 16h30– rendez-vous à 16h15
INSCRIPTIONS:
Si vous êtes intéressés, prière d’envoyer un mail à evolena@altritaliani.net
Après sa confirmation de disponibilité, votre chèque de validation devra être libellé à l’ordre d’Altritaliani et adressé au siège de l’association: 51, avenue de La Motte-Picquet, 75015 Paris. Prix global 35€ (comprenant le billet d’entrée, les audiophones, participation au droit de parole et conférence de Mme Musetti ). Le chèque sera encaissé après la visite.
Chiara Ventura warm waters dal 28 febbraio al 3 marzo negli spazi di Supermartek al B49 studio di Roma-
Roma- exibart e Supermartek presentano la mostra personale di Chiara Ventura, B49 studio warm waters, a cura di Alessio Vigni. L’opening si terrà il 28 febbraio alle ore 21:00 e sarà possibile visitare la mostra fino al 3 marzo. Il progetto sarà concentrato tutto in un unico weekend, con l’intento di creare un evento-mostra partecipativo, aperto al pubblico, provando a ribaltare i processi elitari vicini al mondo dell’arte contemporanea.
Chiara Ventura-
La mostra è costituita come un viaggio visivo che esplora la complessità dei sentimenti umani e le sue sfumature più profonde. Così come le acque calde, che in natura si trasformano in correnti impreviste, i rapporti umani possono sembrare rassicuranti, ma celano una complessità emotiva profonda e mutevole che ci può inghiottire. La dualità di questo concetto rappresenta perfettamente la dimensione del sentimento esplorata da Ventura: un territorio familiare e sicuro, ma anche denso di tensioni.
Chiara Ventura-Natura Impressa – Supermartek
Chiara Ventura
Chiara Ventura
Per questo progetto espositivo, l’artista ricorre quasi interamente alla pittura, che diventa metafora di una relazione umana, in cui la gestualità si trasforma in un rituale che assorbe e rilascia materia, così come accade in un legame di intimità tra due persone.
In questa mostra, la pittura si trasforma in uno strumento per affrontare la vulnerabilità emotiva e la liquidità dei sentimenti umani.
Il titolo warm waters si presta a diverse interpretazioni, che spaziano da un’essenza più fisica a riflessioni metaforiche ed emotive. Nello spazio espositivo, l’intimo diventa pubblico. In questa esperienza, estranei verranno accomunati in un viaggio interiore unico, dove potranno riconoscersi (se lo vorranno) nelle opere esposte.
Con video, fotografie, dipinti e installazioni, warm waters offre uno spazio sicuro di riflessione sul ruolo dell’emozione nell’arte e nella vita. L’umano sentire è tutt’altro che una pratica frivola o superficiale, è un campo complesso in continua trasformazione, proprio come le acque che scorrono, si scaldano e mutano in ogni istante.
Durante la serata di apertura ci sarà anche spazio per il DJ set di ZATAC, dalle ore 22, con l’intento di ribadire la natura esperenziale della mostra, come evento in cui condividere ogni propria emozione e dove quello che percepiamo personale diventa collettivo.
Chiara Ventura
Biografia di Chiara Ventura nasce a Verona il 19 giugno 1997,vive e lavora tra Verona e Venezia. Di formazione pittorica, giunge ad analizzare i comportamenti e le forme gestuali attraverso, principalmente, la pratica performativa, con attenzione agli aspetti minimali e semplici. Per un’indagine sullo sguardo e sulle capacità d’osservazione nei contesti quotidiani, di routine, le sue performance ed i suoi interventi assumono spesso un carattere mimetico che predilige il contesto extra-artistico, indagando e denunciando gli aspetti più subdoli delle forme di violenza presenti nella società contemporanea. Il lavoro di Ventura è prettamente di carattere esistenziale, dove la biografia diventa cifra. Nel 2020, in piena pandemia da COVID-19, co-fonda insieme a Romina Cemin, il progetto collettivo menodi30caratteri con il quale indaga e denuncia le problematiche che il mondo virtuale produce nel mondo reale attraverso un account Instagram (il progetto muore un anno dopo con la chiusura del profilo). Nello stesso anno co-fonda, insieme a Leonardo Avesani e Giulio Ancona, Plurale.
Roma-La mostra dell’Artista malesiano Kamal Sabran: Nafas-
Roma-Nafas a cura di Camilla Boemio, è la prima mostra romana dell’artista malesiano Kamal Sabran.
La parola “Nafas“, che in malese significa respiro, è profondamente simbolica e stratificata nel significato. Rappresenta la vita, il movimento, il ritmo e le forze invisibili che sostengono l’esistenza. Come titolo, “Nafas” è potente nella sua semplicità, ma espansivo nella sua interpretazione. È una connessione tra la natura e l’esperienza umana.
Il respiro è anche un atto di ricordo. I video dell’artista catturano il polso di paesaggi che esistono da tempo, ma che sono in continua evoluzione, come ricordi trasportati dal vento o il respiro silenzioso della terra in attesa di rinnovamento.
Sabran è stato uno degli artisti presentati nella mostra Pera + Flora + Fauna. The Story of Indigenousness and The Ownership of History, evento ufficiale collaterale della 59a edizione della Biennale di Venezia, nel 2022, commissionato da PORT e dal Governo dello stato di Perak, Malesia.
La mostra si compone di due lavori video: Ssegar Angin, presentato la prima volta alla Biennale di Venezia nel 2022 e Bendang, video inedito.
Proprio come il respiro sostiene la vita, Ssegar Angin e Bendang esplorano l’interconnessione dell’esistenza umana con la natura. L’aria mutevole, i campi ondeggianti e i sottili cambiamenti di luce e consistenza ci ricordano che tutto respira insieme in armonia.
In Ssegar Angin, il regista Sabran evoca un fluido arazzo in movimento, composto dal suono e da un rituale ancestrale, una performance che trasporta dolcemente lo spettatore lungo le correnti del fiume Perak a Ipoh, a Perak, in Malesia. L’opera non è semplicemente girata in esterni; nasce dalla superficie riflettente e in continuo cambiamento dell’acqua e dallo spirito senza tempo delle tradizioni curative malesi.
Sullo sfondo dei ritmi fluidi del fiume Perak, Ssegar Angin cattura sia la dimensione fisica che quella simbolica della natura. L’acqua increspata diventa uno specchio di trasformazione interiore, un palcoscenico vivente in cui gli elementi vengono reinventati come agenti di guarigione. Questa connessione con il mondo naturale è parte integrante dell’intento della performance, suggerendo che il restauro e il rinnovamento sono parte del paesaggio tanto quanto lo spirito umano.
La seconda opera proiettata, Bendang, si dispiega come un’odissea evocativa nell’anima dei campi di riso di Ipoh, dove le forze elementari della terra e dell’aria si fondono con l’antico battito del rituale culturale. Diretto da Kamal Sabran e in collaborazione con la coreografa Aida Redza, questo spettacolo trascende i confini convenzionali, fondendo movimento, spazio e suono in un’opera d’arte viva e pulsante.
La coreografia di Aida Redza è un dialogo luminoso tra fluidità e precisione. Ogni gesto, sia spontaneo che meticolosamente raffinato, riecheggia la cadenza senza tempo della natura stessa. Il suo stile di movimento, caratterizzato da una sorprendente miscela di vulnerabilità e forza, trasforma il corpo umano in un veicolo di espressione, catturando i momenti effimeri tra terra e cielo. Nelle sue mani, il palcoscenico diventa una tela su cui convergono i sussurri del passato e gli impulsi del presente, evocando ricordi di riti ancestrali e rituali di guarigione che hanno a lungo sostenuto il nostro spirito culturale.
A sostenere questa poesia cinetica c’è un paesaggio sonoro sperimentale ancorato all’armonium. I suoi droni risonanti, reinventati attraverso un’innovativa manipolazione sonora, creano un arazzo uditivo che è tanto inquietante quanto trasformativo. Il timbro meditativo dell’armonium permea l’atmosfera, tessendo un dialogo sottile, ma implacabile, con le fasi coreografiche. È un suono che ronza con il misticismo della tradizione, ma pulsa con un tocco contemporaneo: un ponte sonoro che collega i ritmi terrestri dei campi di Ipoh con la vasta distesa della coscienza interiore.
Ambientato tra i vasti campi di riso di Ipoh, Bendang è sia un omaggio, che una reinvenzione del patrimonio culturale malese. La visione registica di Sabran trasforma il paesaggio in un partecipante vivente della performance, impregnando l’ambiente naturale di risonanza simbolica. Qui, i campi non sono semplicemente uno sfondo; sono narratori attivi che raccontano i cicli di crescita, decadimento e rinnovamento, una metafora dell’eterno viaggio dello spirito umano.
In Bendang, ogni movimento e nota diventano una meditazione della trasformazione. L’opera è un invito ad arrendersi al potere curativo dell’arte, una chiamata a riconnettersi con le energie primordiali che plasmano il nostro mondo e a risvegliare le forze dormienti dentro di noi. Attraverso questa sintesi di poesia visiva e suono sperimentale, la performance emerge come un rituale luminoso di rinascita, dove tradizione e innovazione si fondono in una danza che è senza tempo, ma anche urgentemente contemporanea.
Biografia
Kamal Sabran è un ricercatore multidisciplinare visionario la cui pratica creativa attraversa i le sfere del suono, della musica, della tecnologia e delle scienze della salute. Il suo lavoro è una fusione di tradizione e innovazione. Da visionario, l’artista re-immagina gli strumenti musicali tradizionali malesi e i rituali di guarigione attraverso una lente contemporanea e sperimentale. Come docente senior presso l’USM, Kamal porta un profondo rigore accademico alla sua pratica, esplorando il potenziale terapeutico degli interventi basati sull’arte che arricchiscono il benessere mentale e la funzione cognitiva.
Kamal Sabran è fondatore dello Space Gambus Experiment, un collettivo d’avanguardia di sound art, e della Ipoh Experimental Art School, che amplia i confini dell’espressione creativa. I suoi progetti di collaborazione con ospedali, università e istituzioni culturali esemplificano la sua dedizione all’uso dell’arte come catalizzatore per la guarigione, la conservazione culturale e l’innovazione.
Nel 2015, è stato scelto per frequentare la residenza 18th Street Art Center, a Santa Monica, negli Stati Uniti. Tra i progetti interdisciplinari rivoluzionari, annoveriamo: Totsu-Totsu Dance Research, sostenuto dal Governo del Giappone (2022); Music for Mental Health, in collaborazione con Langdon Hospital, Inghilterra (2021); Sound-Dance for Dementia Patients, finanziato dal Japan Foundation Grant (2020); The Healing Art Project, sostenuto dal Ministero delle Comunicazioni della Malesia (2020). Tra i premi ricevuti, il recente Jury Grand Prix, 24th Shanghai International Film Festival, per avere realizzato la colonna sonora del film Barbarian Invasion (2021).
Informazioni, orari e prezzi
Sede AOCF 58 – Galleria BRUNO LISI, via Flaminia 58 – Roma (metro A fermata Flaminio)
Artista Kamal Sabran
Titolo Nafas
A cura di Camilla Boemio
Graphic design Gabriele Mizzoni
Ringraziamenti la cantina Le Caniette
Inaugurazione lunedì 3 Marzo 2025, dalle 18,00 alle 20,30
Periodo dal 3 al 21 marzo 2025
Orario dal martedì al venerdì 17,00 alle 19,30
a cura di Francesco Dalessandro – Interno Editoria-
Deascrizione del libro di Isaac Rosenberg “In trincea “presenta una vasta scelta delle poesie di uno dei più originali ed isolati poeti inglesi così detti “di guerra”. Già autore di due libri prima dell’arruolamento, nel 1914, Rosenberg scrive, infatti, alcune delle più belle e crudeli poesie sulla guerra, nelle quali parla delle cose concrete che poteva osservare in caserma, in trincea, nelle infermerie. Nei versi dei poeti coevi, come il più noto Wilfred Owen, leggiamo amarezza e indignazione per l’orrore della guerra. Non così nella poesia di Rosenberg. Per qualche straordinario motivo egli riesce a mantenersi emotivamente distaccato dalle terribili cose che accadono intorno a lui, e alle quali è esposto, registrandole minuziosamente ma obiettivamente, e, sostenuto da una viva intelligenza del linguaggio, a trasformarle in una poesia di grande qualità immaginativa. Quella “sorprendente carica di originalità” e “sbalorditiva abilità tecnica” – delle quali parla un critico di primo piano come F. R. Leavis – sono felicemente rese in lingua italiana dal poeta e traduttore Francesco Dalessandro che, con le sue raffinate versioni, sempre rispettose del testo originale, coadiuvato dal prezioso contributo prefatorio di Franco Lonati, ci aiutano a riscoprire e ad apprezzare la poesia di Isaac Rosenberg.
Isaac Rosenberg
Fleet Street
From north and south, from east and west,
Here in one shrieking vortex meet
These streams of life, made manifest
Along the shaking quivering street.
Its pulse and heart that throbs and glows
As if strife were its repose.
I shut my ear to such rude sounds
As reach a harsh discordant note,
Till, melting into what surrounds,
My soul doth with the current float,
And from the turmoil and the strife
Wakes all the melody of life.
The stony buildings blindly stare
Unconscious of the crime within,
While man returns his fellow’s glare
The secrets of his soul to win.
And each man passes from his place,
None heed. A shadow leaves such trace.
*
Fleet Street
Da nord e da sud, da ovest e da est,
qui in un solo vortice ululante s’incontrano
quelle correnti di vita, evidenti
nell’agitazione della strada palpitante.
Polso e cuore battono e brillano
come fosse la lotta il loro riposo.
Chiudo l’orecchio a suoni tanto rozzi
che toccano un’aspra nota dissonante,
finché, fusa in ciò che la circonda,
la mia anima fluttua con la corrente
e dal tumulto e dalla lotta
desta l’intera melodia della vita.
Gli edifici di pietra sono fissi e ciechi
inconsapevoli dei crimini al loro interno,
mentre gli uomini si scambiano occhiate
per carpirsi i segreti dell’anima.
Ognuno va per la sua strada, ignaro
degli altri. Un’ombra lascia qualche traccia.
*
Isaac Rosenberg
On receiving News of the War
Snow is a strange white word;
No ice or frost
Have asked of bud or bird
For Winter’s cost.
Yet ice and frost and snow
From earth to sky
This Summer land doth know,
No man knows why.
In all men’s hearts it is.
Some spirit old
Hath turned with malign kiss
Our lives to mould.
Red fangs have torn His face.
God’s blood is shed.
He mourns from His lone place
His children dead.
O! ancient crimson curse!
Corrode, consume.
Give back this universe
Its pristine bloom.
*
Ricevendo notizie della guerra
Neve è una strana parola bianca.
Ghiaccio o gelo non ha
chiesto a germoglio o uccello
il costo dell’inverno.
Ma ghiaccio gelo e neve
dalla terra su al cielo conosce
questo paese d’Estate.
Nessuno sa perché.
È in ogni cuore d’uomo.
Qualche spirito antico
con un bacio malvagio ha trasformato
le nostre vite in muffa.
Rosse zanne hanno straziato il volto
di Dio, sparso il suo sangue.
Dalla sua solitaria dimora
lui piange i figli morti.
Rossa condanna antica,
corrodi, consuma!
Rendi a quest’universo
il nativo fiorire.
*
Break of Day in the Trenches
The darkness crumbles away.
It is the same old druid Time as ever,
Only a live thing leaps my hand,
A queer sardonic rat,
As I pull the parapet’s poppy
To stick behind my ear.
Droll rat, they would shoot you if they knew
Your cosmopolitan sympathies.
Now you have touched this English hand
You will do the same to a German
Soon, no doubt, if it be your pleasure
To cross the sleeping green between.
It seems you inwardly grin as you pass
Strong eyes, fine limbs, haughty athletes,
Less chanced than you for life,
Bonds to the whims of murder,
Sprawled in the bowels of the earth,
The torn fields of France.
What do you see in our eyes
At the shrieking iron and flame
Hurled through still heavens?
What quaver—what heart aghast?
Poppies whose roots are in man’s veins
Drop, and are ever dropping;
But mine in my ear is safe—
Just a little white with the dust.
*
Isaac Rosenberg
Spunta il giorno in trincea
L’oscurità si sgretola.
Il Tempo è il solito vecchio druido,
soltanto qualcosa di vivo scavalca la mia mano
uno strano sardonico topo,
mentre colgo il papavero del parapetto
e me lo metto all’orecchio.
Buffo topo, ti sparerebbero se sapessero
le tue simpatie cosmopolite.
Dopo avere sfiorato questa mano inglese
farai lo stesso con una tedesca,
e presto, certamente, se ti piace
attraversare il verde che fra noi sonnecchia.
Sembri ridere nell’intimo mentre superi
occhi forti, belle membra, atleti superbi,
meno fortunati di te nella vita,
legati ai capricci dell’assassinio,
allungati nel ventre della terra,
i campi squarciati di Francia.
Cosa vedi nei nostri occhi
al ferro e al fuoco scagliati
urlanti attraverso cieli attoniti?
Quale tremito – quale cuore atterrito?
Mentre cadono, continuano a cadere
papaveri radicati nelle vene dell’uomo,
ma il mio dietro l’orecchio è al sicuro –
appena un po’ imbiancato dalla polvere.
La casa editrice, fondata con l’obiettivo di diversificare la ricerca e la proposta culturale nel panorama dell’editoria poetica, è figlia dell’esperienza dell’omonimo blog Interno Poesia, creato ad aprile 2014. Tutto il catalogo è distribuito in esclusiva da Messaggerie Libri e promosso da Emme Promozione.
In redazione: Andrea Cati, fondatore e direttore editoriale; Andrea Cati, Andrea Cati, editor e direzione creativa. Collaborano con la redazione: Marzia Pelati, Valerio Grutt, Giulia Martini, Sofia Fiorini, Chiara Calò, Anna Aresi, Andrea Sirotti e Giorgia Sensi.
Roma-Chromotherapia . La fotografia a colori che rende felici-
Accademia di Francia – Villa Medici-
Roma- Curata da Maurizio Cattelan e Sam Stourdzé, la mostra ospitata all’Accademia di Francia – Villa Medici ripercorre la storia della fotografia a colori lungo tutto il XX secolo attraverso lo sguardo di 20 artisti, con un itinerario espositivo articolato in 7 sezioni che ci trasporta in un mondo dominato da colori vibranti – giallo limone, blu intenso, rosso vivo e arancione brillante.
La conquista del colore in fotografia segue di poco l’invenzione del mezzo con i primi esperimenti a scopo scientifico a metà dell’Ottocento. Dal 1907, con la messa a punto del primo procedimento fotografico industriale a colori grazie all’autochrome, creato dai fratelli Lumière, iniziò un secolo di sperimentazione cromatica e il colore divenne un elemento narrativo essenziale. Anche se ha spesso goduto di una minore fortuna rispetto al bianco e nero, la fotografia a colori ha permesso agli fotografi di sbizzarrirsi, di ridipingere il mondo flirtando con il pop, il surrealismo, il bling, il kitsch e il barocco e infondendo nelle immagini vita e emozioni.
Questa visione intensamente cromatica del mondo emerge per esempio nelle foto di William Wegman, che immortala i suoi cani trasformandoli in icone artistiche; nei gatti fotografati su sfondi saturi da Walter Chandoha, soprannominato “The Cat Photographer”; nei toni vibranti utilizzati da Ouka Leele per cogliere la liberazione dei corpi nel contesto della rivoluzione culturale e sociale della Movida; nello stravolgimento delle convenzioni visive del cinema e della pubblicità presente negli scatti di Juno Calypso; o ancora nei vassoi di patatine fritte su cui Martin Parr dirige l’obiettivo per alludere in modo ironico alla bulimia del mondo moderno. Degno discendente di questi artisti è, in anni più recenti, il magazine Toiletpaper ideato da Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari, che dialoga e si nutre di questa piccola storia sfavillante e cromatica.
Artisti: Miles Aldridge, Erwin Blumenfeld, Guy Bourdin, Juno Calypso, Walter Chandoha, Harold Edgerton, Hassan Hajjaj, Hiro, Ouka Leele, Madame Yevonde, Arnold Odermatt, Ruth Ginika Ossai, Martin Parr, Pierre et Gilles, Alex Prager, Adrienne Raquel, Sandy Skoglund, Toiletpaper (Maurizio Cattelan & Pierpaolo Ferrari), William Wegman.
Storia e fortuna di una canzone: dalla resistenza italiana all’universalità delle resistenze
Interlinea edizioni
Descrizione-Ormai Bella ciao è tornata a essere una canzone dei giovani e circola anche all’estero, grazie alla serie Netflix La casa di carta e ai cori delle piazze invase dalle “sardine”. Ma le sue origini sono a lungo rimaste sconosciute, con vere e proprie fake news che negano il suo legame con la lotta partigiana. Il maggiore storico della cultura orale, Cesare Bermani, ricostruisce l’avventura di questo canto popolare «così amato da chi vuole la libertà».
Oltre Bella ciao. Storie di resistenza
Cesare Bermani, ricostruisce l’avventura di questo canto popolare «così amato da chi vuole la libertà».
Il 24 aprile su Radio 3-Farenheit è andata in onda l’intervista a cura di Loredana Lipparini allo storico Cesare Bermani, per raccontare il suo nuovo libro “Bella ciao”
Di seguito trascriviamo parte dell’intervista:
Cominciamo da una storia che abbiamo sentito cantare da ultimo in un video pochissimi giorni fa dai vigili del fuoco inglesi dedicandola all’Italia. L’abbiamo ascoltata anche a sorpresa in una serie tv molto popolare La casa di carta e la sentiremo cantare domani comunque, e in qualsiasi forma. Ma la storia di Bella ciao è più lunga e riserva anche delle sorprese, come racconta Cesare Bermani. Cesare Bermani è tra i fondatori dell’Istituto Ernesto de Martino, è stato tra i primi ad utilizzare le fonti orali per la ricostruzione storica e per Interlinea ha pubblicato Bella ciao. Storia e fortuna di una canzone: dalla resistenza italiana all’universalità delle resistenze
Prima domanda. Ma la canzone della resistenza era Fischia il vento, lei scrive, è cosi?
Al Nord sicuramente Fischia il vento era molto popolare e molto cantata. Però in centro Italia veniva cantata anche Bella ciao, forse soprattutto Bella ciao, dalla formazione della Brigata Maiella e dalle formazioni che diedero vita a Montefiorino. Questo però all’inizio non lo sapevamo. Infatti spesso, quando facemmo lo spettacolo Bella ciao a Spoleto..
Quello spettacolo del ‘64 che suscitò un putiferio?
Si quello. Io mi occupavo del fascicolo che veniva poi usato in teatro, e quello che scrissi allora era che non c’erano prove che Bella ciao fosse stata cantata durante al Resistenza. Ma scrivevo questo perché allora non avevamo ancora fatto la ricerca su Bella ciao, nessuno si era preso la briga di andare a vedere se era vero o no che la canzone fosse stata cantata durante la Resistenza. Immediatamente dopo abbiamo fatto ampie ricerche e abbiamo emendato questo nostro errore iniziale dovuto anche al fatto che abbiamo imparato a fare ricerca sul campo e quindi facendo errori. A questo punto si può dire che è una bufala, o meglio un’auto-bufala, che Bella ciao non fosse cantato durante la Resistenza.
Riassumendo per ora, Fischia il vento nasce al nord in formazione partigiana comunista. La seconda ?
Ci sono due versioni, perché sono nate indipendentemente l’una dall’altra. Quella della Brigata Maiella che poi è venuta su al nord con la quinta armata è una canzone che ha delle strofe che parlano della Brigata Maiella, e questa canzone veniva cantata soprattutto quando avvenivano degli spostamenti, perché quando si spara è un po’ difficile cantare, ma quando ci si muove il canto viene naturale nelle formazioni partigiane. Una è la canzone della Maiella che solo molto tardi grazie ad una lettera che un partigiano scrisse a Indro Montanelli sul Corriere della Sera indicando che loro cantavano questa canzone. Questo partigiano, che poi io intervistai, si chiamava Proserpio, mi fece capire con precisione che si trattava di una trasformazione della canzone epico lirica Fior di tomba.
Che però era della prima guerra mondiale?
Anche prima, era una canzone popolare che poi venne adattata nella prima guerra mondiale e che venne nuovamente riadattata nella guerra partigiana e ne abbiamo almeno due versioni. Una è quella della Maiella, l’altra è quella dei partigiani che si trovavano di partecipare alla Repubblica i Montefiorino. Questi due testi sono molto diversi, però per tutti e due si capisce con chiarezza che sono trasformazioni di Fior di tomba. Come lei sa le canzoni popolari si trasformano..
E il canto delle mondariso, delle mondine?
Anche questa è una storia abbastanza divertente. Perché noi sentimmo per la prima volta il canto delle mondine da Givanna Daffini, la quale infondo ci imbrogliò raccontando che l’aveva cantata durante il fascismo. Questo perché Giovanna Daffini aveva capito che noi ricercatori eravamo particolarmente interessati a canzoni di protesta durante il regime fascista: in realtà la canzone che lei ci cantò e che prendemmo per buona, poiché eravamo degli apprendisti alle prime armi, saltò poi fuori non fosse così. Perché ci fu un certo Vasco Scansani, che aveva fatto il partigiano in Emilia, il quale rivendicò di averla fatta durante una riunione di teatro nel ‘51-52. Ci sembrò bellissimo che Bella ciao provenisse da una canzone partigiana e una canzone di lavoro, ma in realtà le cose non stavano così.
Bella ciao: dalla Liberazione alle Sardine e Netflix
Cesare Bermani-Bella ciao-
La fortuna di Bella ciao dalla Liberazione alle Sardine e Netflix: un libro sulla canzone diventata inno anche dell’emergenza Covid-19
Il maggiore storico italiano della tradizione orale, Cesare Bermani, rilegge l’evoluzione della canzone in un libro di Interlinea: Bella ciao. Storia e fortuna di una canzone: dalla resistenza italiana all’universalità delle resistenza. Cantata sui balconi dell’emergenza sanitaria e dai protagonisti della serie tv La casa di carta, nelle piazze delle “sardine” e sempre più all’estero, Bella ciao è diventata una delle canzoni più celebri nel mondo e in occasione del 25 aprile 2020.
Cesare Bermani, nato a Novara nel 1937 e tra i fondatori dell’Istituto Ernesto de Martino, ricostruisce l’avventura di questo canto popolare «così amato da chi vuole la libertà» e per Interlinea ha curato il romanzo della Marchesa Colombi In risaia con Silvia Benatti e il romanzo inedito di Ernesto Ragazzoni L’ultima dea.
In occasione dell’uscita del suo libro, l’abbiamo intervistato per sfogliare in anteprima le pagine di Bella ciao.
Nonostante la canzone per antonomasia associata alla Resistenza italiana e nel mondo sia Bella ciao, nel suo libro lei ci parla di un’altra canzone più nota in quegli anni.
Nel periodo della Resistenza circolavano tantissime canzoni. Le diverse brigate avevano a volte anche inni che le connotavano, ma non ebbero mai un inno ufficiale. Tuttavia la canzone di gran lunga più popolare, e non solo fra le brigate garibaldine, soprattutto al Nord, fu Fischia il vento. Se si vuole accostare Fischia il vento a Bella ciao occorre però dire che sono state all’origine canzoni profondamente diverse. La prima è un canto nato al Nord in una formazione partigiana comunista ed è un canto prevalentemente antifascista, che spesso non nasconde come la finalità della lotta sia la realizzazione di un’Italia socialista, e comunque sempre profondamente diversa da quella lasciata in eredità dal fascismo.
La seconda è con ogni probabilità nata in Abruzzo, dove la Resistenza ha avuto una connotazione ben diversa che al Nord, in una formazione partigiana non garibaldina ed è un canto contro l’invasore tedesco.
Se Fischia il vento fu la canzone più cantata della Resistenza, tuttavia anche Bella ciao fu cantata dalle formazioni partigiane che dal Centro Italia salirono al Nord affiancate agli Alleati. Ed è a essa, oggi identificata come la canzone della Resistenza italiana, che è toccato poi di diventare l’inno di tutti i ribelli del mondo.
A cosa si deve quindi il successo poi crescente di Bella ciao?
Fischia il vento venne ampiamente e rapidamente sostituita da Bella ciao, in un processo spontaneo di massa che fu certo influenzato dal nuovo quadro politico ma non solo: giocarono infatti anche trasformazioni complessive del gusto musicale e l’accompagnamento con il battito delle mani, non ultima ragione della fortuna di Bella ciao. Così una canzone non connotata dal punto di vista politico e accennante solo all’«invasor», quindi in grado di essere fatta propria da tutti i partigiani, divenne nel giro di pochi anni la canzone per antonomasia della Resistenza. Cantata in ogni manifestazione, Bella ciao partigiana divenne quindi dalla metà degli anni sessanta anche la matrice testuale e musicale di varie canzoni di fabbrica, di partiti e di gruppi politici. Con l’avvento del centrosinistra la Resistenza diventò infatti il fondamento della ideologia della «Repubblica nata dalla Resistenza» e della «guerra di liberazione nazionale», un vero e proprio canone ufficiale di auto interpretazione, e la canzone un’auto legittimazione della Repubblica.
Come mai sono circolate così tante fake news intorno a questa canzone?
Le origini di Bella ciao sono a lungo rimaste sconosciute. Questo è dipeso dal fatto che per un non breve periodo la canzone è stata ignorata dai libri di storia e dai canzonieri della Resistenza, ciò che ha permesso alla bufala che non sia stata cantata nei mesi della lotta partigiana di giungere sino a oggi, accreditata purtroppo anche da giornalisti studiosi quali Bepi De Marzi, Arrigo Petacco, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, tanto da poter essere ribadita nel 2018 anche dal giornalista Luigi Morrone.
Come viene usata oggi nel mondo questa canzone?
Dopo una momentanea decrescita negli anni Settanta, Bella ciao riprese tutto il suo vigore contestativo nel 2001, nelle manifestazioni contro il G8 di Genova, venendo da allora cantata dovunque ci siano conflitti. Divenuto uno dei canti di resistenza dei giovani del Leftist Jordanian Movement, cantatissimo durante le rivolte arabe del 2011 dai giovani mediorientali di sinistra, cantata dai giovani del Parco di Gezi a Istanbul contro l’abbattimento di centinaia di alberi per costruire un centro commerciale, ha dato inizio a una mobilitazione in difesa dei diritti civili repressa ferocemente da Erdogan. Nel 2012 un’iniziativa del regista e ambientalista belga Nic Balthasar aveva invitato a registrare musica e parole della canzone su un video per inviarlo agli organizzatori delle lotte ambientaliste, coinvolgendo circa 380 000 persone di ogni parte del mondo. Già in precedenza, sull’aria di Bella ciao, va almeno segnalata Sing for the climate (Canta per il clima), che è diventata la colonna sonora della protesta globale contro gli sconvolgimenti climatici. In Francia il 15 maggio 2016 Bella ciao è stata suonata a Parigi durante la rivolta contro la legge sul lavoro di François Hollande. In Spagna la canzone è diventata la colonna sonora della serie tv La casa di carta (2017), lanciata dalla multinazionale Netflix e divenuta forse la trasmissione a puntate più vista al mondo. Infine in Italia tra novembre 2019 e febbraio 2020 le manifestazioni delle “sardine” sono state accompagnate dall’inno di Bella ciao.
Come detto in precedenza Bella ciao è considerata l’inno per eccellenza alla libertà. Ma come mai?
Risponderei con una citazione di Moni Ovadia che ho inserito nel finale del libro, tratta dalla prefazione a “Bella ciao”. La canzone della libertà di Carlo Pestelli:
«Ho sempre pensato che la capacità di un canto di suscitare adesione, emozione e coinvolgimento sia la prova provata dell’universalità della condizione umana al di là di confini, nazioni, sistemi di governo e persino delle differenze culturali e delle lingue che pure rappresentano l’espressione della bellezza e del genio molteplice di una comune appartenenza antropologica e di un solo destino: il destino condiviso per la passione della libertà.»
Non credo si possa esprimere meglio perché questo canto sia oggi così amato da chi vuole la libertà e contemporaneamente avversato da ogni genere di reazionario.
Cesare Bermani (Novara 1937), tra i fondatori dell’Istituto Ernesto de Martino, è stato fra i primi a utilizzare criticamente le fonti orali ai fini della ricostruzione storica.È autore di molti libri tra cui Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione economica italiana. 1937-1945 (Bollati Boringhieri, Torino 1988); Trentacinque anni di vita del Nuovo Canzoniere Italiano/Istituto Ernesto de Martino (Jaca Book, Milano 1997); Pane, rose e libertà. Le canzoni che hanno fatto l’Italia (Rizzoli, Milano 2011). Per Interlinea Cesare Bermani ha curato il romanzo della Marchesa Colombi In risaia (1994, con Silvia Benatti); le poesie in dialetto novarese di Sandro Bermani Un poeta, una città (2001); il romanzo di Ernesto Ragazzoni L’ultima dea (2004); i saggi «Vieni o maggio». Canto sociale, racconti di magia e ricordi di lotta della prima metà del XX secolo (2009) e Bella ciao. Storia e fortuna di una canzone: dalla resistenza italiana all’universalità delle resistenze (2020). Vive a Orta san Giulio dove ha sede il suo archivio di registrazioni sulla tradizione orale.
Peter Lindbergh and Azzedine Alaïa-Editore TASCHEN
Peter Lindbergh and Azzedine Alaïa, the photographer and the couturier, were united by their love of black, a love that they would cultivate alike in silver print and solid color garments. Lindbergh ceaselessly turned to black and white to signify his search for authenticity in the faces he brought to light. Alaïa drew on the monochrome of timeless clothes to create veritable sculptures for the body. In this book, the unique dialogue between the two artists is immortalized in print. Illustrating their community of spirit, its images are a celebration of their artistic partnership and testament to their history-making achievements in photography and fashion. Despite their geographically opposed origins, Lindbergh and Alaïa pursued similar horizons. At the same time as Lindbergh’s reputation in Germany was growing thanks to his work in Stern magazine, and he set up his studio in Paris in 1978, Alaïa was the couturier shrouded in discretion whose sophisticated techniques were a treasured secret amongst the most important clients of Haute Couture. Alaïa became the architect of bodies, revealing and unveiling them, while Lindbergh distinguished them by shining a light on their soul and personality. Step by step, they became the creators that dominated their respective disciplines. Both rejected any artifice that distracted from their true subject, and it is with great ease that they came together for a number of powerful collaborations. Shared inspirations and aesthetic values are visible throughout their work. A beach in Le Touquet and the streets of old Paris reference a mutual love of black and white cinema and vast panoramas. The backdrop of an engine room illustrates the memory of an industrial German landscape for one and references the inordinate passion for functional design and architecture held by the other. Alaïa’s clothes act as pedestals for the smiles and eyes of the women who wear them: Nadja Auermann, Mariacarla Boscono, Naomi Campbell, Anna Cleveland, Dilone, Lucy Dixon, Vanessa Duve, Helene Fischer, Pia Frithiof, Jade Jagger, Maria Johnson, Milla Jovovich, Lynne Koester, Ariane Koizumi, Yasmin Le Bon, Madonna, Kristen McMenamy, Tatjana Patitz, Linda Spierings, Tina Turner, Marie-Sophie Wilson, Lindsey Wixson. For Lindbergh, who built his notoriety on the images of these supermodels, the authenticity of their traits is all that matters. The result is a potent black and white catalogue that reverberates with truthfulness and beauty.The book accompanies the exhibition Azzedine Alaïa, Peter Lindbergh at the Fondation Azzedine Alaïa, 18 rue de la verrerie, Paris, France. With contritutions by Fabrice Hergott, director of the Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Paolo Roversi, photographer, and Olivier Saillard, fashion historian and director of the Fondation Azzedine Alaïa, Paris.
Peter Lindbergh and Azzedine Alaïa-
Peter Lindbergh and Azzedine Alaïa-Peter Lindbergh and Azzedine Alaïa-Peter Lindbergh and Azzedine Alaïa-
Peter Lindbergh Dalla Polonia occupata alle copertine di Vogue
Noto soprattutto per i suoi memorabili scatti di moda, Peter Lindbergh è considerato uno dei fotografi contemporanei più influenti nell’estetica della fashion photography.
Lindbergh nasce nel 1944 a Leszno, nella Polonia occupata dai tedeschi e trascorre l’infanzia a Duisburg, in Germania. Da ragazzo lavora come vetrinista per i grandi magazzini Karstadt e Horten nella città tedesca in cui trascorre la sua giovinezza. Vivendo in una zona della Germania vicina ai Paesi Bassi, Peter Lindbergh trascorre le sue prime vacanze estive con la famiglia, frequentando la costa olandese nella zona di Noordwijk. Le vaste spiagge della sua gioventù e gli ambienti industriali tedeschi costituiscono quindi il paesaggio più ricorrente nell’immaginario artistico di Peter Lindbergh che, all’inizio degli anni Sessanta, si trasferisce in Svizzera, a Lucerna, per poi fermarsi poco dopo a Berlino dove si iscrive all’Accademia di Belle Arti. In giovinezza è sulle tracce del suo idolo, Vincent van Gogh, per questa ragione è spesso ad Arles e visita la Spagna e il Marocco, trascorrendo due anni in viaggio. Il ritorno di Peter Lindbergh in Germania coincide con la frequentazione del Kunsthochschule (College of Art) di Krefeld. Influenzato da Joseph Kosuth e dal movimento dell’arte concettuale, nel 1969 è invitato, prima di laurearsi, a presentare i suoi primi lavori alla Galerie Denise René. Dopo il trasferimento a Düsseldorf nel 1971, rivolge la sua attenzione alla fotografia e lavora per due anni come assistente del fotografo tedesco Hans Lux, prima di aprire il proprio studio nel 1973. Divenuto famoso nel suo paese natale, si unisce alla famiglia della rivista Stern insieme ai fotografi Helmut Newton, Guy Bourdin e Hans Feurer. Nel 1978, Peter Lindbergh si trasferisce a Parigi e inizia a lavorare con Vogue: le sue fotografie sono protagoniste della versione inglese, tedesca, francese, americana e italiana del prestigioso magazine di moda. Le sue collaborazioni continuano successivamente con Vanity Fair, Allure, Rolling Stone e The New Yorker. Nel 1988 fotografa la modella israeliana Michaela Bercu, in outfit Christian Lacroix, per la prima copertina di American Vogue sotto la direzione diAnna Wintour.
Tra le top model più celebri immortalate da Peter Lindbergh, vanno ricordate (tra le altre) Christy Turlington, Naomi Campbell, Kate Moss, Linda Evangelista, Cindy Crawford e Tatjana Patitz, alcune delle quali protagoniste di una spettacolare copertina per il numero gennaio 1990 dell’edizione britannica di Vogue.
a cura di Gianni Mussini,Matteo Munaretto e Matteo Giancotti-Editore Interlinea-
Descrizione del libro di Clemente Rebora-Frammenti Lirici- Editore Interlinea –Per la prima volta un’opera poetica del Novecento è spiegata con un commento tanto esteso, tra lingua stile e filologia, nella convinzione che sia l’«amore della parola» a far parlare il testo in tutte le sue implicazioni, rendendo conto anche dei passaggi più ardui e svelandone i più nascosti tesori. I Frammenti lirici di Clemente Rebora (secondo Contini una delle «personalità importanti dell’espressionismo europeo»), usciti nel 1913 in pieno clima vociano, sono la grande avventura di un giovane che vuole misurarsi con il mondo degli affetti, delle idee, delle parole, dei suoni, e tutto fondere a tentare una verità percepibile ma non sempre rivelabile. Come scrive nel primo frammento: «Qui nasce, qui muore il mio canto: E parrà forse vano, Accordo solitario; Ma tu che ascolti, rècalo, Al tuo bene e al tuo male: E non ti sarà oscuro».
Clemente Rebora-Frammenti Lirici
Cenni Biografici
Clemente Rebora 1952
Clemente Rebora nasce a Milano il 6 gennaio 1885. Frequenta, ivi, tutte le scuole: dalle elementari al ginnasio-liceo (Parini), all’università (Accademia Scientifico-Letteraria) dove si laurea in Lettere. Dal 1910 al 1915 insegna a Milano, Treviglio e Novara. Ufficiale nella Grande Guerra 1915. Insegna a Como e a Milano. Quivi, anche all’Accademia Libera “Cento”. Nel 1929 viene alla Fede. Nel 1931 è novizio dell’Istituto della Carità (Padri Rosminiani) al Monte Calvario di Domodossola. 13 maggio 1933: ivi, emette la sua professione religiosa. 1936 (20 settembre): ordinato sacerdote a Domodossola. Vive a Stresa, nel Collegio Rosmini». Così l’asciutta Nota biografica dettata dal poeta per la prima edizione nel dicembre 1955 del Curriculum vitae (che riceve il premio “Cittadella”). Aggiungiamo che dall’ottobre di quello stesso anno è infermo a letto, ma un’emorragia cerebrale lo aveva colto già tre anni prima. Dopo una passio fisica e spirituale durata venticinque mesi muore il 1° novembre 1957. Scrive il giorno dopo Eugenio Montale per il “Corriere della sera”: «È un conforto pensare che il calvario dei suoi ultimi anni – la sua distruzione fisica – sia stato per lui, probabilmente, la parte più inebriante del suo curriculum vitae».
Clemente Rebora-Frammenti Lirici
Per il resto, occorre almeno segnalare la giovinezza intellettualmente intensa, in amicizia con Antonio Banfi, Angelo Monteverdi, Michele Cascella, Sibilla Aleramo (legandosi affettivamente alla pianista russa Lidia Natus, grazie alla quale potrà tradurre opere di Andreef, Tolstòj e Gogol’), la collaborazione a riviste letterarie e in particolare alla “Voce” di Prezzolini, che nel giugno del 1913 gli pubblica i Frammenti lirici, mentre per le edizioni del “Convegno” escono nel 1922 i Canti anonimi, sette anni dopo un trauma provocato dall’esplosione di un obice mentre combatteva la Grande Guerra sul Podgora: gliene verrà un grave esaurimento nervoso diagnosticatogli emblematicamente come «mania dell’eterno». Finita la guerra, crescono i suoi interessi religiosi, che si innestano in una profonda fede mazziniana; e avverte l’urgenza di un impegno sociale, anche nell’insegnamento. Tiene corsi e conferenze. Nel 1928 al Lyceum di Milano, nell’ambito di una serie di incontri sulla storia delle religioni, inizia a parlare degli Atti dei Martiri Scillitani, ma s’interrompe: «Esitò, si sforzò. La vista gli si annebbiava. Qualche cosa gli stringeva la gola. Si prese la testa fra le mani. Si sentì smarrito. Non fu capace di proseguire» (così Margherita Marchione). La conversione è matura. Il 24 novembre 1929 Rebora riceve la prima Comunione dal cardinal Schuster. Passa poi al Collegio Rosmini di Stresa, sotto la guida spirituale di padre Giuseppe Bozzetti. Prende i voti religiosi nel 1936. Nel 1947 il fratello Piero cura un’edizione delle Poesie per Vallecchi e, dopo il Curriculum, nel 1956 il giovane editore Vanni Scheiwiller fa uscire all’Insegna del Pesce d’Oro i Canti dell’infermità,accresciuti l’anno dopo; nel 1961 dà invece alle stampe una più completa edizione delle Poesie, poi replicata nel 1982.
Clemente Rebora-
Una recente edizione di tutte le poesie, negli “Elefanti” Garzanti, è del 1994 – poi più volte ristampata – a cura di Gianni Mussini e dello stesso Vanni Scheiwiller; ma ora quei testi sono leggibili anche nel “Meridiano” di Poesie, prose e traduzioni, a cura di Adele Dei e con la collaborazione di Paolo Maccari, pubblicato da Mondadori nel 2015 con un’informatissima Cronologia.
Matteo Munaretto (Canegrate, 1977) vive a Pavia, dove insegna italiano e latino in un liceo e collabora con l’ateneo pavese per l’insegnamento di Letteratura italiana moderna e contemporanea. Dottore di ricerca in filologia moderna, dedica i suoi studi alla poesia del Novecento, in particolare a Rebora e Luzi, sui quali ha pubblicazioni in riviste accademiche e atti di convegni. Ha collaborato all’edizione commentata dei Frammenti lirici di Rebora (a cura di G. Mussini e M. Giancotti, Interlinea, Novara 2008). Sue poesie sparse sono uscite su riviste (“Poeti e Poesia”, “Soglie”, “Gradiva”) e nell’antologia Il miele del silenzio. Antologia della giovane poesia italiana (a cura di G. Pontiggia, Interlinea, Novara 2009). Ha pubblicato la raccolta Arde nel Verde (prefazione di F. Bandini, Interlinea, Novara 2010), con riconoscimenti a premi nazionali (PontedilegnoPoesia, Caput Gauri, Antica Badia di San Savino). Una silloge successiva (ora forma la sezione Piccolo ciclo dei mesi del suo secondo libro, Il cielo è dei leggeri) è stata premiata al concorso InediTO – Colline di Torino, Salone del Libro 2012.
Silvia FUOCHI :”Metti un libro in mano a un bambino “
Silvia FUOCHI Metti un libro in mano a un bambino ,Accendere il cervello, o contrastare il suo spegnimento da parte delle “armi di distrazione di massa” significa produrre pensiero critico, la capacità di interpretare la realtà e di agire e reagire a essa in modo autonomo. Un elenco ragionato di buoni motivi per avvicinare i bambini alla lettura.–
Perché leggere ai bambini? La domanda risuona nelle case e, talvolta, anche nelle scuole. La lettura sembra essere un compito da svolgere “per forza” e, come tale, poco benvisto dai nostri bambini.
È vero che, secondo le statistiche, l’italiano medio è un pessimo lettore e, di conseguenza, è normale che non sappia proporre la lettura ai più giovani. La Playstation, il Nintendo ma anche la vecchia tv sembrano essere compagni graditi, facili da attivare e quindi preferibili. Alla luce della bella società che abbiamo preparato per i nostri bambini, però, forse qualche domanda è lecito porsela. Se i mezzi audiovisivi sono così esaustivi, perché la quotidianità delle famiglie è spesso negativa? Perché i nostri figli si rifugiano dietro uno schermo pur di non entrare in contatto con la realtà?
Sorge il sospetto, magari non fondato, che l’assenza della lettura nelle loro vite possa entrarci qualcosa. Leggere è un verbo attivo, che richiede attenzione e forse proprio questo aspetto lo rende poco apprezzato. Chi vive o lavora con i bambini, però, sa che quasi tutto lo si gioca all’inizio, nei primi anni di vita. Bambini che vedano libri nella propria casa e che si abituino a guardarli, sceglierli, magari stropicciarli o anche strapparli inaugurano con essi un rapporto che difficilmente si esaurirà. È possibile che serviranno anni perché, dopo la prima infanzia, essi tornino alla lettura ma quasi senza ombra di dubbio vi torneranno. E sarà un incontro tra vecchi amici che hanno molto da dirsi e non si stancheranno di farlo; un ritrovarsi per il piacere di farlo e di raccontarsi cose sempre nuove. Come tutti i vizi, infatti, anche quello del leggere non può essere considerato mai superato: prima o poi la tentazione torna e, questa volta, sarà davvero il caso di non resistere.
Anni fa Daniel Pennac, in un saggio ormai celebre, Come un romanzo [1], ha spiegato in modo esaustivo il valore della lettura, sia dal punto di vista culturale sia da quello sociale. Si consiglia questo bel testo, peraltro piacevole e non specialistico, sia a chi abbia un momento di lontananza dai libri sia a chi è investito dal compito, famigliare o lavorativo, di educare e seguire nella crescita bambini e ragazzi. Come diceva Italo Calvino, dobbiamo porci sulle spalle dei giganti per comprendere meglio la realtà. Il barone rampante [2] sale sugli alberi, perché “chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria” e la distanza può essere rappresentata da quel meraviglioso strumento che è il libro.
Il libro è un oggetto magico, del tutto particolare, che non ha avuto uguali nella storia dell’umanità, sia per la perfezione del design che per la diffusione. Nostro dovere, in quanto educatori, genitori, nonni, amici e comunque frequentatori di bambini, è quello di mediare il rapporto tra essi e di facilitare una conoscenza che ben presto diventerà complicità.
Poiché le liste, che vanno tanto di moda, sembrano essere un buono strumento per sviluppare tesi e regionamenti, ecco un elenco ragionato (come dicono quelli che se ne intendono) di buoni motivi per cui dovremmo iniziare i nostri bambini alla lettura – perché leggere (e non guardare la tv, giocare sulle consolle, scrollare il telefono etc. o, almeno, non solo):
Il libro è un fedele testimone da passare ai nostri bambini, in grado di riportare storie e Storia e, così, costruire la cosmogonia privata del piccolo lettore. Cappuccetto rosso e Napoleone, Harry Potter e la Shoah vanno insieme a costituire l’universo di conoscenze di cui, una volta adulto, si avvarrà per interpretare e affrontare le sfide quotidiane. Per far ciò sono necessarie fiabe e miti; saggi storici e biografie. Non esiste, crediamo, un genere che non sia utile alla crescita e all’edificazione del proprio mondo valoriale.
Spesso noi adulti siamo stanchi, ammettiamolo. La sera può essere difficile, dopo giornate sfibranti, dare un contributo significativo al vissuto dei figli (perché, non dimentichiamo che per loro ogni giorno è una pietra fondante e quindi deve aggiungere un mattoncino all’edificio). Leggere un libro insieme può rappresentare un momento di condivisione e affetto che potrà chiudere in bellezza la giornata trascorsa, arricchendo entrambi e lasciando l’idea di una esclusività di rapporto gratificante e rassicurante; e se ci addormenteremo insieme a letto o sul divano, e il libro cadrà dalle nostre mani, non preoccupiamocene. La sera successiva potremo riaprirlo e insieme, ricercare il punto a cui eravamo rimasti.
“Ogni parola che non impari oggi è un calcio nel culo domani” affermava don Lorenzo Milani [3] già nei lontani anni ’60. Il priore aveva capito, durante la sua esperienza educativa tra i più dimenticati, che per difendersi, affermarsi e farsi valere è necessario conoscere più parole possibile e saperle contestualizzare. Ne aveva già fatto le spese il buon Lorenzo Tramaglino, quindi niente di nuovo sotto il sole…
Dobbiamo dare parole ai più piccoli, affinché sappiano notare, qualificare e interpretare la realtà quotidiana, dando un nome a cose e persone, costruendo percorsi logici e sapendo reagire a quelli, non sempre positivi, altrui.
Netflix, così come tutte quelle che entrano nelle nostre case, è una piattaforma ricca di offerte, con contenuti continuamente aggiornati e catalogati in base al pubblico. Una biblioteca, però, è un’altra cosa. Esistono milioni, se non miliardi, di storie provenienti da ogni angolo del pianeta, scritte da ogni tipo di autore. Offrire ai più piccoli una raccolta di racconti nordamericani, slavi, scandinavi, africani, arabi etc. significa offrire loro la possibilità di vedere il mondo con gli occhi dei loro coetanei che non incontreranno mai e che spesso sono difficili da comprendere. La convivenza pacifica e l’integrazione richiedono conoscenza reciproca. Per voler bene, un bambino ha sempre bisogno di capire, di essere accolto e di accogliere. Pensiamo un attimo a che gesto rivoluzionario sarebbe iniziare ogni mattina a scuola con una breve lettura tratta da testi appartenenti alle tradizioni degli alunni: oggi un mito albanese, domani una fiaba romena o siriana, dopo un racconto italiano o francese. Ciò darebbe una struttura resistente all’edifcio della multicultura, di cui tanto si parla e in cui così pochi credono.
La curiosità accende l’intelligenza,e infatti le grandi dittature (ma anche quelle ridicole degli ultimi anni, come quella del disgraziato ventennio berlusconiano) hanno sempre fatto tutto il possibile per spegnere il nostro cervello. Il passato ha visto falò di libri sulle pubbliche piazze e roghi di autori pericolosi; oggi è più comodo creare canali televisivi dai criteri cognitivi più bassi possibile. Cambiano e si affinano i metodi ma la volontà del potere di non farci ragionare è immutata. Non importa processare Galileo, né bruciare vivo Giordano Bruno: l’azione veramente proficua è quella di impedire alle più belle intelligenze di nascere e svilupparsi. Se la memoria non ci inganna, il somaro principe, come Carlo Emilio Gadda [4] chiama Mussolini, quando intuì la forza della mente di Antonio Gramsci, diede ordine di “impedire a quel cervello di funzionare”. Spegnere il cervello, quindi. Stesso copione, seppure diversa la trama, ha seguito il potere politico contro quel cervello sovversivo che era Pier Paolo Pasolini. Il potere, però, si evolve, si perfeziona, si affina e quindi i nipotini del truce e della Democrazia Cristiana, sono andati oltre. Spegnere un cervello, infatti, può essere più difficile che non accenderlo. Ecco, quindi, i fantastici canali Mediaset, le veline, il Bagaglino: armi di distrazione di massa.
In questo contesto, quindi, fornire le nostre case di libri e metterli a disposizione dei più giovani significa escludere almeno in parte dal martellamento cui sono quotidianamente sottoposti. Accendere i loro occhi e le loro menti spegnendo contestualmente schermi e dispositivi.
Dobbiamo essere consapevoli di non poter essere sempre presenti nella vita di figli, nipoti e alunni. Ecco allora che sarà rassicurante saperli in buone mani. Così come vogliamo essere sicuri della baby sitter o del servizio cui li affidiamo, o così come tutte quelle che entrano nelle nostre case, del supplente che proseguirà il nostro lavoro, impariamo a scegliere con cura i libri da lasciare loro, per evitare momenti di noia. Guardiani delle loro ore vuote ne vengono in mente sin troppi: non saranno mai soli.
Acquistare libri insieme è un momento di straordinaria condivisione per una famiglia. Le librerie sono luoghi generalmente accoglienti, in cui il profumo della carta stampata già da solo stimola la curiosità. Giriamo tra scaffali, sediamoci con i nostri bimbi in braccio o con i nostri riottosi adolescenti accanto e lasciamoci conquistare da copertine colorate, nomi accattivanti, autori famosi o sconosciuti. Dobbiamo imparare a non imporci, a non voler prevalere. Se anche un libro ci sembra povero, banale o scontato, non neghiamolo a priori; acquistiamolo e leggiamolo insieme al bambino che l’ha scelto, senza far trapelare il nostro dissenso. Con questo metodo infallibile, io stessa mi sono liberata dei quattro volumi di Geronimo Stilton [5] (che è poverino e banale davvero) che i figli mi avevano estorto. È bastato alternarne la lettura con Pinocchio [6], La fabbrica di cioccolato [7], Il giardino segreto [8] e tanti altri. Si chiama selezione naturale, no?
Facciamo fare ad altri il lavoro sporco. Introdurre il tema della sessualità [9], per esempio, è spesso vissuto con disagio sia da genitori che da figli: lasciamo allora, come per caso, un bel volume colorato in giro per casa… e aspettiamo che se la cavi lui da solo. Ciò vale anche per temi pesanti come la morte o il disagio, che ci toccano sul vivo e quindi possono essere difficili da spiegare. Lasciamoci aiutare da chi sa farlo meglio di noi. Andiamo insieme in libreria e compriamo, come per caso, Mio nonno era un ciliegio [10] o Il pentolino di Antonino [11]. E buon lavoro a loro.
Un libro non si spegne mai: che siamo nel deserto, in cima all’Himalaia o in camera durante un blackout, basterà aprirlo e la magia ricomincerà. C’era una volta…
Fermiamoci qui, a nove comandamenti. Il decimo no, non lo si può scrivere; si trova già altrove, scritto da altro autore e stampato in altra pubblicazione e… ubi major…
Amen.
Articolo scritto da -Fonte Associazine La città futura
Note:
[1] Daniel Pennac, Come un romanzo, Milano, Feltrinelli, 1992.
[2] Italo Calvino, Il barone rampante, Torino, Einaudi, 1957.
[3] Lorenzo Comparetti Milani, Lettera ad una professoressa, Firenze, Editrice fiorentina, 1967.
[4] Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano, Grazanti, 1957.
[5] Elisabetta Dami, Geronimo Stilton (con all’attivo più di 120 titoli) edito prima da Dami, dal 1997 e poi Piemme.
[6] Carlo Collodi, Pinocchio, Firenze, Giunti e varie altre edizioni italiane, 1883.
[7] Roal Dahl, La fabbrica di cioccolato, Milano, Salani, 1967.
[8] Frances Hodgson Burnett, Il giardino segreto, varie edizioni italiane, 1911.
[9] AA VV, Amore, sesso & co. Per vivere al meglio la tua adolescenza, San Dorligo della Valle (Trieste), Einaudi ragazzi, 2009.
[10] Angela Nanetti, Mio nonno era un ciliegio, San Dorligo della Valle (Trieste), Einaudi ragazzi, 1998.
[11] Isabelle Carrier, Il pentolino di Antonino, Piazzola sul Brent, ed. Kite, 2015.
I testi sono indicati con l’editore italiano e l’anno di pubblicazione dell’edizione originale
Lucy Maud Montgomery nacque a New London, in Canada, nel 1874 e morì a Toronto nel 1942. Nella sua vita pubblicò numerosi libri per ragazzi, raggiungendo l’apice della popolarità nel 1908 con Anna dai capelli rossi, primo di una serie di otto romanzi, tutti pubblicati da Gallucci con una nuova traduzione di grande successo. Stampate in decine di lingue, le storie di Anna hanno continuato ad avere seguito fino a oggi, grazie anche alla celebre serie animata giapponese che la tv italiana ha trasmesso a partire dal 1980 e alla recente fiction distribuita da Netflix in tutto il mondo. La produzione letteraria della Montgomery, che va ben oltre Anna dai capelli rossi, è oggetto negli ultimi anni di una meritata riscoperta. Tra le sue opere più note ci sono la trilogia di Emily di New Moon, interamente pubblicata da Gallucci, e i due romanzi di Pat di Silver Bush, intenso omaggio al sentimento profondo che legò per tutta la vita Lucy Maud Montgomery all’Isola del Principe Edoardo, dove la scrittrice trascorse la sua infanzia.
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Anne of Green Gables is a beloved book. Readers fell in love with the story and main character right from the very beginning, when it was first published in 1908. Since then, the book has become a literary classic, captivating generations of readers with charm and spirit. It has even helped shape young adult literature, introducing a heroine whose imagination, intelligence, and determination resonated across time.
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Born on Prince Edward Island in 1874, Lucy’s childhood was shaped by both tragedy and imagination. Her mother died of tuberculosis before Lucy turned two, and her grief-stricken father left town alone, placing his young daughter in the care of her strict grandparents in the rural town of Cavendish.
There, in a house overlooking the island’s rolling fields and red cliffs, Maud, as she preferred to be called, found solace in books and the natural beauty around her. Often left alone, she developed a deep inner world, filling her solitude with stories she created in her mind.
By teenage years, Maud had begun writing in earnest, filling notebooks with poetry and short stories. She later wrote in her autobiography that storytelling ran in the family and that she had inherited the talent from her relatives. But Maud was also encouraged by a teacher, and as a result, submitted her first poem for publication at the age of 16. It was accepted by a local newspaper.
After high school, Maud pursued higher education, enrolling in Prince of Wales College, where she completed the two-year teaching program in just one year, graduating with honors. Then, she worked as a schoolteacher in small rural communities, a common path for educated women of her time.
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Teaching provided financial independence, but her true passion remained writing. In the evenings, after long days in the classroom, she filled pages with poetry and prose, submitting stories to magazines across Canada and beyond. The rejection letters piled up, but so did her determination.
In 1895, Montgomery took a bold step and enrolled at Dalhousie University in Halifax, Nova Scotia, to study literature. But after a year, financial constraints forced her to return to Cavendish. There, she continued teaching while also caring for her ailing grandmother. And just as before, she continued writing, publishing hundreds of short stories and poems in literary magazines, building a reputation as a skilled storyteller.
In 1905, she wrote a novel inspired by a childhood anecdote about an orphaned girl mistakenly sent to a family expecting a boy. She expanded on that small idea, bringing to life the spirited Anne Shirley in Anne of Green Gables. Confident in her work, Maud submitted the manuscript to several publishers, only to receive rejection after rejection.
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Undeterred, she set the manuscript aside in a hatbox for two years before trying again. In 1907, she sent it to L.C. Page & Company in Boston, and this time, the response was different. The publisher saw potential in the novel and agreed to print it. When Anne of Green Gables was released in 1908, it became an immediate success, selling over 19,000 copies in its first five months. It was just the beginning.
Ironically, though, Maud didn’t consider Anne of Green Gables her best work. That honor went to Emily of New Moon. “It is the best book I have ever written—and I have had more intense pleasure in writing it than any of the others—not even excepting Green Gables. I have lived it, and I hated to pen the last line and write finis,” Maud wrote about it.
Years later, Maud would be asked by an editor to write her autobiography. She obliged and began the story with the following:
“WHEN the Editor of Everywoman’s World asked me to write ‘The Story of My Career,’ I smiled with a little touch of incredulous amusement. My career? Had I a career? Was not — should not — a ‘career’ be something splendid, wonderful, spectacular at the very least, something varied and exciting? Could my long, uphill struggle, through many quiet, uneventful years, be termed a ‘career’? It had never occurred to me to call it so; and, on first thought, it did not seem to me that there was much to be said about that same long, monotonous struggle. But it appeared to be a whim of the aforesaid editor that I should say what little there was to be said; and in those same long years I acquired the habit of accommodating myself to the whims of editors to such an inveterate degree that I have not yet been able to shake it off. So I shall cheerfully tell my tame story. If it does nothing else, it may serve to encourage some other toiler who is struggling along in the weary pathway I once followed to success.”
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Lucy Maud Montgomery nasce il 30 novembre 1874 ma la madre muore 21 mesi dopo e lei viene affidata e cresciuta dai nonni materni che vivono in una piccola comunità rurale sull’Isola del Principe Edoardo, Cavendish.
Vicino alla scuola di Cavendish che Maud frequentava c’era un boschetto di abeti rossi attraversato da un ruscello dove gli scolari riponevano le proprie bottiglie di latte, come abbiamo visto fare nel cartone animato “Anna dai capelli rossi”.
Scrisse la prima poesia a 9 anni intitolata Autumn.Con il primo denaro guadagnato dalla vendita di un racconto a una rivista, acquistò 5 volumi di poesia: Tennyson, Byron, Milton, Longfellow, Whittier.
Spesso mi capita di identificarla con Anne, il suo alter ego ma è proprio lei a confessare: “Non fosse stato per gli anni da me trascorsi a Cavendish, Anne of Green Gables non sarebbe mai stata scritta”.
Durante la sua breve carriera di insegnante, Montgomery ha insegnato in tre scuole dell’isola: Bideford, Belmont e Lower Bedeque rispettivamente. Lasciò l’insegnamento per un anno (1895-1896) per studiare corsi selezionati di letteratura inglese presso la Dalhousie University di Halifax, in Nuova Scozia, diventando una delle poche donne del suo tempo a cercare un’istruzione superiore. Fu durante il suo soggiorno a Dalhousie che ricevette i primi pagamenti per i suoi scritti.
Nel 1898, mentre Montgomery insegnava a Lower Bedeque, suo nonno Macneill morì improvvisamente. Tornò subito a Cavendish per prendersi cura di sua nonna che altrimenti avrebbe dovuto lasciare la sua casa. Rimase con sua nonna per i successivi tredici anni, ad eccezione di un periodo di nove mesi nel 1901-1902, quando lavorò come correttore di bozze per The Daily Echo ad Halifax.
Non vi ricorda qualcosa?
Nel 1905 scrisse il suo primo e più famoso romanzo, Anne of Green Gables . Inviò il manoscritto a diversi editori, ma, dopo aver ricevuto rifiuti da tutti, lo ripose in una cappelliera. Non si lasciò abbattere e ci riprovò; fu pubblicato finalmente nel 1908 e divenne immediatamente un best-seller!
La proposta dell’editore di scrivere la storia della sua carriera, a 42 anni e dopo aver pubblicato Anne of Green Gables, le diede la certezza di aver raggiunto una di quelle vette sublimi e di essere considerata quindi una scrittrice di successo. Lucy Maud Montgomery scelse come titolo della sua autobiografia un verso di una poesia, Alla Genziana a frange, letta per caso in un giornale e conservata tra i libri di scuola, che recita:
Poi un sussurro fiorisce dal tuo sonno
Come posso scalare
Il sentiero alpino, così duro, così impervio,
Che conduce a vette sublimi;
come posso raggiungere il lontano traguardo
di una vera e onorata fama,
e scrivere sulla sua lucente pergamena,
un umile nome di donna.
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Nel libro ripercorre soprattutto gli anni della sua infanzia e ci confessa che lei era una ragazzina dalla fervida immaginazione con l’abitudine di dare un nome a tutte le cose che la circondano. Lucy Maud svela spontaneamente i retroscena che hanno suggerito alcuni degli episodi più esilaranti che vedono Anne come protagonista (come l’incidente della torta farcita), e soprattutto i riferimenti autobiografici tra l’autrice e la sua eroina sui quali spesso ci si interroga. Così veniamo a sapere che come Anne anche la piccola Lucy entrò in classe con il cappello ancora indosso suscitando l’ilarità generale e sprofondando in un tremendo imbarazzo e che anche lei aveva paura di attraversare da sola, specialmente verso sera, il boschetto infestato. Aveva un quadernino Lucy, in cui annotava idee per trame, avvenimenti e personaggi e proprio lì andò a scovare quella relativa a una “Coppia di anziani fa domanda a un orfanatrofio per un bambino. Per errore viene inviata loro una bambina”.
Una passione di Lucy Maud Montgomery erano gli scrapbooks. Lucy ha realizzato e composto tantissimi album, ognuno a tema diverso; in una mostra organizzata sugli scrapbooks che le sono appartenuti, sono stati rintracciati degli evidenti collegamenti con Anna di Tetti Verdi: le foto di giovani donne sembrano corrispondere ad alcuni dei personaggi descritti nel romanzo; le descrizioni di piante e fiori possono essere collegate a ritagli dai cataloghi di semi di John Lewis Childs.E poi ci sono le maniche a sbuffo, ci sono molte foto di ragazze in abiti bianchi con maniche a sbuffo, magari quelle pubblicizzate sulla rivista Ladies ‘Home Journal. Al link li potete sfogliare
A proposito dei suoi romanzi Lucy Maud Montgomery dichiarava che: Anne era la realizzazione di un sogno, La ragazza delle storie era il suo preferito “la ragazza che più di ogni altra è me stessa è Pat di Silver Bush”. E poi, Enrico De Luca, studioso e traduttore del ciclo intitolato ad Anne di Tetti Verdi, ci rivela che terminato Emily di Luna Nuova, nel febbraio del 1922 Lucy scrisse che Emily era il miglior romanzo che aveva scritto.
A questo punto non sappiamo quale suo romanzo ella amasse di più!
Dopo la morte di nonna Macneill nel marzo del 1911, Montgomery sposò il reverendo Ewan Macdonald, con cui era segretamente fidanzata dal 1906. Da sposati si trasferirono a Leaskdale, in Ontario, dove Macdonald era ministro della chiesa presbiteriana. Ebbe tre figli: Chester (1912), Hugh (nato morto nel 1914) e Stuart (1915); assisteva il marito nei suoi doveri pastorali; curava la loro casa; e ha continuato sempre a scrivere romanzi, nonché racconti e poesie.
Ha continuato a scrivere nonostante il suo dolore per la morte del figlio neonato Hugh, gli orrori della prima guerra mondiale, la morte del suo amato cugino Frede Campbell e la scoperta che suo marito soffriva di malinconia religiosa.
Maud Montgomery Macdonald morì a Toronto, Ontario, il 24 aprile 1942; Ewan Macdonald morì nel novembre del 1943. Morta, Montgomery tornò nella sua amata Isola del Principe Edoardo, dove fu sepolta nel cimitero di Cavendish, vicino al sito della sua vecchia casa. Tutti i suoi 20 libri tranne uno, sono ambientati sull’isola del Principe Edoardo.
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