Gad Lerner e Laura Gnocchi-Dimmi cos’è il fascismo ,I ragazzi di ieri lo raccontano a quelli di oggi –
Descrizione del libro di Gad Lerner eLaura Gnocchi-Giangiacomo Feltrinelli Editore-–Che cos’è il fascismo? Siamo sicuri che sia scomparso? I racconti di chi il fascismo lo ha vissuto, e si è ribellato, quando era giovane come voi oggi.
Sono passati ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. L’Italia da allora ha vissuto in pace, ma vi sarà giunta l’eco di nuove guerre scoppiate all’improvviso, epidemie e disastri ambientali. In questi momenti la Storia può diventare per noi una buona consigliera e può aiutarci a capire oggi con quali pretesti l’umanità venne allora divisa in persone di serie A e di serie B, perché i nonni dei nostri genitori abbiano obbedito a dittatori fanatici.
Erano i tempi del fascismo, un’invenzione italiana del 1919, quando Benito Mussolini prese il potere e trasformò rapidamente il Regno d’Italia in una dittatura. Ma la sua ambizione non era solo quella di comandare, voleva cambiare la testa della gente, fargli il lavaggio del cervello. Il suo regime durò oltre vent’anni, seguiti da venti mesi di guerra civile, nel corso dei quali l’antifascismo divenne Resistenza fino ad arrivare nell’aprile 1945 alla resa del nazifascismo. La Liberazione, appunto, celebrata da allora come festa nazionale ogni 25 aprile.
Le partigiane e i partigiani che abbiamo intervistato ci raccontano com’è andata per davvero e le loro storie ci ricordano che la libertà non è un regalo per sempre, dobbiamo guadagnarcela ogni giorno.
Gad Lerner e Laura Gnocchi-Dimmi cos’è il fascismo-Feltrinelli Editore
Gad Lerner è nato a Beirut nel 1954 da una famiglia ebraica e a soli tre anni si è dovuto trasferire a Milano. Come giornalista, ha lavorato nelle principali testate italiane da inviato o con ruoli di direzione. Ha ideato e condotto vari programmi d’informazione televisiva alla Rai, La7 e Laeffe. Ha diretto il Tg1. Ora scrive su “Il Fatto Quotidiano” e “Nigrizia”. Con Feltrinelli ha pubblicato Operai (1988, 2010), Tu sei un bastardo. Contro l’abuso delle identità (2005), Scintille (2009), Concetta. Una storia operaia (2017), L’infedele (2020) e Gaza. Odio e amore per Israele (2024). Ha curato, insieme a Laura Gnocchi, Noi, Partigiani. Memoriale della Resistenza italiana (2020), Noi, ragazzi della libertà (2021) e Dimmi cos’è il fascismo (2025).
Laura Gnocchiè giornalista. Ha diretto varie testate, tra cui “Il Venerdì di Repubblica”. Il suo ultimo programma televisivo è stato La scelta, ideato insieme a Gad Lerner, con il quale ha curato anche Noi, partigiani. Memoriale della Resistenza italiana (Feltrinelli, 2020), Noi, ragazzi della libertà (Feltrinelli, 2021), entrambi nati dalla raccolta di oltre novecento videointerviste realizzate in collaborazione con l’Anpi, Associazione nazionale partigiani d’Italia, e Dimmi cos’è il fascismo. I ragazzi di ieri lo raccontano a quelli di oggi (Feltrinelli, 2025, con le illustrazioni di Piero Macola).
Poesie di Elena Mearini, “A molti giorni da ieri”, Marco Saya Edizioni –Articolo di Ernesto Jannini-
Articolo di Ernesto Jannini-Nella nuova raccolta di Poesie di Elena Mearini, “A molti giorni da ieri”, edita per i tipi di Marco Saya, la poesia diventa gesto etico e linguistico che unisce l’individuo alla comunità, tra verità e finzione, memoria e desiderio, Si ritorna al tema della Poesia, già affrontato su queste pagine, del suo rapporto con la comunità, su cui esercita la potenza trasformatrice. Si parla non soltanto dei versi scritti, cantati o declamati, ma anche di ciò che si esprime in musica, in pittura, in teatro e finanche nello sport, quando il gesto dell’atleta si fa “arte” attraverso l’unità psico-fisica del linguaggio del corpo. Pertanto il poeta, chiunque artefice esso sia, si trova impegnato a risolvere il gigantesco problema del linguaggio, le cui implicazioni sono strettamente legate al momento storico, al proprio tempo.
E quindi coniugare il proprio personale “sentire”, con ciò che accade ed è accaduto nella storia, richiede un super sforzo che contraddistingue le dinamiche di tutti i veri processi creativi. Di questo si può e si deve parlare; di questo impegno reale che il poeta, con i suoi frutti, offre alla comunità di appartenenza; un impegno che tocca la dimensione morale dell’io.
Così si esprimeva Giuseppe Ungaretti in una prolusione ai Corsi di Cultura per Adulti dell’Unione Coscienza tenuta a Milano nel lontano 1957: «Uno scrittore, il poeta, è sempre, secondo me, impegnato indagando i propri tempi per conoscerli e in rapporto ad essi indagando sé per conoscersi, impegnato a far ritrovare all’uomo le fonti della vita morale che le strutture sociali, di qualsiasi costituzione siano, hanno sempre tendenza a corrompere ed a disseccare».
Ora, qui si accenna al corruttibile, che porta al disseccamento delle fonti, riducendo la coscienza individuale e sociale a un arido cretto argilloso. E dunque si parla di poesia, che porta l’acqua che manca, che salva i semi condannati all’arsura: un frutto che l’artefice pazientemente elabora ed offre a sé stesso e alla comunità. Egli è sempre in ansia di verità, quella che gli è data vedere ed esprimere attraverso la “menzogna” del linguaggio.
«È una bugia per dire la verità». In tal modo rispondeva Pablo Picasso, a coloro che gli chiedevano che cos’è la pittura. Il processo che porta dal subiettivo all’obiettivo, a mettere nero su carta, questo sforzo immane, implica l’accettazione cosciente dei cardini su cui si fonda l’esistenza; una “tensione” esistenziale sempre tesa all’ascolto profondo della parola che vede, che si immerge nei piani profondi della coscienza quando più naviga in superfice, tra le cose del mondo, tra il sorriso e il dolore degli uomini nello scorrere del tempo. Uno sforzo da compiere ogni volta; come se si cominciasse sempre da capo. E questo perché all’origine di ogni poesia c’è un punto origine da sviluppare, nelle coerenze che esso stesso contiene in nuce e che, se maturato, può portare alla realizzazione di un’opera autentica, che diventa “una realtà d’anima” per l’artefice e per chi l’ascolta (Ungaretti, 1957).
E dunque ritornano al pettine i nodi cruciali del destino individuale e delle sorti dell’intero mondo; in quel recinto “sacro” in cui si spendono le nostre esistenze per cercare un senso all’esistenza che, inevitabilmente si intreccia con l’alterità, con quel TU, (fosse anche quel tu che emerge quando l’io interroga se stesso) come emerge con molta chiarezza dalle bellissime poesie di Elena Mearini raccolte nel volume A molti giorni da ieri, uscito per i tipi di Marco Saya Edizioni.
Autrice di poesia e narrativa (vincitore premio Gaia Mancini-vincitore Premio Università di Camerino con Undicesimo comandamento, Perdisa Editore) da diversi anni insegna scrittura creativa. Ha lavorato sui percorsi di scrittura autobiografica nelle carceri e istituti di riabilitazione psichiatrica. Fondatrice della Piccola Accademia di Poesia di Milano, insieme allo stesso editore Marco Saya e a Angelo De Stefano, filosofo e poeta, Elena Mearini con A molti giorni da ieri dà corpo a un florilegio composto da 66 poesie, alcune delle quali volutamente ripetute per sottolineare i gangli nodali tra passato e presente.
È un invito all’ascolto profondo, quello della Mearini; ad aprire i pori della nostra sensibilità verso un mondo che lancia il suo “grido di fondo”; a vedere la perdizione sui volti dei giovani, a sentire che qualcosa di essenziale “ci manca” e per questo la “parola rifiuta di fiorire in voce”; a uscire dall’ombra e dal “chiuso della stanza”; ad aprire i dubbi sulla consapevolezza dell’esserci veramente, quando, al contrario, si ha la certezza della «nostra falcata/quando l’osso/bussava alla carne/ e tu aprivi/ la porta del pane». Insomma, un invito, forse anche una esortazione, a imparare «l’avvio delle cose/ il piccolo punto di partenza/ che fa silenzio/ che fa risveglio/impara l’esordio del tremore/quando la prima luce/nella casa s’accende/la prima foglia/sull’albero oscilla/metti a memoria la nota minore/ripetila quando la voce muore».
La poesia indica, ci accompagna al risveglio, e ciò accade perché l’artefice lavora instancabilmente con le parole perché, come lucidamente scrive Lello Voce nel suo noto Piccola cucina cannibale, «La poesia è fatta di parole e soprattutto delle loro reciproche relazioni. La poesia non inventa solo neologismi, ma neogrammatiche e neosintassi, essa stira la lingua, ne sfrutta tutte le possibilità, fa del fraintendimento, dell’ambiguità del codice, dell’errore, una via per scoprire scampoli di verità, non realizza i sogni, ma dando loro un nome, ci permette di immaginarli, non compie rivoluzioni, ma inventando nuove parole per la rabbia e per il desiderio, ci suggerisce, ogni giorno, che esse sono possibili, immaginabili».
Elena Mearini a questo ci introduce, all’apertura spirituale attraverso il linguaggio poetico. Tutto ciò non è semplice. Come affermava Ugaretti, «Avere luce nel cuore è difficile, soffrire e morire non sono che la sorte di tutti».
Elena Mearini
Elena Mearini
Elena Mearini
Nata nel 1978 e vive a Milano. Si occupa di narrativa e poesia, conduce laboratori di scrittura in comunità e centri di riabilitazione psichiatrica. Nel 2009 esce il suo primo romanzo 360 gradi di rabbia, edito da Excelsior 1881, e nel 2011 pubblica per Perdisa pop il romanzo Undicesimo comandamento. A gennaio 2015 pubblica il romanzo A testa in giù (Morellini editore). Firma due raccolte di poesie: Dilemma di una bottiglia (Forme Libere editore) e Per silenzio e voce (Marco Saya editore). Il suo ultimo romanzo è Bianca da morire (Cairo Publishing 2015).
Nel 2011 nell’ambito della rassegna “Umbria Libri” ha ricevuto il Premio giovani lettori “Gaia di Manici-Proietti” per il romanzo 360 gradi di Rabbia, e lo riceve anche l’anno successivo per Undicesimo Comandamento. Nel 2012 le viene assegnato il Premio UNICAM – Università di Camerino, per il romanzo Undicesimo comandamento, terzo classificato al Concorso Nazionale di Narrativa “Maria Teresa di Lascia”.
Davide Rondoni:”Le poesie di Lorenzo Patàro sono ricche di riferimenti a luoghi e gesti e presenze che risalgono da un tempo remoto che diviene presente, e questo conferisce una nuova e antica forza epica che si intreccia al respiro lirico amoroso. Questo vivo impasto, lontano dall’essere una forma di esotismo o arcaismo, segna la ricerca di un sentimento del tempo vasto per l’avventura amorosa – che si disegna su uno scenario più consono alla profondità del sentire rispetto al piccolo orizzonte di una vicenda privata. Certo, conta la provenienza, la geografia umana. Ma conta in questo interessante tentativo anche la ricerca di una visione, di una forza che sia radicale per spingere più intensa la voce e la sua adesione all’anima e al vivere”
Lorenzo Patàro-Poeta calabrese
***
Mi innesti alla tua pianta, mi aggrappo
alla tua gemma che è ferita, raccolgo
il tuo respiro dalla crepa, lo scavo come fosse
una miniera, lo tengo come fuoco
tra le mani consegnato dalle braci,
lo tengo per quando arriva il gelo,
al riparo dalla febbre sulle tempie,
da quel freddo-animale che fa scarni,
fa muta la parola e ci leviga le ossa.
Raccolgo il tuo respiro come un frutto,
lo semino all’interno, benedico la tua fame
e la porto come un dono che ha il vizio di brillare.
***
I rovi tra la neve troveranno un’altra luce
un bastone di pastore a scavare gli anemoni
e le bacche marce nella terra
a furia di urlare il mio nome si scheggia
la tua voce o si affila come la punta di ghiaccio
che pende sottile dalla casa diroccata –
allora tu dammi un altro luogo
in cui inselvatichirmi, una pelle di ghiro
mentre dorme nel rifugio fra le travi del pagliaio
chiamami col verso dei falchi o delle volpi
donami le orme del lupo, gli occhi dei piccoli
che cercano la madre e la sua bocca
feroce quando afferra il nuovo nato dalle zampe
e il sangue che sgorga si fa pietra nel gelo,
ossidiana – rovescio del bianco nel bianco.
***
Cerchia la parola, la parola disarmata
alla fine della strage sulla linea che segna
la frontiera. Autunno-dire, inverno-sentire.
La casa è nuda. Tu fai tana nella soglia.
Si sgola la distanza e si ammanta
la preghiera di fonemi involontari.
Ti mando a brillare sulla neve.
Azzurro bene non visto che perdura.
***
Sentire come allora. Bambini-parco-giochi.
Sentire la vita come allora e in un punto
preciso, dentro al petto. Chiaro nitido
pungente. Accorgersi del noto.
Lo spazio tra le cose, tra il piede che si alza
nella corsa e il piede-ancora che tiene.
Polvere, il radioso nello spazio
tra le dita. Sentire un freddo che è lontano,
acuminato. Universo che semina nel petto
qualcosa di antico e benedetto.
In cerchio si osserva la ferita al ginocchio
del bambino, sangue e pelle, il suo frantumo.
Sentire come allora. Farsi tana e nascondersi
era un modo per lasciare il mondo vuoto, farsi
mondo nel mondo e nascondersi nel vuoto
lasciato dalle cose. Qualcuno ci cercava.
E noi acquattati come i morti. In attesa.
Trattenendo il respiro come loro.
***
Vedi, è tornato il primo freddo
a levigarci – la vinaccia nel tino si fa d’oro.
Nulla. Poi qualcosa che si muove
sotto tutte le macerie della casa.
Tutti i fossili ti ascoltano cantare
e riparano le braci dalla neve.
Ottobre vento antico di uragano.
Qualcosa di prezioso ci raccoglie
ci fa semina e tempesta. Spoliazione.
Vieni, dormiamo nel tepore tra le martore
in veglia nella notte per la caccia. Ci porta
verso tutti i malangeli perduti nella nebbia
quest’allerta che fa i luoghi argilla e fuoco.
***
Penso ai morti del paese a cui non pensa
più nessuno. Gli ingrigiti fiori finti, i fiori secchi,
il gelo che fa tana nelle tombe scoperchiate.
Quanto resta. Cosa resta in una foto
di tutto il mappamondo di un umano.
Una scritta, una data, qualche oggetto.
Cosa resta. Penso a tutti i trapassati
che non lasciano una scia. Benedico
i loro nomi, percepisco il loro sonno
come un ago, la mia notte
nella cruna della loro.
Lorenzo Patàro (Castrovillari, 1998), laureato in Lettere Moderne all’Università di Salerno, vive a Laino Borgo (CS), in Calabria. Ha pubblicato la raccolta “Bruciare la sete” (Controluna, 2018), finalista al Premio di Poesia “Solstizio” opera prima nel 2019. Sue poesie, edite e inedite, sono state pubblicate su riviste come Atelier, Poesia del nostro tempo, Il sarto di Ulm – bimestrale di poesia, sul sito ufficiale di poesia della Rai (Poesia, di Luigia Sorrentino), sul quotidiano La Repubblica. Con alcuni inediti è tra i vincitori della ventisettesima edizione del Premio internazionale di poesia “Ossi di seppia” (Taggia, 2021). È presente nell’antologia “Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla rete” (Puntoacapo, 2021).
Fonte- clanDestino nasce come una sfida di giovani amanti della poesia a Forlì.
Nel 1988 nove ragazzi, tra cui Gianfranco Lauretano e Davide Rondoni, decidono di dar vita alla rivista, proseguendo con nuovo nome e taglio, il lungo lavoro per la poesia italiana che aveva fatto la casa editrice Forum di Forlì di G. Piccari, con la rivista “Quinta Generazione”.
Da quel momento in poi una serie di voci importanti hanno viaggiato con clanDestino; ma non solo grandi nomi, anche tanti poeti e scrittori hanno esordito e si sono incontrati con la rivista e ne hanno tratto spunti per la loro arte.
Fin dall’inizio clanDestino si è distinto per il suo essere in un certo modo, mai neutro né banale, ospitale e attento, vivace compagno di strada che cerca la vita nella vita.
Lorenzo Patàro-Poeta calabrese
Poesie di Lorenzo Patàro-Poeta calabrese<<Se non dovessi tornare, sappiate che non sono mai partito. Il mio viaggiare è stato tutto un restare qua, dove non fui mai.>>
*Versi di ‘Biglietto lasciato prima di non andar via’ di Giorgio Caproni, l’ultima, inquietante ed oscuramente premonitrice lirica pubblicata sul suo profilo Instangram, sei giorni fa, da Lorenzo Patàro (Castrovillari, 1998 – Laino Borgo, 2025), giovanissimo poeta di sicuro talento scomparso ieri in circostanze non comunicate dai familiari.
Laureato in Lettere e Filologia moderna, il ventiseienne autore calabrese era tra i più attivi e stimati operatori dell’affollata e promiscua scena poetica contemporanea, anche in virtù di un’intensa attività pubblicistica in qualità di critico de Il Foglio e del magazine letterario Inverso.
Con la raccolta ‘Amuleti’ era approdato alla finale del Premio Strega Poesia 2023. Aveva inoltre ricevuto riconoscimenti in vari concorsi, tra cui Pontedilegno Poesia, Ossi di Seppia e Ritratti di poesie.
Della sua opera ha scritto Davide Rondoni sulla rivista ClanDestino: “Le poesie di Patàro sono ricche di riferimenti a luoghi e gesti e presenze che risalgono da un tempo remoto che diviene presente, e questo conferisce una nuova e antica forza epica che si intreccia al respiro lirico amoroso. Questo vivo impasto, lontano dall’essere una forma di esotismo o arcaismo, segna la ricerca di un sentimento del tempo vasto per l’avventura amorosa, che si disegna su uno scenario più consono alla profondità del sentire rispetto al piccolo orizzonte di una vicenda privata. Certo, conta la provenienza, la geografia umana. Ma conta in questo interessante tentativo anche la ricerca di una visione, di una forza che sia radicale per spingere più intensa la voce e la sua adesione all’anima e al vivere.”
———————————————————– RIINIZIARSI (Lorenzo Patàro)
Se a tutto c’è una fine
che tu sia il tuo inizio.
SIAMO STATI CENERE
Siamo stati cenere
di incendi causati
dai nostri stessi
baci infiammati.
Rinasceremo vento
per disperdere i frammenti,
ci bruceremo ancora
per farne tramonti.
VEDI, È TORNATO IL PRIMO FREDDO
Vedi, è tornato il primo freddo
a levigarci – la vinaccia nel tino si fa d’oro.
Nulla. Poi qualcosa che si muove
sotto tutte le macerie della casa.
Tutti i fossili ti ascoltano cantare
e riparano le braci dalla neve.
Ottobre vento antico di uragano.
Qualcosa di prezioso ci raccoglie
ci fa semina e tempesta. Spoliazione.
Vieni, dormiamo nel tepore tra le martore
in veglia nella notte per la caccia.
Ci porta verso tutti i malangeli perduti nella nebbia
quest’allerta che fa i luoghi argilla e fuoco.
PENSO AI MORTI DEL PAESE
Penso ai morti del paese a cui non pensa più nessuno.
Gli ingrigiti fiori finti, i fiori secchi,
il gelo che fa tana nelle tombe scoperchiate.
Quanto resta. Cosa resta in una foto
di tutto il mappamondo di un umano.
Una scritta, una data, qualche oggetto.
Cosa resta. Penso a tutti i trapassati
che non lasciano una scia.
Benedico i loro nomi, percepisco il loro sonno, come un ago, la mia notte, nella cruna della loro.
“Amuleti” di Lorenzo Pataro-(Ensemble 2022)-Dalla prefazione di Elio Pecora
[…] Questo libro di Lorenzo Pataro possiede qualità e forze e umori. Il territorio, nel quale l’autore si cerca e si palesa, appartiene a un altrove che ingloba l’umano, ma non lo isola e restringe. Il titolo Amuleti fa pensare agli amuleti montaliani, a oggetti e soggetti che modulano i significanti ed estendono i significati. Nell’epigrafe di Gianni Celati – una delle tre che aprono il libro e sono indubbiamente mappe per un tragitto da compiere – si dice di parole che “chiamano qualcosa perché resti con noi”. Quel che resta qui di una fitta elencazione di luoghi, oggetti, animali, piante, stagioni è insieme vigilanza e stupore, attesa trepida e insopprimibile desiderio di essere e di restare. E se della negazione e del dubbio, in cui è stato immerso e sommerso il Novecento, persistono qui le ombre e gli appigli, se una irreparabile scontentezza sta dietro gli avvii e le soste di tanto chiamare ed evocare, mai s’accampa una definitiva rinuncia alla felicità, mai si cede a un’estrema invalicabile negazione. Tutto – in questo continente di parole, di frasi, di cadenze – si avvolge in un ritmo denso e pacato. Il verso, che propende all’endecasillabo, ne esce per acclimatarsi in chiare e libere cadenze. Tutto si presenta come composto di un’uguale sostanza, eludendo ogni separatezza, trovando segrete ragioni in una confidenza e in una prossimità che sfociano in una cercata alleanza. […]
da Amuleti (Ensemble 2022)
Ancora ritorna lo sparviero
il nibbio a piantare l’urlo nella schiena
a percorrere il dolore come un dito
che tocca la ferita e la ripara
la stagione degli amori ritorna
e spalanca i richiami dei tordi nella nebbia
se getti il germoglio sul cemento
lo ruba la gazza e lo conserva
nel nido poi scopre il tuo segreto
e smette di brillare ogni preghiera
ancora ritorna lo sparviero
la poiana caduta a capofitto.
*
Stella di grafite, ti ho gettato
tra le onde, lieve combustione.
Luce primitiva, fammi iena
fammi aratro, braccato
nella nebbia. Luce-grembo.
Ti ho gettato in tutti i pori
nascita ulteriore, dono dei relitti,
fatica del restauro, sapiente oro.
*
I rovi tra la neve troveranno un’altra luce
un bastone di pastore a scavare gli anemoni
e le bacche marce nella terra
a furia di urlare il mio nome si scheggia
la tua voce o si affila come la punta di ghiaccio
che pende sottile dalla casa diroccata –
allora tu dammi un altro luogo
in cui inselvatichirmi, una pelle di ghiro
mentre dorme nel rifugio fra le travi del pagliaio
chiamami col verso dei falchi o delle volpi
donami le orme del lupo, gli occhi dei piccoli
che cercano la madre e la sua bocca
feroce quando afferra il nuovo nato dalle zampe
e il sangue che sgorga si fa pietra nel gelo,
ossidiana – rovescio del bianco nel bianco.
*
Sentire come allora. Bambini-parco-giochi.
Sentire la vita come allora e in un punto
preciso, dentro al petto. Chiaro nitido
pungente. Accorgersi del noto.
Lo spazio tra le cose, tra il piede che si alza
nella corsa e il piede-ancora che tiene.
Polvere, il radioso nello spazio
tra le dita. Sentire un freddo che è lontano,
acuminato. Universo che semina nel petto
qualcosa di antico e benedetto.
In cerchio si osserva la ferita al ginocchio
del bambino, sangue e pelle, il suo frantumo.
Sentire come allora. Farsi tana e nascondersi
era un modo per lasciare il mondo vuoto, farsi
mondo nel mondo e nascondersi nel vuoto
lasciato dalle cose. Qualcuno ci cercava.
E noi acquattati come i morti. In attesa.
Trattenendo il respiro come loro.
Lorenzo Pataro (Castrovillari, 1998) ha pubblicato la raccolta di poesie Bruciare la sete (Controluna 2018). Sue poesie sono state pubblicate su riviste e blog come «Atelier», «Interno Poesia», «Poesia del nostro tempo», «ClanDestino», «Il sarto di Ulm»; sul sito ufficiale di poesia della Rai («Poesia», di Luigia Sorrentino); sul quotidiano «La Repubblica». Ha vinto i premi “Ossi di seppia” (2021) e “Poeti oggi” (2022).
Luciana Frezzaè nata nel 1926 a Roma, dove è scomparsa nel 1992. I suoi libri di poesia sono: Cefalù ed altre poesie (Sciascia, 1958), La farfalla e la rosa (Feltrinelli, 1962), Cara Milano (Neri Pozza, 1967), Tempo di speranza (Neri Pozza, 1971), La tartaruga magica (Florida, 1984), Ventiquattro pezzi facili (Cominiana, 1988), Parabola sub (Empiria, 1990), Agenda (All’insegna del pesce d’oro, Scheiwiller, 1994, postuma), Comunione col Fuoco. Tutte le poesie (Editori Internazionali Riuniti, 2013, postuma). Figura nell’antologia Donne in poesia (a cura di B.M. Frabotta, Savelli, 1976). Ha tradotto le poesie di Mallarmé, Laforgue, Nouveau, Verlaine, Baudelaire, Apollinaire, Proust.
Luciana Frezza
Anni venti
Frantumata la coppia di levrieri
in amore le teste congiunte
come mani in preghiera o l’una
sull’altra affannosa
babele di carezze
guizzo unico il fianco
nell’irrimediabile
stretta del bianco
friabile bisquit.
Che ne farò
Che ne farò di Alma
ritta in shorts
statuaria cotta di soli
serica senza una scalfitura
della vita riguardosa
di lei ritta con due foglie
di alloro due sole tra le dita
della folta spalliera
farfalle vive per il pesce
che farò di lei ferma
che dà la Buonasera
tarocco entrato nel gioco?
(Vittoria apuana, Agosto 1991)
Luciana Frezza
Alziamo i calici
Non crederli gigli appassiti
mi conforta anzi scintillanti
ancora i tuoi bicchieri alzati
voglia di gioia negata
impuntatura librata
per forza propria ape e fiore nell’aria
dove ancora salgono e il brutto
muso di lutto pret a porter che detestavi cade
come buccia dal frutto.
Spezzatura d’inverno
-Come invogliano
i fiori-
la vecchia signora con vista
annebbiata trascina
dolcemente il carrello
vogliosa della
nostalgia di quella
voglia più che dei fiori
che non fatica
hanno voluto me.
Bisenso
Il rogo ardente di Mosè era quasi
certamente un pozzo di petrolio
il petrolio è il prelievo
dai buchi dell’anima per farne poesia
il petrolio è pericolo
il petrolio è vicinissimo a Dio
da un capo della storia
ora dall’altro.
Felicità raggiunta si cammina
a Marisa Di Jorio
Qui il sogno lustra il pelo
uscito di clandestinità
muovendosi fa accadere pensieri
che si siedono ingombrando
il lungomare è ancora
un feudo sterminato che aspetta il suo signore
l’investitura cucita
alle spalle fluttuando
ombra in lungo di tulle
senza bagaglio sorpassa
verso il fondo apparizione.
(Vittoria Apuana, Agosto 1991)
Svendita
Arroccata pettinessa a filettature dorate
la specchiera a ciocche trafitte dall’alto spillone
a conchiglia comò di ragazza il primo cassetto
celò lettere e voglie gli altri matassine di seta
ravvolte in velina d’ore vuote e matasse
di lana o sogno trasmesso come un gene nell’impianto
di quel comò giustamente perché pieno di cose vane
nulla avesti, madre, o quasi, o altro.
La perfezione a Vittorio Sereni
Nei party sull’erba
seminata di lustrini
pioggia recente o ventagli d’irrigazione
si possono comporre versi
nel padiglione di un orecchio
da sciogliere in riso
tintinnante col ghiaccio dei bicchieri
Ce n’è cose belle al mondo disse il sorriso
eppur muovendosi occhio
qua e là in perlustrazione
socchiuso affilato
sulla trama del tappeto sfumato
di sera dove l’errore
raccomandato
se è vera e quale
l’immunità promessa
da quel nonnulla di sbagliato se vale
anche per una qualche eternità.
Negativi
I contenitori di mistero anche se sono tuoi amici
li prenderesti volentieri a sberle
con sicumera apprendono festoni di frasi
ti addobbano di assurdità un locale estraneo
dove tempo dopo allo specchio dell’uscita
scoprì che hai fatto l’alba a ballare
circolano in borghese non esercitano
perché esercitano continuamente
hanno i loro guai non sono apostoli
gl’interessati li seguono come gatti di strada
rimuginando Non sa quello che dice il maledetto
e intanto imparano a memoria le frasi
le vecchie leggi di fisica scritte in corsivo
e il gabinetto degli esperimenti sempre in disuso
e in quel turbinio di palle da giocoliere
intercettano a volo la biglia che li riguarda
se piovono pugni sanno che è per farli rinvenire
mentre ignoravano di essere svenuti
se vengono afferrati e fatti passeggiare tutta la notte
con tazze di caffè e discorsi ripetitivi e insensati
è perché hanno voluto morire e possono riprovarci
ma prima di tradurre quel gergo bisogna obbedirgli.
Self-service
Raramente si coglie la seconda occasione
anzi è la riconferma che non si poté non si volle
il bene era lampante ma c’era nell’inerzia
di lasciarlo sparire un piacere misto al dolore
e piacere e dolore sono lo strascico ornato
il ricordo della veste con cui si presentò la prima
la seconda occasione trabocca di meraviglia
e un senso di fatalità approfondisce la gioia
eppure esterrefatti ci si astiene dal gesto
per prenderla un’identica pania lo impedisce
anzi il nuovo strato stendendosi sull’antico
prolifera infrenabile di nuovi no senza più chance
Vecchi distici a Rosa “Bien loin d’ici”
Il mio nome inciso tra spini
su una pala di ficodindia stilla nel sole
la campanula turchina mostra il cuore
dagli occhi umidi delle ragazze fugate
la gaggia spogliata di tutti i suoi zecchini
vive la lunga bugia degli anni luce
la polla è un occhio verde che aspetta di nuovo
una mano che smuova l’argilla del suo fondo
i cori a bocca chiusa degli uliveti
incagliati in secche di silenzio
i sismografi della pace sono guasti
la capra bianca ha sradicato il paletto
la Morte lancia coccole dal cipresso
senza colpire il canto della fontana
la mano del bambino è di marmo
la nutrice è più piccola del suo fazzoletto
Fonte-Il sito www.italian-poetry.orgfunziona correntemente dal 2000. Era nato l’anno precedente, dopo una serie di incontri e di confronti con la Poetry Society americana, ai cui criteri di severa selezione si ispira, antologizzando la poesia italiana moderna e contemporanea dagli inizi del Novecento fino ai giorni nostri, a partire dai poeti nati nei primi anni del XX secolo e attivi nei decenni successivi. Il comitato fondatore, con i rappresentanti del circuito internazionale della poesia, era composto da Alberto Bevilacqua, Tobias Burghardt, Ernesto Calzavara, Casimiro De Brito, Luciano Erba, Alfredo Giuliani, Giuliano Gramigna, Mario Luzi, Elio Pagliarani, Umberto Piersanti, Giovanni Raboni, Paolo Ruffilli, Edoardo Sanguineti, Mark Strand. Il sito ha totalizzato più di 14 milioni di visualizzazioni nei primi quindici anni di vita ed è indicizzato quale primo risultato di Google per “poesia italiana”. Il nuovo logo del sito, introdotto nel 2014, all’insegna di Montale, Quasimodo e Ungaretti, rimanda simbolicamente alla grande avventura della poesia italiana contemporanea dal principio del Novecento fino ad oggi.
Luciana Frezza
Luciana Frezza (Roma, 1926 – Roma, 1992)<<Traduttrice di caratura superiore e abile poetessa dai risvolti sperimentali e modernisti. La sua penna, così lieve ma incisiva al tempo stesso, oggi più che mai risulta necessaria e attuale, sebbene siano passati trent’anni dalla sua scomparsa.>>
*Giudizio su Luciana Frezza (Roma, 1926 – Roma, 1992) formulato dal critico Antonio Bux, curatore della riedizione dell’ultima opera della poetessa capitolina, ‘Parabola sub’, pubblicata nel 2022 da Graphe e prefata dal compianto Walter Pedullà, insigne italianista scomparso l’altro ieri.
Laureatasi in Lettere a soli vent’anni con una tesi su Eugenio Montale, discussa con Giuseppe Ungaretti, l’autrice romana esordì con la sua prima raccolta, ‘Cefalù e altre poesie’, nel 1958, quando era già un’affermata traduttrice per conto di importanti editori come Feltrinelli, Lerici, Einaudi, Rizzoli e Mondadori.
“È diventata una poetessa -chiarisce la critica Roberta Barbi- anche a furia di interpretare, per tradurli, gli splendidi versi dei poeti francesi della corrente simbolista dell’Ottocento; lo è diventata perché aveva dentro il sacro fuoco della composizione e della scrittura.”
Lei stessa diceva della sua duplice attività letteraria: “È una sfida che mobilita la creatività e altre virtù come la pazienza e la vigilanza. Il pericolo cui bisogna prestare una costante attenzione è costituito dalle possibili intrusioni dell’Io: occorre tenerlo fuori ma non eliminarlo del tutto”.
Spiega ancora la succitata Roberta Barbi: “La sua ars poetica ha le radici ben ancorate nella poesia italiana di ’800 e ’900, ma presto spicca il volo verso il surrealismo e il simbolismo francese. La sua matrice resta legata a temi intimi come quelli dell’infanzia, alle figure della famiglia, ai luoghi dell’anima come Roma, Milano o la Sicilia delle sue origini: attraverso la riflessione, spesso dolorosa quando personale, sulle relazioni interpersonali riesce anche a recuperare i miti archetipici ai quali far risalire indietro la ragione di ogni sofferenza. Nel suo linguaggio sempre misurato, mai violento, spesso allusivo e sempre eversivo, il fil rouge della sua poesia è certamente la ricerca del significato della vita.”
Affetta dalla cecità e da una profonda depressione, la poetessa che aveva cercato tutta la vita nei suoi versi il senso dell’esistenza, morirà tragicamente il 30 giugno 1992, all’età di 66 anni.
Luciana Frezza
NATALE 19… (Luciana Frezza)
Le sere vicine al Natale
nella città che si chiude
i bimbi vestiti di rosso
le donne nelle sciarpe
percorrono vie di presepe,
tra selve di abeti inchiodati
tra file di fanali
– è come se anche questo Natale
fosse passato –
saliamo
gli anni e non resta
a poco a poco
che questa mano che sfiori.
NOSTALGIA
Chissà in quale
canneto di carta o verde
fantasma errante coorte
falciata alla radice
al di là di quali porte
nell’andito scuro di botteghe
in disuso dietro quale
muro di eluso rione
giace il piccolo corpo
di Amore dopo l’ordita
esecuzione.
ALLA POESIA
Docile ti seguirò
sussurrante ruscello
che porti la mia immagine fonda
nei cieli più rari
dove il vento appena sparte vapori
di canapa bionda
o quando l’acqua flagella
nei luoghi ove cose morte
marmi sepolti da foglie
contorte da una gelida lava
vivono vita che scorre
col fragore d’una celeste cascata;
o fra stagioni sorelle
che chiamano le più lontane.
Luciana Frezza
Luciana Frezza
Uno sguardo alla poetica di Luciana Frezza-L’autore: Giorgio Podestà
Vi sono incontri e verità che nascono sotto il segno duplice dell’acqua e del fuoco. Fiammate che, in un istante, lambiscono il cielo. Onde che, con un solo lungo sospiro, raggiungono le rive più lontane, lasciando sulla sabbia frammenti apparentemente indecifrabili. Relitti di antichi naufragi, raccolti nelle profondità più buie e restituiti faticosamente alla luce del sole. Non tanto resti o vestigia di antichi imperi ormai sepolti e dimenticati, ma istanti di vita comune, lontane memorie, ricordi familiari. Un mondo, lo sappiamo bene, costantemente minacciato dall’oblio. Dall’annullamento. Spesso questo spontaneo dono del mare non è però sufficiente. Non ci basta rastrellare giorno e notte la spiaggia. Le onde si ritirano, ma le rive ci appaiono tristemente vuote. Quasi lunari. Solamente la mano del poeta può trarre, allora, da quelle acque fonde e nere la verità: piccola o grande che sia. Soltanto lui può stringerla in pugno, riportarla il più rapidamente possibile in superficie prima che sia troppo tardi. Va da sé che un atto tanto temerario implichi un vertiginoso tuffo all’indietro. Un’immersione ogni volta pericolosa e totalizzante. Un gesto che, invariabilmente, porta con sé un altissimo prezzo da pagare e Luciana Frezza, il mare, con le sue insondabili profondità, i suoi abissi spettrali, le sue insidiose correnti a cui è quasi impossibile resistere, lo ha affrontato innumerevoli volte. A partire da quel suo esordio sul finire degli anni ‘50, quando apparve la silloge poetica Cefalù e altre poesie. Poesie che rivelano subito un talento senza incrinature, una perfetta conoscenza della metrica latina, un movimento che sembra distendersi quasi marino sulla pagina. Nelle pupille di chi legge. Nelle orecchie di chi sa ascoltare. Versi di una grazia fatta di pieni e di vuoti su cui l’anima fluttua. Soffre. Allarga con puntualità il proprio irregolare respiro. Batte, come una farfalla, le ali. Raccolta dopo raccolta, tuttavia, il linguaggio, le immagini di Luciana Frezza si sono come elegantemente raccolte in un’oscurità luminosa. In simboli e miti che dipanano, nello stesso preciso istante, luce e tenebre. Acqua e fuoco. Estate e inverno. La prova più alta di questo ermetismo ora acqueo, ora sotterraneo l’abbiamo forse nell’ultima, suggestiva opera pubblicata in vita dalla poetessa: Parabola sub. Un viaggio periglioso negli abissi. Uno sprofondamento fino alle cave senza nome del tempo. Un mondo ctonio da cui bisogna tentare però di risalire velocemente, portando alla luce del giorno, alla superficie incerta della vita, la visione eterna (o forse solo salvifica) della Poeta. L’autore: Giorgio Podestà-
L’autore: Giorgio Podestà, nato in Emilia, si occupa di moda, traduzioni e interpretariato. Dopo la laurea in Lettere Moderne e un diploma presso un istituto di moda e design, ha intrapreso la carriera di fashion blogger, interprete simultaneo e traduttore (tra gli scrittori tradotti in lingua inglese anche il Premio Strega Ferdinando Camon). Appassionato di letteratura italiana, inglese e americana del secolo scorso, ha sempre scritto poesie, annotandole su quadernini che conserva gelosamente. Con Graphe.it ha pubblicato la raccolta poetica “E fu il giorno in cui abbaiarono rose al tuo sguardo”, i saggi “Breve storia dei capelli rossi” e “Come echi sull’acqua. Note a margine di un lettore appassionato” e ha curato la traduzione del saggio “Cristianesimo e poesia” di Dana Gioia
Meira Delmar –Olga Isabel Chams Eljach (Barranquilla, 21 agosto 1922 – Barranquilla, 18 marzo 2009), poetessa colombiana di origini libanesi, sin dal 1937 usò lo pseudonimo Meira Delmar. Professoressa di Storia dell’Arte e Letteratura, diresse per molti anni la Biblioteca Pubblica dell’Atlantico. Le sue poesie sono caratterizzate da una sensualità di fondo.
VERDE MARE
1
Dal tanto amarti, mare,
il mio cuore è divenuto
marinaio.
E mi inizia a cantare
sui pennoni d’oro
della luna, nel vento.
Qui la voce, il canto,
il cuore lontano
dove risuonano i tuoi passi
lungo le rive del porto.
Dal tanto amarti, mare,
la tua assenza mi fa soffrire
fin quasi a farmi piangere.
2
Mare!
Ed è come se, all’improvviso,
fosse tutto chiaro.
Angeli nudi. angeli
di brezza e luce. Il canto
dell’acqua che danza
sarabanda di cristallo
Isole, onde, conchiglie.
Bianco grido di sale…
E il cuore, battito
dopo battito, dice Mare!
ELEGIA DI LEYLA KHALED
MEIRA DELMAR
Ti devastarono l’infanzia, Leyla Khaled.
Come una spiga
o lo stelo di un fiore,
ti infransero
gli anni dello stupore e della tenerezza
e distrussero la porta della tua casa
perché entrasse il vento dell’esilio.
E prendesti a vagare
la patria sulle spalle
la patria divenuta ricordo
di un luogo cancellato dalle mappe
e faceva male ogni ora di più
e diventava più triste del silenzio
e gridava più forte nel castigo.
E un giorno, Leyla Khaled, notte pura,
notte ferita di stelle, ti sei trovata
i campi, i paesi, i sentieri
tatuati sulla pelle del ricordo
muovendosi nel tuo sangue rosso e vivo
riempiendoti gli occhi della loro sete
le mani e le spalle di fucili,
di fiera ribellione le insonnie.
E iniziarono a chiamarti con nomi
amari di ignominia,
ti lanciarono urla come spine
dai quattro punti cardinali,
e marcarono il tuo passo con il ferro
dell’obbrobrio.
Tu, sorda e cieca, in mezzo
agli avidi artigli nemici,
ardevi nel tuo fuoco, camminavi
di frontiera in frontiera,
difendendo il tuo petto dall’odio
con l’incerta certezza del ritorno
alla terra luttuosa di cui fosti
da mille mani straniere derubata.
Ti videro i deserti, le città,
la fretta dei treni, febbricitante,
assorta nel tuo destino guerrigliero,
negandoti l’amore e i singhiozzi,
perdendoti alla fine tra le ombre.
Non si sa, non so, quale è stata la tua direzione,
se giaci sotto la polvere, se procedi
per le valli del mare, profonda e sola,
o ti muovi ancora con il passo
felino dell’animale inseguito.
Nessuno sa. Non so. Ma ti alzi
di scatto nella nebbia dell’insonnia,
iraconda e terribile Leyla Khaled,
pecora in lupa trasformata, rosa
dal dolce tatto in morte trasformata.
IMMIGRANTI
Una terra con cedri, con olivi,
una dolce regione di fresche vigne,
lasciarono vicino al mare, abbandonarono
per il fuoco d’America.
Conservavano tra le labbra
il sapore della resina,
e il fumo profumato del narguileh
negli occhi,
mentre la nave si perdeva tra le onde
lasciandosi dietro le pietre di Beritos,
la valle gioiosa ai piedi delle colline,
e i banchetti del vino attorno alla tavola
preparata nell’estate
sotto il cielo pieno di gemme.
Il mare cambiò nome
una volta, un’altra e un’altra ancora
fino ad arrivare alla scottante riva
dove veloci raffiche
di uccelli dipingevano
di colori e musica improvvisa
l’istante,
e il fragore dei fiumi imitava il ruggito
del giaguaro e del puma
nascosti nella selva.
Su rive e su montagne costruirono case
come in passato la tenda nelle verdi oasi
l’antico avo, e le vecchie parole
iniziarono a scambiare
con le parole nuove
per chiamare le cose,
e seppero condividere il cuore con grandezza
come prima l’otre d’acqua nella sete del deserto.
A volte quando suona il liuto della memoria
e la prima stella
brilla nella sera
ricordano il giorno
in cui il bled scomparve lentamente
dietro l’orizzonte.
MEIRA DELMAR
CEDRI
I miei occhi di bambina videro
– già molti anni addietro – elevarsi
fino alle nuvole un volo
di verde progressivo
che l’aria intorno
riempiva di balsamo
con tranquilla insistenza.
Il silenzio si percepiva come una
musica interrotta all’improvviso,
e nel mio petto cresceva
lo stupore.
La voce del padre, allora,
si piegò al mio orecchio
per dirmi, sottovoce:
“Sono i cedri del Libano
figlia mia.
Da mille anni, forse
da due volte mille, essi crescono
ai piedi di Dio.
Conserva la loro immagine
nella mente e nel sangue.
Non dimenticare mai
che hai osservato da vicino
la Bellezza”.
E da quel momento
così lontano,
qualcosa in me si rinnova
e trema
quando incontro nelle pagine
di un libro
la loro memorabile immagine.
IL MIRACOLO
Ti penso.
La sera,
non è più una sera;
è il ricordo
di quell’altra, azzurra,
in cui amore
si fece in noi
come un giorno
si fece luce nelle tenebre.
E proprio allora fu più brillante
la stella, il profumo
del gelsomino più vicino,
meno
pungenti le spine.
Adesso
quando la invoco credo
di essere stata testimone
di un miracolo.
Traduzione dallo spagnolo di Giulia Spagnesi
FONTE-Rivista- FILI DI AQUILONE-
MEIRA DELMAR
Meira Delmar –Olga Isabel Chams Eljach (Barranquilla, 21 agosto 1922 – Barranquilla, 18 marzo 2009), poetessa colombiana di origini libanesi, sin dal 1937 usò lo pseudonimo Meira Delmar. Professoressa di Storia dell’Arte e Letteratura, diresse per molti anni la Biblioteca Pubblica dell’Atlantico. Le sue poesie sono caratterizzate da una sensualità di fondo.
Biografia di Meira Delmar Figlia degli immigrati libanesi Julián E. Chams e Isabel Eljach , iniziò a scrivere poesie all’età di 11 anni. Tra i suoi primi scritti c’è To the Acacias in Bloom. Durante l’adolescenza nutrì una grande adorazione e ammirazione per le grandi poetesse del sud: Gabriela Mistral, Alfonsina Storni, Delmira Agustini e Juana de Ibarbourou
Ha completato gli studi liceali presso la Barranquilla School for Young Ladies e gli studi superiori presso la Scuola di Belle Arti del Centro Studi Dante Alighieri di Roma (Italia). Ha studiato musica al Conservatorio Pedro Biava dell’Università dell’Atlantico e storia dell’arte e letteratura al Centro Dante Alighieri di Roma. Successivamente è stata docente di queste materie presso l’Università dell’Atlantico.
Nel 1937 le sue prime poesie – You Believe Me to Be Made of Stone, Chain, Promise e The Gift of Rain – furono pubblicate nella sezione Poetesses of America della rivista cubana Vanidades. Quando inviò le sue poesie, decise di adottare lo pseudonimo Meira Delmar, principalmente per evitare che i suoi genitori e amici riconoscessero l’autrice dell’opera. Meira è una modificazione del nome Omaira, di origine araba; e Delmar nasce dal suo amore e dalla sua attrazione per il mare. Mesi dopo, il suo lavoro acquistò popolarità e i quotidiani e i media nazionali iniziarono a pubblicarlo.
Su richiesta e insistenza dei suoi amici, Ignacio Reyes Posada, Carlos Osío Noguera, Héctor Rojas Herazo e Alirio Bernal, pubblicò il suo primo libro, Alba de olvido, nel 1942. Il libro fu pubblicato da Editorial Mejoras, in una prima edizione di cinquanta copie[6]. Più di mezzo secolo dopo, la rivista Semana, nel numero 882 del 1999, la incluse in una selezione delle cento migliori opere colombiane del XX secolo; essendo l’unica donna ad apparire nella sezione poesia.
Mesi dopo, decise di inviare una lettera con le sue poesie e il suo primo libro a Juana de Ibarbourou, che all’epoca viveva a Montevideo, per chiederle un parere a riguardo. In seguito la poetessa avrebbe affermato che la bellissima lettera ricevuta in risposta fu il motivo che la spinse a continuare a scrivere.
Nel 1944 pubblicò la sua seconda raccolta di poesie, Site of Love. Due anni dopo, nel 1946, pubblicò il suo terzo libro, La verità del sogno.
Nel 1950 tenne il suo primo concerto pubblico presso la Biblioteca Nazionale della Colombia, nella capitale, su invito di Carlos López Narváez. In questa occasione la regia è di Eduardo Carranza. Un anno dopo pubblicò il suo terzo libro, sempre di poesie, Secret Island, in cui afferma di aver trovato la propria voce.[b]
Nel 1957 pubblicò nella città di Bogotà il libretto di poesie n. 26 nella raccolta Poeti di ieri e di oggi di Simón Latino. Qualche tempo dopo quest’opera sarebbe stata pubblicata a Buenos Aires.
Dal 1958 e per 36 anni fu direttrice della Biblioteca Pubblica Dipartimentale dell’Atlántico; che in suo onore venne chiamata Biblioteca pubblica dipartimentale Meira Delmar. Raggiunse tale incarico su invito di Néstor Madrid Malo, quando era governatore del Dipartimento dell’Atlantico, e lo ricoprì poi in seguito con i successivi ventisette governatori. Attualmente, in suo onore sono stati istituiti il Meira Delmar Women’s Documentation Center presso l’Università dell’Atlantico e la Meira Delmar Reading Room presso la Biblioteca Piloto del Caribe.
Il 18 marzo 2009, nella sua città natale, quando fu candidata al Premio Regina Sofia della corona spagnola, con alte probabilità di ottenere un riconoscimento che viene conferito solo agli autori in vita, iniziò il suo viaggio silenzioso e il suo passaggio attraverso la Terra non lascia nulla dietro di sé, il suo volto in pace, il suo cuore in guerra.
Descrizione del libro di Elio Pecora- Nel dolce rumore della vita-Biografia di Sandro Penna -Questo libro è stato scritto pochi anni dopo la morte di Sandro Penna, avvenuta nel gennaio 1977. Apparve in prima edizione da Frassinelli nel 1984 con il titolo Sandro Penna, una cheta follia. È il frutto di molte ricerche, e dell’attenta consultazione di molti autografi e documenti ritrovati dall’autore nella casa del poeta. Carte che, oltre a testimoniare l’amicizia che Penna ebbe con Eugenio Montale, Umberto Saba e Pier Paolo Pasolini, rivelano la sua difficile infanzia, il sofferto e incerto apprendistato alla poesia e, in alcune lettere mai spedite, l’amore segreto per un ragazzo ebreo. Elio Pecora ripercorre tutto il cammino poetico e intellettuale di Penna: dalle prime poesie fino agli ultimi appunti di una vecchiaia chiusa dentro una stanza con le imposte serrate e una irrimediabile insonnia. Da amico e da poeta, racconta un’esistenza difficile ed esaltante, libera e aperta ma anche immersa in un sogno confuso, alla ricerca di una sorta di felicità, vista come una promessa e un approdo impossibile. Ne viene un ritratto insieme chiaro e complesso, mescolanza di verità e di incertezza, di talento poetico indiscusso, di contraddizioni che lo hanno reso un autore di riferimento del nostro Novecento. Così Penna si svela e si mostra come l’autore di parole che, in un tempo sospeso, restano come pietre rese leggere da un talento luminoso.
Sandro Penna
ISBN: 978-88-54524-23-1
Collana: Bloom
Pagine: 208
Prezzo: €18,00
RECENSIONI
«Fu un uomo innamorato delle stagioni della vita e della bellezza, dunque uomo infelicissimo quando, assai spesso, quei beni supremi per i quali voleva esistere gli sembravano lontani o negati».
«Con acume e tenacia non inferiori alla fortuna, Pecora ha rinvenuto nella mitica casa-tana dove il poeta era vissuto in una povertà pittoresca e struggente un’autentica miniera di materiali inediti. Non restava che “far parlare” questi materiali: ma il compito richiedeva, è chiaro, intelligenza e rispetto, sensibilità e amore, tutte doti che Pecora ha dimostrato di possedere in larga misura». Giovanni Raboni
«Elio Pecora ricostruisce con amorosa intensità la vicenda formativa del poeta, le prime letture, le prime amicizie, i segni di inconfondibili traumi». Enzo Siciliano
Elio Pecora
Autore-Elio Pecora
Breve biografia di Elio Pecoraè nato nel 1936, vive a Roma dal 1966. Ha pubblicato libri di poesia, di prosa, di saggistica, testi teatrali, poesie per l’infanzia. Ha curato antologie di poesia italiana contemporanea e raccolte di fiabe popolari. Ha collaborato a lungo per la critica letteraria a quotidiani, settimanali, riviste e ai programmi culturali della Rai. Dirige la rivista internazionale Poeti e Poesia.
SANDRO PENNA
Poesie scelte
***
La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.
Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.
***
Il mare è tutto azzurro.
Il mare è tutto calmo.
Nel cuore è quasi un urlo
di gioia. E tutto è calmo.
Interno
Dal portiere non c’era nessuno.
C’era la luce sui poveri letti
disfatti. E sopra un tavolaccio
dormiva un ragazzaccio
bellissimo.
Uscì dalle sue braccia
annuvolate, esitando, un gattino.
***
Amavo ogni cosa nel mondo. E non avevo
che il mio bianco taccuino sotto il sole.
***
Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
***
Forse la giovinezza è solo questo
perenne amare i sensi e non pentirsi.
***
Vivere è per amare qualche cosa.
Oggi è il fanciullo che ha rubato un paio
di scarpe a quel signore arrogantissimo.
Ho difeso il fanciullo. L’ho salvato
da chi sa quale buio. (Il bel fanciullo
che ruba i cani belli per amarli).
***
Io vivere vorrei addormentato
entro il dolce rumore della vita.
***
Le porte del mondo non sanno
che fuori la pioggia le cerca.
Le cerca. Le cerca. Paziente
si perde, ritorna. La luce
non sa della pioggia. La pioggia
non sa della luce. Le porte,
le porte del mondo son chiuse:
serrate alla pioggia,
serrate alla luce.
***
È l’ora in cui si baciano i marmocchi
assonnati sui caldi ginocchi.
Ma io, per lunghe strade, coi miei occhi
inutilmente. Io, mostro da niente.
***
Io vado verso il fiume su un cavallo
che quando io penso un poco un poco egli si ferma.
***
Grava sulla città, colma l’estate.
Nell’orto di una villa c’è un ragazzo
brutto, che guarda trasognato il suo
sesso innalzato. Indi sospira e prende
di nuovo un suo poeta. E l’ora scende.
***
Non c’è più quella grazia fulminante
ma il soffio di qualcosa che verrà.
Sandro Penna (Perugia 1906 – Roma 1977) è uno dei massimi poeti italiani del Novecento. Vissuto a Roma per gran parte della sua vita, P. ha saputo forgiare il suo inconfondibile immaginario erotico popolato da fanciulli (quasi divinità, fuori dal tempo come il poeta) entro un percorso in cui la grazia formale e l’amore per la brevità epigrammatica si sposano a un monolinguismo tra i più rigorosi della poesia novecentesca. Il suo è un canzoniere ininterrotto, che vede la luce editorialmente nel 1939 con Poesie (edizioni successive: 1957; 1970 [col titolo Tutte le poesie]; 1973; e, postumo, 1989) e annovera piccole ma preziose opere come Appunti (1950), Una strana gioia di vivere (1956), Croce e delizia (1958), Stranezze (1976), e la postuma Il viaggiatore insonne (1977). La traiettoria artistica e umana di P. è stata ricostruita con precisione in Poesie, prose e diari, il Meridiano pubblicato nel 2017.
*
Testi selezionati da Poesie, prose e diari (Mondadori, 2017)
Giuliana Piovesan è nata a Velletri (Roma) nel 1947 e vive a Padova. Ha pubblicato per le Edizione del Leone: Il giorno dell’anno (Edizioni del Leone, 1992), Al ponte Rosso (Edizioni del Leone, 1999), Passo a due (Edizioni del Leone, 2003, con Franco Gentilucci), Le immagini dell’aria (Biblioteca dei Leoni, 2017). È presente con suoi scritti, pezzi critici, poesie, in volumi monografici, antologie, riviste. È da oltre vent’anni attiva nella realtà culturale della sua città. Collabora inoltre alla conduzione di più biblioteche nell’ambito del sistema civico di Padova.
LA TORRE DEI MORI
Scende come bronzo
dalla torre dei Mori
quel suono puro–
i dodici rintocchi battono
a martello l’ultima ora
Se dite al gallo di non cantare,
nessuno più verrà rinnegato
nel giorno che ancora segna il passo
( Non cercate la bella Aurora,
lei sta al Gritti Palace Hotel
——–Bloody Mary per due
alle ore undici… )
C’ERA UNA VOLTA
E piangere come potremo
per una storia che non è stata mai
-fogli in risma extra strong,
neppure dall’involucro mai tolti.
Mai il delicato fruscio
in un voltare di pagina,
né il segreto in una piccola piega.
Nell’aria noi allucinati
lo coglieremo pure
quel vago sentore di gelsomino
–ma sarà un nulla, come di fumo…
PER UN DIO SCONOSCIUTO
Abbassata la serranda sul negozio,
l’ondulato e inerte metallo
è scivolato fino a terra.
( Fulmineo come un artiglio
mi aggredisce il tuo non ricordo )
Resiste una scritta orizzontale,
impastata di carta, polvere e giorni:
“ Signori, il lunedì si chiude–
si chiude tutto il tempo “.
( Inutili clamori, e calda luce
laggiù, nel bar all’angolo… )
L’ISOLA
Lunghe notti ho vegliato e giorni
–e tu per me mai un segno
Sciolgo amore gli ormeggi
–e la nostra storia portala con te
nell’isola senza nome e ricordo
dove si consumerà il tuo tempo
–vuoto ormai di giorni.
EX VOTO
Non lo si poteva fare, mi dice la Signora–
benedetta non era l’acqua e le anime poi
non si lavano via così con uno sciacquo
Ma lei deve capirmi, Signora
erano le cinque in punto del mattino
e rossa colava l’anima cara
lungo il filo del sogno e se ne andava–
capisce, l’anima cara se ne andava
e cosa si poteva mai fare a quell’ora?
Eburnea Signora, mi creda, le mando il voto
di tutte le rose del mercato, ma non venga
ancora a sgranarmi i rosari dell’atto profano
Suvvia, Signora, la smetta ed esca pure lei–
fuori è maggio.
LILIALE I
Ben oltre i giorni della Pasqua
s’erano gingillati con la sfavillante carta
dell’uovo, che in realtà se ne stava
tutto nudo sopra una sedia di paglia–
–messo lì con svagata noncuranza.
Sembrava un banale piccolo inganno,
con degli effetti che potremmo definire
à trompe l’oeil, nulla di eclatante.
Il lato clamoroso dell’ affaire
veniamo a saperlo soltanto ora
che la Sfavillante, senza indulgenza alcuna,
si è sottratta al ruolo assegnatole dal gioco
e fuggitiva lascia nella più profonda
e sigillata indifferenza quelli che furono
i suoi sogni privati, del tutto privati.
Della storia qui conclamata rimane solo
un esile pensiero liliale, quasi ilare.
LILIALE II
Il colore bianco e la forma infantile
facevano dei miei sandali
due foglie calcinate
graziosamente oscillanti
in grembo alla dolce creatura del sud–
–dall’orto il ligustro si protendeva
fin sullo scalino dove quieta
rimanevo ad intrecciare attese.
E se la bella immagine m’incanta
il pensiero delle sue mani
esile ancora si leva all’alba.
AMORE E PSICHE
Perdonami amore se ancora strappo
piume e versi alla nostra casta camelia…
Nella cara stanza oggi è così buio
che solo arde giallo di tanta luce
il biglietto che s’appunta alla finestra…
L’ABITO ROSSO
Lungo la linea dell’abito rosso
molle scivolava il ventaglio nero
L’antico tondo trasudava vita
nello smalto che la racchiudeva
Incisa a filo dell’orlo floreale
la dedica ancora si leggeva
“zefiro di rugiada il prato bagna”
OPERA
Giocoliere gentile che nella mano
il cavo della bava fermo tieni
sicuro rimani e non visibile
——–pura mimica sospesa nell’aria.
Al cielo sia cangiante il tuo giullare.
L’ARIA
Smarrita nell’intreccio della storia
la piuma di ligustro si librava
in un cielo a noi ancora sconosciuto…
( era sua l’ombra sottile che ora si posa )
IL GRAFFIO
Segui amore il graffio della vita
e la brina che si posa sull’orlo
Non soffiarci sopra, non appannarla
Apri la nota alla voce del tempo.
AMARGO
Quel banchetto nudo dove la vita
si fa putta e graziosamente porge
la mandorla amara che solo al filo
della mente rilascia il suo gentile
………………………………………
( qui io non vi dirò nulla dell’albero
né della luna che lo sorvegliava )
ORO E BIANCO
per Stefania C.
Di giovane ramoscello è la tua mano–
Anima quasi bambina che a sé stringe
il nastro d’oro dei tulipani bianchi
( Indifferente il fioraio al nostro rito… )
SOVRAPPOSIZIONE
Il tram è in partenza verso il centro…
Si direbbe opaca la superficie
che sbuca dal manifesto murale,
se il riverbero e l’incerta materia
non mostrassero la forma ellittica,
dove lo specchio retrovisore filma
senza scatto il via vai della strada.
Tutto lo short sta in quello squarcio
–sospeso tra realtà e illusione.
CANTO FERMO
per Franco G.
Stasera lascia aperta la porta
ch’io possa entrare, e tu sciogliere
dai fili rossi il nostro carteggio.
La tenda s’alza ariosa come vela
che naviga verso il monte, nuvole
alle specchiere dell’altra stanza e cielo.
–Manica a vento, tu saluti Nina
e sali nell’incanto del tuo Chagall…
IL PAPAVERO
Neve perenne dorme la tua voce
sotto il bianco cappuccio del Subasio.
Lui nasce intoccabile e rosso–
–polvere della tua voce e sabbia
della mia gola, forse non fiore
ma trama di un sogno che non cede
al suo insostenibile peso d’ombra.
SILLABA
I.
S’inquieta come stormo che scolora
il tuo nome sul filo della mia mente
–alto volo da quel cielo scende in sillabe
II.
E se lieta nel liturgico fluire
le tue mani sento in me confuse
con rapido tocco svagata m’insinuo
nella piega che il brivido impone
III.
Si spezza nell’aria un delirio d’ali
( Colombe fremevano nel tuo cielo… )
ANDANTINO GRAZIOSO
Se ne stava quel chiaro spartito
incollato alla vetrina del liutaio–
con il suo si e la bella chiave di violino,
presi nel rigo della prima battuta
( Dal suono sciolte bende
liberano mani ferite )
All’ulivo santo della pietrosa
piccole anime beghine
cerimoniose vanno
al minuetto di pigolanti passi
Le mani tendono al tuo approdo
e avide il tuo nome afferrano
con l’unico riconosciuto fiore–
questo mio votivo monile di carta.
CARPE DIEM VARIAZIONE
Cara, non chiederti quale destino
gli dei abbiano per me e per te deciso
né struggerti (non è lecito saperlo)
sulle vane cifre di Babilonia.
Conviene accettare e patire la sorte –
–l’inverno che ora flagella le onde
sulle scogliere del mare Tirreno
potrebbe essere l’ultimo voto
o avere lungo seguito nella vita.
Sii saggia, continua a mescere il tuo vino
e raccogli la speranza nel breve suo filo.
Vivi questo giorno. Mentre parliamo,
l’avido tempo è già da noi fuggito.
VILLA R.
È cresciuta a dismisura quella rosa–
rosso struggente di velluto e spine
Il tempo si posa su cristallo sottile
mentre sfiora lame di ilare argento
( S’adagiava sul tappeto la figlia dei giorni… )
D’INVERNO
Nell’incerta grazia di una gemma
di te ritrovo quella che non eri
La radicella che pulsa nell’ombra
dall’umido umore risale alla linfa
( Sottili e nati già gli alberi d’inverno )
Nella poesia di Giuliana Piovesan si intrecciano, con tenera misura, tre livelli: l’immagine del passato, il riconoscimento d’amore e la ricomposta testimonianza del presente. E i tre livelli coesistono in un discorso di piena maturità umana ed espressiva che conosce e pratica, nel continuo reciproco rispecchiamento, accanto all’esperienza della vita il gioco dell’intelligenza e i riferimenti della cultura. La chiave di lettura è il filo onirico: quel tanto di inventività fantastica, di visionarietà che interviene sempre ad animare le situazioni facendole levitare e caratterizzando in aerea leggerezza le presenze di persone, ciascuna nello “spessore della sua filigrana” e di paesaggi, anch’essi sempre in “filigrana”, per virtù dell’autrice nel suo stesso farsi leggera. I luoghi sono sognati o intravisti nella visione piuttosto che effettivamente documentabili, anche se reali. E questo vale anche per le presenze umane, rese diafane e lattiginose da uno schermo che, mentre le vela, nella loro improvvisa luminosità anche le rivela e, in particolare, per forza e suggestione la presenza di un “tu”, sottolineato con partecipazione anche nel disinganno, che attraversa tutta la raccolta. Del resto tutto vive nella raccolta “Le immagini dell’aria” in una intermittenza dominata da una direttrice intellettuale: la presenza costante dell’assenza, che è sostanza stessa della visione, dell’invenzione fantastica che rappresenta il mistero, anche nella consapevolezza dei suoi aspetti più disincantati. Ma la voce della cancellazione non è tanto un’ossessione quanto invece una misura di consapevolezza, nel rapporto e nel colloquio costante con le ombre dentro l’alone di una musica particolarissima.
Giuliana Piovesan
Biografia di Giuliana Piovesan è nata a Velletri (Roma) nel 1947 e vive a Padova.Ha pubblicato per le Edizione del Leone: Il giorno dell’anno (Edizioni del Leone, 1992), Al ponte Rosso (Edizioni del Leone, 1999), Passo a due (Edizioni del Leone, 2003, con Franco Gentilucci), Le immagini dell’aria (Biblioteca dei Leoni, 2017). È presente con suoi scritti, pezzi critici, poesie, in volumi monografici, antologie, riviste. È da oltre vent’anni attiva nella realtà culturale della sua città. Collabora inoltre alla conduzione di più biblioteche nell’ambito del sistema civico di Padova.
LA LEGGEREZZA DI GIULIANA PIOVESAN
Giuliana Piovesan
Il titolo della raccolta di Giuliana Piovesan, Le immagini dell’aria (Biblioteca dei Leoni), evoca un senso di indeterminatezza, di leggerezza, che catapulta subito nell’atmosfera onirica, ariosa e ricca di musicalità dei suoi versi. Sono molti quelli che rivelano queste caratteristiche: «Mordeva vaga lo spicchio di luna / quando nell’indaco del sogno il cielo / ingoiava avido tutte le stelle -» (p. 30); «Mi sgusciavi sottile dalle mani / per lasciarmi intatta la tua forma. / (Sei colomba e sali al tuo azzurro) / Rimani piuma d’aria, sarò la tua voce» (p. 58).
Giuliana Piovesan, nelle composizioni, tratteggia immagini reali, spesso però ne sfuma i contorni proiettandole in spazi chiari e azzurri, nei quali sembrano dissolversi o confondersi con l’aria stessa. Perfino il peso dei ricordi, affioranti da un passato, intreccio di presenze e assenze, di eventi e storie d’amore finite o non completamente vissute che lasciano “l’amaro in bocca”, è mitigato e reso più leggero, più arioso. Nei testi parla, inoltre, della vita e della morte, di amore e musica, e si serve di profumi, suoni, colori (come il bianco, il rosso, il nero), per accentuarne i significati metaforici presenti. Anche il senso del trascorrere del tempo è molto vivo in Giuliana Piovesan e Carpe diem variazione, unica poesia della seconda e ultima sezione del libro, ne è un esempio lampante. La raccolta, infatti, è strutturata in due sezioni: Nell’aria sottile e Nel tempo. La prima, a differenza della seconda, consta di ben quattro sottosezioni, evidenziando così un’architettura articolata della stessa. I testi hanno una lunghezza contenuta, mentre i versi, raramente di breve respiro, si distendono sulla pagina bianca in modo regolare e armonioso.
Elizabeth Bishop-Viaggiò a lungo in Europa, Africa, Sud America. La sua opera poetica, caratterizzata da un supremo controllo sia formale sia emotivo, rispecchia nei titoli stessi – Nord e sud (North and south, 1946), Questioni di viaggio (Questions of travel, 1966), Geografia III (Geography III, 1976) – una visione dello spazio come matrice di storia.Considerata tra i più importanti poeti americani del ventesimo secolo, vinse numerosi e importanti premi, tra cui il Premio Pulitzer per la poesia nel 1956 e il National Book Award nel 1970. Oltre che alla poesia, si dedicò alla prosa e alla pittura.
Poesie di Elizabeth Bishop
Un’arte sola
L’arte di perdere s’impara facilmente: tante cose si sforzano d’andar perdute, che la perdita non è un grave incidente.
Perdi una cosa al giorno. Apri all’inconveniente delle chiavi smarrite, delle ore sprecate. L’arte di perdere s’impara facilmente.
Prova a perdere di più, e più velocemente: luoghi, e nomi, e destinazioni stabilite per un viaggio. Non ne verrà un grave incidente.
Ho perso l’orologio di mia madre e – gente! – l’ultima, o quasi, di tre case molto amate. L’arte di perdere s’impara facilmente.
Ho perso due care città, e un continente; due fiumi, reami vasti e certe mie tenute. Mi mancano, però non è un grave incidente.
— Anche se perdo te (la voce tua ridente, un gesto che amo), è chiaro, non farò smentite: l’arte di perdere s’impara facilmente, ma pare un grave (Scrivilo!) grave incidente.
Dobbiamo ammirare la perfetta mira di quest’aria d’inverno, cacciatrice provetta la cui arma spianata non ha bisogno di mirino, se non fosse che, lontano o vicino, la sua preda è sicura, il colpo netto. L’infimo tra di noi è così che tira.
Per ridurre il margine d’errore sono ferme le barche e di gesso gli uccelli; la galleria dell’aria coincide con quella angusta che il suo sguardo incide. Il centro del bersaglio, la pupilla, collima con la mira e con l’ardore.
Ha il tempo in tasca, col suo ticchettio segna il passo su un attimo. Non cura momento e circostanze, lei, ha invocato l’atmosfera per questo risultato. ( E l’orologio chiude l’avventura tra ruote, foglie e nubi a scampanio).
Miracolo a colazione (Adelphi, 2005), trad. it. Damiano Abeni, Riccardo Duranti, Ottavio Fatica
Il miscredente
Dorme sulla cima dell’albero maestro. Bunyan
Dorme sulla cima dell’albero maestro con gli occhi serrati. Sotto di lui si sciolgono le vele come le lenzuola del suo letto, esponendo all’aria notturna la testa del dormiente.
Trasportato lassù nel sonno, nel sonno s’è raccolto in una palla d’oro in cima all’albero, o si è arrampicato dentro un uccello d’oro, o alla cieca s’è seduto a cavalcioni.
“Ho pilastri di marmo a fondamenta” ha detto una nube. “Non mi sposto mai. Vedi i pilastri là nel mare?”. Sicuro nell’introspezione adesso scruta i liquidi pilastri del proprio riflesso.
Un gabbiano, le ali sotto le sue, ha osservato che l’aria “sembrava marmo”. Lui ha risposto “Quassù torreggio per il cielo perché le ali di marmo in cima alla mia torretta volano”.
Ma dorme sulla cima del suo albero maestro con gli occhi sigillati. Il gabbiano ha frugato nel suo sogno che era: “Non devo finire tra i flutti. Il mare luccicante mi vuole tra i suoi flutti. È duro come il diamante; vuol distruggerci tutti”.
Miracolo a colazione (Adelphi, 2006), trad. it. D. Abeni, R. Duranti, O. Fatica
Insonnia
La Luna nello specchio del comò guarda milioni di miglia lontano (e forse con orgoglio, a se stessa, ma non sorride, non sorride mai) via lontano lontano oltre il sonno, o forse è una che dorme di giorno. Se l’Universo volesse abbandonarla, lei gli direbbe di andare all’inferno, e troverebbe una distesa d’acqua o uno specchio, sul quale indugiare. Tu dunque metti gli affanni in un sacco di ragnatele e gettalo nel pozzo nel mondo alla rovescia dove la sinistra è sempre la destra, dove le ombre in realtà sono corpi, dove restiamo tutta la notte svegli, dove il cielo ha tanto poco spessore quanto è profondo il mare e tu mi ami d’amore.
Elizabeth Bishop
Che cosa significa imparare a perdere: Elizabeth Bishop, la poesia e le cose che cadono-Pubblicato su 19 novembre 2018 da femministerie
di Sara De Simone
La vita di Elizabeth Bishop, una delle più grandi poete americane del Novecento, fu costellata di perdite.
Non che ne esista una che non lo è: siamo tutti, ogni giorno, esposti al disastro della scomparsa – nostra, degli altri, perfino degli oggetti.
Quello che cambia, semmai, sono le sequenze e le intensità: ci sono vicende umane in cui la perdita fa da tema costante e principale, batte il ritmo, tiene la trama. Queste esistenze si organizzano intorno ai loro vuoti, ed alle assenze, come certe architetture si sviluppano – e sostengono – a partire da uno spazio cavo. Elizabeth Bishop nasce nel 1911, in Massachusetts, e nello stesso anno perde suo padre William a causa di una malattia. Non ci vorrà molto perché “perda” anche sua madre, ricoverata in manicomio e da lì mai più uscita fino alla morte, nel 1934. Elizabeth, così, è costretta a fare il giro dei parenti: prima affidata ai nonni, poi a una zia, i suoi primi anni di vita sono un circuito continuo di distacchi e riadattamenti, affetti perduti e legami nuovi, case lasciate indietro e luoghi estranei a cui doversi abituare.
È di certo anche per questo che, una volta ventenne, dopo essersi laureata in Letteratura, comincia a girovagare per il mondo. Visita l’America in lungo e in largo, e poi l’Africa, e l’Europa, e mentre viaggia, e si sposta, osserva il mondo: è questo andare nel distante e nello sconosciuto a darle vita, è quest’orbita intorno all’altrove a farla incontrare con se stessa.
Muovendosi e decentrandosi continuamente Elizabeth conosce, ama, sperpera il tempo e le energie che ha bisogno di “perdere”, scrive lettere (molte) e poesie (poche). Non si sente produttiva, è pigra, indisciplinata, dice di essere una poeta “per sbaglio”. E in effetti è solo grazie al supporto costante e materno di un’altra poeta straordinaria, Marianne Moore, che a 35 anni riesce a pubblicare la sua prima raccolta, North & South (1946).
Il viaggio più lungo è quello degli anni ‘50 in Brasile: qui trova un paese che la confonde e la fa felice e un grande amore, quello con la spavalda, carismatica, architetta Lota de Macedo Soares. Sia il Brasile che Lota sembrano fare da necessario contrappunto ad Elizabeth: i climi caldi, i frutti pieni di sapore, la vegetazione tropicale fanno riaffiorare in lei, come per contrasto, i paesaggi freddi e perduti dell’infanzia e in tal modo le permettono di scriverne. Così come l’incontro con l’intrepida, teatrale, Lota – tanto diversa da lei, che invece è timida, taciturna, schiva – le fa venire voglia di fermarsi, di restare, e le permette di concentrarsi più a lungo sul lavoro della scrittura. Come dono d’amore Lota progetta e fa costruire, all’interno della sua proprietà, a Petrópolis, uno studio “tutto per lei”: una specie di rifugio in mattoni bianchi, un luogo pensato e offerto come luogo della scrittura, separato dal resto eppure al resto unito. Non c’è regalo più grande perché – Lota lo ha capito – è proprio così che Elizabeth ha bisogno di sentirsi: a casa ma fuori casa, sola ma insieme, libera ma dentro il legame, distante quel tanto che basta per essere a portata di mano.
È permanendo in questo ‘altrove’ che Elizabeth Bishop vince il premio Pulitzer per la poesia (1955), che continua a pubblicare per anni testi per il giornale The New Yorker, che mette insieme lentamente ma con costanza il suo terzo libro di poesie “Questions of Travel” (1962), che a Lota è dedicato.
Ma il tempo della perdita, e con esso quello del viaggio, tornano sempre: dopo sedici anni di intensa relazione Elizabeth perderà anche Lota, suicida nel 1967, e perderà il Brasile, lasciato progressivamente per tornare a vivere in America.
È di tutto questo, e di molto altro, che rende conto la sua poesia più celebre, One Art, pubblicata nella raccolta Geography III (1976). L’Arte in questione non è quella della letteratura, ma per l’appunto quella “di perdere”. Di quest’arte, si capisce, Elizabeth è diventata un’esperta per esperienza.
Elizabeth Bishop
The art of losing isn’t hard to master, scrive, l’arte di perdere non è difficile da imparare. Al mondo ci sono così tante cose già gravide dell’intento di essere perdute, che perderle non sarà poi un disastro. Che si tratti delle chiavi di casa, o di un’ora sprecata, di un vecchio orologio di mamma, o addirittura di città, di fiumi e continenti, Elizabeth lo ripete: non sarà mai una catastrofe.
Solo quando nella lista delle cose perdute e perdibili entra un “tu”, la sublime, dolorosa, ironia poetica si ferma per additare la crepa : Even losing you (the jocking voice, a gesture/ I love) – “perfino perdendo te (la voce giocosa, un gesto / che amo)” – l’arte di perdere continuerà a non essere difficile da padroneggiare. Though it may look like (Write it!) like disaster – “per quanto possa sembrare (Scrivilo!) un disastro”.
Per dire della perdita dell’altra che ama, Elizabeth, esperta titolata della mancanza, usa il segno grafico delle parentesi tonde quasi a voler indicare sulla pagina dove sta la maglia che non tiene, dov’è il buco, a passarci le dita intorno per segnarlo, a scriverlo perché (lo deve scrivere!). Così, dentro i versi, l’oggetto amato non cessa di essere perduto ma viene in parte recuperato nella sua “scrivibilità”. Dal vertice della sua vita “in perdita” Elizabeth Bishop ci dà le parole per dire quello che non sapremmo meglio nominare. Perché, come si mette in parola il vuoto? Una bocca come lo articola? Come si mette il dito su qualcosa che c’è e poi svanisce? Soprattutto se il punto non è solo e non è tanto rievocarne la presenza, ma dirne la scomparsa. Dire tutte le sillabe della caduta, della sua dissolvenza.
Elizabeth Bishop, maestra dell’arte di perdere, lo sa fare. Ma è possibile “imparare a perdere”? Esiste una competenza, una sapienza che col tempo matura, mancanza dopo mancanza? Certo che no. L’ironia con cui Elizabeth ne scrive, lo chiarisce bene. Non si tratta di un manuale di istruzioni per l’uso, né di un cammino filosofico: non c’è nessuna saggezza a cui aspirare, nessun equilibrio da raggiungere. Quella che Elizabeth Bishop ci mostra è piuttosto una postura possibile, un modo di guardare e di attraversare il dolore: se è vero che le cose e le persone che amiamo contengono – ognuna già in sé, come tratteggiata – la parabola della loro scomparsa dalla nostra vita, non per questo le ameremo di meno o vivremo nell’angoscia costante, e paralizzante, della loro perdita.
Che si tratti di smarrire un oggetto caro, o di abbandonare una casa amata, un paese che non rivedremo mai più, un’illusione che ci aveva nutriti, o un amore che non potremo recuperare – sarà sempre un disastro.
Ma un disastro che si può attraversare, se “attraversare” significa che bisogna percorrerlo da un capo all’altro, e lasciarsi percorrere, dare spazio e territorio al dolore.
Non c’è dottrina, Bishop lo sa bene, che ci insegni come si lasciano andare le cose quando è l’ora. E accettare di perdere significa sempre, insieme, accettare di sentirsi perduti.
Ma se la verità è la perdita come non accoglierla nel cuore, nella mente, nella lingua? Se è vero che tutto quello che viviamo dipende dalla narrazione che ne facciamo, potremo forse omettere di raccontarla? A catastrofe avvenuta potremo evitare di dire il crollo? Questo per Elizabeth non è possibile, perché tutto quello che le resta – e che le interessa – è dire la verità, anche quando è la verità della fine.
Anzi è proprio perché si lascia attraversare dalla fine e dal vuoto, che al vuoto fa spazio, che può scrivere la poesia: la parola vera nasce e respira e si muove in quella cavità, senza la cavità ad accoglierla e a covarla la parola vera non nasce. Per questo Elizabeth non commette mai l’errore di pensarsi ininterrotta, piuttosto mette in vista la crepa e celebra la sottrazione.
Con lei e con le sue poesie potremo forse balbettare anche noi le nostre perdite. Provare a dirle. Concederci di provare fino in fondo un’emozione sconcertante, quell’emozione di cui parlava Rilke: lo smarrimento di guardare una cosa felice mentre cade.
E questo non per una fascinazione verso il dramma, né perché imparare a rinunciare sia segno di nobiltà (lo è, a volte, ma non è questo il punto). Soltanto perché le cose sono quelle che sono, e le cose cadono. Vederle cadere sarà sempre un disastro. Ma anche un’emozione profonda, e quindi una trasformazione.
Che cosa significa, allora, imparare a perdere?
Forse significa soltanto godere delle cose che amiamo quando sono vive e presenti, tenere a mente che potremo perderle e per ciò stesso amarle di più, che non vuol dire tenerle più strette ma al contrario: non sentirle mai nostre. Significa provare ad accompagnare una cosa amata mentre cade – senza trattenerla, senza distogliere lo sguardo, senza dire che non cade, se cade. E poi trovare un tempo e un modo per dire la catastrofe. Guardare con vera emozione a ciò che è stato, e a ciò che c’è, per inventare ancora tutta la vita che abbiamo da vivere. E nell’invenzione e nella trasformazione tenere caro, dentro di noi, ciò da cui ci stiamo separando perché:
Il tempo in cui si sta sulla terra
prende e perde innumerevoli forme.
Anche la forma della fine
è una relazione.
E questi sono i versi di un’altra grandissima poeta, italiana e vivente: Sara Ventroni.
* Da leggere: – Elizabeth Bishop, The Complete Poems: 1927–1979, New York, Farrar, Straus, and Giroux, 1983 – Elizabeth Bishop, Miracolo a colazione, Milano, Adelphi, 2005 – Elizabeth Bishop, Robert Lowell, Scrivere lettere è sempre pericoloso, Milano, Adelphi, 2014 – Nadia Fusini, “Elizabeth, la reticenza” in Nomi. Unidici scritture al femminile, Roma, Donzelli, 2012 – Sara Ventroni, La Sommersione, Nino Aragno, Torino, 2016.
Elizabeth Bishop
Breve biografia di Elizabeth Bishop- (Worcester, Massachusetts, 1911 – Boston 1979) poetessa statunitense.Viaggiò a lungo in Europa, Africa, Sud America. La sua opera poetica, caratterizzata da un supremo controllo sia formale sia emotivo, rispecchia nei titoli stessi – Nord e sud (North and south, 1946), Questioni di viaggio (Questions of travel, 1966), Geografia III (Geography III, 1976) – una visione dello spazio come matrice di storia.Considerata tra i più importanti poeti americani del ventesimo secolo, vinse numerosi e importanti premi, tra cui il Premio Pulitzer per la poesia nel 1956 e il National Book Award nel 1970. Oltre che alla poesia, si dedicò alla prosa e alla pittura.
Elizabeth Bishop fuori lo studio costruito per lei da Lota
Marcello Di Gianni- E’ socio dell’Associazione Professionisti Pratiche Filosofiche – A.P.P.F. e membro di giuria del relativo Prestigioso premio Nazionale di Filosofia “Le figure del Pensiero”, XVII edizione – 2023, sezione saggi inediti. Personalità del tutto indipendente e riservata, neutrale e imparziale nel suo modo di essere ed agire,anteponendo l’obiettività ed oggettività quale unici elementi di rilievo.
La mezzanotte nelle palpebre
Giunge la mezzanotte nelle palpebre;
si deposita soffice la cara insonnia
come il pittore cura la sua opera.
Si fanno largo schiere di demoni
chiedendo l’ultima falsa salvezza,
e di un intero paese divento patria.
In questo faticoso destreggiarmi
ancora ricerco l’odore del camino
prima di posare gli occhiali,
la neve che si poggia sui vetri
da cui attendo, spiando nervoso,
l’arrivo di qualcuno mai visto.
Le ultime gioie ricerco come ladro.
Scuoto al vento la mia anima
spogliandola di tutto il nero dentro.
Vergogna e felicità si scontrano;
mi compatisco del male visto
e non perdono le inutili vittorie.
E risorgerò ancora dalla tempesta
imitando la roccia marina;
mi prostrerò ai piedi dei pozzi
mai più tremando al freddo invernale;
e la mano porrò alle cerimonie
con il timore di un nuovo inizio.
Ho costruito e distrutto
Ho costruito e distrutto le aurore
che accarezzavo al suo nascere;
ridotto in brandelli le mie gioie
E perso ora fuori dalle mura.
Una triste barca lacerata, laggiù
approda a passi lenti sulla terra,
e conduce a riva cuori e anime
a cercare altre false speranze.
Umido e nebbia impercettibili
Si posano sulle mie guance
Come il destino che si poggia
sulle labbra degli amanti.
Eppure le sfumature invisibili
riesco a percepire nettamente:
il verso degli uccelli compatti,
la neve che si poggia solitaria.
E levandomi sulla punta dei piedi
per occultare i miei duri passi
mi accingo a camminare scalzo
con in mano una croce sbiadita.
Ho costruito e distrutto la brama
di ricercare il senso della morte
e con in mano un ramo sottile
ho già dimenticato dove ho pianto.
Con una rosa in mano
Questa notte bramo avere le chiavi
Di tutte le città, infiltrarmi in tutte
Scrutarne il fiorire delle lacrime
Degli abitanti sul far della sera;
raccogliere di mattino la rugiada
dai prati, ascoltare il mormorio
dei passanti e il tintinnio della pioggia
che si posa sul cuore senza rumore.
Ho in me un’infinità di prospettive,
l’anima mi chiede mille viaggi
attraverso le fitte nebbia e gli amori
consumati agli angoli delle strade.
E voglio ancora innamorarmi
della neve che si posa innocente
sulle mani, dei silenzi inascoltati
che si arrampicano sugli occhi.
Far splendere di nuovo i tristi fiori
vivere nell’inquietudine dei sogni
mai vissuti, ricucire le ferite
in me, corpo leggera che si innalza.
Sconosciuto al mondo m’incammino
senza meta tra le persone e le cose
con una rosa in mano, abbracciando
del temporale l’affanno di un riparo.
Marcello Di Gianni
Breve biografia di Marcello Di Gianni
Marcello Di Gianni-nasce il 2 aprile 1992 a Menziken, Svizzera.Qui trascorre i primi otto anni e frequenta la seconda elementare.In Italia riprende gli studi e si diploma presso l’Istituto Tecnico Industriale di Bisaccia (AV) nel 2012.Subito dopo ha cominciato a nutrire un elevato interesse nella lettura di centinaia di volumi riguardanti soprattutto classici della letteratura moderna e contemporanea spaziando in numerosi generi: poesia, narrativa, teatro, saggi filosofici e contestualmente inizia a comporre le prime poesie.Particolarmente graditi all’autore sono i poeti russi dell’epoca moderna e contemporanea e che hanno contribuito alla sua crescita culturale e di influenza poetica: Puskin, Blok, Mandel’štam,Cvetaeva, Lermontov, Pasternak, Esenin, Tjutcev, Majakovskij.Tra i suoi autori maggiormente apprezzati si annoverano: Kafka (di cui ha letto la quasi totalità delle opere), James Joyce, Dostoevskij, Tolstoj, Oscar Wilde.Fin dai primi anni, ha ottenuto il primo posto in prestigiosi Premi Letterari italiani a carattere nazionale e internazionale.Nel 2017 partecipa con quattro poesie al Premio “Montreal International Poetry Prize”, tra i premi letterari più importanti e rinomati a livello mondiale.E’ pubblicato su varie riviste letterarie nazionali e le sue poesie sono recensite da personaggi illustri della Letteratura Italiana.Le sue liriche confluiscono in tematiche accomunate da un leitmotiv di perenne ricerca ed espressione di stati d’animo intrisi di una profonda inquietudine velata da un senso di fitta consapevolezza delle sfaccettature della vita.E’ appassionato di Pittura, letteratura Russa, Filosofia, cinema, lingua tedesca, medicina. Ha iniziato la sua carriera quale membro di Giuria letteraria all’età di ventuno anni presso il Concorso Nazionale di Saggistica divulgativa a tema libero “C’è un argomento in cui sei esperto?” organizzato dal Comitato Culturale Orangita Books di Lecco. Alla I Edizione (2022) del Concorso letterario nazionale “Dania Musumeci” è stato Presidente di Giuria per la sezione Poesia. Successivamente è stato giurato presso altri e prestigiosi Premi Letterari e Filosofici principalmente per quanto riguarda la Poesia e la Narrativa e continua a esserlo regolarmente, assolvendo i suoi compiti sempre con spirito critico, obiettivo e coscienzioso. E’ socio dell’Associazione Professionisti Pratiche Filosofiche – A.P.P.F. e membro di giuria del relativo Prestigioso premio Nazionale di Filosofia “Le figure del Pensiero”, XVII edizione – 2023, sezione saggi inediti. Personalità del tutto indipendente e riservata, neutrale e imparziale nel suo modo di essere ed agire,anteponendo l’obiettività ed oggettività quale unici elementi di rilievo.
FRANCO LOI poesie scelte a cura di Nelvia Di Monte –
Questo era il compito assegnato alla poesia da Franco Loi che, per oltre mezzo secolo, ha scritto poesie e si è dedicato a diffondere la poesia di autori della nostra letteratura e a sostenere giovani poeti. Molteplici aspetti del vivere, individuale e sociale, della storia e dell’attualità, trovano espressione nei suoi testi, e lo stile asseconda un dire che spazia dalle corde più narrative ad una più intima liricità. Una voce libera e schietta, la sua, così prossima al dialogo e al canto.
Poesie di FRANCO LOI-Rivista FINE SECOLO -6-7 giugno 1985
“Poesia è un costante modo per confrontarci col mistero di noi stessi e delle cose. In un’epoca come questa, tutta protesa all’esterno e intenta a stordirsi, la poesia è fondamentale per richiamare l’uomo alla propria inermità, all’attenzione a sé, agli altri, alla speranza, che, come dice Dante mettendo in versi Paolo di Tarso «è sostanza di cose sperate»”.
FRANCO LOI-
Che dì, ragassi! In depertütt balera!
Baler in strada, baler den’ di curtìl…
L’è la mania del ballo! Milan che balla!
Gh’è ’n giögh de bocc, un prâ… Sü tri canìcc,
e, tràcheta, la sala bell’e prunta…
Un’urchestrina… Tri balabiott pescâ
föra Lambrâ… E via volare! El Nait
’na lüsa sula! Basta che pénden
chi quatter lampedìn de carta rösa…
Gardenia, Miralago, Stella Russa,
el Lido, Lago Park, la Capannina…
Fina nel Trotter… E ogne nòm ’na storia,
ché basta dì «l’era ’l Quarantacinq»
e pö «Quarantases», e a tanta gent
s’indrissa i urègg, ghe vègn i furmigun…
… Vegnivum da la guèra, e per la strada
gh’evum passâ insèma amur, dulur.
Amô sparaven, amô gh’eren i mort,
ma serum nüm, serum class uperara,
nüm serum i scampâ da fam e bumb,
nüm gent de strada, gent fada de mort,
nüm serum ’me sbuttî dai fòpp del mund,
e, nun per crüdeltâ, no per despresi,
mancansa de pietâ, roja de nüm,
ma, cume ’na passiun de sû s’ciuppada,
anca la nott nüm la vurevum sû…
Ciamila libertâ, ciamila sbornia,
ciamila ’me vurì… Festa ai cujun!
… ma nüm, che l’èm patida propri tüta,
anca la libertâ se sèm gudü!
Che giorno, ragazzi! Dappertutto balera!
Balere in strada, balere nei cortili…
È la mania del ballo, Milano che balla!
C’è un gioco di bocce, un prato… Su tre cannicci,
e, tràccheta, la sala è già pronta…
Un’orchestrina… Tre strapelati pescati
fuori Lambrate… E via volare! Il Night
è una sola luce! Basta che pendano
quelle quattro lampadine di carta rosa…
Gardenia, Miralago, Stella Rossa,
il Lido, Lago Park, la Capannina…
Perfino nel Trotter… E ogni nome una storia,
ché basta dire «era il Quarantacinque»
e poi «Quarantasei», e a tanta gente
si drizzano le orecchie, gli vengono i formiconi…
… Venivamo dalla guerra, e per la strada
ci avevamo passato insieme amori, dolori.
Ancora sparavano, ancora c’erano i morti,
ma eravamo noi, eravamo classe operaia,
noi eravamo gli scampati dalla fame e dalle bombe,
noi, gente di strada, gente fatta di morte,
noi eravamo come germinati dalle fosse del mondo,
e non per crudeltà, non per disprezzo,
mancanza di pietà, vomito di noi,
ma, come una passione di sole esplosa,
anche la notte noi la volevamo sole…
Chiamatela libertà, chiamatela sbornia,
chiamatela come volete… Festa ai coglioni!
… ma noi, che l’abbiamo patita proprio tutta,
anche la libertà ci siamo goduti!
(Angel, 1994 – Parte Prima. IX)
FRANCO LOI-
Nüm ciàmum natüra quèl che sèmm, vedèmm
e tùccum, vìvum, màgnum… forsi pénsum…
Ma lé sé l’è? Un quìss. Forsi sustansa
de quèl che ne la vita l’è ’l pensà,
forsi quèl vöj ch’al mar de la bundansa
la furma scund nel vel del sò passà…
Oh che natüra matta! Un giögh del nient.
Te vöret stàgh nel cör e sbandunàss,
e lé la buffa, se fa d’aria, e ’l vent
te tira denter e l’è ’me ’n sluntanàss,
e l’è ’na vöja che te strèppa dent
e dumâ curr te fa sensa fermàss…
E alura a chi dà atrâ? A la natüra?
la sciensa? religiun? el farnesià
che fa filusufìa? o a chi trascüra
la faccia d’un quaj diu e i sò creà?
Mì, per mè cünt, û truâ la cüra:
natüra lé, natüra mì, el parlà…
E dunca stèmegh dent sensa paüra
e del sò bèll lassìm ’me ’n ciucch cantà.
Noi chiamiamo natura quel che sappiamo, vediamo,
e tocchiamo, viviamo, mangiamo… forse pensiamo…
Ma lei cos’è? Un enigma. Forse sostanza
di quello che nella vita è il pensare,
forse quel vuoto che in un mare così grande
la forma nasconde al velo del suo passare…
Oh che natura pazza! Un gioco del niente.
Tu vuoi starci nel cuore e abbandonarti,
ma lei sbuffa, si fa d’aria, e il vento
ti attira dentro ed è come un allontanarsi,
ed è un desiderio che ti dilania dentro
e soltanto correre ti fa senza riposo…
E allora a chi dar retta? Alla natura?
alla scienza? la religione? il farneticare
della filosofia? o a chi trascura
la faccia d’un qualsiasi dio e le sue creazioni?
Io, per mio conto, ho trovato la cura:
natura lei, natura io, il parlare…
Dunque stiamoci dentro senza paura
e del suo bello lasciatemi da ubriaco cantare.
(Angel, 1994 – Parte Quarta. III)
FRANCO LOI-
Sù pü né quèl che sun né quèl che seri,
sù nient de quèl sarà che me recorda,
e alter me vègn sü, cum ’una storia
che vègn de la memoria del cantà..
Oh vurarìa.. Che gran parola storba!
Quèl che la vita dìs sa pü parlà.
J öcc.. oh dì di öcc! che gran fortüna
vèss in quj öcc un spegg del respirà..
La nott l’era la nott, e mì nel venter
me sun nascost de lé per mai turnà.
Non so più quel che sono né quel che ero,
non so niente di quel futuro che già mi ricorda,
e l’altro mi vien su, come una storia
che torna dalla memoria del cantare..
Oh vorrei.. Che gran parola disturbata!
Quel che la vita dice non sa più parlare.
Gli occhi… oh dire degli occhi! Che gran fortuna
essere in quegli occhi uno specchio del respirare..
La notte era la notte, e io nel ventre
mi son nascosto di lei per non tornare.
(Verna, 1997)
Sbianca la nott la ghe tegniva in scoss,
e la citâ despersa dré di spall
e l’aqua sott i câ la se perdeva
e i gent che nel passà rideven matt,
e lé l’era la nott che ghe purtava
tra i strâd ne la belessa de l’andà,
che mì e tì, nel perdèss del stà insèma,
anca la nott, l’umbrìa, èm smentegâ.
Pallida la notte ci teneva in grembo,
e la città dispersa dietro le spalle
tra le acque che sotto le case si disperdevano
e le genti che nel passare ridevano strambe,
e lei la notte ci portava
tra le strade nella bellezza dell’andare,
ché io e te, nel perdersi dello stare assieme,
anche la notte, l’ombra, abbiamo dimenticato.
(Verna, 1997)
FRANCO LOI-
*
Sü ’n tram û ’ist in faccia la belessa,
un tram südâ, de cappell e giacch,
de impiagâ cuj facc de la tristessa,
e de dònn grass, de bamburín cuj tacch;
û ’ist la faccia che ghe brusava el cör
in ’na Milan che la slisava aj fracch
de câ indurment, de òmm che par che mör,
de auto, buss, sirènn e gas ne l’aria,
e ’stu scappà del temp föra del vör..
L’era ’na faccia franca, lüs ne l’aria,
nel rídd al blö di öcc culur del vent,
un vestî flosc d’un rösa che par svaria
al trèm del corp al tucch del sentiment..
Mí l’û beüda nel bèll del so vardà
e lé s’è fada festa tra la gent.
Su un tram ho visto in faccia la bellezza,
un tram sudato, di cappelli e giacche,
di impiegati con le facce della tristezza,
e donne grasse, e ombelichi sui tacchi;
ho visto la faccia che le bruciava il cuore
in una Milano che scivolava tra mucchi
di case addormentate, di uomini che sembrano morire,
di auto, bus, sirene e gas nell’aria,
e questo fuggire del tempo oltre la volontà..
Era una faccia franca, luce nell’aria,
nel ridere blu di occhi color del vento,
un vestito floscio d’un rosa che pare cangiante
al tremare del corpo al tocco del sentimento..
Io l’ho bevuta nel bello del suo guardare
e lei si è fatta festa tra la gente.
(Amur del temp, 1999)
Stu mancament del mund me fa paüra,
stu vöj de carna che par restreng j òmm,
quèl gran silensi che passa ne la sera
e se mí ciami l’è silensi amô.
Questo mancamento del mondo mi fa paura,
questo vuoto della carne che pare stringere gli uomini,
quel gran silenzio che passa nella sera
e se io chiamo è silenzio ancora.
(Amur del temp, 1999)
FRANCO LOI-
*
Sun lí che pensi e me vègn de piang,
a l’impruísa, per un quaj magun
che sta sòta la pèll, cume la vita
che mai la pénsum e l’umbra l’è de nüm.
L’è del giardín che vègn de caragnà,
ché passa in aria un sfrís che par de nüm
e se scunfund aj àrbur nel vardà:
un vestî vècc, di facc, un nòm luntan,
el sentiment d’un grupp de desgrupà,
una fenestra che se derva pian.
Chissà sé te scartàscia den’ nel corp?
Se varda el sû e te boja un can.
Sono lì che penso e mi viene da piangere,
all’improvviso, per un qualche magone
che sta sotto la pelle, come la vita
che mai la pensiamo ed è l’ombra di noi.
È del giardino che ci viene da piangere,
ché passa nell’aria una scalfittura che sembra noi
e si confonde agli alberi nel guardare:
un vestito vecchio, delle facce, un nome lontano,
il sentimento d’un nodo da sciogliere,
una finestra che si apre piano.
Chissà cosa ti fruga tra le carte del corpo?
Si guarda il sole e ti abbaia un cane.
(Isman, 2002)
Dent la paròla persa mí me pèrdi,
deventi i ròbb del mund, l’aria che passa,
quèla parola che sta dedré de l’aria
e se fa ciara aj ögg che stan nel temp;
e se mí parli sù no chi l’è a parlà,
l’è ’l vent che parla nel mè d’un sentiment,
che nient se fa del nient, e nel pensà
la vûs che mí me ciama me vègn dent.
Dentro la parola persa io mi perdo,
divento le cose del mondo, l’aria che passa,
quella parola che sta dietro l’aria
e si fa chiara agli occhi che stanno nel tempo;
e se io parlo non so chi è a parlare,
è il vento che parla nel mio sentimento,
che niente si fa dal niente, e nel pensare
la voce che mi chiama mi viene dentro.
(Isman, 2002)
FRANCO LOI-
*
“Mì quan’ camini mai me volti indré
e se me volti l’è per tirà la vita,
chì, in due sun, in tra i brasc del temp.”
“Io quando cammino non mi volto mai indietro
e se mi volto è per attrarre la vita,
qui, dove sono, tra le braccia del tempo.”
(Voci d’osteria, 2007)
J öcc în loffi ne l’aria dré la mort,
la man de palta sura un linsö tütt bianch
mè pàder varda el sû cume a vèss nott…
Mè trèma d’aqua el cör de rana verd…
Due l’è? sé l’è mè pàder? cusa l’è ’ndâ?
sé restarà de lü nel vègn del verd
sü ’l gran linsö rescî? Mì sun passâ
nel spègg che scund la giuentü tra i vent
che sbuffa secch i föj de l’òm s’cincâ…
Chi trèma? chi se möv orb de la ment?
chi denter mì par rìdd del frècc d’inverna?
Sun chì a vardà un scunussü fâ nient
e pian se pèrd del pàder la mia eterna
fadiga de capì l’aria, el sò temp.
Gli occhi sono sciocchi nell’aria dietro la morte,
la mano di palta su un lenzuolo tutto bianco
mio padre guarda il sole come fosse notte…
Mi trema d’acqua il cuore di rana verde…
Dov’è? cos’è mio padre? cosa se n’è andato?
Cosa rimarrà di lui nel venire del verde
sul gran lenzuolo spiegazzato? Io sono passato
nello specchio che nasconde la gioventù tra i venti
che soffiano secchi le foglie dell’uomo spezzato…
Chi trema? chi si muove cieco di mente?
chi dentro mi sembra ridere del freddo invernale?
Sono qui a guardare uno sconosciuto fatto di niente
e adagio si perde del padre la mia eterna
fatica di capire l’aria, il suo tempo.
(Voci d’osteria, 2007)
*
Se möv in nüm quajcoss: l’è la cansun
che sentirèm nel scür de la tua stansa
l’è la belessa in mì del tò bèl fiâ?
o la memoria d’i dì che l’û cercada
e süj mè strâd pereva un sogn luntan?
Quajcoss se ciama amur, quajcoss vergogna,
quajcoss l’è libertà de vèss al mund.
Si muove in noi qualcosa: è la canzone
che sentiremo nel buio della tua stanza?
è la bellezza in me del tuo respiro?
o la memoria dei giorni che l’ho cercata
e sulle mie strade pareva un sogno lontano?
Qualcosa si chiama amore, qualcosa vergogna,
qualcosa è libertà d’essere al mondo.
(Voci d’un vecchio cantare, 2017)
Per Antonio Stagnoli
Sé l’è el giögh? L’è libertà, amur,
gioia de vìv, stà ’nsèma ne la vita,
dàss aj so angiul, tràss föra del dulur,
e alura dèm aj òmm sta cumparsita
de pulverina che je fa insugnà,
stu bèll brüsà de l’anfa de la vita
che cun l’amur te ciama al sumenà…
Se pensi ’l Paradîs nient l’è pü bèll
del sant enamuràss e del giügà,
e alura, cume dîl?… Squasi un barbèll
me vègn se stu a pensà al mè giügà…
e inscì me sun decìs: un bèll carèll
de palla prigioniera, un gran saltà
de corda e cun la lippa, e squasi in fund
la toppa e ’n te-ghe-lét che fa palpà…
L’è ’l mè regâl, el testament al mund.
Dopu tantu parlà, e cüntâv sü la storia
de l’angiul che sun stâ e vagabund,
me resta dumâ ’l temp de cantà i gloria,
svelià l’umbra d’un Diu nel vòster piatt
e pö mis’cià la mia vostra memoria
e fâv balà fra i stell, returnà matt.
Che cos’è il gioco? È libertà, amore,
gioia di vivere, stare insieme nella vita,
darsi ognuno al proprio angelo, tirarsi fuori dal dolore,
e allora diamo agli uomini questa ballata
di polverina magica che li fa sognare,
questo intenso bruciare l’affanno della vita
che con l’amore ti chiama al seminare…
Se ripenso il Paradiso niente è più bello
del santo innamorarsi e del giocare,
e allora, come dirlo?… Quasi un tremore
m’insorge se sto a pensare al mio giocare…
e così mi sono deciso: un bel carrello
di palla prigioniera, un gran saltare
alla corda e con la lippa, e quasi in fondo
la toppa e rincorrersi e toccarsi…
È il mio regalo, il testamento al mondo.
Dopo tanto parlare, e raccontarvi la storia
dell’angelo che sono stato e vagabondo,
mi rimane soltanto il tempo di cantare i Gloria,
svegliare l’ombra d’un Dio nella vostra vita
e poi mescolare la vostra e la mia memoria
e farvi infine ballare fra le stelle, ritornare matto.
(Voci d’un vecchio cantare, 2017)
Me piâs la vûs, me piâs la lüs del fiâ,
me piâs quèl camenà sensa paüra
giò per i piass felsin due ch’j straad
portenl’antiga vöja mai madüra
di gent ch’a la fadiga san cantà…
me piâs la niula che se fa ciara e scüra
sia nel silensi sia nel tò parlà,
me piâs l’amur de Diu che te consüma
sensa che mai fenìss el tò ciamà.
Mi piace la voce, mi piace la luce del respiro,
mi piace quel camminare senza paura
giù per le piazze felsinee dove le strade
portano l’antica voglia mai esaurita
delle genti che nella fatica sanno cantare…
mi piace la nuvola che si fa chiara e scura
sia nel silenzio che nel tuo parlare,
mi piace l’amore per Dio che ti consuma
senza mai esaurire il tuo chiamare.
(Voci d’un vecchio cantare, 2017)
FRANCO LOI-
Franco Loi (Genova 1930 – Milano 2021) ha scritto molte raccolte di poesia, a partire da I cart (Edizioni 32, 1973). Tra queste: Stròlegh (Einaudi 1975), Teater (Einaudi 1978), L’angel (San Marco dei Giustiniani 1981 e, in edizione accresciuta, Mondadori 1994), Liber (Garzanti 1988), Verna (Empiria 1997), Amur del temp (Crocetti 1999), Isman (Einaudi 2002), Aquabella (Interlinea 2004), Voci d’osteria (Mondadori 2007), I niül (Interlinea 2012). Voci d’un vecchio cantare (Il Ponte del Sale 2017) è l’ultima raccolta edita. Diverse anche le opere in prosa, come i racconti di L’ampiezza del cielo (Ignazio Maria Gallino 2001), Milano. Lo sguardo di Delio Tessa (Unicopli 2003), Il silenzio (Mimesis 2012).
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