Primo Levi -Poesie-Ritroviamo nel volume le poesie scritte a caldo dopo Auschwitz, riarse da quell’esperienza, e poi, più avanti nel tempo, i testi ispirati a una vena didascalico-morale rara nel Novecento italiano. Qui di seguito diamo la premessa scritta da Levi per il suo libro.
SHEMÀ
(anche epigrafe che apre Se questo è un uomo)
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca
I vostri nati torcano il viso da voi.
AGLI AMICI
Cari amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola:
Moglie, sorella, sodali, parenti,
Compagne e compagni di scuola,
Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita:
Purché fra noi, per almeno un momento,
Sia stato teso un segmento,
Una corda ben definita.
Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita:
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo,
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via;
In ognuno la traccia di ognuno.
Per il bene od il male
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.
Ora che il tempo urge da presso,
Che le imprese sono finite,
A voi tutti l’augurio sommesso
Che l’autunno sia lungo e mite.
16 dicembre 1986
LE PRATICHE INEVASE
(una poesia che parla in qualche modo magari un po’ nascosto del suo suicidio)
Signore, a fare data dal mese prossimo
Voglia accettare le mie dimissioni.
E provvedere, se crede, a sostituirmi.
Lascio molto lavoro non compiuto,
Sia per ignavia, sia per difficoltà obiettive.
Dovevo dire qualcosa a qualcuno,
Ma non so più che cosa e a chi: l’ho scordato.
Dovevo anche dare qualcosa,
Una parola saggia, un dono, un bacio;
Ho rimandato da un giorno all’altro. Mi scusi,
Provvederò nel poco tempo che resta.
Ho trascurato, temo, clienti di riguardo.
Dovevo visitare
Città lontane, isole, terre deserte;
Le dovrà depennare dal programma
O affidarle alle cure del successore.
Dovevo piantare alberi e non l’ho fatto;
Costruirmi una casa,
Forse non bella, ma conforme a un disegno.
Principalmente, avevo in animo un libro
Meraviglioso, caro signore,
Che avrebbe rivelato molti segreti,
Alleviato dolori e paure,
Sciolto dubbi, donato a molta gente
Il beneficio del pianto e del riso.
Nel troverà traccia nel mio cassetto,
In fondo, tra le pratiche inevase;
Non ho avuto tempo per svolgerla. E’ peccato,
Sarebbe stata un’opera fondamentale.
19 aprile 1981
ALZARSI
(anche epigrafe de La Tregua)
Sognavamo notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
“Wstawac”:
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre è sazio,
abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
“Wstawac”.
11 gennaio 1946
APPRODO
Felice l’uomo che ha raggiunto il porto,
Che lascia dietro sé mari e tempeste,
I cui sogni sono morti o mai nati;
E siede e beve all’osteria di Brema,
Presso al camino, ed ha buona pace.
Felice l’uomo come una fiamma spenta,
Felice l’uomo come sabbia d’estuario,
Che ha deposto il carico e si è tersa la fronte
E riposa al margine del cammino.
Non teme né spera né aspetta,
Ma guarda fisso il sole che tramonta.
10 settembre 1964
LA BAMBINA DI POMPEI
Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra
Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
Che ti sei stretta convulsamente a tua madre
Quasi volessi ripenetrare in lei
Quando al meriggio il cielo si è fatto nero.
Invano, perché l’aria volta in veleno
È filtrata a cercarti per le finestre serrate
Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
Lieta già del tuo canto e del tuo timido riso.
Sono passati i secoli, la cenere si è pietrificata
A incarcerare per sempre codeste membra gentili.
Così tu rimani tra noi, contorto calco di gesso,
Agonia senza fine, terribile testimonianza
Di quanto importi agli dei l’orgoglioso nostro seme.
Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella,
Della fanciulla d’Olanda murata fra quattro mura
Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:
La sua cenere muta è stata dispersa dal vento,
La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.
Nulla rimane della scolara di Hiroshima,
Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli,
Vittima sacrificata sull’altare della paura.
Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
Tristi custodi segreti del tuono definitivo,
Ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo.
Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.
20 novembre 1978
PARTIGIÀ
Dove siete, partigia di tutte le valli,
Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse?
Molti dormono in tombe decorose,
Quelli che restano hanno i capelli bianchi
E raccontano ai figli dei figli
Come, al tempo remoto delle certezze,
Hanno rotto l’assedio dei tedeschi
Là dove adesso sale la seggiovia.
Alcuni comprano e vendono terreni,
Altri rosicchiano la pensione dell’Inps
O si raggrinzano negli enti locali.
In piedi, vecchi: per noi non c’è congedo.
Ritroviamoci. Ritorniamo in montagna,
Lenti, ansanti, con le ginocchia legate,
Con molti inverni nel filo della schiena.
Il pendio del sentiero ci sarà duro,
ci sarà duro il giaciglio, duro il pane.
Ci guarderemo senza riconoscerci,
Diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi.
Come allora, staremo di sentinella
Perché nell’alba non ci sorprenda il nemico.
Quale nemico? Ognuno è nemico di ognuno,
Spaccato ognuno dalla sua propria frontiera,
La mano destra nemica della sinistra.
In piedi, vecchi, nemici di voi stessi:
La nostra guerra non è mai finita.
23 luglio 1981
IL SUPERSTITE
a B. V.
Since then, at an uncertain hour,
Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia in petto il cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni
Lividi nella prima luce,
Grigi di polvere di cemento,
Indistinti per nebbia,
Tinti di morte nei sonni inquieti:
A notte menano le mascelle
Sotto la mora greve dei sogni
Masticando una rapa che non c’è.
“Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non è colpa mia se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni”.
4 febbraio 1984
CANTO DEI MORTI INVANO
Sedete e contrattate
A vostra voglia, vecchie volpi argentate.
Vi mureremo in un palazzo splendido
Con cibo, vino, buoni letti e buon fuoco
Purché trattiate e contrattiate
Le vite dei vostri figli e le vostre.
Che tutta la sapienza del creato
Converga a benedire le vostre menti
E vi guidi nel labirinto.
Ma fuori al freddo vi aspetteremo noi,
L’esercito dei morti invano,
Noi della Marna e di Montecassino
Di Treblinka, di Dresda e di Hiroshima:
E saranno con noi
I lebbrosi e i tracomatosi,
Gli scomparsi di Buenos Aires,
I morti di Cambogia e i morituri d’Etiopia,
I patteggiati di Praga,
Gli esangui di Calcutta,
Gl’innocenti straziati a Bologna,
Guai a voi se uscirete discordi:
Sarete stretti dal nostro abbraccio.
Siamo invincibili perché siamo i vinti.
Invulnerabili perché già spenti:
Noi ridiamo dei vostri missili.
Sedete e contrattate
Finché la lingua vi si secchi:
Se dureranno il danno e la vergogna
Vi annegheremo nella nostra putredine.
14 gennaio 1985
(purtroppo il danno e la vergogna durano, mio povero Primo…)
Ad ora incerta raccoglie sessantatré poesie e dieci traduzioni. Le poesie coprono un arco di quarant’anni, dal 1943 (Crescenzago) al 1984, quando Levi usava pubblicarle sulle pagine culturali del quotidiano torinese «La Stampa».
Primo Levi -Poesie
Ritroviamo nel volume le poesie scritte a caldo dopo Auschwitz, riarse da quell’esperienza, e poi, più avanti nel tempo, i testi ispirati a una vena didascalico-morale rara nel Novecento italiano. Qui di seguito diamo la premessa scritta da Levi per il suo libro.
«In tutte le civiltà, anche in quelle ancora senza scrittura, molti, illustri e oscuri, provano il bisogno di esprimersi in versi, e vi soggiacciono: secernono quindi materia poetica, indirizzata a se stessi, al loro prossimo o all’universo, robusta o esangue, eterna o effimera. La poesia è nata certamente prima della prosa. Chi non ha mai scritto versi?
Uomo sono. Anch’io, ad intervalli irregolari, «ad ora incerta», ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico. In alcuni momenti, la poesia mi è sembrata più idonea della prosa per trasmettere un’idea o un’immagine. Non so dire perché, e non me ne sono mai preoccupato: conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte, e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti. Posso solo assicurare l’eventuale lettore che in rari istanti (in media, non più di una volta all’anno) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale.
Primo Levi»
Introduzione di Primo Levi alla prima edizione Garzanti 1984, collana «Poesie».
La poesia di Levi ragiona, descrive (animali, soprattutto), gioca con le parole, si lancia verso geografie lontane e verso storie sprofondate nel mito. Gli esercizi di traduzione riguardano un anonimo scozzese del Seicento, Rudyard Kipling e soprattutto – otto testi su dieci – Heinrich Heine: versioni, come dice lo stesso autore, «più musicali che filologiche, e piuttosto divertimenti che opere professionali». A seguire un brano critico del poeta Giovanni Raboni.
«[…] a me sembra che la scrittura poetica di Levi abbia, sin dall’inizio […], lo stesso solenne acume morale, la stessa forza di memoria, ammonimento e pietà, che rendono così sostanziosa, così giusta, così naturalmente memorabile la sua prosa. […] In Levi lo scatto, l’impulso iniziale di ogni singola poesia […] nasce dalla ragione, dalla lettura morale della realtà, da quella capacità di capire la propria sofferenza e di vivere la propria indignazione come patrimonio comune a tutti gli uomini, che formano la peculiarità e oserei dire l’insostituibilità della sua prosa».
Giovanni Raboni, Primo Levi un poeta vero ad ora incerta, «La Stampa», 17 novembre 1984, poi nell’antologia critica che chiude l’edizione economica di Ad ora incerta, Garzanti, Milano 1990.
Ad ora incerta vinse nel 1985 il Premio Abetone della Provincia di Pistoia e il Premio nazionale Giosué Carducci di Pietrasanta. Per sottile ironia, il penultimo testo della raccolta, Pio, consiste in un rovesciamento parodico della celebre Il bove di Carducci
Primo Levi –
Primo Lèvi, scrittore ebreo italiano (Torino 1919-1987), giunse alla letteratura attraverso la tragica esperienza vissuta nei lager che lo segnò fino al punto di diventare per lui un’ossessione che lo portò dopo tanti anni al suicidio. Il racconto delle traversie subite ad Auschwitz è consegnato a Se questo è un uomo (1947), denuncia della tragica e subumana vita nel lager. Dopo la raffinata e complessa raccolta di racconti Lilit e altri racconti (1981), ebbe un grande successo con Se non ora, quando? (1982, premio Viareggio e premio Campiello) in cui narra, in chiave epica e picaresca, l’epopea di un gruppo di partigiani dalla Russia a Milano.
Nato il 31 luglio del 1919 a Torino, da genitori di religione ebraica, Primo Levi si diploma nel 1937 al liceo classico Massimo D’Azeglio e si iscrive al corso di laurea in chimica presso la facoltà di Scienze dell’Università di Torino. Nel ’38, con le leggi razziali, si istituzionalizza la discriminazione contro gli ebrei, cui è vietato l’accesso alla scuola pubblica. Levi, in regola con gli esami, ha notevoli difficoltà nella ricerca di un relatore per la sua tesi: si laurea nel 1941, a pieni voti e con lode, ma con una tesi in Fisica. Sul diploma di laurea figura la precisazione: «di razza ebraica». Comincia così la sua carriera di chimico, che lo porta a vivere a Milano, fino all’occupazione tedesca: il 13 dicembre del ’43 viene catturato a Brusson e successivamente trasferito al campo di raccolta di Fossoli, dove comincia la sua odissea. Nel giro di poco tempo, infatti, il campo viene preso in gestione dai tedeschi, che convogliano tutti i prigionieri ad Auschwitz.
È il 22 febbraio del ’44: data che nella vita di Levi segna il confine tra un “prima” e un “dopo”.
«Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome privo di significato, allora e per noi» (P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi 1998, p. 15).
In fretta e sommariamente viene effettuata una vera e propria selezione: «In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente» (Op. cit., p. 17).
L’autore è deportato a Monowitz, vicino Auschwitz, in un campo di lavoro i cui prigionieri sono al servizio di una fabbrica di gomma. Al lager, persi nei loro pensieri, presi da mille domande, da ipotesi continue che per quanto catastrofiche, non si avvicinano neanche lontanamente alla verità, si ritrovano ,in pochissimo tempo, rasati, tosati, disinfettati e vestiti con pantaloni e giacche a righe. Su ogni casacca c’è un numero cucito sul petto. I prigionieri vengono marchiati come bestie. Il loro compito: lavorare, mangiare, dormire, OBBEDIRE. Il loro intento: sopravvivere. Dietro quel numero non c’è più un uomo, ma solo un oggetto: häftling, cioè “pezzo”. Se funziona, va avanti. Se si rompe, è gettato via.
“Se questo è un uomo” di PRIMO LEVI
Levi è l’häftling 174517. Funzionante.
Primo Levi è tra i pochissimi a far ritorno dai campi di concentramento. Ci riesce fortunosamente, grazie a una serie di circostanze e solo dopo un lungo girovagare nei Paesi dell’est.
Quale testimone di tante assurdità, sente il dovere di raccontare, descrivere l’indescrivibile, affinchè tutti sappiano, tutti si domandino un perché, tutti interroghino la propria coscienza: comincia a scrivere, elaborando così il suo dolore, il suo annientamento, il suo avventuroso ritorno a casa. Nel ’47, rifiutato dalla Einaudi, il manoscritto Se questo è un uomo è pubblicato dalla De Silva editrice.
Il libro ottiene un discreto successo di critica ma non di vendita. Solo nel ’56 la Einaudi comincia a pubblicare tutti i suoi lavori: Se questo è un uomo è tradotto in diverse lingue, La Tregua vince la prima edizione del Premio Campiello. Nel ’67 raccoglie i suoi racconti in un volume intitolato Storie naturali adottando lo pseudonimo di Damiano Malabaila. Nel ’71 esce Vizio di forma, nuova serie di racconti e nel ’78 La chiave a stella che vince il Premio Strega. Nel ’81 viene edita un’antologia personale dal titolo La ricerca delle radici nella quale sono raccolti tutti gli autori che hanno contato nella formazione culturale dell’autore. Nel novembre dello stesso anno esce Lilìt e altri racconti e l’anno successivo Se non ora quando? che vince il Premio Viareggio e il Premio Campiello.
“Se questo è un uomo” di PRIMO LEVI
Nel frattempo Levi lavora anche come traduttore. Nell’ottobre del ’84 pubblica Ad ora incerta e a dicembre Dialogo in cui riporta una conversazione avuta con il fisico Tullio Regge. Nel novembre dello stesso anno esce l’edizione americana del Sistema periodico e nel gennaio del ’85 una cinquantina di scritti pubblicati precedentemente su diverse testate, raccolti in un volume unico intitolato L’altrui mestiere. Nel 1986 pubblica I sommersi e i salvati.
L’ 11 Aprile 1987, in un periodo di depressione, ancora tormentato dai ricordi di Auschwitz, Primo Levi muore suicida nella sua casa di Torino. Dirà di lui Claudio Toscani: «L’ultimo appello di Primo Levi non dice non dimenticatemi, bensì non dimenticate».
La poesia matura di Kiki Dimoulà (1931-2020) ha aggiunto una dimensione completamente nuova alla poesia greca moderna.
Avendo sperimentato il dramma della dissoluzione esistenziale dell’umanità del dopoguerra e, allo stesso tempo, il vicolo cieco di un mondo che ha perso il dono della fede, la sua poesia ha mappato un mondo che è allo stesso tempo “senza casa” e insicuro; un mondo in cui la poeta, per sopravvivere, ha dovuto immergersi nelle dinamiche fondamentali del processo creativo e interferire in modo decisivo con la loro logica. La sua scrittura rivoltava la grammatica della lingua greca contro il significato delle parole, tentando così di rafforzare la forza emotiva del verso attraverso lo stupore e la sorpresa. Tutti i suoi versi suggeriscono la stabilità di un mondo che gli occhi non possono vedere, ma che diventa intero attraverso la sua ricostruzione immaginaria all’interno della poesia come un tutto organico. Questa dimensione di stupore e sorpresa è diventata un fattore emotivo attivo nella poesia greca contemporanea.
Kiki Dimoulà
La poesia di Dimoulà tratta i temi dell’assenza e dell’oblio come in un caleidoscopio, dove colori e forme si dissolvono e si mescolano per essere ricostruiti in un’armonia e un ordine nascosti. Questa poesia trasforma la fluidità in un processo transustanziante: l’universo ridiventa mondo, l’agonia diventa nostalgia, l’assenza appare come redenzione del tempo. Il linguaggio della poeta rompe le consuetudini e nega le certezze di una tradizione romantica che non vede il tempo perduto come una presenza continua e attiva. Attraverso le sue linee il tempo personale rinasce e si compie per sempre come esperienza collettiva e immagine prismatica. La sua poesia, attraverso le analisi e gli studi di Eraclito, presenta il mondo migliore di un’ontologia personale e lo stabilisce come materiale sensoriale e fenomeno estetico.
Per Dimoulà il silenzio, la migrazione e la minimizzazione entrano nel linguaggio per dissolvere la coerenza di una logica incapace di decifrarne il messaggio. In essi la poeta scopre dimensioni esistenziali che errano nell’esperienza ma che il cervello, ottenebrato com’è dalla vertigine razionalistica, rifiuta di accettarle. È proprio questo lo scopo della poesia di Dimoulà: creare lo spazio per la realizzazione del mondo migliore. Ognuna delle sue poesie individua e registra le dimensioni di questo mondo multidimensionale e ordinato previsto.
La “o” disgiuntiva
Mi ha chiuso in casa la pioggia e ora dipendo dalle gocce.
Ma come sapere se è pioggia o lacrime dal cielo profondo di un ricordo? Sono troppo cresciuta per dare senza riserve un nome ai fenomeni: questa è pioggia e queste sono lacrime.
Rimango asciutta tra due possibilità: pioggia o lacrime, e tra tante ambigue realtà: pioggia o lacrime, amore o modo di crescere, tu o piccola oscillante ombra dell’ultima foglia che saluta. Ogni ultima cosa, la chiamo ultima senza riserve.
Sono troppo cresciuta perché questo sia motivo di lacrime. Lacrime o pioggia, come saperlo? E continuo a dipendere dalle gocce. E sono troppo cresciuta per aspettare una misura quando piove e un’altra quando non piove. Gocce per tutto. Gocce di pioggia o lacrime.
Dagli occhi di un ricordo o dai miei. Io o il ricordo, chi lo sa. Sono troppo cresciuta per distinguere i tempi. Pioggia o lacrime. Tu o piccola oscillante ombra dell’ultima foglia che saluta.
(Traduzione di Maria Paola Minucci)
da “L’adolescenza dell’oblio”, Crocetti Editore.
È per questo che ogni sua poesia mina il dominio del silenzio, ogni parola abolisce il potere dell’oscurità e dell’oscurità. La poeta vuole far luce su quelle forze mobilitanti della psiche – non il subconscio freudiano dei desideri repressi, ma l’area dell’Es, l’oscura Persefone che appartiene a ciascuno dei mortali e regna nel nostro Ade personale: una sorgente personale, una via verso la molteplicità. Ciascuna poesia di Dimoula è quindi un rito funebre omerico, una rievocazione dei morti attraverso la sottomissione del senso assente che hanno lasciato; e ciascuna sottomissione dona essenza alle sue linee, plasma essenza ed energia, corpo, linguaggio e calore umano.
Per Dimoula tutto vive di una simultaneità a più livelli, nel tempo della memoria dove non c’è distinzione tra istanti e tutto è identificato in modo assoluto e viene liberato alla salvezza attraverso lo stupore della memoria. Perché questa emozione iniziale domina nel suo lavoro: stupore per la perdita e la dissoluzione, per il tempo e la distanza, stupore per il potere del linguaggio che resuscita e sostituisce integralmente tutte quelle cose che sono scomparse e sono state dimenticate. Il poetare di Dimoulà illustra il ristabilimento di analogie simmetriche tra memoria e realtà, tra l’uomo e il suo spazio; infine, vede la possibilità della transustanziazione dalla decadenza, la resistenza concessa al caos e alla confusione della storia dalla potenza del linguaggio.
Cravatta nera
Innaffia tu la pianta e lasciami piangere. Scrivi però le ragioni, forse devo altro dolore. Voglio avere la coscienza in pace di avere sofferto per tutto.
Scrivi che piango per uno specchio. Un tempo oggetto ornamentale, oggi oracolo. Per la brusca buonanotte che danno le poche possibilità e si dileguano. Scrivi che piango per la tua finestra, chiusa e senza saluti, melanconica per nascita. Per gli uccelli dell’ultimo decennio. Il loro terrore delle antenne televisive. Per il loro adattarsi e svolazzare tra questi alberi di ferro.
Scrivi. Per questo sabato sera sepolto tra due cipressi nella chiesa di campagna. Per la luna in lutto – indossa una cravatta nera nuvola, scrivi che piange. Piango perché mi hai chiesto se ho visto la luna piena. No, non ho visto niente di pieno, non ho vissuto. Piango perché i ragazzi portano lo zaino come una conoscenza già completa, e non entrano nel tenero rassicurante delle ore ancora acerbe e non giocano.
Scrivi che piango per le madri. Le più antiche madri. Belle ed esili, amanti delle finestre, arpiste della vedetta che la morte ha colto impreparate e sono longeve materne nelle fotografie del salotto e nei ricami.
Piango perché hanno acceso le luci e la domenica gatta raggomitolata sulla mia finestra. Scrivi che piango per le bufere, il poco cibo, per tutto il Poco, per i terremoti senza preavviso. Piango perché va sprecata la notizia che mi hai dato della prima farfalla vista ieri. Piango perché non fa notizia l’effimero.
Scrivi. Piango perché la sorte si è chiusa in casa, la dilazione è arrivata al boia, la borraccia è arrivata nel deserto, la gioventù nella fotografia. Piango perché chissà chi chiuderà dei miei giorni gli occhi.
Innaffia tu la pianta e lasciami piangere perché…
Fotografia 1948
Ho un fiore in mano forse. Strano. Nella mia vita deve esserci stato un giardino un tempo.
Nell’altra mano stringo una pietra. Con fiera grazia. Nessun sospetto per preavvisi di mutamenti, sentore di difese piuttosto. Nella mia vita deve esserci stata ignoranza un tempo.
Sorrido. La curva del sorriso, il cavo del mio umore, somiglia a un arco ben teso, pronto. Nella mia vita deve esserci stato un bersaglio un tempo. E predisposizione a vincere.
Lo sguardo affondato nel peccato originale: assapora il frutto proibito dell’attesa. Nella mia vita deve esserci stata fede un tempo.
La mia ombra, nient’altro che un gioco del sole. Addosso un’uniforme d’incertezza. Non ha ancora fatto in tempo a essermi compagna o delatrice. Nella mia vita deve esserci stata abbondanza un tempo.
Tu non ci sei. Ma se c’è un precipizio nel paesaggio se io sto sull’orlo con un fiore in mano e sorrido, vuol dire che da un momento all’altro arriverai. Nella mia vita deve esserci stata vita un tempo.
(Traduzione di Maria Paola Minucci)
da “L’adolescenza dell’oblio”, CrocettiEditore.
Addio a Kiki Dimoula | L’Altrove
Kiki Dimoulà
25/02/2020 /Addio a Kiki Dimoula | L’Altrove
Ci ha lasciato, ad ottantanove anni, la poetessa greca Kiki Dimoula.
Kiki nacque ad Atene il 6 giugno 1931, nella vita fu impiegata nella Banca Nazionale Grecia, ma ebbe un grande successo con la sua poesia.
Esordì nel 1952 con la raccolta Poesie e successivamente pubblicò una decina di raccolte in versi. Le sue poesie vennero tradotte in molte lingue, in Italia fu la Crocetti Editore a pubblicarla. Con L’adolescenza nell’oblio, del 1994, vinse il prestigioso Premio dell’Accademia di Atene.
La ricordiamo con una sua poesia:
La pietra perifrastica
Parla. Dì qualcosa, qualsiasi cosa. Soltanto non stare come un’assenza d’acciaio. Scegli una parola almeno, che possa legarti più forte con l’indefinito. Dì: “ingiustamente” “albero” “nudo” Dì: “vedremo” “imponderabile”, “peso”. Esistono così tante parole che sognano una veloce, libera, vita con la tua voce. Parla. Abbiamo così tanto mare davanti a noi. Lì dove noi finiamo inizia il mare Dì qualcosa. Dì “onda”, che non arretra Dì “barca”, che affonda se troppo la riempi con periodi. Dì “attimo”, che urla aiuto affogo, non lo salvare, Dì “non ho sentito”. Parla Le parole hanno inimicizie, hanno antagonismi se una ti imprigiona, l’altra ti libera. Tira a sorte una parola dalla notte. La notte intera a sorte. Non dire “intera”, Dì “minima”, che ti permette di fuggire. Minima sensazione, tristezza intera di mia proprietà Notte intera. Parla. Dì “astro”, che si spegne. Non diminuisce il silenzio con una parola. Dì “pietra”, che è parola irriducibile. Così, almeno, che io possa mettere un titolo a questa passeggiata lungomare.
Da Il poco del mondo
Rivista L’Altrove
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Poesie di Eeva Kilpi- poetessa e scrittrice tra le più amate in Finlandia-
Eeva Kilpi -poetessa e scrittrice tra le più amate in Finlandia-Nata in Carelia, regione di confine che oggi appartiene alla Russia, l’autrice finnica si è formata da ragazza ad Helsinki ed ha iniziato a pubblicare romanzi, racconti e liriche all’età di 31 anni. Le sue opere sono state tradotte in sedici lingue. Il libro che le ha dato la fama mondiale è ‘Tamara’, uscito nel 1972, in cui narra il rapporto tra una donna sessualmente attiva e il suo professore universitario paraplegico e impotente.Eeva Kilpi è conosciuta anche come sceneggiatrice ed attrice di alcuni film e documentari molto popolari nel Paese nordico. Femminista ed ambientalista, ha trasferito l’impegno civile nelle sue poesie, spesso caratterizzate da una vena sottile di umorismo ed ironia.
Eeva Kilpi- poetessa e scrittrice fillandese
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LA PRIMAVERA, IL FALCO
(Eeva Karin Salo, coniugata in Kilpi)
La primavera, il falco
e questo posto dove vivevamo,
tutto questo mi emoziona, disse mia sorella
mentre mangiavamo lamponi
sulle fondamenta della nostra vecchia casa.
Eravamo su una collinetta soleggiata, circondati dalla foresta.
Una lepre aveva visitato il soggiorno.
Dalla parte della camera da letto era entrato un alce.
Era una sera calda.
Era passato mezzo secolo.
Quanto amiamo tutto ciò che è simile a noi.
Eeva Kilpi- poetessa e scrittrice fillandese
DIMMI SE DISTURBO
Dimmi se disturbo,
ha detto entrando,
perché me ne vado immediatamente.
Non solo disturbi,
ho replicato,
tu scuoti tutto il mio essere.
Benvenuto!
QUANDO HAI VISTO UNA NUVOLA
Quando hai visto una nuvola
nel grembo di un lago
e la luna
tra le ninfee,
sei inevitabilmente in balia
della tua stessa anima.
Gli innamorati si offrono regni,
nuove patrie, continenti e lingue rare.
Quando si separano, i doni restano con loro,
sono irreversibili
e l’amore rimane in loro,
come la letteratura, le competenze linguistiche,
le poesie e i racconti
che hanno composto insieme
nella lingua di ognuno.
Allora l’amore allarga il mondo
e, anche quando scompare,
suscita pace e comprensione.
Nuovi cuori si stanno aprendo,
c’è ancora qualcosa da condividere
con i prossimi amori.
Eeva Kilpi
da Canto d’amore e altre poesie, 1972
Eeva Kilpi -Nata in Carelia, regione di confine che oggi appartiene alla Russia, l’autrice finnica si è formata da ragazza ad Helsinki ed ha iniziato a pubblicare romanzi, racconti e liriche all’età di 31 anni. Le sue opere sono state tradotte in sedici lingue. Il libro che le ha dato la fama mondiale è ‘Tamara’, uscito nel 1972, in cui narra il rapporto tra una donna sessualmente attiva e il suo professore universitario paraplegico e impotente.Eeva Kilpi è conosciuta anche come sceneggiatrice ed attrice di alcuni film e documentari molto popolari nel Paese nordico. Femminista ed ambientalista, ha trasferito l’impegno civile nelle sue poesie, spesso caratterizzate da una vena sottile di umorismo ed ironia.
Eeva Karin Kilpi (née Salo; 18 February 1928, Hiitola) is a Finnish writer and feminist.[1] Better known abroad than in Finland, her poetry, characterized as feminist humor, was discovered in the 1980s in Europe.[2]
Eeva Kilpi- poetessa e scrittrice fillandese
Biography
Eeva Karin Salo was born on February 18, 1928, to Solmu Aulis Aimo and Helmi Anna Maria (née Saharinen) Salo within the former Karelian municipality of Hiitola, Finnish Karelia, where she lived until the coming of the Winter War of 1939-1940.[3][4]
During the Winter War, Kilpi and her family survived bombings by hiding in an underground cellar. Her father was later called away to the front lines and the family was forced to evacuate from the region. Kilpi ended up attaining an education in Helsinki, the capital and largest city in Finland.[3][4]
Poesie di Titos Patrikios- “Tempo assediato – Πoλιορκημένος χρόνος” -Fallone Editore – anteprima dalla rivista «Atelier»-
Titos Patrikios (Atene, 1928) ha coltivato da sempre la poesia, esercitando nel contempo l’attività politica: esperienze intense, anche drammatiche, affrontate con onestà intellettuale e vigile spirito critico. Costantemente impegnato nel sostegno dei diritti civili, ha al suo attivo, oltre a numerosi racconti e traduzioni, diversi saggi letterari, sociologici e giuridici. La sua produzione poetica è raccolta nei volumi Ποιήματα Α’, 1943-1959 (2017), Ποιήματα Β’, 1959-2017 (2018) e Ο δρόμος και πάλι (2020). Fra le traduzioni italiane più recenti della sua opera si ricordano: Poesie scelte, a cura di V. Rotolo; La strada di nuovo, a cura di D. Puliga.
Titos-Patrikios-
Raccolta di 12 poesie curata e tradotta da Maria Caracausi
Non sono nato uomo compiuto,
giorno per giorno cresceva la mia vita
germogliando come un albero.
Non sono nato eroe,
giorno per giorno cresceva la mia vita
dentro paure stravinte.
Sono giunto vicino a voi con timore e speranza
ho cercato di diventare come volevate
per combattere insieme l’ingiustizia.
Tuttavia non mi curo più del vostro parere
fin quando cercheremo responsabili
fin quando metteremo a nudo la menzogna.
Non mi curo più del perdono di nessuno.
VIII
Πολιορκημένος χρόνος
Νομίζαμε πὼς γνωριζόμαστε καλά.
Μὰ ὅταν τὰ κουρασμένα ροῦχα μας ἀρχίσανε νὰ πέφτουν
χωρὶς προσχήματα οὔτε ἀνταλλάξιμη παραφορὰ
καὶ μεῖναν τὰ κορμιά μας ἀπροσποίητα
φάνηκε καθαρὰ πόσο μακρὺς ἦταν ὁ δρόμος
πόσο ἦταν ὁ χρόνος μας πολιορκημένος, κι ἐμεῖς
δυὸ ἄνθρωποι συνηθισμένοι, περίπου ἀπροσπέλαστοι.
Παρίσι, Μάρτης 1962
Tempo assediato
Pensavamo di conoscerci bene.
Ma quando i nostri indumenti stanchi cominciarono a cadere
senza pretesti né scambievole irruenza
e rimasero i nostri corpi senza finzione
apparve chiaramente quanto fosse lunga la strada
quanto il nostro tempo fosse assediato, e noi
due persone comuni, quasi inaccessibili.
Parigi, Marzo 1962
XII
Τὰ παιδικά μας χρόνια
Ἄν, ὅπως λένε, πατρίδα μας
εἶναι τὰ παιδικά μας χρόνια
τότε εἶναι μιὰ πατρίδα
ποὺ συνεχῶς ἀπομακρύνεται
ποὺ μόνο σὰν ἀνάμνηση
ὅλο καὶ πιὸ θαμπὴ μᾶς μένει.
Ἴσως καλύτερα νὰ ψάξουμε
γιὰ μιὰ πιὸ σταθερὴ πατρίδα.
Gli anni della nostra infanzia
Se, come si dice, la nostra patria
sono gli anni della nostra infanzia
allora è una patria
che continuamente si allontana
che solo come ricordo
resta per noi sempre più opaca.
Forse meglio cercare
una patria più stabile.
Nei versi di Patrikios la memoria assorbe in sé il ricordo per farne cosa ulteriore. Il passo ben fermo sulla terra pianeggiante, la Grecia e l’eco della guerra, la giustizia quale punto cardinale di una ricerca lunga quanto la vita, ma anche l’amore declinato al plurale, un’affezione che è duplice nella sfumatura semantica, e l’infanzia, legata alla patria e ai nomi, che determinano e stabiliscono le forme, persino i modi. Qui c’è la storia dell’individuo che non si incastra perfettamente con la storia della collettività, poiché l’uomo col suo vissuto e la sua integrità ha valore superiore a quello delle folle, che per loro natura non hanno volto né identità. Qui c’è l’uomo che attraversa la Storia e ci sono le storie dell’uomo che sovrasignificano il tempo.
Fallone Editore
La Fallone Editore è una casa editrice indipendente fondata nella primavera del 2017, pugliese per tassonomie geografiche, e radicata nella storia e nella cultura millenarie di questa terra, ma proiettata su una linea d’azione nazionale, sia per la distribuzione del prodotto editoriale che per l’eterogeneità degli autori che pubblica.
Tra i segmenti di suo interesse, non solo prosa e poesia, pilastri della Letteratura, ma anche saggistica, letteratura per l’infanzia, scienze ermetiche e pubblicazioni a carattere vario, che spaziano dalla cinotecnica alla musicologia, passando per le arti figurative, la culinaria, la fumettistica e la botanica (per maggiori dettagli si rimanda al progetto editoriale).
Se è vero, come forse è vero, che ‘il talento fa quello che vuole e il genio quello che può’ [C.B.], una casa editrice non può che essere una fucina, luogo in cui si forgia e si è forgiati al fuoco sacro del talento – che è dono di nascita e perciò divino – aristocraticamente elitario e perciò antidemocratico – indimostrabile, se non nell’evidenza di sé, e perciò innegabile.
Se è vero, come certamente è vero, che un libro non è soltanto un oggetto, per quanto bello possa essere, ma ‘è anche un luogo oscuro di sfoghi e di rimozioni, dove si combatte un duello senza pietà, con la sola scelta di guarire o morire’ [G. Bufalino], la scrittura è un attraversamento di sé, un disvelamento delle ombre che richiede coraggio: chiede passi fermi e sguardo alto.
In questi passi, i primi, in questo sguardo alto come il cuore, nasce la Fallone Editore.
di Enrica Fallone
Piazza Marconi n.3 – 74121 Taranto
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La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Un conto è leggere a scuola questi desolati versi di Sergio Corazzini (Roma, 1886-1907), come hanno fatto molti studenti, anche recentemente agli ultimi esami di Stato.
Il mio cuore
Il mio cuore è una rossa macchia di sangue dove io bagno senza possa la penna, a dolci prove
eternamente mossa. E la penna si muove e la carta s’arrossa sempre a passioni nove.
Giorno verrà: lo so che questo sangue ardente a un tratto mancherà,
che la mia penna avrà uno schianto stridente… … e allora morirò.
Imagine
La rondine di mare che ieri, mia dolente, volava sopra il lago, con l’alucce sgomente,
erra sempre e la sorte del suo tenero volo? brutal piombo la colse, e cadde, morta, al suolo?
o pur, libera, dopo lungo palpito d’ale, giunse all’immenso, azzurro Oceano natale,
ove ne l’aria, ondeggiano esalazioni amare?… A me, vedi, la piccola rondinella di mare,
stanca, che sfiorava, con l’aluccia sua lieve, l’onde del lago, troppo, per i suoi voli, breve,
a me sembra il tuo cuore instancabile, ardito, cuore di donna, cuore acceso d’infinito,
cuor nostalgico in preda al doloroso senso di cercar, vanamente, per sé un amore immenso!
Rime del cuore morto
O piccolo cuor mio, tu fosti immenso come il cuore di Cristo, ora sei morto; t’accoglie non so più qual triste orto odorato di mammole e d’incenso.
Uomini, io venni al mondo per amare e tutti ho amato! Ho pianto tutti i pianti vostri e ho cantato tutti i vostri canti! Io fui lo specchio immenso come il mare.
Ma l’amor onde il cuor morto si gela, fu vano e ignoto sempre, ignoto e vano! Come un’antenna fu il mio cuore umano, antenna che non seppe mai la vela.
Fu come un sole immenso, senza cielo e senza terra e senza mare, acceso solo per sé, solo per sé sospeso nello spazio. Bruciava e parve gelo.
Fu come una pupilla aperta e pure velata da una palpebra latente; fu come un’ostia enorme, incandescente, alta nei cieli fra due dita pure,
ostia che si spezzò prima d’avere tocche le labbra del sacrificante, ostia le cui piccole parti infrante non trovarono un cuore ove giacere.
Tutta l’anima, tutte le pure
Tutta l’anima mia, tutte le pure gioie godute nella giovinezza; ogni mia più soave tenerezza, tutte le mie speranze malsecure
nelle loro precoci sepolture, l’eterna immensurabile tristezza che il mio cuore dissangua ma non spezza offerte alle mortali creature.
Anima, come vano, come vano l’amor tuo, come triste il disinganno.
Desolazione del povero poeta sentimentale
I
Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta. Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. Perché tu mi dici: poeta?
II
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni. Le mie gioie furono semplici, semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
Oggi io penso a morire.
III
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco; solamente perché i grandi angioli su le vetrate delle cattedrali mi fanno tremare d’amore e di angoscia; solamente perché, io sono, oramai, rassegnato come uno specchio, come un povero specchio melanconico. Vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
IV
Oh, non maravigliarti della mia tristezza! E non domandarmi; io non saprei dirti che parole così vane, Dio mio, così vane, che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire. Le mie lagrime avrebbero l’aria di sgranare un rosario di tristezza davanti alla mia anima sette volte dolente, ma io non sarei un poeta; sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.
V
Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù. E i sacerdoti del silenzio sono i romori, poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.
VI
Questa notte ho dormito con le mani in croce. Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo dimenticato da tutti gli umani, povera tenera preda del primo venuto; e desiderai di essere venduto, di essere battuto di essere costretto a digiunare per potermi mettere a piangere tutto solo, disperatamente triste, in un angolo oscuro.
VII
Io amo la vita semplice delle cose. Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco, per ogni cosa che se ne andava! Ma tu non mi comprendi e sorridi. E pensi che io sia malato.
VIII
Oh, io sono, veramente malato! E muoio, un poco, ogni giorno. Vedi: come le cose. Non sono, dunque, un poeta: io so che per esser detto: poeta, conviene viver ben altra vita! Io non so, Dio mio, che morire. Amen.
Un bacio
Oh, un bacio, un bacio lieve su la tua bocca rossa, un bacio breve, breve piccolo, senza scossa.
Senza che il core possa tremar… no, non lo deve non vo’ che tu per l’ossa senta un brivido lieve…
che faccia il volto esangue… . . . . . . . . .
Oh, un bacio di morente sulla bocca, permetti?
Su quella bocca ardente che pare un fior di sangue trionfante tra i mughetti!
“Io non sono un peota”: i versi di Corazzini, il bimbo che voleva morire articolo di Eraldo Affinati-31 agosto 2021-Fonte il Riformista
Sergio Corazzini
«Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. / Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. / Perché tu mi dici: poeta?». Un conto è leggere a scuola questi desolati versi di Sergio Corazzini (Roma, 1886-1907), come hanno fatto molti studenti, anche recentemente agli ultimi esami di Stato. Un altro conto è scandirli in un soffio leggero, nella calura stagnante in mezzo alle zanzare, come è capitato a me dentro l’ottavo colombario al cimitero del Verano (ossario 25, fila II), dove sono conservati i suoi poveri resti. Nel lungo corridoio oscuro, illuminato soltanto dai fiochi raggi provenienti dai lucernai, il volto adolescente del ragazzo splendeva ancor più del solito, nell’unica famosa fotografia che ancora oggi lo ritrae, in ogni manuale del crepuscolarismo, quello stato d’animo sconsolato e malinconico, fra organetti, conventi, suore, cortili, ospedali e sagrestie, individuato per la prima volta da Antonio Borgese nel 1910, il colletto inamidato fin sulla gola, col cravattino stretto sotto il gilet, come usava ai primi del Novecento, il ciuffo di capelli ben pettinato sulla fronte alta, lo sguardo fermo, determinato, rivolto verso il baratro del futuro.
Mi ero deciso a rendere questo omaggio al fanciullo più celebre della letteratura italiana, così diverso da Guido Gozzano in quanto, a differenza sua, privo di vezzi e orpelli, dopo averne riletto i testi appena riproposti in una piccola, preziosa, commovente, meritoria edizione di Internopoesia, a cura di Alessandro Melia: Io non sono un poeta (pp. 156, dodici euro). Andare in libreria, comprare il testo, ritrovare subito il vecchio, mai sopito, incanto di Toblach: «Le speranze perdute, le preghiere / vane, l’audacie folli, i sogni infranti, / le inutili parole de gli amanti / illusi, le impossibili chimere, / e tutte le defunte primavere…», prendere lo scooter e, sfidando le temperature più alte dell’anno, puntare deciso verso l’antico Tiburtino scalcinato, nella città dei morti dispersa fra le circonvallazioni vorticanti, era stato per me un tutt’uno.
«Perché, tu che sai tutto di Roma, / lo chiamate così quel vostro cimitero / con quel nome spagnolo che significa estate?», si chiedeva Vittorio Sereni in una delle sue poesie più belle, Verano e solstizio? La stessa domanda tornava a ronzarmi in testa mentre entravo dal portone principale lasciandomi alle spalle il monumento funebre di Goffredo Mameli, morto nel 1849 nella difesa di Roma, anche lui a soli 21 anni. Ormai il suo inno lo cantano tutti, ma chi rammenta più la vita di questo giovane ardimentoso? Eppure è stato proprio il paladino risorgimentale a spingermi idealmente verso Sergio Corazzini, nato in una famiglia benestante, abitavano in via dei Sediari 24, dietro Piazza Navona, falcidiata dalla tubercolosi e presto travolta dalla più cruda indigenza. Il suo talento lirico si rivelò immediatamente.
A soli sedici anni, già collaborava ai giornali dell’epoca: Il Marforio, Il Rugantino, Il Capitan Fracassa. Attorno a lui si formò un cenacolo di amici, che si riunivano al Caffé Aragno, per i quali il più ispirato coetaneo rappresentò un riferimento carismatico, sia in vita che, ancor più, dopo la morte: una stella cometa che, agli albori del ventesimo secolo, brillò solo per poco nel fondo smagato delle loro sontuose adolescenze. Ricordiamo Fausto Maria Martini, Alberto Tarchiani, Remo Mannoni, Giuseppe Caruso, Giorgio Lais, Auro d’Alba, Giuseppe Altomonte e Guido Milelli. Nomi perduti, volati via come foglie, simili a quelli che decifro nei loculi posti intorno a Sergio: Maddalena Antonelli, Renzo Francia, Antonio Gregori, Gustavo Benedetti, Rinaldo Casadei, Maria Macciocchi, scomparsi tutti in giovanissima età, alcuni addirittura bambini.
“Per chi ricorda Sergio Corazzini”, leggo inciso sul marmo. La sua voce era bianca, fosforica. Egli pare sempre che ci voglia raccontare qualcosa d’importante, si capisce dall’adozione della seconda persona, eppure non ha nulla da dire, se non l’assenza, il vuoto, l’esilio qui, non in un altrove, no, proprio sulla nostra terra: «Sono un fanciullo triste che ha voglia di morire». Quando nell’agosto 1905, in una lettera diretta a Aldo Palazzeschi, scrive: «Il letto bianco e triste che mi accoglie da venti giorni è divenuto il mio trono di questo mondo», non sta recitando. Spirerà l’anno dopo, senza aver ricavato alcuna utilità dal ricovero al sanatorio di Nettuno. I luoghi che frequentò restano fra le nostre dita come una manciata di coriandoli fuori stagione: la tabaccheria di famiglia in Via del Corso, nella stessa strada dove lavorò all’ufficio della compagnia di assicurazioni La Prussiana; le chiese sperdute che amava visitare nei pomeriggi ombrosi e solitari: San Saba, Sant’Urbano, Santa Prassede, San Luca, la Ferratella a San Giovanni.
Ma come dimenticare il Dialogo di marionette, fra De Chirico e il Sogno di una notte di mezza estate, in cui vengono messi a confronto una piccola regina dal cuore di legno e il suo grazioso amico, nello scenario offerto dal balcone di cartapesta, mentre il re dorme? Alla richiesta di sciogliere i lunghi capelli d’oro, lei risponde: «Poeta! non vedete che i miei capelli sono di stoppa?». Lui, dopo qualche battuta, sentenzia: «Siete ironica… Addio!».
Forse un solo poeta può essere posto accanto a Sergio Corazzini: San Francesco. Quasi che nel fondo della semplicità giacesse il segreto di un’arte antica, la bottega artigiana da cui è uscito, come un volo di colombe dal cilindro, il verso novecentesco. È bello leggere i bigliettini che qualche spirito puro continua a depositare sotto i fiori della sua tomba: «Sergio mio, come vedi ogni tanto corro da te in cerca di conforto per la mia anima tormentata…» Così, mentre esco dalla necropoli, tornano a risuonare dentro di me gli ultimi memorabili versi della Morte di Tantalo, nel punto in cui il poeta, con piglio eroico, rompe le catene del tempo: «Andremo per la vita errando per sempre».
Il nonno di Sergio, Filippo Corazzini (sposato con Albina Pera), fu avvocato e funzionario della Dataria Pontificia. In qualità di avvocato, difese il Cardinal Lorenzo Nina, Segretario di Stato Pontificio sotto Papa Leone XIII, a seguito di rivalse di alcuni privati su alcuni beni confiscati dallo Stato all’ex collegio Sistino. Secondo il libro biografico su Sergio Corazzini di Filippo Donini, si disse che i Corazzini fossero imparentati (però non si hanno documenti a tal riguardo e il poeta pare non averne fatto mai menzione) con l’eroe carducciano Eduardo Corazzini, originario di Pieve Santo Stefano, morto per le ferite riportate durante la campagna romana nel 1867.
Per questo la famiglia Corazzini, che si dice romana e papalina, in realtà potrebbe avere origini toscane. Sergio, appartenente ad una famiglia minata dalla tubercolosi (la madre, Carolina Calamani, era cremonese), frequentò qualche anno di scuola elementare a Roma e in seguito, dal 1895 al 1898, si trasferì a Spoleto con il fratello Gualtiero e frequentò il Collegio Nazionale. Ma, a causa delle difficoltà finanziarie in cui si ritrovò la famiglia, il padre Enrico, dimessosi da impiegato al Registro della Dataria Pontificia, fu costretto a ritirare i figli dal collegio.
Sergio continuò il ginnasio a Roma, ma non poté frequentare il liceo perché dovette cercare lavoro presso una compagnia di assicurazioni, “La Prussiana”, per aiutare la famiglia. La compagnia di assicurazione aveva sede in una vecchia casa in via del Corso e la stanza di Sergio era buia e triste, con una finestra ad inferriate che dava sul cortile. Si possono trovare numerosi riferimenti a questo luogo nei versi di Soliloqui di un pazzo. Il passare da una vita agiata alla povertà, dovuta alle errate speculazioni in borsa e al libertinaggio del padre, cambiò completamente le condizioni spirituali del poeta che da questo momento non ebbe certo vita felice (la madre era ammalata di tisi, il fratello Gualtiero morirà della stessa malattia, il fratello Erberto perirà in un incidente d’auto in Libia e il padre morirà in un ospizio).
Amante delle lettere, Sergio non rinunciò tuttavia alla lettura dei suoi poeti preferiti, quelli contemporanei, non solo italiani (la triade Carducci, Pascoli e D’Annunzio), ma anche i provinciali francesi e fiamminghi come Francis Jammes, Albert Samain, Charles Guérin, Maurice Maeterlinck, Georges Rodenbach, Jules Laforgue, e quelli dialettali. Le sue intense letture lo aiutarono nel suo esordio poetico e i suoi primi componimenti apparvero su giornali popolareschi.
Il 17 maggio 1902 scriverà il suo primo sonetto, Na bella idea, in romanesco pubblicato in “Pasquino de Roma” al quale seguirà, il 14 settembre 1902, il sonetto di settenari in lingua, Partenza, pubblicato sul “Rugantino” e dai versi liberi, La tipografia abbandonata, usciti su “Marforio”. Si trattava di versi dai temi realistici che rivelavano, nel giovanissimo autore, una precoce predisposizione ad osservare i fatti della vita. Si trovano in essi allusioni alla malattia già latente e in un sonetto del 1906, Vinto, vi sono amare riflessioni sulla perdita della felicità.
Gli ultimi anni di vita
Nella primavera del 1905 la precaria salute del giovane poeta, malato di tubercolosi, lo costrinse a soggiornare in un sanatorio a Nocera Umbra dove conobbe una giovane danese, Sania, per la quale provò un intenso e platonico innamoramento. Nel giugno dello stesso anno il poeta si recò a Cremona, città natale della madre, per cercare un aiuto economico dai parenti materni e conobbe una giovane pasticciera con la quale inizierà una breve corrispondenza epistolare. Tra il 1904 e il 1906 furono pubblicate le sue raccolte poetiche: Dolcezze (1904), L’amaro calice (1905), Le aureole (1906), Piccolo libro inutile (1906), Elegia (1906), Libro per la sera della domenica (1906).
Nel 1906 Corazzini, per l’aggravarsi della malattia, venne ricoverato nella casa dei Fatebenefratelli di Nettuno. Dal sanatorio iniziò la corrispondenza con Aldo Palazzeschi e lavorò alla traduzione della Semiramide di Joséphin Péladan che veniva annunciata su “Vita letteraria” come opera di collaborazione con G. Milelli. Nel maggio del 1907 Corazzini ritornò a Roma ma il suo stato di salute peggiorò e il 17 giugno morì di etisia (tubercolosi) nella sua casa di via dei Sediari. È sepolto presso il Cimitero del Verano di Roma.
Poetica
Il crepuscolarismo di Corazzini, che adotta il verso libero e si mostra sensibile alla lezione simbolista, ha anche un forte valore di proposta esistenziale; il poeta si presenta come un fanciullo malato, fino a negare, paradossalmente, il significato di poesia alla sua povera scrittura dell’anima. La sua poesia è focalizzata su “piccole cose”, dietro le quali non emergono valori segreti, ma si nasconde il vuoto, tipico dei poeti crepuscolari tra i quali Corazzini fu annoverato. I suoi versi esprimono da un lato un malinconico desiderio per quella vita che la malattia gli negava, dall’altro un nostalgico ritrarsi dall’esistenza presente, proprio perché avara di prospettive future.
Nelle poesie di Corazzini si possono cogliere due momenti: quello del povero poeta sentimentale che racconta la propria malinconia con un linguaggio semplice e dimesso e quello del poeta ironico che adotta un linguaggio meno trasparente, più polisemico, a volte addirittura simbolico.
In Desolazione del povero poeta sentimentale si esprime tutta la poetica di Corazzini dove il “piccolo fanciullo che piange” proclama l’impossibilità di essere chiamato “poeta”, affermando così, per la prima volta, la concezione della poetica crepuscolare così in contrasto con il trionfante dannunzianesimo.
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Poesie di Iya Kiva-poetessa ucraina, “La guerra è sempre seduta su tutte le sedie” -Editrice La Vita Felice-
Iya Kiva è una poetessa ucraina, traduttrice, membro di Pen Ukraine. Nata nel 1984 a Donetsk, si è trasferita a Kyiv nel 2014 a causa della guerra russo-ucraina. Autrice delle raccolte di poesie Подальше от рая (Più lontano dal paradiso, 2018), Перша сторінка зими (La prima pagina dell’inverno, 2019), Сміх згаслої ватри (La risata del falò estinto, 2023), nonché dei libri di interviste con autori bielorussi Ми прокинемось іншими: розмови з сучасними білоруськими письменниками про минуле, теперішнє і майбутнє Білорусі (Ci sveglieremo diversi: Conversazioni con scrittori bielorussi contemporanei su passato, presente e futuro della Bielorussia, 2021), dedicato alle proteste del 2020-2021 in Bielorussia. Le sue poesie sono state tradotte in oltre 30 lingue. Nel 2022, la sua raccolta di poesie Свидетел на безименност (Testimone dell’anonimia) è stata pubblicata in bulgaro (trad. Denis Olegov) e un’altra raccolta di poesie Чорні ружі часу/Czarne róże czasu (Le rose nere del tempo) è stata pubblicata in polacco (trad. Aneta Kaminska). Traduce poesia polacca e bielorussa; come traduttrice e redattrice di libri per l’infanzia dall’inglese collabora con il progetto “PJ Library” in Ucraina. Ha partecipato al programma Gaude Polonia Fellowship del Ministro della Cultura polacco (2021), è stata borsista dell’International Writing Program (2023, Usa) e altri. È entrata nella rosa dei candidati per il premio 2024 “Donne nelle arti: La resistenza” promosso dall’Ente delle Nazioni Unite Donne: Ucraina. Attualmente vive a Leopoli.
Iya Kiva-poetessa ucraina
Poesie diIya Kiva-Traduzione dall’ucraino di Yulia Chernyshova e Pina Piccolo
il mio paese ora somiglia a un ghetto
dal perimetro circondato di sangue di grida di pianto
(storto e di fretta — come al buio si tracciano le labbra con un rossetto unto)
dove tutti i pensieri tutte le parole persino il silenzio sono soffocati dal cuscino della censura:
la guerra della guerra alla guerra dalla guerra nella guerra
(declinare questa unica parola — ancora e ancora e ancora una volta —
ora per gli scrittori ucraini questo è il lavoro del cuore)
la frontiera di questo ghetto è trasparente come il moto dei rondoni:
puoi entrarci uscirne ed entrarci di nuovo
è come infilare le dita nel guanto di un altro
puoi serrare le palpebre e giocare a nascondino con la guerra
sapendo in anticipo che (ti trufferà e) vincerà
ma tutti questi esercizi sono ginnastica per chi ha l’immaginazione invecchiata
il tuo corpo non lascia mai il luogo di residenza —
quel nulla bombardato all’infinito dalla furia —
e il tuo passaporto con quell’uccello dorato di tridente
ti consente di muoverti per il portone mezzo illuminato della storia
ma non ti dispensa dalla guerra nel tuo sangue nella tua urina nella saliva nelle lacrime
come Sisifo gli abitanti di questo ghetto rigirano la morte nella bocca
rompendo i denti e persino le loro radici
ma neppure a quel punto si fermano — muovono con la lingua ciò che è rimasto
anche se che cosa di preciso (e quanto ancora) sia rimasto nessuno lo sa
simile al buco della serratura è il tempo in questo ghetto — stare davanti e guardare
come la luce sfonda le porte del futuro raggricciandoci come un bruco —
un monumento alla stanchezza il diritto ad un lungo protrarsi un’inquietante tenacia
ma la spensieratezza di risate sincere non passa attraverso la toppa —
al massimo penetra come un’ombra come l’umorismo nero della memoria
nel ghetto c’è anche un fiume — non per annegare (anche se può capitare )
ma per guardare il cielo da tutte le rive
*
magari potessi dirti che la terra qui non è cambiata affatto,
ma non sarebbe la verità, sarebbe una menzogna crudele e vana,
raccontata per placare la curiosità di un bambino
qui, gli alberi fanno solo finta di essere alberi, qui gli alberi crescono a stento,
e sollevano i rami, come se si stessero arrendendo
ai propri simili e agli altri e a questa fottuta epoca
dai cui germogli spuntano subito fiammiferi
e il fiume della vita arde così bene, s’inaridisce,
bruciando dalla vergogna di non poter più riempire
l’estate delle risate di bombi e l’inverno del miele della cura
così tanto la terra qui è invecchiata in un anno,
che, dove per secoli scorgevi bei lineamenti lisci dell’acqua
ora solo rughe profonde un palmo,
e talvolta accade anche di peggio, come se il sole
risplendesse capovolto, ma chi, di questi tempi, guarda ancora verso l’alto
tanto silente è il cielo, qui, lanciagli un coltello e vedrai che non si muove,
sopporterà che questo, inghiottendo in silenzio pugnale dopo pugnale,
lacerando a sangue le guance, come brandelli di abiti strappati
quando non proteggono più; sai, il malocchio
ti palpeggia da dentro come mani lascive in mezzo alla folla,
tranquillo, senza vergogna, con quel senso di crimine senza fretta,
arrivando fino al cuore; poi smette e tu continui a vivere;
ma in silenzio, senza cuore; senza speranza; in balia della fortuna
e ora anche la terra qui è senza più cuore, come terriccio in un museo,
stesa davanti a tutti, mezza morta, priva di sensi,
senza nemmeno il tempo di respirare una boccata d’aria che è già avvelenata —
e graffia e ringhia, come un vecchio cane che sta per morire
e tutto questo, sai, è così ingegnoso, che tutti hanno già imparato
a fingere di non sentire l’odore della propria decomposizione,
e ora la puzza è tale che puoi riconoscere i tuoi solo da questo fetore —
così orgogliosi, così avviliti, così spietatamente belli
la morte, sai, accresce sempre la bellezza; fino al riso convulso;
non è forse curioso percorrere la stessa strada per tutta la vita
per poi perdere te stesso al primo incrocio?
è mai possibile che sia così; ma non è stufa questa terra
di condurci bendati in girotondo, come giocando a mosca cieca;
ehi, tu, prova a indovinare dove cadrai e non potrai più rialzarti
tante brave persone qui, sai, ma tutte impantanate nel fango;
stipate; a braccia aperte; senza teste, così come capita
questa terra è come una cicatrice sul volto; tutti la vedono
ma manca il coraggio di chiedere che cosa sia successo;
la vita è troppo breve, sai, per scrutare la terra
specialmente quella altrui; vi è qualcosa di adultero
come se d’improvviso l’amore fosse diventato una lingua artificiale
che studiamo e studiamo e studiamo invano
volevo dirti che questa terra è poesia
e tu sai bene, forse meglio di me, quanti siano i suoi lettori.
Iya Kiva-poetessa ucraina
Biblioteca DEA SABINA- La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
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Poesie di James Russell Lowell-Poeta e critico americano-
James Russell Lowell-Poeta e critico americano, nato a Cambridge, Mass., il 22 febbraio 1819, morto ivi il 12 agosto 1891.Si laureò all’università Harvard nel 1838, e studiò giurisprudenza; ma ben presto si consacrò alla letteratura. Nel 1844 apparve una prima raccolta di poesie, A Year’s life; nel 1845 un poema ben conosciuto, The Vision of Sir Launfal; nel 1848 A Fable for critics. I Biglow Papers, cominciati a pubblicarsi nel 1846 e continuati durante la guerra fra gli stati (1861-65), sono una satira mordace delle condizioni politiche contemporanee, scritta nel dialetto yankee; combattono specialmente la schiavitù negli stati meridionali. Nel 1855 il L. cominciò a insegnare a Harvard le lingue e letterature moderne, succedendo al Longfellow. Dal 1877 al 1880 servì come ministro americano in Spagna, dal 1880 al 1885 in Inghilterra. Conosceva molto bene la cultura europea, che diffuse presso gli Americani, dando incremento alle relazioni culturali specialmente con l’Inghilterra. I saggi critici su autori inglesi, francesi, tedeschi, vennero raccolti dopo il 1870 in diversi volumi: Among my books, My study windows, ecc. Tra i saggi letterarî è notevole quello su Dante (1872). Anche alcune delle liriche (Masaccio, Villa Franca, 1859, On a portrait of Dante by Giotto) e delle prose descrittive sono d’ispirazione italiana.
Bibl.: Bibliografie di G. W. Cooke, 1906; L. S. Livingston, 1914. Biografie di F. H. Underwood, 1882; F. E. Brown, 1887; H. E. Scudder, 1901; F. Greenslet, 1905; E. E. Hale, e altri. Cfr. anche J. J. Reilly, James Russell Lowell, as a critic, 1915.
James Russell Lowell-Poeta americano
Una fantasticheria
Nella cupa e silenziosa luce del crepuscolo
il tuo spirito entra nel mio,
quando la luce della luna e delle stelle
risplende sulla scogliera e sulla foresta,
ed il tremito del fiume
sembra un fremito di gioia benevola.
Allora io mi alzo e prendo a vagabondare lentamente
verso il promontorio accanto al mare,
quando la stella della sera comincia a palpitare
attraverso le fronde striate della sequoia,
e dal basso il bonario rimbombo
delle onde proviene irregolare.
Allora io ti sento dentro alla mia anima
come un barlume di un tempo passato,
visioni della mia infanzia mormorano
la loro antica pazzia nelle mie orecchie,
sino a che la gioia della tua presenza
raffredda il mio cuore con lacrime di felicità.
Tutti i meravigliosi sogni della giovinezza –
tutta la fiera sete giovanile di elogi –
tutte le più certe speranze della maturità
che fioriscono in giorni più tristi –
gioie che mi legarono, dolori che mi incoronarono
con una ghirlanda migliore di quella d’alloro –
tutti desideri di libertà –
l’indistinto amore per il genere umano,
che vaga lontano e senza meta
come un seme alato nel vento –
gli appannati desideri e le violente scottature
di una mente non ancora ordinata –
Tutto questo, o mia amata,
e i presenti e passati sogni più felici,
nel tuo amore trovano sicuro appagamento,
finalmente resi maturi dalla verità;
fede e bellezza, speranza e dovere
si raccolgono veloci all’unisono.
E la mia natura, come un oceano,
al tuo respiro si risveglia dal torpore,
scavalla i suoi argini con pazza gioia
ed irrompe in uno spumeggiante tuono,
e poi abbassandosi, giace ritirandosi
nel tumulto che essa stessa produce!
L’Espero ardente è tramontato
dentro l’occidente tinto di pallido azzurro,
e con dorato splendore corona
la cima coperta di pini dell’orizzonte;
una pensosa quiete placa l’agitazione
della violenta nostalgia nel mio cuore.
Nel mio giardino vago sotto la luce della luna,
sotto i rami frementi,
che, come mossi da uno spirito,
ondeggiano e si curvano, sino a che piano piano
il mormorio delle onde si mischia
con il fruscio della brezza.
Il doliconice
Anacreonte dei pascoli,
ebbro della gioia primaverile!
Sotto l’echeggiante ombra dell’alto pino
io riposo e bevo il tuo canto;
la mia anima è sazia di melodie,
una sola goccia la farebbe traboccare,
così da convogliare le lacrime nei miei occhi –
Ma cosa potrebbe interessarti?
Il tuo cuore è libero come l’aria di montagna.
non ti preoccupi delle tue musiche,
poiché le sparpagli ovunque con allegria,
felice, ignaro poeta!
Su un ciuffo d’erba nella prateria,
mentre la tua amata si prende cura del nido,
tu ondeggi nella brezza che respira,
alleggerendo il tuo cuore troppo pieno
delle moltitudini di canzoni che lo colmano,
proprio come tu hai scelto di volere.
Signore del tuo amore e della tua libertà,
del festoso Maggio l’uccello più spensierato,
volgi i tuoi occhi splendenti verso di me,
e parlami come solo uno sguardo sincero può parlare –
“Qui sediamo, nel tempo d’estate,
io e la mia modesta compagna insieme;
qualsiasi cosa possano essere i tuoi saggi pensieri,
sotto quel vecchio triste pino,
noi non li valutiamo neppure un’inezia”.
Adesso, mentre lasci me e la terra sotto di te,
sbatti le ali verso il vento,
o, galleggiando lentamente prima di librarti al cielo,
aleggi sul tuo nido nascosto dalla vegetazione
e cominci a intonare la tua canzone d’amore,
diluviando piogge di musica su di esso,
e mai affaticato, ancora cinguetti
gioiosi canti di festa,
simili a ruscelli costeggiati da muschi
mormoranti attraverso gli angoli ciottolosi
durante i tranquilli giorni d’estate.
Tu riempi di felicità il mio cuore,
mi sembra di tornare ragazzo
quando ti vedo, allegro, gioioso amante,
volare sui campi appena mietuti,
con le ali frementi di gioia.
C’é qualcosa nella fioritura dei meli,
nell’erba che inverdisce e nella canzone del doliconice,
che fa ancora risvegliare dentro al mio cuore
sensazioni sopite da lungo tempo.
Per tanti, e tanti anni, io ho vagabondato,
e mi sembra di vagabondare ancora adesso,
invece di sprecare le ore a scuola da ragazzo,
quelle stesse ore che da uomo morirei per non dimenticare.
O ore che gli anziani dal cuore di ghiaccio credevano perse,
reclini con la loro testa grigia sopra i miei libri,
ancora di più apprezzo la scienza che ho assaporato
con te, tra gl’alberi ed i ruscelli,
più di tutto quello che ho imparato
dai tomi eruditi o dagli uomini inariditi dagli studi!
Natura, la tua anima era una sola con la mia,
e, come una sorella da un giovane fratello
è amata, ognuno sgorgante dall’altro,
e il mio amore era il tuo.
Non sei stata forse come una madre amorevole
che mi ristorava con la gentilezza e con il potere dell’amore,
sul cui cuore il mio palpitante cuore deponevo
e spillavo tutti i miei dolori d’infanzia,
sino a che pace e tranquillità non volavano su di me?
Non è stato un caro amico il dorato tramonto?
Non ho mai trovato gentilezza nella silente luna,
e nei verdi alberi, le cui cime ondeggiano e s’incurvano,
intonando sempre la loro dolce sommessa melodia?
Non ho mai sentito affetto nelle oscure e solenni foreste –
non ho mai sentito la voce dell’amato nelle tristi solitudini?
Sì, sì! I miei occhi non m’hanno mai ingannato,
i ciechi capi non mi hanno insegnato ad essere saggio.
Care ore! Che ancora oggi vivo,
sentendo e vedendo con le orecchie e gli occhi
dell’infanzia, voi insetti, che nell’alveare
del mio giovane cuore venivate cariche di ricchi tesori,
raccolti in campi e boschi e assolate valli, per divenire
cibo per il mio spirito nei giorni d’inverno.
Venite, venite ancora! Venite ancora!
E, come un bambino tornato a casa ancora una volta
dopo un lungo soggiorno in regioni straniere,
io riposo sopra il petto di mia madre,
sentendo la benedizione del ristoro,
e dimorando nella luce dei tempi passati.
O voi che non vivete la vera Vita,
il vostro morire non è altro che morte,
cantate la vuota fatica e le insignificanti lotte,
in un’insensata ossessione!
Uscite, vedrete il vero volto della Natura,
bevete nella grazia del suo sguardo;
guardate il tramonto, ascoltate il vento,
la cascata, il terribile tuono;
andate, adorate il mare;
allora, e solo allora, capirete
con sempre crescente meraviglia,
che l’uomo non assomiglia per nulla a voi;
andate con anima mite e umile,
e allora le scorie di voi stessi si staccheranno
dai vostri occhi – stanchi pesi
cadranno dalle vostre gravate schiene;
e voi vedrete,
con occhi rispettosi e pieni di speranza,
ardere con neonate energie,
le più grandiose opere!
James Russell Lowell-Poeta americano
La Luna
La mia anima era simile al mare
prima che fosse creata la luna,
piangeva nell’immensità indistinta,
impaurito dalla sua stessa forza,
irrequieto ed instabile.
Attraverso tutte le fenditure spumeggiava invano
intorno alla sua prigione di terra,
in cerca di qualcosa di sconosciuto,
inabissandosi senza pace e senza riposo,
perché nessuna luna era ancora sorta:
la sua unica voce era un lungo e cupo gemito
perché era solo, senza speranze,
e viveva unicamente per una inutile ricerca.
Così era la mia anima; ma quando fu piena
di così tanta inquietudine da distruggerla,
una voce bellissima
sussurrò un fioco presagio,
e fu così soave, così dolce, così sommesso,
ch’ella fu felice e sparì ogni dolore;
e, come il mare spesso giace immoto,
facendo incontrare le sue acque,
come guidate da una volontà inconscia,
ai piedi dell’argentea luna,
così giace la mia anima dentro ai miei occhi
quando tu, luna guardiana, sorgi.
E ora, quantunque le sue onde
possano turbare e risvegliare sensazioni sopite,
la forte ed eterna legge dell’Amore,
come un mentore deciso e tranquillo,
calma e naturale come il respiro,
si muove attraverso la vita e la morte.
Mezzanotte
La luna risplende bianca e silente
nella nebbia, come un’onda
di un oceano incantato,
scivola sull’immensa palude,
riversando i suoi flutti simili a spettri
dappertutto, silenziosamente.
Una incerta e siderea magia
rende tutte le cose misteriose,
e attrae il muto spirito della terra
verso i cieli bramosi, –
mi sembra di udire deboli sussurri,
e tremebonde risposte.
Le lucciole sui pascoli
vibrando corrono di qua e di là;
la severa ombra degli olmi
grava sull’erba sottostante;
e debolmente da lontano
il gallo sognante rimanda il suo grido.
Tutto appare bizzarro e mistico,
gli stessi cespugli si gonfiano,
si muovono e prendono forme meravigliose,
come stregati da un sortilegio, –
neanche i lillà sembrano più gli stessi
conosciuti così bene sin dall’infanzia.
La neve che infonde il silenzio più profondo
continua a cadere sopra ogni cosa,
così bella e serena,
eppure simile a un drappo funebre, –
come se tutta la vita fosse finita,
e il riposo fosse giunto su tutto.
O selvaggia e mirabile mezzanotte,
c’è una forza dentro di te
che rende il corpo incantato
simile ad uno spirito,
e gli dona flebili barlumi
di immortalità!
Beaver Brook
Silente riposa la collina illuminata dalla luce del sole,
mentre, per segnare il trascorrere del tempo,
l’ombra del cedro, lenta e tranquilla,
si allunga sulla sua meridiana di muschio grigio.
L’afoso mezzodì colma il calice della valle,
le foglie del pioppo ondeggiano impercettibili,
solo la piccola macina rimanda
il suo incessante ed indaffarato ronzio.
Scalando il muro dalle pietre smosse che circonda
la strada lungo gli argini del laghetto del mulino,
da sotto i tronchi dell’archeggiante cispino,
i miei passi spaventano il timido chewink.
Sotto all’ossuto sicomoro
la porta rossa del mulino lascia uscire il baccano;
l’impallidito mugnaio, impregnato di polvere,
percorre rapidamente la stanza buia al suo interno.
Qui non troverete la forza del torrente di montagna;
il dolce Beaver, figlio della tranquilla foresta,
ammassa la sua piccola brocca nel mio orecchio,
e docile attende la volontà del mugnaio.
Velocemente l’Ondina scivola lungo la corrente
senza essere udita, e, ad intervalli regolari,
allaga la lenta ruota della sua luce e della sua grazia,
mentre, ridendo, insegue il riluttante sgobbone.
Il mugnaio non si immagina a quale costo
le tremanti pietre del mulino mormorano e roteano,
né come ad ogni movimento, scuotono
bracciate di diamanti e perle.
Ma l’Estate ha rasserenato i miei occhi felici
con gocce di succo celestiale,
per mostrarmi come la Bellezza si trova
dentro ad ogni forma delle cose.
Di più: mi è sembrato di aver osservato quel fiume,
che ora si sottrae alla vista triste e offuscato,
spesso, qua e là, di sangue umano,
per far girare le laboriose ruote del mondo.
Non diversi dal mugnaio,
anche noi rinchiusi nelle nostre celle,
sappiamo quale spreco di rara bellezza
muove i macchinari di tutti i giorni.
Certamente arriverà un tempo più saggio
in cui questo eccesso di forza,
non più tetra, lenta e stupida,
si lancerà verso la musica e la luce.
In quella nuova infanzia della Terra
la vita stessa danzerà e giocherà;
il sangue fresco ridarà vigore nelle vene smorte del Tempo,
e la fatica incontrerà il piacere.
Poesia
Violetta! Dolce violetta!
I tuoi occhi sono pieni di lacrime;
Sono forse umidi,
ancora umidi,
dei ricordi del passato?
O sono forse pieni di gioia,
per questa notte così bella,
perché desiderano arrivare ai cieli più alti?
Tu sei stata l’amata della mia giovinezza,
della mia felice giovinezza,
e adesso posso vedere
nelle lacrime
tutto il passato allegro e soleggiato,
tutta la sua felicità e verità,
sempre fresca e verde in te
come il muschio nel mare.
Il tuo piccolo cuore, che grazie al tuo amore
é cresciuto ed è diventato color del cielo,
verso il quale tu sempre guardi,
può conoscere
tutti i dolori
di una speranza per quello che non ritornerà più,
tutti dispiaceri e i desideri
di questi nostri cuori che ci appartengono?
No! Non guardare
verso il cielo
con quegli occhi tristi,
non guardare con gli occhi tristi le stelle;
lascia che la mia anima insieme alla tua
prendano il colore che vogliamo,
sereni, forti, nobili,
non soddisfatti dalla sola speranza – ma divini.
Violetta! Cara violetta!
I tuoi occhi azzurri sono umidi
di gioia e d’amore per colui che ti ha mandata,
e per il senso
di felice obbedienza
che ti ha reso ciò che la Natura voleva che fossi!
James Russell Lowell-Poeta americano
Una ballata mistica
I.
La luce del tramonto si era quasi confusa
nell’incerto grigiore del crepuscolo;
una lunga nube riposava sull’orizzonte,
al di sotto della quale una stria d’un bianco azzurrognolo,
oscillava tra il giorno e la notte;
nel cielo, sopra i pini della collina,
fremeva la palpitante stella della sera,
e la luna nuova, dalle tenui forme,
fiocamente scintillante attraverso le arcate degli olmi,
riempiva il calice della memoria sino all’orlo.
II.
In una sera come questa il cuore diviene
luogo di meditazione, e a stento può distinguere
il presente dal passato,
o se la realtà esiste davvero; –
una meravigliosa nebbia incantata
serpeggia dalla nuova luna,
avvolgendo tutte le cose nel mistico dubbio,
così che quest’intero mondo sembra falso,
mentre le nostre fantasie prendono colore
da un passato della nostra vita ormai dimenticato.
III.
La fanciulla si sedette ad ascoltare il flusso
del vento d’occidente così leggero e sommesso
che a stento le foglie s’agitavano qua e là;
liberi, i suoi folti capelli dorati
si scompigliavano sul petto nudo,
splendente di fremiti candidi come la neve
nella magica luce della luna:
la brezza si alzò con frusciante crescendo,
e da lontano arrivò il profumo
da lungo tempo dimenticato di un mughetto.
IV.
La fioca luna riposava sulla collina,
in silenzio, senza pensieri o desideri,
accanto a dove sedeva la fanciulla sognante;
d’un tratto la punta della luna, come una stella,
fece affondare la striscia dell’orizzonte;
la notte era giunta al suo nero apogeo,
ed ancora la fanciulla rimaneva seduta da sola,
pallida come un cadavere sotto ai raggi di luce
ed il suo bianco petto ancora brillava
come un sogno nell’oscura mezzanotte.
V.
Arrivò il mattino limpido e sereno,
e generosamente il sole cominciò a distribuire
l’oro tra i suoi biondi capelli,
accendendoli, sino a che lentamente
si formò un’aureola intorno alla sua testa;
teneva in mano un fiore appassito,
cresciuto in terre lontane,
e, silenziosamente trasfigurata,
con i grandi occhi sereni, la testa non abbassata,
la trovarono morta.
VI.
Un giovane, quella mattina, sotto altri cieli,
sentì improvvise lacrime bruciare dentro ai suoi occhi,
ed il suo cuore traboccare di ricordi;
tutte le cose all’infuori di lui sembravano essere unite
in una strana unica fratellanza,
e da allora ebbe sempre la sensazione di
camminare nel mezzo di un incantesimo misterioso,
e da allora, impossibile conoscerne la ragione,
il suo cuore si sarebbe sempre raggelato all’odore
del suo amato mughetto.
VII.
Qualcosa era fuggito via;
degli incostanti palpiti del giorno,
attraverso fessure stellate nel suo corpo,
divennero lucenti e reali, sempre di più,
mentre sulla terra tutto era rimasto nell’oscurità;
e, attraverso quelle fessure, come in un passato,
il suo spirito interiore sopportò
amori più forti e poteri più selvaggi,
che gli portarono frutti rinfrescanti e fiori
dalle dimore e dai campi Elisi.
VIII.
Proprio sul confine labile dei sensi,
non confermato da prove concrete,
ma noto da una profonda influenza
che attraverso il nostro rozzo corpo brilla
con luce crescente e divina,
laddove i più alti pensieri possono prendere il volo
s’estende il mondo del Mistero –
e lassù nessuno prende troppo in considerazione
coloro che giudicano che nulla è reale
all’infuori dell’Invisibile incontestabile.
IX.
Un passo oltre alle cose di tutti giorni,
un battito in più delle grandi ali dell’anima,
un dolore più profondo talvolta accompagna
lo spirito in quella grande Vastità
dove non v’è futuro né passato;
nessuno sa come vi sia entrato,
ma, al risveglio, trovò i propri spiriti dove
pensava che un angelo non avrebbe potuto librarsi,
e, ciò ch’egli prima chiamava falsi sogni,
adesso è la realtà.
X.
Queste apparenti sembianze sono solo spettacoli
con cui il corpo vede e conosce;
molto più sotto, per sempre scorre
il fiume delle più sottili comprensioni
che rendono i nostri spiriti stranamente saggi
nel timore, e paurosi oscuri presagi
che, dai sensi più esteriori,
si estendono oltre il nostro raziocinio e la nostra vista,
bellissime arterie di luce circolare,
pulsate all’esterno dall’Infinito.
Ad un pino
Torreggi sulla cima del Katahdin,
grande e d’un azzurro violetto tu appari da lontano;
come una nuvola sopra le terre più basse ti chini,
sicuro rimani aggrappato, cullato dalla tempesta,
non hai paura d’essere da lei abbattuto.
Nella bufera, come un profeta impazzito,
ti dimeni e fai cantare i tuoi rami;
il tuo cuore si rallegra con il terrore,
presagisci le terribili valanghe,
quando intere montagne precipitano verso le valli.
Con pazienza tu tendi gli impluvi
con le tue braccia, come se implorassero benedizioni,
come un vecchio re portato fuori dal suo palazzo,
mentre il suo popolo si riversa a combattere
la città da lui governata.
Al taglialegna che dorme sotto la tua ombra
tu intoni selvagge melodie,
fino a che egli non vorrà essere trasportato
nelle tende degli Arabi dell’oceano,
le cui isole alla deriva sono il loro bestiame.
La burrasca ti afferra e ti rende la sua lira,
e con mano delirante scortica una delirante armonia,
mentre scarica il suo possente desiderio
di lanciarsi sul grande Atlantico,
ch’estende le braccia verso il suo compagno di gioco.
La selvaggia tempesta si rintana tra i tuoi rami,
e da là devasta il continente sottostante;
come un leone in attesa della preda,
è là che il feroce tuono attende di balzare fuori,
di tanto in tanto grugnendo impaziente.
A disprezzo dell’inverno tu conservi la tua verde gloria,
tu, vigoroso padre degli antichi Titani!
Solo i fiocchi di neve ti ingrigiscono,
accoccolandosi e addormentandosi tra le tue frasche,
ed ammantandoti in silenzio.
Tu solo conosci lo splendore dell’inverno,
tu, che tra le nevi argentate, i precipizi ammutoliti,
ascolti gemere e frantumarsi guglie di ghiaccio verde,
e poi crollare nei velati abissi
nella quiete della mezzanotte.
Tu solo conosci la gloria dell’estate,
quando guardi l’immenso mare delle foreste
che rimandano il loro orgoglioso mormorio
verso di te, verso il loro capotribù, che torreggia
dal tuo brullo trono verso il cielo.
L’amante
I.
Gira il mondo da Oriente a Occidente,
cerca in ogni nazione sotto il cielo,
non troverai mai un uomo così benedetto,
un re così potente come me,
neppure se cerchi per l’eternità.
II.
Io sono un dolce amante,
seduto accanto alla mia amata:
lei mi ha dato tutta la sua anima
senza un solo desiderio o un pensiero di superbia,
e diventerà la mia amatissima moglie.
III.
Non fa mai mostra di sfarzo,
non si fa vedere con gioielli rari;
in bellissima semplicità
veste leggiadre ghirlande di foglie,
intreccia modesti fiori fra suoi capelli.
IV.
Talvolta indossa una gonna verde,
talvolta una gonna bianca come la neve,
ma, comunque si vesta,
sembra sempre la più bella e la più onesta,
e al mio sguardo la più incantevole.
V.
Né io sono il suo unico amante,
lei ama tutti indistintamente,
ma non ne sono geloso, perché tutti
leggono amore e verità dentro ai suoi occhi,
e la stimano all’altezza di un monile prezioso.
VI.
Tu sei così, Eterna Natura!
Sì, sposa del Cielo, tu sei così;
ami tutte le creature,
doni a tutte una parte importante nel creato,
riempiendo di pace ogni cuore.
Il poeta
Colui che ha sentito il mistero della Vita
schiacciarlo come una notte cupa,
la cui anima non ha conosciuto altro
se non la sofferenza; –
colui che ha visto forme confuse sollevarsi
dalle profondità silenti dello spirito
e fissarlo con sguardo espressivo
pieno di speranza,
eppure non in grado di proferire neppure una parola,
sebbene egli preghi tutta la notte che riescano,
“salvatemi, salvatemi! Sono malato,
e voi siete così meravigliosamente forti”! –
Colui che, nella mezzanotte più tetra e cupa,
ha sentito la voce della potenza
irrompere echeggiando tra le sale del sonno
nel solitario cuore della Notte,
e, dal suo giaciglio insonne,
ha guardato e ha pianto perchè desiderava sapere
cosa voleva dire quell’oracolo
che ha reso il suo essere così affranto;
colui che ha sentito quanto possente e grande
sia l’Anima dell’uomo,
e non ha abbassato lo sguardo davanti al Destino,
da cui la Vita e il Pensiero derivano;
la cui armatura di questa fiducia immobile
non conosce debolezze,
colui che ha calpestato e gettato la paura nella polvere
sotto i piedi dell’umiltà; –
colui che in pace con se stesso ha portato la sua croce,
riconoscendosi come il re
del suo tempo, e non ha considerato uno spreco
imparare tramite la sofferenza; –
e colui che ha adorato la donna
con animo puro e modesto,
e non ha mai profanato il suo sacro tempio
né con le azioni né con il pensiero –
Questi è il Poeta, colui al quale
é stato dato il dono della poesia,
la cui vita è sublime, forte e vera,
e che non è mai caduto dal Cielo;
il Poeta, che grazie alle sue labbra
egli vive per l’eternità,
maestose come le navi in alto mare,
le parole della Saggezza egli sparge.
Il pastore di re Admeto
Visse un giovane sulla terra,
migliaia di anni fa,
le cui mani delicate non erano buone a nulla,
né ad arare, né a mietere il grano, né a seminare.
Sopra un grande guscio di tartaruga
distese alcune corde, e da quelle attinse
una musica che scaldava i cuori degli uomini,
o che colmava di lagrime i loro occhi.
Re Admeto, che invero
aveva un buon gusto,
decretò che le sue melodie non fossero così cattive
da esser ascoltate tra un bicchiere di vino e l’altro:
così, molto ben disposto perché dolcemente accompagnato
in un dolce dormiveglia,
tre volte si lisciò la regale barba,
e lo nominò vicerè del suo ovile.
Le parole del giovane erano semplici parole,
ed anch’egli le usava solo come parole,
ma quelle che dalle altre bocche uscivano ruvide
dalla sua bocca uscivano ritmiche e dolci.
Il volgo lo considerava un incapace,
non vedeva nulla di buono in lui;
tuttavia, inconsapevolmente,
accettarono comunque le sue parole come legge.
Non sapevano come avesse imparato quest’arte,
perché in ozio, ora dopo ora,
non faceva altro che guardare le foglie morte cadere,
o meditare su un fiore.
Sembrava che la bellezza delle cose
gli avesse insegnato il loro uso,
poiché, anche nelle semplici erbe, nelle pietre, nelle brezze,
egli trovava un potere ristoratore.
Gli uomini ritenevano che il suo eloquio fosse saggio,
ma, quando notavano un cenno
di grazia delicata e i suoi occhi effemminati,
questi ridevano, e lo chiamavano buono a nulla.
Eppure, dopo che lasciò questa vita,
e perfino dopo che la sua memoria venne offuscata dal tempo,
la terra sembrò un luogo più dolce dove vivere,
più colma d’amore, grazie a lui.
E giorno dopo giorno diventava sempre più venerato
ogni singolo luogo in cui era passato,
sino a che i poeti riconobbero
questo primo fratello come loro dio
James Russell Lowell-Poeta americano
La betulla
Scorre la luce del sole attraverso i tuoi rami che si muovono,
in mezzo alle tue foglie in eterno palpitanti;
Ovidio ha imprigionato dentro te una Ninfa piangente,
anima d’un antico tremulo fiume interno,
che guizzante narra le sue sventure, che rimangono inascoltate.
Mentre tutta la foresta, incantata dall’assonnata luce della luna,
oscilla le sue foglie nel felice silenzio,
in attesa della rugiada, sospesa tra respiro e ansia, –
ascolto da lontano le tue sussurranti e fioche foglie,
e seguo le tue tracce nell’oblio.
Sulle sponde di un laghetto addormentato in mezzo alla foresta,
il tuo fogliame, come le ciocche d’una Driade,
gocciola intorno al tuo bianco e magro fusto, la cui ombra
degrada tremante lungo le oscure e quiete acque,
mentre tu fuggi verso la fonte come una Driade spaventata.
Tu sei l’intermediaria degli amanti di campagna;
la tua candida corteccia trattiene in sé i suoi segreti;
Reuben scrive qui il propizio nome della Pazienza,
ed i tuoi rami flessuosi mormorano e piangono
sopra di lei, che sugge il mistero dalla tua scorza.
Tu sei per me come la mia fanciulla adorata,
così schiettamente ritrosa, piena di tremanti confidenze;
a fatica riesci a fare ombra, le tue foglie scalpiccianti
cospargono sui miei sensi il bagliore del sole che hanno raccolto,
e la Natura mi dona tutte le sue estive intimità.
Sia che il tuo cuore tremi per la speranza o per il dolore,
tu per sempre rimani in armonia; selvaggio ed inquieto
io giaccio sotto di te; il tuo dondolio, come un fiume,
scorre verso valle, dove si estende il regno della pace, e dove
il mio cuore galleggia nella terra della tranquillità.
La serenata
Gentile Signora, sia il tuo sonno sereno,
siano i tuoi sogni tranquilli,
mentre la tua anima accompagna
sulle ali delle chimere la nostra melodia;
Fratelli, noi cantiamo, triste e sommessa,
la nostra canzone dolce e umile,
simile alla voce degli anni che furono,
lascia che i nostri cuori si uniscano
alla sua soavità, come quando sentiamo
cadere le lacrime della nostra mamma.
Signora! La nostra canzone sta riportando
indietro il tempo alla tua giovinezza –
riesci a sentire l’ape che canta
e ronza in mezzo ai fiori?
Sonnolenta, sonnolenta,
nel sole del mezzodì ella continua il suo volo,
si posa sui teneri gambi
che fanno da confine ai ben noti giardini;
riesci a sentire l’intermittente frullio
delle invisibili ali del colibrì –
non ti riempie il cuore l’emozione
delle cose quasi dimenticate dell’infanzia?
Riesci a vedere la cara vecchia casa
con il vincibosco intorno alla porta?
Fratelli, piano! Il suo cuore si sta riempiendo
dei laboriosi pensieri del passato;
umilmente canta, teneramente canta,
ospita il suo spirito non più così selvaggio,
lascia che non dorma più.
Questo è il delizioso tempo d’estate,
spalancata rimane la finestra –
Signora, ti stai imbevendo di quelle voci?
Chi sta cantando queste splendide melodie,
che aumentano e poi d’un tratto diminuiscono,
come la canzone del tordo a Giugno?
Di chi è quella risata che risuona così limpida
e gioiosa nel tuo orecchio bramoso?
Più piano, fratelli, ancora più piano
ordite la canzone in intricati intrecci;
ella ora ascolta il soffio del vento d’occidente,
alla sera attraverso quel bosco di pini;
oh! Lamentosa è la loro melodia,
come di un oggetto impazzito
che, solo,
sussurra eternamente,
attraverso la notte e attraverso il giorno,
qualcosa che è passato per sempre.
Spesso, Signora, tu hai ascoltato,
spesso i tuoi occhi azzurri hanno luccicato,
dove la brezza estiva della sera
piangeva triste attraverso quelle foreste solitarie,
quando il vento fiero che viene dal nord
distorceva la loro musica lamentosa.
Sempre il fiume scorreva
come un flusso ininterrotto,
sempre il vento d’occidente soffiava,
mormorando al suo passaggio,
e mescolandosi con i suoi sogni;
il fiume scorreva sempre
con quel suono d’antico e passato;
piano, Fratelli, piano! Ella piange,
non è più sola;
forme amate e visi delicati
s’affollano intorno al suo cuscino,
in quei luoghi deserti della memoria
fluttuano le acque della nostra canzone.
Signora! Se la tua vita è sacra
come lo era quando eri una bambina,
sebbene la nostra canzone sia melanconica,
non susciterà più alcuna angoscia;
perché l’anima che ha vissuto bene,
perché l’anima simile a quella di un bambino,
è tranquilla nella sua magia
che riporta indietro ai primi ricordi.
La quercia
Che nodosa ampiezza, che profonda ombra, è la sua!
Non c’è bisogno di corone per riconoscere la regina del bosco!
Guarda come offusca con le sue foglie l’estasi estiva!
Sole, bufera, pioggia, rugiada, le tributano i loro onori,
che lei con tale benigna regalità
accetta, come se ripagasse ciò che gli è fu prestato;
tutta la natura sembra essere orgogliosa sua vassalla,
e solo grazie a lei leggiadra nei suoi ornamenti.
Guarda come troneggia tra i cumuli di neve rigonfi,
in indomabile esilio dal trono d’estate,
la cui pianura senza confini mostra ancor più regalità,
ora che le sue foglie cortigiane sono volate via.
I suoi rami mettono in musica il vento dell’inverno,
ornati dal nevischio, come la facciata d’una cattedrale
dove i fiocchi di neve riparano con bizzarra arte
i segni ed i solchi del tempo invidioso.
Guarda come la sua paziente forza persuade il rude
vento di Marzo ad esalare piacevoli brezze d’estate,
guarda come induce il suolo, altrimenti mal disposto,
ad aumentare i suoi regali con orgoglio!
Ella è la gemma; e tutto il paesaggio
(così la sua grandeur isola i sensi)
sembrerebbe solo lo scenario d’un tutto senza valore,
un bicchiere vuoto, se lei dovesse morire.
Così, di fronte alle bufere invernali della vita,
gli uomini dovrebbero imparare come avvinghiarsi
alla terra che infonde vigore; – come altrimenti sfruttare
la linfa generatrice di foglie che germoglia dal sole?
Così ogni anno che muore con le sue scaglie silenti
riempie le vecchie cicatrici sul lato più antico,
e rende l’età canuta riverita come l’età della salute,
un’epoca di orgogliosa e fronzuta giovinezza.
Così dal suolo tormentato da un destino iracondo,
i veri cuori spingono la linfa a svilupparsi più robusta,
e così tra terra e cielo rimangono sempre grandiosi,
sempre più simili ai loro predecessori;
perché le forze della natura con obbediente zelo
aspettano la fede ben radicata e la volontà della quercia;
percepiscono velocemente la frode dell’ingannatore,
e costringono gli Spiritelli a deriderlo e sbeffeggiarlo.
Signora! Tutte le tue opere sono lezioni, e tutte hanno
l’emblema dell’animo umano;
l’uomo renderà infruttuose tutte le tue gloriose pene,
scavando nella sua graziosa mole senza occhi?
Rendimi l’ultimo del boschetto di Dodona,
rendimi messaggero della tua verità,
dimmi una sola parola, non lasciare che il tuo amore
disdegni di posarsi tra i miei rami e di cantare per te.
Si laurea ad Harvard nel 1838, in legge, ma ben presto si dedica alla passione poetica, pubblicando nel 1841 la sua prima raccolta di poesie.
Impegnato con la moglie, Maria Bianca, nello sviluppo dell’abolizionismo della schiavitù negli Stati Uniti, utilizza la poesia come veicolo di lotta per informare ed educare il pubblico.
La sua opera in versi La Fable for Critics (Favola per i critici, 1848), è incentrata su giudizi critici profondi sui maggiori scrittori contemporanei; invece The Biglow Papers (Il carteggio Biglow), manifestò la disapprovazione dell’autore per la guerra con il Messico.
Descrizione del libro di Corrado Calabrò-Con questo volume di poesie scelte, Corrado Calabrò consegna al lettore un’opera antologica importante e nuova, organizzata in sezioni che gettano luce sui temi fondamentali della sua sessantennale attività di scrittura: un autoritratto poetico da cui emerge la forte consapevolezza raggiunta con la piena maturità espressiva, capace di stabilire rapporti profondi fra testi nati in momenti diversi della vita. Il mare, l’astrofisica e l’amore risultano gli elementi cardine intorno ai quali ruota il pensiero emozionale del poeta, tenuti insieme dall’energia che dà forma alla salda pronuncia del dettato, tra classico e sperimentazione, nella variabilità di forme che spaziano dal poemetto all’epigramma. «La vera originalità del Calabrò» ha scritto Carlo Bo nel 1992, individuando uno dei motivi centrali dell’intera sua opera «sta nell’essersi staccato dai modelli comuni per inseguire una diversa sperimentazione poetica… Ha cantato non il suo mare, ma piuttosto l’idea di un mare eterno e insondabile.» Accompagnano le poesie due significative riflessioni d’autore. La densa postfazione, intitolata C’è ancora spazio, c’è ancora senso per la poesia, oggi?, costituisce un bilancio dei multiformi interessi e della passione profusa da Calabrò nel fare poesia; l’altra nota è invece dedicata al poemetto Roaming – apparso per la prima volta nel volume La stella promessa del 2009 e ora posto in apertura di questo libro – che rappresenta forse l’opera più suggestiva di Calabrò. Dopo duemila anni dal De rerum natura di Lucrezio, infatti, l’astrofisica è tornata ad essere, in forma onirica, materia di poesia.
Breve biografia di Corrado Calabrò è nato a Reggio Calabria. Al primo volume di poesie, scritto tra i diciotto e i vent’anni, Prima attesa (1960), sono seguite molte altre raccolte, tra cui Agavi in fiore (1976), Presente anteriore (1981), Rosso d’Alicudi (1992), Una vita per il suo verso (2002), La stella promessa (2009), T’amo di due amori (2010). Numerose sono le edizioni straniere delle sue poesie in una ventina di lingue e le trasposizioni teatrali e musicali dei suoi versi. Col romanzo Ricorda di dimenticarla (1999) è stato finalista al premio Strega e ha ispirato il film Il mercante di pietre di Renzo Martinelli. Per la sua opera poetica ha ricevuto numerosi riconoscimenti in Italia e all’estero, tra cui due lauree honoris causa.
Viviamo d’un fremito d’aria,
d’un filo di luce,
dei più vaghi e fuggevoli
moti del tempo,
di albe furtive,
di amori nascenti,
di sguardi inattesi.
E per esprimere quel che sentiamo
c’è una parola sola:
disperazione.
Dolce, infinita, profonda parola.
Vaga e triste è degli uomini la sorte:
degli uomini che passano
con non maggior fragore d’una foglia
che si tramuta in terra.
Precario stato il loro.
La morte è uno sciogliersi,
non un finire,
e senza tempo, senza memoria
il terrestre viaggio.
Il sole è stanco di contemplare
una tanto monotona vicenda.
Così parlava un monaco
neghittoso e bizzarro,
là, nell’antico Oriente:
piccolo uomo assediato
da immani fantasmi.
O gioventù, innocenza, illusioni,
tempo senza peccato, secol d’oro!
Poi che trascorsi siete
si costuma rimpiangervi
quale un perduto bene.
Io so che foste un male.
So che non foco, ma ghiaccio eravate,
o mie candide fedi giovanili,
sotto il cui manto vissi
come un tronco sepolto nella neve:
tronco verde, muscoso,
ricco di linfa e sterile.
Ora che, esausto e roso,
sciolto da voi percorsi in un baleno
le mie fiorenti stagioni
e sparso a terra vedo
il poco frutto che han dato,
ora che la mia sorte ho conosciuta,
qual essa sia non chiedo. Così rapida
fugge la vita che ogni sorte è buona
per tanto breve giornata.
Solo di voi mi dolgo, primi inganni.
POESIE.
Vincenzo Cardarelli
Editore: Mondadori, Milano, 1942
Prima edizione, 25 aprile 1942. Un volume (20 cm) di 132 pagine. Prefazione di Giansiro Ferrata
POESIE.
Vincenzo Cardarelli
Editore: Mondadori, Milano, 1942
Prima edizione, 25 aprile 1942. Un volume (20 cm) di 132 pagine. Prefazione di Giansiro Ferrata
Il bosco di primavera
ha un’anima, una voce.
È il canto del cuccù,
pieno d’aria,
che pare soffiato in un flauto.
Dietro il richiamo lieve,
più che l’eco ingannevole,
noi ce ne andiamo illusi.
Il castagno è verde tenero.
Sono stillanti persino
le antiche ginestre.
Attorno ai tronchi ombrosi,
fra giochi di sole,
danzano le amadriadi.
L’autunno romano tempesta
con furia senile.
E’ Giove che si cruccia
di non poter risplendere
in tutta la sua gloria,
dio irragionevole e antico.
E tuona con fragore
di mobili in isgombero,
lampeggia con improvvise
accensioni di lampadina,
rinnovando in autunno i suoi capricci
primaverili,
e gli alberi si illudono
di rinverdire.
Nume violento e spossato
che, al dolce tempo restio,
poi che passò l’estate
nel caos ci precipita,
per farci rivedere la sua faccia,
di là da questo diluvio,
insostenibilmente luminosa.
Io pago tutto.
Non c’è peccato
ch’io non abbia finora
debitamente scontato.
Ho un organismo vitale
che vuole, contrariamente
al Diavolo di Goethe,
vuole il Bene e fa il Male.
Pensate quale puntualità
e che liste di conti da saldare.
Ai messi del Signore
l’uscio della mia casa è sempre aperto.
E spesso delle loro intimazioni,
prevenendole,
io stesso senz’attenderli
mi faccio esecutore.
Sì che quand’essi giungono
ritto sull’uscio li fermo
e li rimando dicendo:
Amici, sono anch’io
cursore e complice di Dio.
Che dunque venite a fare
se il debito è già pagato ?
Forse è perciò che una donna cattiva
suole dire celiando
ch’io sono un santo e innanzi di morire
farò miracoli.
Talvolta infatti io mi vedo come uno
di quei poveri santi
che sulle tele delle sacrestie
stanno in adorazione della Vergine,
inutilmente aspettando
un suo sguardo.
Ma vi dico, in verità,
che volentieri darei, se pur l’avessi,
una tanto gloriosa vocazione
per un poco d’allegra umanità.
Lenta e rosata sale su dal mare
la sera di Liguria, perdizione
di cuori amanti e di cose lontane.
Indugiano le coppie nei giardini,
s’accendon le finestre ad una ad una
come tanti teatri.
Sepolto nella bruma il mare odora.
Le chiese sulla riva paion navi
che stanno per salpare.
L’alito freddo e umido m’assale
di Venezia autunnale.
Adesso che l’estate,
sudaticcia e sciroccosa,
d’incanto se n’è andata,
una rigida luna settembrina
risplende, piena di funesti presagi,
sulla città d’acque e di pietre
che rivela il suo volto di medusa
contagiosa e malefica.
Morto è il silenzio dei canali fetidi,
sotto la luna acquosa,
in ciascuno dei quali
par che dorma il cadavere d’Ofelia:
tombe sparse di fiori
marci e d’altre immondizie vegetali,
dove passa sciacquando
il fantasma del gondoliere.
O notti veneziane,
senza canto di galli,
senza voci di fontane,
tetre notti lagunari
cui nessun tenero bisbiglio anima,
case torve, gelose,
a picco sui canali,
dormenti senza respiro,
io v’ho sul cuore adesso più che mai.
Qui non i venti impetuosi e funebri
del settembre montanino,
non odor di vendemmia, non lavacri
di piogge lacrimose,
non fragore di foglie che cadono.
Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore
su un davanzale
è tutto l’autunno veneziano.
Così a Venezia le stagioni delirano.
Pei suoi campi di marmo e i suoi canali
non son che luci smarrite,
luci che sognano la buona terra
odorosa e fruttifera.
Solo il naufragio invernale conviene
a questa città che non vive,
che non fiorisce,
se non quale una nave in fondo al mare.
Che cosa mi colpisce oramai!
Un velo d’ombra di mare
sui monti lontani,
un lembo di nuvola tutelare.
Ma basta levare la testa.
Le cose non stanno che a ricordare.
Piano piano i minuti vissuti,
fedelmente li ritroveremo.
Coraggio, guardiamo.
Come chi gioia e angoscia provi insieme
gli occhi di lei così m’hanno lasciato.
Non so pensarci. Eppure mi ritorna
più e più insistente all’anima
quel suo fugace sguardo di commiato.
E un dolce tormento mi trattiene
dal prender sonno, ora ch’è notte e s’agita
nell’aria un che di nuovo.
Occhi di lei, vago tumulto. Amore,
pigro, incredulo amore, più per tedio
che per gioco intrapreso, ora ti sento
attaccato al mio cuore (debol ramo)
come frutto che geme.
Amore e primavera vanno insieme.
Quel fatale e prescritto momento
che ci diremo addio
è già in ogni distacco
del tuo volto dal mio.
Cosa lieve è il tuo corpo!
Basta che io l’abbandoni per sentirti
crudelmente lontana.
Il più corto saluto è fra noi due
un commiato finale.
Ogni giorno ti perdo e ti ritrovo
così, senza speranza.
Se tu sapessi com’è già remoto
il ricordo dei baci
che poco fa mi davi,
di quel caro abbandono,
di quel folle tuo amore ov’io non mordo
che sapore di morte.
La vita io l’ho castigata vivendola.
Fin dove il cuore mi resse
arditamente mi spinsi.
Ora la mia giornata non è più
che uno sterile avvicendarsi
di rovinose abitudini
e vorrei evadere dal nero cerchio.
Quando all’alba mi riduco,
un estro mi piglia, una smania
di non dormire.
E sogno partenze assurde,
liberazioni impossibili.
Oimè. Tutto il mio chiuso
e cocente rimorso
altro sfogo non ha
fuor che il sonno, se viene.
Invano, invano lotto
per possedere i giorni
che mi travolgono rumorosi.
Io annego nel tempo.
Al bar della stazione ci fermiamo tutti per un caffè. Se viaggiando nel tempo fino, ci fossimo fermati alla stazione di Corneto Tarquinia, negli ultimi anni dell’Ottocento, avremmo scambiato due chiacchiere con un certo Antonio Romagnoli. Magari ci avrebbe dato qualche informazione sugli orari dei treni; magari avremmo scambiato qualche chiacchiera in modo distratto, sul governo o sul tempo.
Intanto avremmo visto un bambino giocare da qualche parte e quel bambino è il figlio illegittimo di Antonio Romagnoli e di Giovanna Caldarelli. E quel bambino, di nome Nazareno, nato sfortunato per via di una menomazione al braccio sinistro, nato già solo in un mondo che sembra non avere troppo posto per lui, quel bambino è un poeta, uno di quelli bravi davvero.
Cambierà nome e sarà Vincenzo Cardarelli il poeta che più di tutti ha cantato l’incanto dell’amore, della giovinezza, dell’adolescenza e come il tempo possa travolgerci.
La vita di Vincenzo Cardarelli
Vincenzo Cardarelli (nato Nazareno Caldarelli) nasce nel 1887 in una famiglia di umili condizioni, a Corneto Tarquinia (Viterbo) dove un tempo splendeva la civiltà etrusca: il padre gestisce il bar della stazione ferroviaria e ha una relazione con Giovanna Caldarelli, che ne resta incinta.
Nazareno è un figlio illegittimo e per la madre è difficile riuscire a tirarlo su. Dopo le scuole elementari, lascia gli studi e a diciassette anni si trasferisce a Roma trovandosi a fare i mestieri più vari, ad esempio il correttore di bozze per il giornale l’«Avanti». Era il primo contatto con il mestiere di giornalista che avrebbe iniziato proprio con quel giornale.
La rivista letteraria La Ronda
La sua carriera giornalistica fu intensa in quegli anni e furono molte le collaborazioni di Cardarelli con altri giornali come «Il Marzocco», «Il Resto del Carlino», ecc.
Non partecipò alla prima guerra mondiale poiché riformato e passò invece di città in città (Firenze Venezia, Milano, Lugano…) per poi tornare a Roma dove fu tra i fondatori e direttori della rivista letteraria «La Ronda», di cui fu anche il maggiore esponente e teorico.
La morte
Fu il momento di massima gloria per il poeta, perché poi, nonostante altre importanti collaborazioni, finì mano a mano sempre più isolato e lontano dai riflettori.
Morì in solitudine a Roma nel 1959. È sepolto a Tarquinia, per sua volontà, davanti ai luoghi della civiltà etrusca da lui tanto amata e più volte evocata poeticamente.
VINCENZO CARDARELLI
L’esperienza de «La Ronda» per un ritorno all’ordine
Parlare di Cardarelli richiede una doverosa premessa sulla rivista «La Ronda» e sugli ideali letterari da essa proposti. Dopo gli squilibri e le esagerazioni del Futurismo, dopo la febbre di cambiamento sfociata nella grande guerra, ecco che si avverte l’esigenza di tornare all’ordine e all’armonia.
Roma si candida a nuovo centro della letteratura italiana, scalzando idealmente Firenze (dove erano state fondate le riviste la «Voce» e «Lacerba»).
La rivista «La Ronda», uscita per la prima volta nell’aprile del 1919, con la sua bella copertina color mattone e il disegno di un tamburino che chiama a raccolta, si impone di ritrovare l’ordine perduto e recuperare la misura e l’equilibrio del mondo classico, perseguendo una ricerca stilistica capace di rispecchiare sia l’eleganza e la concretezza della forma, sia la profondità intellettuale.
Antonio Baldini (1889-1962), scrittore, giornalista e saggista italiano, co-fondatore della rivista ‘La Ronda’. Roma, 1950 circa — Fonte: getty-images
Soprannomi dei fondatori
Sono sette i redattori e co-fondatori della «Ronda»: Riccardo Bacchelli (1891-1985), Antonio Baldini (1889-1962), Bruno Barilli (1880-1952), Vincenzo Cardarelli (1887-1959), Emilio Cecchi (1884-1966), Lorenzo Montano (alias Danilo Lebrecht, 1880-1952) e Aurelio Emilio Saffi, segretario di redazione.
I fondatori si chiamano anche «i sette savi» o «i sette nemici» e ciascuno ha un soprannome ironico. Antonio Baldini è Margutte, il celebre goliardo mezzo-gigante che troviamo nel Morgante di Luigi Pulci; Vincenzo Cardarelli detto “pubblicista”, Emilio Cecchi “esquire” (lo scudiero, perché deve difendere i poeti con la sua esperienza nella critica letteraria), Riccardo Bacchelli è “possidente”, Antonio Baldini è “baccelliere in lettere”, Lorenzo Montano è “industriale”, “Bruno Barilli è “compositore”, Aurelio Emilio Saffi è “docente nelle scuole governative”.
Gli obiettivi de La Ronda
Questa rivista non ambisce a creare un’opinione politica, ma vuole solo occuparsi di letteratura. Troppo fresco è il ricordo degli intellettuali interventisti come Pascoli e D’Annunzio o il bellicismo dei poeti futuristi come Marinetti.
Quali sono allora gli obiettivi? Riassumiamo:
Culto dei classici
Gusto aristocratico della letteratura
Ricerca del decoro espressivo
Ordine e misura.
«La Ronda» difende anche l’idea della cosiddetta prosa d’arte e il cosiddetto «capitolo», una prosa descrittiva che punta a creare un frammento compiuto (che è un ossimoro) capace di esprimere controllo e piena chiarezza del dettato.
Queste due forme poetiche rappresentano un’evoluzione particolare della prosa lirica. I modelli letterari di riferimento della prosa «rondista» sono:
Questi sono dei modelli di riferimento, ma i rondisti non sono chiusi in sé stessi, avulsi da quanto è accaduto o sta accadendo nella letteratura europea. La fine della «Ronda» è nel 1922.
Ordine, armonia e disciplina sono diventate parole di propaganda del regime fascista e questo creerebbe una sovrapposizione inammissibile. Si chiude così la sua stagione, in un dignitoso e duro silenzio.
La poetica di Cardarelli
Versi discorsivi
Dopo la premessa con «La Ronda» e i suoi ideali risulta più semplice capire quale sia la poetica di Cardarelli, visto che lui è uno dei co-fondatori della rivista letteraria.
Cardarelli punta a una poesia dove i versi abbiamo uno svolgimento discorsivo che possa mettere in luce i segreti moti psicologici dell’autore; con armonia, ma sempre con urgenza; con un ritmo implacabile, con uno scopo a rivelarsi subito chiaro.
Una poesia che ragiona, come un lungo colloquio dell’anima. Colloquiale ma non per ironia come accadeva ai poeti crepuscolari; prosaica ma non per questo meno ricercata e intimamente lirica. Una poesia, quella di Cardarelli, che è discorso sempre in atto, fluente, vivido.
Le parole di Cardarelli
Dice di sé stesso il poeta:
«che la mia poesia “discorra” non c’è dubbio. Anzi corre precipitosamente allo scopo, con un ritmo che non ammette divagazioni, non concede indugi, quantunque non sempre in modo graduale e pacifico. Più spesso procede per giustapposizione di idee o d’immagini, per rifrazioni di un medesimo concetto che, accennato fin dalle prime sillabe, si svolge, se mi è permesso di dirlo, come un tema musicale. È la mia maniera di esprimermi».
Il tempo: ossessione ed occasione
La soggettività di Cardarelli si spande nel tempo perché il tempo è la tela del suo io, come l’autoritratto non potesse mai davvero finire; se non con la morte, ovviamente. E allora il tempo è ossessione ed occasione insieme. Non interessa tanto il tempo storico, quanto il tempo in cui l’io ha modo di scoprire il suo passaggio silenzioso nell’esistenza.
Il brano Idea della morte
Si legge nel brano Idea della morte (1918), incluso in Viaggi nel tempo (1920):
«Sono turbato dalla sensazione del tempo come un pericolo assiduo. Il desiderio, spesso spropositato in me, di abbandonarmi, è vinto da una vaga inquietudine senza causa, che urge e mi consiglia di levarmi su, presto, come se ad ogni istante si potesse correre il rischio di perdere tutto il tempo in una volta, tutte le probabilità e le occasioni. […] E mentre noi che ne andiamo, ilari e distratti, per la nostra strada, egli ci cammina dietro, e allorché, trasalendo, ci rivolteremo per guardarlo, ci avrà già passati».
Il tema del vagabondaggio
Il tema del tempo si lega a quello dell’occasione perduta e dell’infanzia passata inesorabilmente.
C’è anche il tema del vagabondaggio, spiccatamente autobiografico, perché Cardarelli si percepisce come un uomo sempre messo al bando.
La sofferenza permea ma non spezza il rigore espressivo e logico della poesia di Cardarelli che riesce sempre a trovare la giusta armonia e una mai acquietata dolcezza.
Il concetto di «impassibilità»
Mengaldo sottolinea il concetto di «impassibilità», come capacità di volgere l’ispirazione «indifferentemente su tutte le cose, come si diffonde la luce». E aggiunge che questa definizione dello stesso poeta «chiarisce benissimo le motivazioni del cosiddetto classicismo cardarelliano, in quanto rifiuto delle salienze espressive e dell’esposizione violenta di singoli particolari in nome di un’equa distribuzione dell’energia stilistica su tutta la superficie del testo…» (Poeti italiani del Novecento, 366).
Vediamo alcune delle poesie più rappresentative di questo poeta, cercando di dare un piccolo commento a ognuna. Non serve la parafrasi perché non si parla più in italiano antico!
Abbiamo detto che il tema del tempo è di assoluta importanza per Cardarelli. Lo è per tanti poeti, in verità, se non per tutti. Cardarelli ha comunque un modo tutto suo di esprimerlo: ora dolce, ora terribile; ora occasione, ora rimpianto.
Il tempo è anche il passaggio in cui la realtà si rinnova. Come se fossimo in un sonetto della corona dei mesi, Cardarelli sceglie di parlarci di febbraio, il mese più corto dell’anno, un mese piccolo e sempre bambino.
Febbraio
Febbraio è sbarazzino.
Non ha i riposi del grande inverno,
ha le punzecchiature,
i dispetti di primavera che nasce.
Dalla bora di febbraio
requie non aspettare.
Questo mese è un ragazzo
fastidioso, irritante
che mette a soqquadro la casa,
rimuove il sangue, annuncia il folle marzo
periglioso e mutante.
Cardarelli innamorato
L’amore è il tema dei poeti: quanto è difficile parlarne? Quanto è difficile scriverne? Scommetto che tutti ci abbiamo provato ad esprimere questo sentimento su carta per poi capire che non ne siamo capaci.
Compito sopraffino da lasciare ai poeti, che parlano per noi tutti. In questa poesia Cardarelli si accorge di essersi innamorato: se ne accorge dallo sguardo di lei triste e felice a un tempo.
Nella mancanza di lei, come in un provenzale “amore da lontano”, il poeta si agita e pensa a cosa sta accadendo e a come quel sentimento, come un uccellino si sia aggrappato ai rami del suo cuore.
Amore
Come chi gioia e angoscia provi insieme
gli occhi di lei cosí m’hanno lasciato.
Non so pensarci. Eppure mi ritorna
piú e piú insistente all’anima
quel suo fugace sguardo di commiato.
E un dolce tormento mi trattiene
dal prender sonno, ora ch’è notte e s’agita,
nell’aria un che di nuovo.
Occhi di lei, vago tumulto. Amore,
pigro, incredulo amore, piú per tedio
che per gioco intrapreso, ora ti sento
attaccato al mio cuore (debol ramo)
come frutto che geme.
Amore e primavera vanno insieme.
L’addio
Gli amori dei poeti di norma finiscono tutti. Ma come è dolce il finire delle cose, a volte, quanto è strano di colpo capire che qualcosa è finito. Sotto i nostri occhi, d’improvviso.
E qualcosa si spezza in noi e quella vita, quella possibilità, quella promessa di giorni felici svanisce per sempre. Resta solo il ricordo, amaro, poi magari più dolce e sbiadito, come una luce che passa attraverso le tende. In questa poesia l’addio è netto, deciso: «Non mi lasciasti nessuna speranza», dice Cardarelli.
Ed è così che di lei resta solo lo spettro, un compagno silenzioso e fastidioso; quel silenzio è un baratro dove l’assenza sembra chiamare a sé ogni cosa.
Crudele addio
Ti conobbi crudele nel distacco.
Io ti vidi partire
come un soldato che va alla morte
senza pietà per chi resta.
Non mi lasciasti nessuna speranza.
Non avevi, in quel punto,
la forza di guardarmi.
Poi più nulla di te, fuorché il tuo spettro,
assiduo compagno, il tuo silenzio
pauroso come un pozzo senza fondo.
Ed io m’illudo
che tu possa riamarmi.
E non fo che cercarti, non aspetto
che il tuo ritorno,
per vederti mutata, smemorata,
aver noia di me che oserò farti
qualche amoroso e inutile dispetto.
Nostalgia e rimpianto
Nascono ombre smisurate da corpi troppo brevi, perché breve è il loro passaggio nel tempo. I ricordi sono così: uno «strascico di morte».
Con una metafora truce e dolorosa, Cardarelli ci porta nella dimensione della nostalgiae del rimpianto che l’amore genera in lui. I ricordi sono «fantasmi agitati da un vento funebre», per riprendere l’immagine dello spettro della poesia precedente, cara al poeta.
La donna amata è un ricordo e quindi, implicitamente, uno spettro che si aggira nella memoria del poeta (la parola «trapassata» si usa infatti per i morti).
L’ultimo sussulto della storia, prima del commiato, è nella consapevolezza che il tempo raggiunge ogni cosa e che l’amore è un fuoco che brucia e agita quel tempo, breve, concesso alla vita.
VINCENZO CARDARELLI
Passato
I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m’appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
Amore e solitudine
“Attesa” è giustamente una delle poesie più famose di Cardarelli, per dolcezza, malinconia e finanche lieve candore delle immagini. Come nei poemi cavallereschi l’amore è una ricerca attiva o passiva: possiamo andare incontro all’amata come il furioso Orlando di Ariosto o possiamo attendere l’arrivo dell’amata, alla finestra, febbricitanti nell’attesa.
L’amore ha un modo tutto suo di disattendere l’una e l’altra dinamica. Se cerchiamo, non troviamo. Se aspettiamo, non arriva. E allora l’amore si fa compagno della solitudine, intensa esplorazione dell’altro dentro di noi.
È un’assenza che si colma di senso. L’assenza della donna amata brilla tumultuosa come una stella. Come un temporale che, eccolo, è lì, pronto a scrosciare con impeto, ma poi se ne va verso altri luoghi.
L’amore è tutto. Saffo lo definiva dolce-amara bestia. Cardarelli lo vorrebbe coprire di fiori, ma anche di insulti.
Attesa
Oggi che t’aspettavo
non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava
nel vuoto che hai lasciato,
come una stella.
Dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
s’annuncia e poi s’allontana,
così ti sei negata alla mia sete.
L’amore, sul nascere,
ha di questi improvvisi pentimenti.
Silenziosamente
ci siamo intesi.
Amore, amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d’insulti.
Gregory Corso, il poeta ribelle della Beat Generation –
Gregory Corso (1930-2001) was a founding member of the Beat Generation, and for over fifty years one of America’s most popular and beloved poets. He was the author of over a dozen books of poetry and one novel, in addition to posthumously published collections of plays, interviews and correspondence. His book, The Golden Dot: Last Poems, 1997-2000, edited by Raymond Foye and George Scrivani, will be published in Spring 2022 by Lithic Press.
Gregory Corso
Born in New York City’s Greenwich Village. He was placed in numerous foster homes, and as a teenager served time in detention centers and prisons in New York and Vermont. His lifelong friendship with Allen Ginsberg began in 1951 with their meeting in a Greenwich Village bar, shortly after Corso’s release from Clinton Correctional Facility. In 1954-55, Corso was based in Cambridge, Massachusetts, staying with friends from Harvard and Radcliffe colleges, and befriending Frank O’Hara and Bunny Lang at the Poet’s Theater. His first book The Vestal Lady on Brattle and Other Poems was published there in 1955. As an original member of the Beat Generation along with Ginsberg, Herbert Huncke, William S. Burroughs and Jack Kerouac, Corso was a public figure and a poet of great popularity who published and read widely. In 1965 he was invited to teach at SUNY Buffalo but was dismissed upon arrival when he refused to sign a loyalty oath to the US Government. He lived a peripatetic life, dividing his time between New York, San Francisco, Paris, Rome, and Athens. A faculty member in poetics at the Naropa Institute in Boulder in the 1980s and 1990s, Corso died of prostate cancer in January 2001.
La poesia di Gregory Corso ‘Bomb’ pubblicata nel 1958 è stata, secondo Catharine Seigel, una delle prime poesie ad affrontare l’esistenza della bomba nucleare. Fu pubblicata come un foglio volante (broadside) con il testo disposto a formare la forma di un fungo atomico. I primi 30 versi creavano la forma della cima del fungo, mentre i versi 30-190 formavano il pilastro di detriti e distruzione che si innalzavano dal suolo. Corso si rifaceva alla tradizione della poesia visiva ma fece la scelta irriverente di creare la forma della nuvola che risulta dalla detonazione di una bomba nucleare. Usi precedenti di questa tecnica davano alla poesia la forma di ali d’angelo e altari, per cui la scelta di Corso risulta secondo Siegel “ironicamente appropriata”. La poesia apparve nel volume “The Happy Birthday of Death” che conteneva una fotografia in bianco e nero dell’esplosione nucleare sopra Hiroshima.
Gregory Corso
Budger of history Brake of time You Bomb
Toy of universe Grandest of all snatched sky I cannot hate you
Do I hate the mischievous thunderbolt the jawbone of an ass
The bumpy club of One Million B.C. the mace the flail the axe
Catapult Da Vinci tomahawk Cochise flintlock Kidd dagger Rathbone
Ah and the sad desparate gun of Verlaine Pushkin Dillinger Bogart
And hath not St. Michael a burning sword St. George a lance David a sling
Bomb you are as cruel as man makes you and you’re no crueller than cancer
All Man hates you they’d rather die by car-crash lightning drowning
Falling off a roof electric-chair heart-attack old age old age O Bomb
They’d rather die by anything but you Death’s finger is free-lance
Not up to man whether you boom or not Death has long since distributed its
categorical blue I sing thee Bomb Death’s extravagance Death’s jubilee
Gem of Death’s supremest blue The flyer will crash his death will differ
with the climbor who’ll fall to die by cobra is not to die by bad pork
Some die by swamp some by sea and some by the bushy-haired man in the night
O there are deaths like witches of Arc Scarey deaths like Boris Karloff
No-feeling deaths like birth-death sadless deaths like old pain Bowery
Abandoned deaths like Capital Punishment stately deaths like senators
And unthinkable deaths like Harpo Marx girls on Vogue covers my own
I do not know just how horrible Bombdeath is I can only imagine
Yet no other death I know has so laughable a preview I scope
a city New York City streaming starkeyed subway shelter
Scores and scores A fumble of humanity High heels bend
Hats whelming away Youth forgetting their combs
Ladies not knowing what to do with their shopping bags
Unperturbed gum machines Yet dangerous 3rd rail
Ritz Brothers from the Bronx caught in the A train
The smiling Schenley poster will always smile
Impish death Satyr Bomb Bombdeath
Turtles exploding over Istanbul
The jaguar’s flying foot
soon to sink in arctic snow
Penguins plunged against the Sphinx
The top of the Empire state
arrowed in a broccoli field in Sicily
Eiffel shaped like a C in Magnolia Gardens
St. Sophia peeling over Sudan
O athletic Death Sportive Bomb
the temples of ancient times
their grand ruin ceased
Electrons Protons Neutrons
gathering Hersperean hair
walking the dolorous gulf of Arcady
joining marble helmsmen
entering the final ampitheater
with a hymnody feeling of all Troys
heralding cypressean torches
racing plumes and banners
and yet knowing Homer with a step of grace
Lo the visiting team of Present
the home team of Past
Lyre and tube together joined
Hark the hotdog soda olive grape
gala galaxy robed and uniformed
commissary O the happy stands
Ethereal root and cheer and boo
The billioned all-time attendance
The Zeusian pandemonium
Hermes racing Owens
The Spitball of Buddha
Christ striking out
Luther stealing third
Planeterium Death Hosannah Bomb
Gush the final rose O Spring Bomb
Come with thy gown of dynamite green
unmenace Nature’s inviolate eye
Before you the wimpled Past
behind you the hallooing Future O Bomb
Bound in the grassy clarion air
like the fox of the tally-ho
thy field the universe thy hedge the geo
Leap Bomb bound Bomb frolic zig and zag
The stars a swarm of bees in thy binging bag
Stick angels on your jubilee feet
wheels of rainlight on your bunky seat
You are due and behold you are due
and the heavens are with you
hosanna incalescent glorious liaison
BOMB O havoc antiphony molten cleft BOOM
Bomb mark infinity a sudden furnace
spread thy multitudinous encompassed Sweep
set forth awful agenda
Carrion stars charnel planets carcass elements
Corpse the universe tee-hee finger-in-the-mouth hop
over its long long dead Nor
From thy nimbled matted spastic eye
exhaust deluges of celestial ghouls
From thy appellational womb
spew birth-gusts of of great worms
Rip open your belly Bomb
from your belly outflock vulturic salutations
Battle forth your spangled hyena finger stumps
along the brink of Paradise
O Bomb O final Pied Piper
both sun and firefly behind your shock waltz
God abandoned mock-nude
beneath His thin false-talc’s apocalypse
He cannot hear thy flute’s
happy-the-day profanations
He is spilled deaf into the Silencer’s warty ear
His Kingdom an eternity of crude wax
Clogged clarions untrumpet Him
Sealed angels unsing Him
A thunderless God A dead God
O Bomb thy BOOM His tomb
That I lean forward on a desk of science
an astrologer dabbling in dragon prose
half-smart about wars bombs especially bombs
That I am unable to hate what is necessary to love
That I can’t exist in a world that consents
a child in a park a man dying in an electric-chair
That I am able to laugh at all things
all that I know and do not know thus to conceal my pain
That I say I am a poet and therefore love all man
knowing my words to be the acquainted prophecy of all men
and my unwords no less an acquaintanceship
That I am manifold
a man pursuing the big lies of gold
or a poet roaming in bright ashes
or that which I imagine myself to be
a shark-toothed sleep a man-eater of dreams
I need not then be all-smart about bombs
Happily so for if I felt bombs were caterpillars
I’d doubt not they’d become butterflies
There is a hell for bombs
They’re there I see them there
They sit in bits and sing songs
mostly German songs
And two very long American songs
and they wish there were more songs
especially Russian and Chinese songs
and some more very long American songs
Poor little Bomb that’ll never be
an Eskimo song I love thee
I want to put a lollipop
in thy furcal mouth
A wig of Goldilocks on thy baldy bean
and have you skip with me Hansel and Gretel
along the Hollywoodian screen
O Bomb in which all lovely things
moral and physical anxiously participate
O fairylike plucked from the
grandest universe tree
O piece of heaven which gives
both mountain and anthill a sun
I am standing before your fantastic lily door
I bring you Midgardian roses Arcadian musk
Reputed cosmetics from the girls of heaven
Welcome me fear not thy opened door
nor thy cold ghost’s grey memory
nor the pimps of indefinite weather
their cruel terrestial thaw
Oppenheimer is seated
in the dark pocket of Light
Fermi is dry in Death’s Mozambique
Einstein his mythmouth
a barnacled wreath on the moon-squid’s head
Let me in Bomb rise from that pregnant-rat corner
nor fear the raised-broom nations of the world
O Bomb I love you
I want to kiss your clank eat your boom
You are a paean an acme of scream
a lyric hat of Mister Thunder
O resound thy tanky knees
BOOM BOOM BOOM BOOM BOOM
BOOM ye skies and BOOM ye suns
BOOM BOOM ye moons ye stars BOOM
nights ye BOOM ye days ye BOOM
BOOM BOOM ye winds ye clouds ye rains
go BANG ye lakes ye oceans BING
Barracuda BOOM and cougar BOOM
Ubangi BOOM orangutang
BING BANG BONG BOOM bee bear baboon
ye BANG ye BONG ye BING
the tail the fin the wing
Yes Yes into our midst a bomb will fall
Flowers will leap in joy their roots aching
Fields will kneel proud beneath the halleluyahs of the wind
Pinkbombs will blossom Elkbombs will perk their ears
Ah many a bomb that day will awe the bird a gentle look
Yet not enough to say a bomb will fall
or even contend celestial fire goes out
Know that the earth will madonna the Bomb
that in the hearts of men to come more bombs will be born
magisterial bombs wrapped in ermine all beautiful
and they’ll sit plunk on earth’s grumpy empires
fierce with moustaches of gold
Incalzatrice della storia Freno del tempo Tu Bomba
Giocattolo dell’universo Massima rapinatrice di cieli Non posso odiarti
Forse che l’odio il fulmine scaltro la mascella di un asino
La mazza nodosa di Un Milione di A.C. la clava il flagello l’ascia
Catapulta Da Vinci tomahawk Cochise acciarino Kidd pugnale Rathbone
Ah e la triste disperata pistola Verlaine Puskin Dillinger Bogart
E non ha S. Michele una spada infuocata S. Giorgio una lancia Davide una fionda
Bomba sei crudele come l’uomo ti fa e non sei più crudele del cancro
Ogni uomo ti odia preferirebbe morire in un incidente d’auto per un fulmine annegato
Cadendo dal tetto sulla sedia elettrica di infarto di vecchiaia di vecchiaia O Bomba
Preferirebbe morire di qualsiasi cosa piuttosto che per te Il dito della morte è indipendente
Non sta all’uomo che tu bum o no La Morte ha distrutto da un pezzo
il suo azzurro inflessibile Io ti canto Bomba Prodigalità della Morte Giubileo della Morte
Gemma dell’azzurro supremo della Morte Chi vola si schianterà al suolo la sua morte sarà diversa
da quella dello scalatore che cadrà Morire per un cobra non è morire per del maiale guasto
Si può morire in una palude in mare e nella notte per l’uomo nero
Oh ci sono morti come le streghe d’Arco Agghiaccianti morti alla Boris Karloff
Morti insensibili come un aborto morti senza tristezza come vecchio dolore Bowery
Morti nell’abbandono come la Pena Capitale morti solenni come i senatori
E morti impensabili come Harpo Marx le ragazze sulla copertina di Vogue la mia
Proprio non so quanto sia terribile la MortePerBomba Posso solo immaginarlo
Eppure nessuna morte di cui io sappia ha un’anteprima così buffa Panoramo
una città la città New York che straripa a occhi desolati rifugio nel subway
Centinaia e centinaia Un precipitare di umanità Tacchi alti piegati
Capelli spinti indietro Giovani che dimenticano i pettini
Signore che non sanno cosa fare delle borse della spesa
Impassibili distributori automatici di gomma Ma 3° rotaia pericolosa lo stesso
Ritz Brothers del Bronx sorpresi sul treno A
La sorridente réclame del Schenley sorriderà sempre
Morte Folletto Bomba Satiro Bombamorte
Tartarughe che esplodono sopra Istanbul
La zampa del giaguaro che balza
per affondare presto nella neve artica
Pinguini piombati contro la Sfinge
La cima dell’Empire State
sfrecciata in un campo di broccoli in Sicilia
Eiffel a forma di C nei Magnolia Gardens
S. Sofia atletica Bomba sportiva
I templi dell’antichità
finite le loro grandiose rovine
Elettroni Protoni Neutroni
che raccolgono capelli Esperidi
che percorrono il dolente golf dell’Arcadia
che raggiungono timonieri di marmo
che entrano nell’anfiteatro finale
con un senso di imnodia di tutte le Ilio
annunciando torce di cipressi
correndo con pennacchi e stendardi
e tuttavia conoscendo Omero con passo aggraziato
Ecco la squadra del Presente in visita
la squadra del Passato in casa
Lira e tuba insieme congiunte
Odi e wurstel soda oliva uva
galassia di gala usciere togato
e in alta uniforme O felici posti a sedere
Applausi e grida e fischi eterei
La presenza bilione del più grande pubblico
Il pandemonio di Zeus
Hermes che corre con Owens
La Palla lanciata da Buddha
Cristo che picchia la palla
Lutero che corre alla terza base
Morte planetaria Osanna Bomba
Fa sbocciare la rosa finale O Bomba di Primavera
Vieni con la tua veste di verde dinamite
libera dalla macchina l’occhio inviolato della Natura
Davanti a te. li Passato raggrinzito
dietro dl te il Futuro che ci saluta O Bomba
Rimbalza nell’erbosa aria da tromba
come la volpe nell’ultima tana
tuo campo l’universo tua siepe la terra
Salta Bomba rimbalza Bomba scherza a zig zag
Le stelle uno sciame d’api nella tua borsa tintinnante
Angeli attaccati ai tuoi piedi giubileo
ruote di pioggialuce sul tuo scanno
Sei attesa e guarda sei attesa
e i cieli sono con te
osanna Incalescente gloriosa liaison
BOMBA O strage antifonia fusione spacco BUM
Bomba fa l’infinito una Improvvisa fornace
distendi il. tuo Spazzare che abbracci moltitudini
avviati orribile agenda
Stelle del Carro pIaneti carnaio elementi di carcassa
Fa’ cadere l’universo salta ciucciante coi dito in bocca
sui suo da tanto da tanto morto Neanche
Dal tuo minuscolo peloso occhio spastico
espelli diluvi dl celestiali vampiri
Dal tuo grembo invocante
vomita turbini di grandi vermi
Squarcia Il tuo ventre o Bomba
dal tuo ventre fa’ sciamare saluti di avvoltolo
incalza col tuoi moncherini stellati dl iena
lungo il margine del Paradiso
Bomba O finale Pied Piper
sole e lucciola valzeggiano dietro la tua sorpresa
Dio abbandonato zimbello
Sono la Sua rada falso-narrata apocalisse
Lui non può sentire le un-bel-giorno
profanazioni del tuo flauto
Lui è rovesciato sordo nell’orecchio pustoloso del Silenziatore
il Suo Regno un’eternità di cera vergine
Trombe tappate non Lo annunciano
Angeli sigillati non Lo cantano
Un Dio senza tuoni Un Dio morto
Bomba il tuo BUM la Sua tomba,
Che io mi chini su un tavolo di scienza
astrologo che guazza in prosa di draghi
quasi esperto dl guerre bombe soprattutto bombe
Che io sia incapace di odiare ciò che è necessario amare
Che io non possa esistere in un mondo che consente
un bimbo abbandonato in un parco un uomo morto sulla sedia elettrica
Che io sia capace di ridere di tutte le cose
dl tutte quelle che so e quelle che non so per nascondere il mio dolore
Che dica di essere un poeta e perciò amo ogni uomo
sapendo che le mie parole sono la riconosciuta profezia di ogni uomo
e le mie non parole un non minore riconoscimento,
che io sia multiforme
uomo che Insegue le grandi bugie dell’oro
poeta che vaga tra ceneri luminose
come mi immagino
un sonno con denti di squalo un mangia-uomini di sogni
Allora non ho bisogno di esser davvero esperto di bombe
Per fortuna perché se le bombe ml sembrassero larve
non dubiterei che diventerebbero farfalle
C’è un inferno per le bombe
Sono laggiù Le vedo laggiù
Stan li e cantano canti
soprattutto canti tedeschi
e due lunghissimi canti americani
e vorrebbero che ci fossero altri canti
specialmente canti russi e cinesi
e qualche altro lunghissimo canto americano
Povera piccola Bomba che non sarai mal
un canto eschimese io ti amo
voglio mettere una caramella
nella tua bocca forcuta
Una parrucca di Goldilocks sulla tua zucca pelata
e farti saltellare con me come Hansel e Gretel
sullo schermo di Hollywood
O Bomba in cui tutte le cose belle
Morali e fisiche rientrano ansiose
fiocco di fata colto dal
più grande albero dell’universo
lembo di paradiso che dà
un sole alla montagna e al formicaio
Sto In piedi davanti alla tua fantastica porta gigliale
Ti porto rose Midgardian muschio d’Arcadia
Rinomati cosmetici delle ragazze del paradiso
Dammi il benvenuto non temere, la tua porta aperta
né il grigio ricordo del tuo freddo fantasma
nè i ruffiani del tuo tempo incerto
il loro crudele sciogliersi terreno
Oppenheimer è seduto
nella buia tasca di Luce
Fermi è disseccato nei Mozambico della Morte
Einstein la sua boccamito
una ghirlanda di patelle sulla testa di calamari lunari
Fammi entrare Bomba sorgi da quell’angolo da topo gravido
non temere le nazioni del mondo con le scope alzate
O Bomba ti amo
Voglio baciare il tuo clank mangiare il tuo bum
Sei un peana un acmé dl urli
un cappello lirico del Signor Tuono
fai risuonare le tue ginocchia di metallo
BUM BUM BUM BUM BUM
BUM tu cieli e BUM tu soli
BUM BUM tu lune tu stelle BUM
notti tu BUM tu giorni tu BUM
BUM BUM tu venU tu nubi tu nembi
Fate BANG voi laghi voi Oceani BING
Barracuda BUM e coguari BUM
Ubanghi BANG orangutang
BING BANG BONG BUM ape orso scimmion
tu BANG tu BONG tu BING
la zanna la pinna la spanna
Si Si In mezzo a noi cadrà una bomba
Fiori balzeranno di gioia con le radici doloranti
Campi si inginocchieranno orgogliosi sotto gli halleluia del vento
Bombe-garofano sbocceranno Bombe-alce rizzeranno le orecchie
Ah molte bombe quel giorno intimidiranno gli uccelli in aspetto gentile
Eppure non basta dire che una bomba cadrà
sia pure sostenere che il fuoco celeste uscirà
Sappiate che la terra madonnerà in grembo la Bomba
che nel cuore degli uomini a venire altre bombe. nasceranno
bombe da magistratura avvolte in ermellino tutto bello
e si pianteranno sedute sui ringhiosi imperi della terra
feroci con baffi d’oro.
Gregory Corso
Gregory’s Last Lines
( previously published in Eliot’s book Love, War, Fire Wind)
He was a poet of silk and the shredding of silk.
No earthling nor deity remained immune from his probing questions.
When the academy turned its head for a pulitzer second
he slipped an enlightened humor worm into the gut of poetry
that hasn’t yet wriggled its way out.
With fountain pen tears he mourned the nationalism of the nation
even as he hosanna’d the home run.
He fooled death, coaxing it into the soup of life
every time but for one.
Writing in “Many Have Fallen” about American soldiers
marched by Army into radioactive bomb blasts
Gregory wrote: “All survived / …until two decades later
when the dead finally died”–
a last line of stunning poetry enough to make the top
of Emily D’s head pop off.
In 1983, Andy Clausen brought him to carouse
our New Brunswick bars.
We stopped at my kitchen table electric typewriter,
where Gregory pulled his pocket notebook
and tapped out a piece for Long Shot magazine.
The poem was called “Delacroix Mural at St. Suplice.”
Deep into typing, Gregory stopped & asked
what thought I of his last three pencil’d lines.
I eyed his notebook, said I liked ’em but not as much
as the rest of the poem.
I thought he might write three new lines on the spot–
but instead he stood up, waved his left hand suavely
& declared the poem done at what’d been
the fourth-to-last line:
“I know the ways of god / by god!”
He knew how to end / at the ending.
I had the chance to read him “Ode to the West Wind”
on his cancer bed:
“If Winter comes, can Spring be far behind?”
After approaching mortality’s last breath in summer,
he arose to see another new year.
Now, I hear his ashes will be buried in Rome’s cemetery,
a neighbor of Shelley & the one whose name is writ in water.
In “Getting to the Poem,” Gregory ended:
“I will live / and never know my death.”
Who can say whether he was aware of that golden moment
when the breath says “no”?–
but he damn sure got to the poems.
Death, Gregory knew your secret name,
he knew your habits, your weapons, your games–
now give his verse the life it deserves
& do what you will with his gilgamesh hair
–Eliot Katz, 2001
about Love, War, Fire, Wind: Looking Out from North America’s Skull from Amazon.com:
Selected by Poetry.About.com as one of its Best Books of 2009. Mixing humor and imagination, visions of a healthy future and the windstorm realities of today, this collection of poems by Eliot Katz and artwork by William T. Ayton deals with themes of love, war, politics, ecology, and daily life. “I love these poems, which are full of passion and thought. Eliot Katz is among a handful of contemporary American poets whose work speaks to me.”–Howard Zinn “Eliot is right up there carrying the torch for Whitman and Ginsberg, keeping their vision alive and well….A must-read for anyone who believes poetry can still celebrate life.”–Alicia Ostriker “William Ayton has mastered the art of drawing with ink and brush. Like the words of Eliot Katz, his brush marks the page with deliberate force. A broken eggshell, weapons and dreams, a stroke that cannot be taken back.” –Tim Slowinski
Gregory Corso
Gregory Corso
Per Omero
C’è ruggine sulle vecchie verità
– Banalità corazzate erodono
menzogne nuove non hanno il buon profumo
delle scarpe nuove
Ho anni di poesie da battere a macchina
40 anni di fumo da smettere
non percepisco uno stipendio
Non ho una casa
E poiché le mie mani sono autoctonie
non riesco mai a lavarle abbastanza
Mi sento scemo
Mi sento come un vecchio toro spelacchiato
che si getta contro lo straccio rosso
di un giorno alcolizzato
eppure tutto è così bello
non è vero?
Che perfezione il sistema delle cose
Il corpo umano
tutto in proporzione alla sua forma
Nulla di superfluo
Proprio come se un dio l’avesse programmato così
E il sole per il giorno la luna per la notte
E l’erba la mucca il latte
Il fatto che tutti alla fine moriamo
Si penserebbe che dovrebbe esserci il caos
data la futilità di tutto
Ma i bambini continuano a nascere
spesso immagini sputate di noi
E le disuguaglianze
milioni dati a uno
zero all’altro
entrambi nella stessa barca che fa acqua
Io non ho nessuna religione
e per me venererei Ermes
E non c’è domani
c’è solo qui e ora
tu e chiunque sia con te
vivo come sempre
ed eternamente ignorante di quella morte che non conoscerai mai
E tutto è bene quel che si fa
Una felicità ellenica pervade la pace
e il dono continua a venire…
un lavoro iniziato splendidamente terminato
Vedere persone sensibili e buone
tranquille e contente nello stupore
come i sogni dei ciechi
I cieli parlano attraverso le nostre labbra
Tutto ciò che non si poteva trovare è afferrato
Tutto ciò che era rimasto indietro è portato
There’s rust on the old truths
-Ironclad clichés erode
New lies don’t smell as nice
as new shoes
I’ve years of poems to type up
40 years of smoking to stop
I’ve no steady income
No home
And because my hands are autochthonic
I can never wash them enough
I feel dumb
I feel like an old mangy bull
crashing through the red rag
of an alcoholic day
Yet it’s all so beautiful
isn’t it?
How perfect the entire system of things
The human body
all in proportion to its form
Nothing useless
Truly as though a god had indeed warranted it so
And the sun for day the moon for night
And the grass the cow the milk
That we all in time die
You’d think there would be chaos
the futility of it all
But children are born
oft times the spitting images of us
And the inequities
millions doled one
nilch for another
both in the same leaky lifeboat
I’ve no religion
and I’d as soon worship Hermes
And there is no tomorrow
there’s only right here and now
you and whoemever you’re with
alive as always
and ever ignorant of that death you’ll never know
And all’s well that is done
A Hellene happiness pervades the peace
and the gift keeps on coming…
a work begun splendidly done
To see people aware & kind
at ease and contain’d of wonder
like the dreams of the blind
The heavens speak through our lips
All’s caught what could not be found
All’s brought what was left behin
In a life of wide and restless travels, Gregory Corso produced six collections of poetry, together with a handful of plays and a novel, but left trailing in the wake of his urgent journeys an unknown number of lost poems. In interviews, Corso has recounted the sad loss of a suitcase full of his early poems in a Greyhound Bus terminal in Florida during the mid 1950s.1 He has also lamented the theft of two suitcases of poems – four years work – left in the care of the poet Isabella Gardner at the Hotel Chelsea in the mid 1970s.2 And he has regretted the sale to university libraries of his personal notebooks filled with unpublished poems: “When I needed money for dope, you see, I would never recopy the poems. I’d just sell the book. So a lot of my poems, you know, are in the universities and have never been published.”3 Other of Corso’s poems would seem simply to have been scattered behind him, mislaid and left unremembered in the rush of further poetic inspiration and precipitous departures to somewhere else. I believe that this latter explanation is likely the case as regards the three poems that I have excavated, so to speak, from a recording of a public reading of his poems given by Gregory Corso at the Poetry Center at San Francisco State College in October of 1956.4
Corso begins the 36-minute reading with nine poems selected from his collection, The Vestal Lady on Brattle (1955), then reads eight poems from a manuscript notebook titled “Poems Written in San Francisco, 1956.” Of these poems, four would later be gathered in Gasoline (1958), and one would be printed in The Happy Birthday of Death (1960.) The three fugitive poems embedded in the audio tape are “In the Madness of my Cellar,” “Creepy Flower Peddler,” and “Buddha.”5
Presented here below are my transcribed versions of these three hitherto unpublished poems. I cannot, of course, vouch either for punctuation, lineation or stanzaic patterns in the poems as I have rendered them here. Moreover, in the poem “Buddha,” despite repeated listening to Corso’s recitation on the audio tape, I am not fully confident as to my correct understanding of certain individual words. These include “peril,” “assayed,” “infant,” and “barium.” (Alternative suggestions concerning these words would be very welcome.) And let me take the opportunity here to express my gratitude to Raymond Foye for his gracious and invaluable help in correcting my transcriptions of the poems.
IN THE MADNESS OF MY CELLAR
I lost my God in the madness of my cellar.
I watched the janitor scorch a sacramental rat,
beat it against the pipe, rub hot pepper in its eyes.
No loves, no loves, in the madness of my cellar.
My baby brother leans against the hot furnace.
My father hangs red peppers to dry.
And my mad, mad mother giggles to the tarantella.
CREEPY FLOWER PEDDLER
He sells flowers and is a creep.
He sells flowers and wonders why he cannot sleep.
Unlike most peddlers, he grows his own,
and cuts them before they’re fully grown.
And here’s his nowhere song:
Little flowers without a stem.
Little flowers without a stem.
Three for a nickel, who wants them?
BUDDHA
A Harmonic Motion For Jack Kerouac, Buddha-Fish
Buddha is dead.
Dead in the empty lot, in the fish box.
Dead without peril or theory.
Dead rehabilitated to dumb heroism.
A dead Buddha cannot view the pint wine bottle.
What does Buddha know of pushcarts?
With Buddha died his children, speechless, enamored by kind demons.
Sweet Buddha, where is he now?
Whose cowhorn is he sucking?
Buddha immortal mute suffering with mortal memories
has gone to the mountains below the mountains.
Strong solemn law inhabits Peril.
Peril is the demon.
He steals the angels of Buddha, puts salt on their wings,
handcuffs their brains to masculine limbs.
Who will talk to the demon?
Who will admire his new secondhand hearse?
Who will kiss his gnaw of eucharistic feet?
Lay their abundant blonde verse upon his gridiron?
Pluck wolfbane from his gargoyle-eyed, regnant skull?
Shoot a silver bullet into his dropping mouth?
Drive a maple stake into his reasonable heart?
Steal the soil of his native Transylvanian acreage?
Who will do this?
You will, children of Buddha.
You mad children of sodacaps.
You’ll stick nails in the tires of his hearse.
Sip gasoline from the tank of his hearse.
Put rocks in the watertank of his hearse.
O Buddha, marled and gnawed, aimless in America,
in secondhand hearse parked on Pine Street,
watching children of love play, and on their knees pray
God the Father of ice cream.
O Buddha, ghouled and gargoyled,
bugged and assayed in the pale arms of Mother Death Columbia.
Get thee beneath that pushcart and see it all.
See the broken glass and the bits of rope
that burst in on the radio wire.
Feel it, see it all Buddha!
Buddha is dead.
In death Buddha’s skin is wet yet shaky
like penguin does ice water, the beads of life,
owing everything to flash light, nothing to sunlight.
I know you, Buddha.
When you were born, really born,
you was Brooklyn 33, New York,
a Jewish section where everything was secret,
like shopping bags.
Your home was a street with ground windows and wide gray stoops,
with desiccant flowerpots and dry yellow curtains
– all this would obscure your infant mother’s twisted fate.
Bosatsu, now in motion.
Brother Bosatsu who teaches Buddha,
yet is engaged entirely in his own salvation.
Spit on Bosatsu!
Bosatsu who testifies the wisdom of Buddha and himself.
Spit on Bosatsu!
Bosatsu who strives to introduce and establish the ideal land.
Bosatsu who dares set down into the realm of agony.
Spit on Bosatsu!
Now, Buddha, now that you’re dead, what have you got to say?
The back legs of a goat.
The empty matchbox.
The sweet spray smell of insecticide
or the old barium in a cow’s hoof.
That’s what I’ve got to say.
”In the Madness of my Cellar” depicts the traumatic encounter of the poet-speaker with the cruelty and horror of the world, an experience that serves to undermine his religious faith and causes him to lament life in a realm without love. Appropriately, the events of the poem take place in a cellar, a hot, Hadean underworld, a realm of evil and pain. In addition to the poet-speaker who narrates the grim incidents recounted in the poem, the hellish cellar is inhabited by a sadistic janitor, an apparently indifferent father, an innocent, neglected, suffering “baby brother,” and a mother driven to madness (presumably by the cruel and loveless world to which, like the narrator, she is also a horrified, helpless witness.) “Cellar” and “tarantella” make an unusual and inventive rhymed pair lending a subtle lyrical unity to this vivid, potent poem. “In the Madness of my Cellar” resonates with motifs expressed in several poems in The Vestal Lady on Brattle in which terror and violence perpetrated upon innocent victims are prominent.
A similar theme informs “The Creepy Flower Peddler,” where the peddler in question cuts short the lives of young flowers, doing so for selfish commercial reasons. Already in the title of this poem, Corso affects a reversal of reader expectations. Traditionally, the trope of the flower seller is associated with innocence, as Eliza in G.B. Shaw’s Pygmalion and the figure of the blind flower girl in Charlie Chaplin’s classic film, City Lights.6 In Corso’s poem, however, the flower peddler is seen as a man callously restricting the full development of natural life, and the poet views him as malevolent and despicable, another embodiment of the brutish and unfeeling life-thwarting forces of the world, another destroyer of innocence. On the audio tape of the Poetry Center reading, after having read “The Creepy Flower Peddler,” Corso remarks “I believe flowers should be left to grow, let them grow and let them die where they are, we have no right to take these things away from the earth.” In this poem, the parallel constructions, repetitions, insistent metre, and emphatic rhymes seem to suggest the narrow limits of the flower peddler’s outlook.
In contrast to the taut structure of “The Creepy Flower Seller,” the poem titled “Buddha” capitalizes on the deep resources offered by free verse in combination with epiphanic leaps of imagination. In this elegy – both brash and reverent – the poet contrasts the demonic, destructive forces of the world with those agencies that resist such forces and whose aims are, instead, redemptive and liberating. Poverty, squalor, sterility and death clash in the poem with the teachings of “sweet Buddha,” and are defied by the sly, joyous sabotage undertaken by the “children of Buddha,” the “children of love.” Buddha’s insights are betrayed in this fallen world by hypocritical figures such as Brother Bosatsu (clearly undeserving of his misleading name) who seeks not the benefit and awakening of all sentient beings –as taught by Gautama Buddha – but only his own salvation. Yet, though “marled and gnawed … ghouled and gargoyled,” the spirit of Buddha somehow endures, reborn into the desiccated, spiritually claustrophobic contemporary world, and even in death remaining poetically eloquent, communicating through koan-like utterances. In Corso’s use of parallelism and refrain in the Brother Bosatsu stanza a faint echo may be detected of sections I and II of Allen Ginsberg’s poem, “Howl.”
Readers of Gregory Corso’s Gasoline will recall that in the “Introduction” to that volume Allen Ginsberg quotes with approval a line from an unpublished poem by Corso: “mad children of soda caps.”7 At last, we know the source of that line: the phrase occurs in “Buddha.” Similarly, readers of Jack Kerouac’s Desolation Angels may remember that in that novel the poet Raphael Urso (the author’s pseudonym for Gregory Corso) recites to the narrator via telephone his latest poem which includes the line: “Spit on Bosatsu! Spit on Bosatsu!”8 Again, the source is to be found in the same unpublished poem, “Buddha.”
I think it probable that the three lost poems printed above – together with others written during the same period – were not discarded by Corso but were intended to appear in a collection to be titled Early Poems which was to be published in 1960 by the Totem Press. In a letter written from Paris in November of 1958 to Allen Ginsberg, Corso mentions that LeRoi Jones (of Totem Press) wants to publish a book of his early poems and specifically names “Creepy Flower Peddler” as being among the poems to be gathered in that volume. A collection titled Early Poems is listed as forthcoming from Totem Press in the bibliography for Gregory Corso included in The New American Poetry 1945-1960 and is also mentioned in the bibliography for “Five Poets in their Skins,” an article by Paul Carroll in Big Table. For unknown reasons (most likely economic in nature) the book never appeared. We can only speculate as to what may have become of the manuscript of this intriguing collection.
The recovery of the three lost poems from 1956 transcribed above serves to extend and deepen our understanding of Gregory Corso’s work during the period between the publication of The Vestal Lady on Brattle in 1955 and Gasoline in 1958, and to remind us that further examples of Corso’s rich, visionary, quirky early poems may yet be retrieved from manuscript notebooks and other sources.
1 ”They were lost in a suit case at Hollywood, Florida … in the Greyhound Bus Terminal. And, Hope, my girlfriend – she went to all the Greyhound presidents to get the things back.” Gregory Corso interviewed in 1974 by Robert King, “I’m Poor Simple Human Bones,” in The Whole Shot: Collected Interviews with Gregory Corso, ed. by Rick Shober (2015) p. 108. See also letter from Gregory Corso “To Mr. and Mrs. Randall Jarrell” November 14, 1956, in An Accidental Autobiography: The Selected Letters of Gregory Corso (2002), p. 16.
2 “So there was a big gap – 1970-1974 – four years work gone.” Gregory Corso interviewed by Gavin Saleri in The Riverside Interviews: Gregory Corso, (1982) p. 32. See also “The Enigmatic Relationship of Poets Isabella Gardner and Gregory Corso” by Marian Janssen, The Journal of Beat Studies, Vol. 3, January 1, 2014, pp. 93-118.
3 “When I needed money for dope …” Gregory Corso interviewed in 1974 by Robert King, op.cit p. 102.
5 From The Vestal Lady on Brattle: “Dementia in an African Apartment House,” “Greenwich Village Suicide,” “Coney Island,” “In the Morgue,” “Sea Chanty,” “Vision Epizooic,” “In the Early Morning,” and “Requiem for Bird Parker, Musician.” From Gasoline: “Mad Yak,” “On my 26th Year” (aka “I am 25”), “Italian Extravaganza,” “The Table was Hard Possible Music like Steel” (aka “This Was my Meal.) And from The Happy Birthday of Death: an early version of “Power.”
6City Lights, film written and directed by and starring Charlie Chaplin, 1931. Pygmalion, play by George Bernard Shaw, 1913.
7 “Introduction” by Allen Ginsberg in Gasoline by Gregory Corso (San Francisco: City Lights, 1958) p. 7.
8Desolation Angels by Jack Kerouac (New York: Coward-McCann, 1965) p. 128.
9An Accidental Autobiography: The Selected Letters of Gregory Corso edited by Bill Morgan (New York: New Directions, 2003) p. 184.
10The New American Poetry 1945-1960 edited by Donald M. Allen (New York: Grove Press, 1960) p. 447. “Five Poets in their Skins” by Paul Carroll, Big Table Vol. 1, No. 4, Spring 1960, p. 140.
The life of Gregory Corso reads like a cheap and trashy tragic made-for-TV movie. It was one of heartbreak and irony…
Corso was born Nunzio Corso on March 26th 1930, to a sixteen-year-old mother. Michelina Corso had just married Sam Corso before giving birth to Nunzio, and a year later she abandoned him into the care of Catholic charities, his father quickly remarrying and feeding him stories about his mother.
Corso selected the name ‘Gregory’ as his confirmation name, and while known to his Italian American community as Nunzio, he dealt with everyone else as ‘Gregory.’
He spent eleven years in five different fosters homes, coming to appreciate the Catholic church’s efforts in helping orphaned and abandoned children through the depression, despite his own depressing isolation.
To avoid being drafted for WWII, Corso’s largely absent and uncaring father brought his son home in 1941. Nevertheless, Sam Corso was drafted and Gregory Corso became homeless, now without any family, foster or otherwise.
He tried fruitlessly to find his mother over the years, despite the stories his father told him: that she was a disgraced prostitute, cared little for Corso, and had returned to Italy in shame.
Alone, Corso took to the streets, sleeping in the subway and on the roofs, running errands for food from street vendors. He became a street child of Little Italy, continuing his education while denying his homelessness to the authorities.
When only thirteen years old, Corso stole a toaster, sold it, and used the money to buy a tie and see a movie. The movie was The Song of Bernadette, about the appearance of the Virgin Mary. Corso claimed he thought seeing the movie would bring about a miracle wherein he would be reunited with his mother. But upon leaving the theatre, he was arrested for theft and sent to New York’s infamous prison, the Tombs. With no one to pay his $50 bail, Corso was incarcerated with criminally insane murderers for several months.
In 1944, during a blizzard, Corso broke into his tutor’s office and spent the night in the relative warmth. When he woke he was immediately arrested and sent back to the Tombs. He became so traumatised by the brutality of the other inmates that he was sent to Bellevue Hospital’s psychiatric ward. (He was not the only Beat writer locked up in a mental hospital.)
At seventeen, Corso was sent to Clinton prison, a maximum security facility near the Canadian border, for stealing a suit, and without being given legal representation to defend himself. This was the prison where most electric chair death sentences were carried out.
Clinton was kinder to Corso than the Tombs had been. Here, the youngest inmate in the facility was protected by the Mafia and sent to the cell occupied by Charles ‘Lucky’ Luciano, who had donated his library to the prison and had his own reading light by his bed. Corso spent his nights reading the classics, and upon leaving Clinton, his Mafia friends got him a job in the city.
After three years, ending 1950, Corso was back in New York City, writing and reading poetry, and becoming friends with Allen Ginsberg. They met in a lesbian bar, The Pony Stable, and Ginsberg became attracted to Corso and his poetry. Corso showed Ginsberg a poem he’d written about a woman he’d watched lie naked on her windowsill, and it turned out she was a friend of Ginsberg. Ginsberg set the two up, but Corso got scared and literally ran away.
Through Ginsberg Corso met Burroughs, Kerouac, and many of New York’s writers and artists. Corso and Kerouac met in 1950, but didn’t become close friends until 1953. In The Subterraneans, Kerouac recalls an incident in which Corso stole a pushcart and caused a fallout between Kerouac and Ginsberg. Corso came to resent his depiction in the book as he believed Kerouac had no right to speak so harshly of him in the early days of their relationship, which had not yet come to be considered even friendship.
When Ginsberg, Orlovsky and Burroughs were in Tangiers, Corso came and visited them, and then persuaded them to come live in Paris, and introduced them to a place later to be known as the Beat Hotel. Here, Corso and Ginsberg helped Burroughs edit together The Naked Lunch, and the two poets produced some of the finest work.
In 1957, Corso returned to New York. He was the youngest member of the ‘inner circle’ of Beats – that small social group that is the only one that can be accurately and honestly considered the Beat Generation. Yet, despite being the youngster of the group, Corso was the first published Beat, having his collection of poetry, The Vestal Lady on Brattle, published in 1952.
It was for the publication of Gasoline that he returned, and this coincided with the publication of On the Road and the explosion of the Beat Generation as a cultural phenomenon. Kerouac, Ginsberg and Corso stuck around, posed for photos, answered questions for reporters, and took a constant and ignorant barrage of abuse. Corso played the bad boy of the group, talking up his prison time and unkempt appearance.
He began to tour the poetry circuit with Ginsberg, and despite the Beat movement for the most part being considered a fad for dumb kids, playing on the rebellious streak of a few over-popular criminals, Corso began to draw a lot of positive attention for his poetry. Namely, the attention came for Marriage, his long musing on the peculiarities of the institution.
Marriage evokes the music and rhythm within Corso, instead of adhering to the structures and conventions of traditional poetry. His idol was Shelley, English Romanticist, yet in Paris Corso hit upon the notion of simply letting sound come from the mean – what he naturally felt inclined to say. The result was a long and witty poem poking fun at conformity, digging the Beat spirit of rejecting tradition that gripped the group and would become satirised itself in years to come.
Later in his life, Corso, like so many associated with the Beat Generation, came to resent his label and public perception as a Beatnik, and shunned the limelight they’d all at one stage or another occupied.
However, he allowed Gustave Reininger to film Corso – The Last Beat, which showed Corso in Italy lamenting never having known his mother. Reininger secretly launched a search for Michellina Corso, and amazingly found her living in Trenton, New Jersey, and not in Italy, as Corso had always been told by his father.
Corso and his mother were reunited on camera, and the truth came out that she had been beaten almost to death by Sam Corso, and had no choice but to leave him and hand her child over to the church. When she’d later been in a position to support a child, she was unable to find Corso.
Despite feeling ‘healed’ by finding his mother, Corso was soon diagnosed with prostate cancer and died in January, 2001. He was buried next to Percy Bysshe Shelley in the Protestant Cemetery, Rome.
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