Nota biografica di Lara Pagani è nata nel 1986 a Lugo (Ravenna), dove vive e lavora. È laureata in lingue e letterature straniere. Suoi inediti sono apparsi su alcune riviste online, tra cui Poetarum Silva, Larosainpiu e Limina Mundi.
Non basta andare a capo a questo verso:
giù deve sprofondare, a capofitto
gettarsi dove risiede il tuo palpito
segreto, quello che pensiamo perso.
*
Anno scorso, dicono, una donna
si è spacciata per me. Mi somigliava
parecchio: aveva quel modo vagante
tutto mio di deludere, rideva
tremenda ai vetri come faccio anch’io
talvolta con la mia povera voce.
Quest’ingannatrice voglio trovarla
e baciarla sulla bocca: quanto amore
mi ha risparmiato, quanto male.
*
A lungo abbiamo discorso del dopo.
Tu non chiedevi, dandomi le spalle
forti mi interrogavi come un oracolo.
Non esiste miracolo, dicevo, solo
per noi la giustizia dell’incontro.
E così esiste, pensavo, il congedo
dei congedi. Esiste la mano che porta
lontano il suono amato del tuo volto.
*
Dammi la sconsiderata fiducia
di mio padre nel futuro, del futuro
dammi il sacro terrore di mia madre.
Stringimi forte a non finire
più schiacciata dal passo del tempo —
appuntami al petto la lettera scarlatta
dei sopravvissuti. Scatta, dissolvimi
col cuore nel bicchiere dei minuti.
*
Questo amo di te: il tuo vuoto
di parole, il lapsus che ti racconta
da un romanzo, la carezza invisibile
a occhio nudo, la nuda mezza mela
rimasta sul letto per errore.
Nota biografica di Lara Pagani è nata nel 1986 a Lugo (Ravenna), dove vive e lavora. È laureata in lingue e letterature straniere. Suoi inediti sono apparsi su alcune riviste online, tra cui Poetarum Silva, Larosainpiu e Limina Mundi.
Rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore generale e responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online
Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Giovanna Rosadini, Paola Mancinelli, Antonio Fiori, Gisella Blanco, Lucrezia Lombardo, Sarah Talita Silvestri, Massimo D’Arcangelo, Valentina Furlotti, Nicola Barbato, Mario Famularo, Piero Toto. Collaboratori: Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Matteo Pupillo, Giulio Maffii, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo
Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani
Considerazioni di Pierluigi Cappello<<La poesia sottolinea l’umano che c’è dentro di noi e sottolinea ciò che di umano è ancora rimasto nel mondo.>>
Pierluigi Cappello (Gemona del Friuli, 1967 – Cassacco, 2017), uno dei poeti italiani più popolari degli ultimi decenni.
Dopo esser rimasto paralizzato all’età di 16 anni a causa di un gravissimo incidente stradale, l’autore friulano ha sempre vissuto su una sedia a rotelle.
“Sapeva sorridere, di una risata dolce e contagiosa, di tutto, anche della sua condizione di disabile”, ha scritto il settimanale Avvenire dopo la sua morte, avvenuta all’età di 50 anni.
Tra i tanti riconoscimenti ottenuti per le sue opere c’è anche il premio Vittorio De Sica 2012 per la Poesia, ricevuto il 6 novembre di quell’anno nel palazzo del Quirinale dalle mani dell’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
“Sarei diventato poeta anche senza l’incidente, anzi di più, anche meglio”, rivendicava con orgoglio.
Ed a proposito del suo rapporto con l’ispirazione poetica, raccontava in un’intervista pubblicata dal Corriere della sera il 14 settembre 2014: “La poesia ti visita quando decide lei. È leggera e invadente insieme. Le parole non ti danno orari. Alcuni versi li scrivo di notte, poi di giorno li rivedo, li sistemo. L’alba è il momento migliore, quell’intervallo che c’è tra quando se ne va l’infermiere della notte e arriva quello della mattina.”
Pierluigi Cappello è stato anche segnalato all’Accademia di Svezia per una possibile candidatura al Nobel dal PEN Club, una delle istituzioni incaricate di individuare i letterati idonei al prestigioso riconoscimento.
La stessa associazione lo ha ricordato così in occasione della sua scomparsa: “Era prima di tutto un poeta ed ha imperturbabilmente -e potremmo dire eroicamente- affermato la primazia della poesia, affrontando col sorriso una vita difficile al punto da stroncare l’entusiasmo di chiunque ed insegnando a chi lo voleva ascoltare che la vita va riempita di contenuti. Nel mondo di oggi il suo messaggio poteva ben valergli il Nobel”.
Pierluigi Cappello
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MATTINO
(Pierluigi Cappello)
Ho un acero, fuori casa, e tutto è lontano qualche volta tutto passa nelle cose senza contorno
ho un acero misterioso come una città sommersa
e guardare diventa le sue foglie,
l’ombra premuta
metà sulla strada metà nel giardino
la luce di ciascun giorno
dove le voci si appuntano e si disperdono.
Siamo l’acqua versata sulle pietre dei morti
sul filo teso tra la preghiera e il canto siamo la neve dentro le cose
Breve biografia di Antonio Francesco Perozzi è nato nel 1994 e vive a Vicovaro, in provincia di Roma. Il suo ultimo libro è Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022, introduzione di Pasquale Pietro Del Giudice, segnalato al Premio Montano 2021, vincitore del Premio Paolo Prestigiacomo Under 40 2022). Suoi racconti, articoli, poesie, lavori visivi e sonori, sono apparsi in riviste, antologie, giornali e blog. Collabora con Grado Zero, Polisemie, La Balena Bianca, lay0ut magazine e utsanga. Per Poesia del nostro tempo cura la serie di interviste “Dialoghi”. Gestisce a sua volta un blog di scritture, La morte per acqua, e conduce il podcast “Spara Jurij”.
Astigmatismo: alcune ipotesi
Per convincermi che andasse tutto bene
sono uscito alle quattro.
Ho raggiunto via Gonfo che è sollevata
tra campi brulli e pali della luce.
Che io veda delle macchie – ho pensato –
che io veda come dei vermi, tra la pupilla
e il mattonato, che abbia spesso mal di testa e spossatezza,
potrebbe voler dire qualcosa. Esempi:
– i diavoli mettono alla prova la nostra tenuta
a partire dalla salute
– la forma degli oggetti è un sogno
e io ho smesso di crederci
– l’acqua del nord-est contiene poco calcio
e questo conduce alla pazzia
Rientrando comunque ho bevuto.
La camminata mi ha messo sete e bere
è straconsigliato per i miopi.
*
Passeggiata + internet
Tenere in tasca uno Xiaomi produce cosmi.
Capita che attraverso il paese
da casa mia in collina fino alla piazza
e mi pare di avere Chernobyl sulla coscia, non lo so,
come un dio che chiuso Instagram si sparpaglia.
Incontro nell’ordine: due mucche, una Hyundai,
mia zia, certi che odio.
Ma chiunque saluto è niente
rispetto all’arcangelo quadrato che mi accompagna.
Così il vento mi batte le tempie e il mio cranio
ha trentamila anni, è un tipografo fiammingo;
in salita faccio fatica ma le mie ossa
le trapassa una freschissima Via Lattea.
*
Negozi ristrutturati
Posso fare un lungo elenco
di locali che non sono più come per lungo
tempo ho visto che fossero, entrandoci.
La Superal a Carsoli, la farmacia, eccetera.
E non è tanto il ricordo:
quando ci capito cerco in automatico
l’ingresso dal lato sbagliato, appaiono
macchine Hotwheels e Pokémon evanescenti
dove ora ci sono dentifrici e giochi nuovi.
Pensa essere sempre in viaggio e rimanere
di gesso se qualcosa cambia,
si ritrova cambiato, e la tua idea deperisce,
si squaglia come stagno sopra gli ultimi arrivi.
Quando esco sul piazzale, che è rimasto
lo stesso (sole + cemento), Graveler
mi coglie alle spalle: non esiste
più. Il suo pupazzo viene fuori dalle maglie
con scritto PYREX, che però sono strette,
incollate, nell’ex reparto giocattoli.
*
Fossalta
Vivere banalmente
è uno schioppo dalla Crai al bar,
una collezione di adesivi che alla fine
vinci un drago.
Fossalta, poca cosa
con un nome che non spiega
se va in basso oppure sopra, se
sul retro dell’Osteria Rialto è davvero la trincea
che si scavalca, o solo un dosso.
«HANNO SPARATO A HEMINGWAY»
lo scrivono dappertutto perché non è successo
nient’altro da ricordare: chiesa novecentesca,
modesta, una leggenda
sugli aironi. Così quando ritorno
la racconto in quattro frasi: «Come si vive?»
«Mese per mese, a contratto
determinato, passeggiando dieci minuti
sulla via principale.»
Al Roxy c’è il sole perché ha vetrate
larghe che trattengono il caldo. Torno indietro
e non trovo un minuto nel cervello
che mi abbia avvisato, magari nel sonno,
scendendo l’estate da un autobus,
rubando Lupo Alberto o vestendomi,
che alla fine sarei arrivato fin dentro
qua. In pochissima cosa.
*
Sfere metalliche in volo
Ho un’immagine che mi sono costruito da solo:
sono delle sfere di metallo
grandi, sospese
venti metri sulla zona coltivata.
Le vedo – nel pensiero – salendo
sul bus che costeggia il Piave.
Il Veneto si presta a scavare allegorie
di questo tipo nel cielo – ad esempio
il tramonto qui è cianotico,
blu-viola, basso, cloud, robe del genere.
Oppure i tralicci dell’Enel che svettano sul grano
ancora non uscito mi danno le idee
di segnali captati dall’altrove, messi a terra
e convertiti in acciaio.
Allora approfitto della situazione e moltiplico
le sfere contro la capacità
della corteccia cerebrale. Alla fine
ne faccio seimila; io e l’autista
ci inoltriamo fino alla gola
e niente è più traccia di niente.
Breve biografia di Antonio Francesco Perozzi è nato nel 1994 e vive a Vicovaro, in provincia di Roma. Il suo ultimo libro è Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022, introduzione di Pasquale Pietro Del Giudice, segnalato al Premio Montano 2021, vincitore del Premio Paolo Prestigiacomo Under 40 2022). Suoi racconti, articoli, poesie, lavori visivi e sonori, sono apparsi in riviste, antologie, giornali e blog. Collabora con Grado Zero, Polisemie, La Balena Bianca, lay0ut magazine e utsanga. Per Poesia del nostro tempo cura la serie di interviste “Dialoghi”. Gestisce a sua volta un blog di scritture, La morte per acqua, e conduce il podcast “Spara Jurij”.
Biblioteca DEA SABINA -La rivista «Atelier»
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Michael Longley,- Poesie:”Il maestro del lume di candela”
Editore Mondadori-Officinapoesia Nuovi Argomenti
(Da poco uscita ne’ Lo Specchio Mondadori una raccolta antologica delle poesie di Michael Longley, a cura di Piero Boitani e Paolo Febbraro, con un saggio introduttivo di Piero Boitani, traduzioni di Paolo Febbraro, Piero Boitani e Marco Sonzogni. Proponiamo un estratto dell’introduzione e una selezione di poesie a cura di Piero Boitani.)
Il maestro del lume di candela (il “Maître à la chandelle”) è un pittore barocco che molti hanno identificato con Trophime Bigot (1579-1650), provenzale attivo per una decina d’anni anche a Roma, autore di tele di stile così diverso da essere stato persino sdoppiato, un artista più anziano e uno più giovane. E che a Roma è invece identificato, sulla base di documenti relativi al pagamento, con un “maestro Jacomo”, al secolo Giacomo Massa. Il modo di dipingere di Trophime-Jacomo cambia considerevolmente, apparendo più tradizionale in Provenza, assai più aperto alla nuova maniera caravaggesca nella capitale pontificia, ma sua caratteristica costante è quella di presentare una scena, o una figura, immerse nell’oscurità, e tuttavia illuminate, dentro per così dire il buio, da una luce che talvolta viene emanata appunto da una candela fisicamente presente nella tela. La luce della candela, di per sé non forte, possiede però nella fitta oscurità potenza tale da fare del quadro una ostensione: una rivelazione vera e propria. Michael Longley ha descritto molto bene il fenomeno in una lirica brevissima intitolata “Poem” della sua raccolta “The Candlelight Master”, del 2020, nella quale dichiara di essere lui stesso il maestro del lume di candela:
I am the candlelight master
Striking a match in the shadows.
A smoky wick, then radiance.
I am the candlelight master.
Sono il maestro del lume di candela
che fra le ombre accende un fiammifero.
Dallo stoppino fumo, poi fulgore.
Sono il maestro del lume di candela.
La concisione estrema, alla quale Longley si avvicina sempre di più negli ultimi due decenni, non consente allusioni al mistero dell’identità del maestro pittore, ma serve a far esplodere la luce «fra le ombre» (il plurale contenendo in inglese anche un accenno all’aldilà), in una radiance che è fulgore irraggiante, claritas radiosa. «Striking a match», letteralmente “lo sfregare un fiammifero”, è il gesto semplice e minimo di una creazione che ha per oggetto la luce e i volti e le cose che essa rivela, e il breve calore che il fuoco produce. Nel presentarsi come il maestro del lume di candela, Longley si mostra come il poietes umano: forte, diretto, immediato, ma anche coscientemente caduco come appunto una candela e la sua luce.
Piero Boitani
***
ANTICLEIA
Se alla roccia dove confluiscono i fragorosi fiumi, l’Acheronte,
il Piriflegetonte e il Cocito, affluente dello Stige, scavi
una fossa larga, lunga e fonda un cubito, dalle nocche al gomito,
e vi sacrifichi un montone e una pecora nera, piegando loro il capo verso le
tenebre esterne mentre tu volgi la fronte all’acqua,
tante di quelle anime anemiche dei morti ti si affolleranno attorno che dovrai
tenerle lontano dal sangue con la baionetta,
ma tra questi zombi a un tratto riconoscerai tua madre,
e se, dopo averle dato del sangue da bere e parlato di casa,
tre volte ti farai avanti per abbracciarla, per tre volte
come un’ombra o un’idea lei ti svanirà tra le braccia
e le chiederai perché evita di toccarti e lacrime verserai
perché ecco qua tua madre e perfino quaggiù nell’Ade
un abbraccio tremante sarebbe a entrambi di conforto,
ti spiegherà lei che i tendini non legano più la sua carne
alle ossa, che il fuoco irresistibile ha tutto demolito,
che l’anima prende il volo come un sogno e fluttua nel cielo,
che questo è quel che accade agli esseri umani quando muoiono?
ARGOS
Di separazioni ce n’erano state altre, così numerose
che Argo, il cane che attese Odisseo per vent’anni,
ha continuato ad aspettarlo, trascurato sul mucchio di letame
davanti la nostra porta, pieno di pulci, più morto che vivo,
lui che un tempo inseguiva capre selvatiche e caprioli; il cane
preferito, di razza pura, un fenomeno a cogliere l’usta,
che ancor oggi agita la coda e tiene le orecchie basse
sforzandosi di farsi più vicino alla voce che riconosce
e muore nello sforzo; finché anche noi come Odisseo
piangiamo per il cane Argo e per tutti gli altri cani,
per le retate di criceti e il panico dei ratti albini
e la deportazione di un canarino di nome Pepiček.
CAMPFIRES
Tutta la notte fuochi crepitanti tennero alto il morale
mentre nella terra di nessuno sonnecchiavano e sui campi di battaglia.
(Notti miti – non un alito, costellazioni in cielo
splendenti attorno a una luna abbagliante –
quando in alto una radura nell’aria svela
spazio sconfinato, e tutte le stelle appaiono
e illuminano le cime dei colli, le valli, i promontori e le punte
come Tonakeera e Allaran dove la marea
volge verso Killary, dove i salmoni lasciano il mare,
dove il pastore sorride sul suo campo lucente.
Tanti fuochi brillavano davanti a Ilio
tra il fiume e le navi: mille fuochi, e attorno
a ciascuno cinquanta uomini riposavano nella luce
delle fiamme.) I cavalli attendevano l’alba
muovendosi accanto ai carri, masticando orzo e avena lucente.
L’UOVO DEL LUCHERINO
Considera l’uovo del lucherino,
finemente screziato – macchie
e trattini – lilla, pallida ruggine
rossiccia, spruzzi di sangue
sparsi su un bianco verdastro –
tramonto a finis terrae – insomma
considera l’uovo del lucherino.
PROSEGUENDO AMERGIN
Sono la trota che si dilegua
fra le pietre di guado.
Sono la giovane anguilla
che indugia sotto il ponticello.
Sono il leprotto che mangiucchia
presso la siepe di fucsia.
Sono l’ermellino che danza
attorno al masso erratico.
Sono la matassa di lana
che vento e filo spinato ingarbugliano.
Sono il fango e lo sputo
che edificano il nido della rondine.
Sono il canto del saltimpalo,
sasso che percuote il sasso.
Sono il corvo aereo
che ha l’occhio in quello dell’agnello.
Sono il chiurlo notturno
che zufola nella canna fumaria.
Sono il pipistrello
che dimora tra costellazioni.
Sono la goccia di pioggia che racchiude
lino di fata oppure Samolus.
Sono il bocciolo di ninfea
e l’autunnale orchidea Spirantes.
Sono il temporale che penetra
nel buco della serratura.
Sono il chicco di grandine annerito
che il camino torna in acqua.
Sono la tana della lontra
e il covo del tasso nelle dune.
Sono il tasso che nell’alta marea
annega fra i detriti galleggianti.
Sono la lontra che muore
in cima al tumulo funebre.
IL MODELLINO DI AMELIA
I
Nel suo modellino del sistema solare
la mia cosmologa settenne
lega a uno spiedino da barbecue
con filo fusibile i pianeti, bottoni:
Venere, un bottone d’avorio,
Mercurio argento accanto al sole,
per Giove madreperla,
rosso e verde per Marte e la Terra,
per gli anelli di Saturno uno scovolino:
sicché nell’oscurità esterna
accanto alla cucina i suoi occhi castani
rappresentano Urano e Nettuno.
II
Amelia, nel filo non hai aggiunto Plutone
alla tua scultura del sistema solare:
minuscolo e remoto, un mondo gelido
di gelidi monti e neve di metano,
la danza di cinque lune sconosciute al sole,
il regno del dio dell’aldilà –
è lì, bambina mia, che andremo quando moriamo.
STELLE BAGNATE
Ho destato – al di là delle pietre di guado
sulla marea di luna piena – l’immaginazione –
guarda solo – costellazioni momentanee –
stelle bagnate fra i piedi – fosforescenza –
ardore dell’acqua del mare.
La storia della rivista «Nuovi Argomenti»
1953-1964
Alberto Carocci e Alberto Moravia fondano «Nuovi Argomenti». «L’idea», ricorderà Moravia, «era quella di creare una rivista di sinistra come “Temps Modernes” di Sartre, la quale avrebbe avuto un’attenzione per la realtà italiana di tipo oggettivo e non lirico». Il bimestrale ha la sua redazione in via dei Due Macelli 47 (segretario di redazione: Giovanni Carocci) e viene stampato presso l’Istituto Grafico Tiberino di Roma.
Il primo numero (marzo-aprile 1953) porta in sommario una Inchiesta sull’arte e il comunismo con interventi di Moravia, Lukacs, Solmi e Chiaromonte, ma anche racconti di Franco Lucentini e Rocco Scotellaro e un saggio di Franco Fortini.
Dal 1953 al 1964, sui 71 numeri che compongono la prima serie di Nuovi Argomenti scrivono, tra gli altri, Arbasino, Bassani, Bianciardi, Bobbio, Calvino (che pubblica La nuvola di Smog e il Diario americano) Cassola, Ginzburg, Fenoglio, Maraini, Montale, Morante, Ortese, Ottieri, Piovene, Pratolini, Raboni, Rea, Vittorini, Zolla.
Sul n. 10 del 1954 esce l’Inchiesta su Orgosolo di Franco Cagnetta; quest’ultimo – assieme ai direttori Carocci e Moravia – verrà denunciato dall’allora Ministro dell’Interno Mario Scelba per «reato di vilipendio delle forze armate» e «pubblicazione di notizie atte a turbare l’ordine pubblico», e la rivista venne sequestrata. Nel 1956, sul n. 17-18, Moravia pubblica alcuni capitoli inediti del suo romanzo La ciociara e la rivista per la prima volta apre alla poesia con Le ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini. Sul n. 20 (maggio-giugno 1956) trovano spazio 9 domande sullo stalinismo, con un’intervista a Palmiro Togliatti. È una formula che verrà replicata spesso, con le 9 domande sul romanzo (n. 37 del 1959, con scritti di Bassani, Calvino, Cassola, Montale, Morante, Moravia, Pasolini, Piovene, Solmi e Zolla), le 7 domande sulla poesia (n. 55-56 del 1962, con interventi di Baldacci, Bertolucci, Caproni, Devoto, Forti, Legnetti, Luzi, Montale, Paglierini, Pasolini, Pedio, Pignotti, Roversi, Sereni, Siciliano, Solmi, Vivaldi e Zolla) e le 10 domande su «neocapitalismo e letteratura» (n. 67-68 del 1964, con articoli di Arbasino, Baldini, Chiaramonte, Contessi, Cusatelli, Eco, Guglielmi, Leonetti, Moravia, Ottieri, Pasolini, Raboni, Rosso, Roversi, Siciliano, Saccà, Vittorini).
1966-1980
Nel gennaio del 1966 esce il primo numero della seconda serie – trimestrale – pubblicata da Garzanti. Ai due fondatori si è aggiunto nella direzione Pier Paolo Pasolini. Segretario di redazione è Enzo Siciliano che nel 1972, alla morte di Carocci, sostituisce quest’ultimo come direttore. Siciliano può considerarsi colui che su «Nuovi Argomenti» pratica la saggistica letteraria più compiuta, con attenzione, anche nella rivisitazione dei classici, alla sensibilità civile, ai rapporti della letteratura con la storia. Sulla rivista aveva esordito nel 1962, rispondendo al questionario sulla poesia e, due anni dopo, a quello su neocapitalismo e letteratura. Ma la caratteristica della sua presenza è data dal dittico intitolato L’anima contro la storia, due saggi su Bassani e su Elsa Morante che, dal 1966, vedono iniziare la sua presenza sempre più continua.
La seconda serie dura per 66 numeri e chiude nel 1980, segnando un percorso dove il fatto letterario tende sempre più a prendere il posto della discussione politica. Come un ciclone, nella seconda serie sta il nome di Pier Paolo Pasolini. Si può dire che la seconda serie di «Nuovi Argomenti» sia la serie di Pasolini, come la prima stagione della rivista era stata quella di Moravia, come la terza a quarta serie saranno soprattutto segnate da Siciliano. Pasolini dirige la rivista con una vitalità che tende a rompere i margini, assecondando una serie di collaborazioni dei cui autori il tempo perderà le tracce; ma tra i nomi rimasti, per esempio, ci sono Dario Bellezza, Franco Cordelli, Antonio Debenedetti, Dacia Maraini (che esordì nella prima serie, ma trovò nella seconda una vena di interesse civile), Giorgio Montefoschi, Vincenzo Pardini, Renzo Paris. A partire dal n. 10 della seconda serie (aprile-maggio 1968), Pasolini accantona discussioni di linguistica, cinema e poesia e irrompe con forza nel fascicolo della rivista. A sua firma compaiono sei interventi (Il PCI ai giovani!, Una risposta a Siciliano, Anche Marcuse adulatore, Aneddotica dell’integrazione a sinistra, Ah, Italia disunita!, e infine, come notizia da ultim’ora, Hanno sparato a Bob Kennedy). L’ultima firma è posta a 1951 nell’ultimo numero del 1975, che si sovrappone alla tragica notte all’Idroscalo di Ostia.
Nel primo numero dell’anno seguente, l’Omaggio a Pasolini coprirà la quasi totalità del fascicolo. Attilio Bertolucci affianca Moravia e Siciliano nella direzione. Redattori della rivista, dal 1974, sono Dario Bellezza e Piero Gelli. Nel 1978, Bellezza appare come segretario di redazione, con Gelli e Franco Cordelli come redattori. Tra gli autori invitati a collaborare alla rivista, Celati, Cerami, Consolo, Cucchi, Elkann, Giudici, Magrelli, Magris, Malerba, Montefoschi, Rosselli, Scialoja, Sereni, Siti, Spaziani, Zanzotto. Si pubblicano scritti di Octavio Paz, Julio Cortazar, Roland Barthes, Michail Bulgakov, Henry Michaux, José Lezama Lima, Michail Bachtin, Boris Pasternak, Joseph Brodskij.
1982-1994
«Scrivere di politica: portare o costringere gli scrittori a occuparsi di quei fatti che assediano da vicino l’esistenza quotidiana, e che ci appaiono indecifrabili, lugubremente enigmatici. Con questa ambizione si apre la terza serie di “Nuovi Argomenti”», scrive Enzo Siciliano nell’editoriale del numero di gennaio-marzo 1982 intitolato La letteratura delle cose, inaugurando i cinquanta numeri della terza serie pubblicati da Mondadori. Direttori sono Moravia, Siciliano e Leonardo Sciascia. Il collegio di direzione è composto da Dario Bellezza, Giulio Bollati, Franco Cordelli, Enzo Golino, Carlo Gregoretti, Leonardo Mondadori, Massimo Piattelli Palmarini, Lucio Villari. Nel 1984 entra a farne parte Edoardo Albinati, nel 1986 Leopoldo Fabiani. Dal 1988 Sandro Veronesi è segretario di redazione. Lo stesso anno Antonio Debenedetti entra nel collegio di direzione. Nell’89 ci sono anche Bruno Guerri, Rasy, Tondelli, Montefoschi, Elkann e Guarini e Giorgio Caproni affianca per breve tempo i direttori della rivista, fino alla sua morte che avverrà l’anno seguente.
Nel 1990, il n. 33 di «Nuovi Argomenti» (con una copertina di Mario Schifano) rende omaggio aLeonardo Sciascia, appena scomparso. Francesca Sanvitale diventa direttore accanto Moravia e Siciliano. Quest’ultimo, dall’anno seguente, avvia regolarmente la pubblicazione di un suo “diario” come editoriale della rivista. Sempre nel 1990, alla morte di Alberto Moravia, accanto a Siciliano e alla Sanvitale arrivano alla direzione Furio Colombo e Raffaele La Capria, con Dacia Maraini e Franco Cordelli in veste di vicedirettori. La rivista pubblica scritti di Bufalino, Eco, Ferrara, Mafai, Manganelli, Parazzoli, Scalfari, Tabucchi, Tobino, Vattimo, Villari, Viola, Zeichen e prosegue nella sua vocazione al talent-scouting aprendo alla collaborazione di giovani autori tra cui Abbate, Affinati, Albinati, Busi, Carbone, Colasanti, Covito, Lodoli, Mazzucco, Onofri, Picca, Tamaro, Tondelli, Trevi, Valduga, Veronesi, oltre a pubblicare scrittori stranieri quali Borges, Brodkey, Carver, Chatwin, Doctorow, Grossman, Kundera, Lowry, McEwan, McInerey, Oates, Perec, Updike, Walcott, Wolfe, Yeoshua. Nel 1993, per decisione di Enzo Siciliano e Sandro Veronesi, sul numero 48 (ottobre-dicembre) viene pubblicato il racconto lungo La baracca di Andrea Carraro, da cui successivamente lo scrittore romano trarrà il romanzo Il branco.
1994-1997
Nel 1994 la rivista cambia casa per la quarta volta. L’editore è Giunti che pubblicherà 12 fascicoli. La direzione, già dall’ultimo numero della serie Mondadori (n. 50), è composta da Dacia Maraini, Raffaele La Capria, Furio Colombo e Enzo Siciliano (direttore responsabile). Della redazione sono entrati a far parte Eraldo Affinati, Antonella Anedda, Luca Archibugi, Rocco Carbone, Massimo Onofri, Aurelio Picca, Emanuele Trevi. Al collegio di direzione si aggiungono Vincenzo Pardini, Giovanni Raboni, Nico Orengo, Sapo Matteucci, Giorgio Ficara. Segretario di redazione è Simone Caltabellota. Caporedattore Arnaldo Colasanti.
«Nuovi Argomenti» si conferma palestra per i giovani critici scrittori e poeti che in molti casi parteciperanno poi direttamente alla sua redazione: Scarpellini, Manica, Martini, Gibellini, Susani, Giartosio, Galaverni, Tripodo, De Bernardinis. Nel 1994 esordisce Niccolò Ammaniti, nel 1997 Alessandro Piperno. Sulla rivista trovano spazio Luca Doninelli, Antonio Riccardi, Claudio Piersanti, Enzo Fileno Carabba, Giulio Mozzi, Giuseppe Montesano, Antonio Franchini, Maurizio Maggiani. Vengono pubblicati Paul Auster, Don DeLillo e Seamus Heaney. Il formato non è più in ottavo ma diventa quello di un libro tascabile (sull’esempio della «Paris Review»).
1998-oggi
Dal 1998 «Nuovi Argomenti» torna ad essere stampata da Mondadori. Il primo numero della quinta serie è intitolato Terrore e terrorismo. Arnaldo Colasanti diventa direttore con Colombo, Maraini, La Capria e Siciliano (che è sempre il direttore responsabile). Lorenzo Pavolini è caporedattore. Alla redazione partecipano anche Andrea Salerno e Massimiliano Capati; collaborano Abeni, Guerneri, Tarquini, Santi. Sulle pagine della rivista continuano a passare scrittori e vita politica: Pascale, Fois, Riccarelli, Raimo, Ferracuti, Lagioia, Armitage, Strand, Hughes, Annunziata, De Angelis, Veltroni, Riotta, Moresco, Asor Rosa, Mari, Pascale, Guglielmi, Cortellessa, Voltolini.
Il n. 21 (gennaio-marzo 2003) festeggia una data importante e si chiama appunto Abbiamo 50 anni– Prologo. Seguiranno Abbiamo 50 anni – Atto Primo, Abbiamo 50 anni – Atto Secondo e Abbiamo avuto 50 anni. A partire dal numero di luglio-settembre 2003 inizia l’assidua collaborazione di Alessandro Piperno che firma un pezzo dal titolo Lettera aperta a Enzo Siciliano sul caso Philip Roth. Mario Desiati viene chiamato da Siciliano per svolgere le funzioni di segretario di redazione, in cui entrano Carlo Carabba, Leonardo Colombati, Helena Janeczeck e Roberto Saviano.
Per la rivista si apre una nuova stagione, suggellata nel 1994 dall’uscita del n. 28, Italville, e un anno dopo dal n. 30, Atlantide – Luoghi e personaggi sommersi, due numeri in cui intervengono molti dei più promettenti giovani autori del panorama italiano, tra cui Leonardo Colombati, Mario Desiati, Giuseppe Genna, Nicola Lagioia, Francesco Pacifico, Massimiliano Parente, Valeria Parrella, Tommaso Pincio, Alessandro Piperno, Flavio Santi, Roberto Saviano, Wu Ming 1.
Il 9 giugno 2006 muore Enzo Siciliano. Il n. 35 di «Nuovi Argomenti» gli rende omaggio con un numero speciale, Officina Siciliano, in cui lo ricordano tra gli altri Alberto Arbasino, Bernardo Bertolucci, Franco Buffoni, Arnaldo Colsanti, Franco Cordelli, Alain Elkann, Miriam Mafai, Valerio Magrelli, Raffaele Manica, Dacia Maraini, Vincenzo Pardini, Elisabetta Rasy, Giorgio van Straten. Quest’ultimo, assieme a Raffaele Manica, entra nella direzione affiancando Colasanti, Colombo e La Capria. Direttore responsabile diventa Dacia Maraini.
Nel gennaio 2009 Carlo Carabba diventa coordinatore della redazione. Gli succederanno Francesco Pacifico, Marco Cubeddu e Francesca Ferrandi.
Dal 2019 la direzione è composta da Colombati, La Capria, Manica, Maraini e van Straten.
Andrea Zanzotto,due nuovi volumi sul Poeta di Pieve di Soligo
Editore Mondadori
Andrea Zanzotto
Nel centenario della nascita e a dieci dalla scomparsa di Andrea Zanzotto Mondadori pubblica due volumi sul grande poeta di Pieve di Soligo: Andrea Zanzotto, ERRATICI disperse e altre poesie (1937-2011) a cura di Francesco Carbognin e Andrea Zanzotto, TRADUZIONI TRAPIANTI IMITAZIONI a cura di Giuseppe Sandrini.
Il primo volume a cura di Carbognin, propone una serie di poesie di Andrea Zanzotto pubblicate in varie sedi tra il 1937 e il 2011 ma mai confluite nei suoi libri, testimonianze fedeli della vivacità e dell’operosità della sua officina poetica.
“L’esplorazione dell’archivio privato in cui il poeta spesso teneva traccia o a volte copia delle sue pubblicazioni occasionali, assieme alla esplorazione sistematica di annate di quotidiani e riviste, ha infatti consentito di espanderne il corpus di un centinaio di poesie, da quelle adolescenziali risalenti agli anni del liceo (1937-38), improntate a un sostanziale pascolismo psicologico, ai versi di impostazione civile (1946) legati agli eventi della Resistenza. Se le poesie successive delineano l’evolversi dell’esperienza poetica zanzottiana fino a quel primo acuminato vertice toccato da Vocativo , quelle degli anni Sessanta ne dilatano l’orizzonte del sapere e del dire tra classicismo, caustica ironia e inclinazione sperimentale, proiettandosi verso i grandi esiti di “La Beltà”. Ed eccoci poi alle prime e già mature ricognizioni in versi sul dialetto (precedenti l’edizione del poemetto “Filò” e la composizione dei testi per il “Casanova” di Federico Fellini), fino alle prove quanto mai varie degli ultimi decenni, quando il soggetto lirico zanzottiano «si diffrange identificandosi con gli enti minimali del paesaggio», o con gli indizi del suo «”accadere” nella pagina, esitante tra silenzi e “promesse” di senso».”(Francesco Carbognin)
Biografia di Andrea Zanzotto- a cura di Carmelo Princiotta
Andrea ZANZOTTO
Andrea Zanzotto– Nacque a Pieve di Soligo (Treviso) il 10 ottobre 1921, primogenito di Giovanni e di Carmela Bernardi, cui sarebbero poi nati le gemelle Angela e Marina, colpite da morte prematura nel 1926 e nel 1937, quindi Maria e infine Ettore.
Visse un’infanzia non felice, ma poeticamente ricca, grazie al Corriere dei piccoli e, soprattutto, alla nonna paterna. In Cal Santa, la stradina fra la chiesa e il cimitero, Angela Bertazzon recitava in filastrocche quasi ipnotiche le rime in toscano illustre di Ludovico Ariosto e Torquato Tasso. Il padre era pittore, decoratore e miniaturista, oltre che insegnante, ma dovette emigrare per la sua opposizione al fascismo.
Zanzotto frequentò una scuola materna gestita da suore che seguivano il metodo Montessori e fu ammesso direttamente alla seconda elementare. All’età di sette anni compose i primi versi. Il tentativo del padre di ricongiungere a sé la famiglia si rivelò fallimentare e sopraggiunsero anche difficoltà economiche. La zia Maria, però, coinvolgeva il nipote nel teatrino delle suore e gli trasmetteva l’avida pulsione alla lettura di giornalini e settimanali. Zanzotto ricevette anche le prime lezioni di musica, intanto che assorbiva il francese quasi casalingo dell’emigrazione trevigiana.
Nel 1937 si diplomò come maestro e iniziò a dare ripetizioni private. Era periodicamente soggetto a episodi allergici e asmatici. Dopo una pubblicazione adolescenziale di versi amorosi, dal 1938 raccolse le prime poesie, edite in parte nella strenna di Giovanni Scheiwiller A che valse? (Versi 1938-1942) (Milano 1970). Conseguì come privatista anche la maturità classica. Si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Padova, dove ebbe come maestri, anche di coscienza, Diego Valeri e Concetto Marchesi.
Scoprì Arthur Rimbaud e cominciò a leggere l’amatissimo Friedrich Hölderlin, nella traduzione di Vincenzo Errante, con suggestioni da rispecchiamento. Venne a contatto con la cultura dell’esistenzialismo. Studiò un po’ di tedesco, qualche rudimento di ebraico, e approfondì l’inglese, benché da cultore di grammatiche più che da esperto di lingue.
Vinse i prelittoriali di poesia con un gruppo di versi giovanili. Nel 1940 ottenne la prima di una lunga serie di supplenze. Il 30 ottobre 1942 si laureò discutendo una tesi su Grazia Deledda, pubblicata poi nel 2015.
Nel febbraio del 1943 fu chiamato alle armi e inviato ad Ascoli Piceno, dove si portò Frontiera di Vittorio Sereni. La manifestazione violenta della pollinosi comportò la sospensione dell’addestramento e l’assegnazione ai servizi non armati. L’8 settembre, alla notizia dell’armistizio, intraprese un avventuroso ritorno a casa. Si nascose sulle colline, ma riuscì anche a impartire lezioni private presso il collegio Balbi Valier di Pieve di Soligo. Nell’inverno cominciò a collaborare con i gruppi partigiani, in cui spiccava la figura non violenta di Antonio Adami. Nella primavera del 1944 si impegnò nella propaganda resistenziale. Il 10 agosto, durante una rappresaglia tedesca contro la piccola repubblica partigiana di Quartier di Piave, perse un amico, Gino Dalla Bortola. Il rastrellamento del 31 agosto mise a ferro e fuoco il paesaggio natio, che aveva protetto il poeta anche dagli orrori della guerra civile. Zanzotto visse alla macchia a fasi alterne, poi fu reclutato per il lavoro coatto, mentre continuavano i massacri. All’inizio del 1945 ritornò sulle colline; il 30 aprile la zona fu liberata. Zanzotto disseppellì i propri scartafacci, interrati un anno prima vicino casa. Riprese i contatti intellettuali con Treviso. Si recò più volte a Milano, dove conobbe Alfonso Gatto e Vittorio Sereni. Nel 1946, per la sua posizione repubblicana, perse una supplenza al Balbi Valier ed emigrò in Svizzera, dove insegnò in un collegio a Villars-sur-Ollon. Pur di non sottostare alle costrizioni dell’istituto, l’anno dopo fece il barista e il cameriere a Losanna. Scrisse o continuò a scrivere prose diaristiche e, alla fine del 1947, fece rientro in Italia.
Nel 1948 chiuse la composizione delle poesie d’esordio, cominciata nel 1940. Tramite Sereni inviò una silloge a Mondadori, che divenne poi suo principale editore, anche se la stampa dell’opera prima di Zanzotto si ebbe un anno dopo la vittoria del premio S. Babila per gli inediti nel 1950, con una giuria in cui figuravano Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Sereni, Leonardo Sinisgalli e Giuseppe Ungaretti. A Milano incontrò Cesare Musatti, cui espose il proprio disagio psichico. Conobbe Giuseppe Bevilacqua, germanista e traduttore, che lo introdusse alla poesia di Paul Celan.
Dietro il paesaggio (Milano 1951) si presentava come il frutto epigonale di un ermetismo radicalizzato dagli apporti del surrealismo europeo; invece rimase, nella sua ambiguità, fra i titoli più emblematici di uno dei più grandi e ormai proverbiali poeti del paesaggio. La cancellazione della presenza umana, la sostituzione del tempo cronologico con quello stagionale, l’adozione di una grammatica a forte carica astrattiva e il ricorso a una specie di citazionismo araldico sono misure manieristiche di protezione psichica.
Nel 1954 ottenne un posto di insegnante di ruolo presso la scuola media di Conegliano. Partecipò al convegno di San Pellegrino, dove fu presentato da Ungaretti, ed entrò in polemica con Italo Calvino, sostenendo tesi d’impronta esistenzialista. Dal punto di vista politico, Zanzotto fu iscritto al Partito socialista italiano (PSI) fino alla metà degli anni Ottanta. Conobbe a Pordenone Pier Paolo Pasolini. Comparve nell’antologia Quarta generazione. La giovane poesia in Italia (1945-1954) (Varese 1954). Le Edizioni della Meridiana stamparono Elegia e altri versi (Milano 1954) nella collana diretta da Sereni, con una nota di Giuliano Gramigna, che sottolineava permanenze e novità rispetto al libro precedente.
Vocativo (Milano 1957) parve a Giorgio Caproni «uno dei libri più belli del dopoguerra, riconoscibilmente nuovo» (G. Caproni, «Vocativo» di Z., in Id., Prose critiche, a cura di R. Scarpa, II, 1954-1958, Torino 2012, p. 925) e già Sereni lo riteneva secondo solo a La bufera e altro. Pasolini non esitò a definirlo come un libro di «piena crisi» (P.P. Pasolini, Principio di un «engagement», in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti – S. De Laude, Milano 1999, I, p. 1207), perché Zanzotto oggettivizza, problematizzandoli, i presupposti di ogni poesia soggettiva, a partire dall’io, ridotto alla sua «miseria di fatto “grammaticale”» (Profili dei libri e note alle poesie, a cura di S. Dal Bianco, in A. Zanzotto, Le poesie e prose scelte, 1999, p. 1435), come recita il risvolto di copertina, anonimo ma di mano dell’autore.
Alla problematizzazione dell’io, in senso psichico, linguistico e storico-letterario, si uniscono quella del colloquio, ridotto alla pura vocatività, e della lingua, avvertita come transeunte. Michel David parlò poi di «inconsapevole lacanismo» (v. A. Zanzotto, Nei paraggi di Lacan, ibid., p. 1211) per il grammaticalismo di questo ‘secondo’ Zanzotto, che irrompe anche come poeta del linguaggio.
Nel 1959 Zanzotto si unì in matrimonio con Marisa Micheli, da cui ebbe Giovanni nel 1960 (a pochi giorni dalla morte del padre) e Fabio nel 1961. Per il periodico riacutizzarsi dell’insonnia e degli stati ansiosi, si sottopose a un’analisi freudiana a Padova. Pur continuando a insegnare, svolse anche le funzioni di preside nella scuola media di Col San Martino.
IX Ecloghe (Milano 1962) inaugurò la collana Il Tornasole, diretta da Niccolò Gallo e Sereni per Mondadori.
Secondo Franco Fortini, che aveva già trovato bellissime alcune poesie di Vocativo, il libro giungeva a risultati ineguagliati negli anni più recenti, anche per l’immissione di linguaggi allotri sotto la grande ombra di Virgilio e, in particolare, per la capacità di trasformare in rapporto con la storia il rapporto con il proprio inconscio.
Nel 1963 ottenne il trasferimento alla scuola media di Pieve di Soligo, dove insegnò fino al 1971. Si stabilì con la famiglia nella nuova casa di via Garibaldi (poi Mazzini). Per Neri Pozza pubblicò Sull’Altopiano. Racconti e prose: 1942-1954 (Vicenza 1964), riproposto e accresciuto in nuove edizioni a partire dagli anni Novanta. Nel 1966 tradusse Età d’uomo (Milano 1966) di Michel Leiris. Altre traduzioni seguirono negli anni Settanta da Georges Bataille, Pierre Francastel e Honoré de Balzac. Partecipò alla conferenza tenuta a Milano da Jacques Lacan per l’uscita degli Écrits. Si sottopose alla cosiddetta terapia del sonno. Nel 1967 si recò a Praga con Sereni, Fortini e Giovanni Giudici, per un incontro di poesia: uno dei non frequenti ma significativi spostamenti europei di questo appartatissimo poeta.
La Beltà (Milano 1968) fa «esplodere la “lingua”», come recita l’anonimo risvolto di copertina. Il volume fu presentato a Roma da Pasolini e, in modo piuttosto drammatico, a Milano da Fortini, che vi aveva individuato la «testimonianza […] di un accurato cerimoniale di autodistruzione» (R. Cicala, Zanzotto «in su la cima». Sulle lettere editoriali degli esordi in Mondadori e del rapporto con Sereni, in Andrea Zanzotto. La natura, l’idioma, a cura di F. Carbognin, Treviso 2018, p. 167, con stralcio d’archivio), oltre che un ammicco allo strutturalismo ormai imperante.
Secondo Montale, autore di un’importante recensione, la coltissima nevrosi di Zanzotto problematizzava in modo estremamente contemporaneo il rapporto fra poeta e mondo, creando un cortocircuito sostanzialmente tragico fra espressione di secondo grado e pre-espressione, in una percussività da batticuore. Il libro, forse il più importante del Novecento poetico italiano dopo Le Occasioni di Montale, si presenta come le stazioni di un Calvario psicoanalitico che non abbia perso la propria laica spinta pasquale (donde un certo dantismo paradisiaco) e, insieme, come una strada senza uscita.
Nel 1969 Zanzotto partecipò al festival di Spoleto, dove ebbe modo di incontrare Ezra Pound. Stampò semiclandestinamente Gli Sguardi i Fatti e Senhal (Pieve di Soligo e s.l. 1969; Milano 1990), un poemetto sull’allunaggio come ferimento del mito lunare. Iniziò gli Appunti e abbozzi per un’ecloga in dialetto sulla fine del dialetto, pubblicati in rivista nel 2001 e in volume nel 2019. Nel 1970 acquistò un piccolo appartamento a Milano. Dal 1971 al 1975 fu distaccato come formatore nelle scuole della provincia di Treviso. Nel 1973 morì la madre.
La fortunata antologia Poesie (1938-1972) (Milano 1973) fu curata da Stefano Agosti, che, da principale critico di Zanzotto, ne metteva in relazione la poesia con la nozione di arbitrarietà del segno postulata da Ferdinand de Saussure e con la priorità del significante sul significato elaborata da Jacques Lacan. Pasque (Milano 1973), libro dei passaggi rituali, anche pedagogici, che coinvolgono una comunità e dei passaggi psichici dell’individuo, chiuso in un’ambigua privatizzazione, fu recensito, fra gli altri, da Pasolini, che vide ne La Pasqua a Pieve di Soligo la «poesia più importante scritta in Italia in questi ultimi anni; forse, addirittura, dagli anni Cinquanta» (cfr. P.P. Pasolini, Andrea Zanzotto, «Pasque», in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., II, p. 2019).
Nel 1975 uscì la prima traduzione in volume della poesia di Zanzotto, avviando l’internazionalizzazione della sua fortuna. Nel 1976 collaborò a Casanova di Federico Fellini, con testi in dialetto poi ricompresi in Filò (Venezia 1976; Roma 1981; Milano 1988) insieme con altri materiali e soprattutto col poemetto omonimo, civile tentativo di rifondazione del rapporto fra natura, uomini e linguaggio, in aperto confronto con La ginestra o Il fiore del deserto, di Giacomo Leopardi. Altre importanti collaborazioni cinematografiche seguirono negli anni successivi. Uscì intanto un’edizione petrarchesca con un memorabile contributo di Zanzotto.
Il Galateo in Bosco (Milano 1978 e 1996) è aperto da una prefazione di Gianfranco Contini, che indica in Zanzotto «il più importante poeta italiano dopo Montale» (p. 5).
Il libro avvia una «pseudo-trilogia» (v. A. Zanzotto, Note a «Idioma», in Id., Le poesie e prose scelte, cit., p. 811). La partizione va intesa in senso topografico, con la collocazione del Galateo nel Montello e di Fosfeni (Milano 1983) sulle Dolomiti, rispettivamente a sud e a nord di Pieve di Soligo, centro di Idioma (Milano 1986), ma è anche tematica, stilistica e tonale, come mostrano l’inselvamento del Galateo, la rarefazione quasi noumenica di Fosfeni e la quotidianità comunitaria di Idioma. Al centro del volume fa spicco l’Ipersonetto, che sembrò quasi autorizzare il ritorno alle forme chiuse degli anni Ottanta. A dispetto di consensi come il premio Viareggio del 1979, anno in cui usciva anche la prima monografia dedicata al poeta, l’autore temeva che fosse stato frainteso il senso profondo del libro e, quindi, disatteso il suo invito a una ripartenza da zero.
Entrando nella cosiddetta terza età, subì una grave depressione. Intanto venne insignito del premio Librex-Montale con Fosfeni, per cui Parise notava come la grandezza, anche ‘geologica’, di Zanzotto fosse di gran lunga superiore alla sua leggibilità. Nel 1987 l’Accademia nazionale dei Lincei conferì a Zanzotto il premio Feltrinelli. Numerosi anche i riconoscimenti internazionali, fino all’assegnazione del premio Hölderlin nel 2005. L’inizio degli anni Novanta, segnato dalla morte del fratello Ettore, vide l’uscita di Fantasie di avvicinamento (Milano 1991) e Aure e disincanti del Novecento letterario (Milano 1994), poi raccolti, per le cure di Gian Mario Villalta, in Scritti sulla letteratura (I-II, Milano 2001), volumi che fanno di Zanzotto un grande poeta-critico.
Meteo (Roma 1996), con disegni di Giosetta Fioroni, inaugurò la collana poetica di Donzelli come un’anticipazione di lavori in corso. Si apriva un’altra fase della poesia di Zanzotto, con una nuova posizione del soggetto e del linguaggio, oltre che un diverso trattamento del paesaggio. Le poesie e prose scelte (Milano 1999) uscì ne I Meridiani, vincendo poi il premio Bagutta. In Sovrimpressioni (Milano 2001) la deriva anche testuale, non priva di esiti indimenticabili, ruota attorno alla distruzione del paesaggio e alla trasformazione della nozione stessa di natura, come avverte l’anonimo risvolto di copertina.
Nel 2001 Zanzotto firmò un significativo contributo su Hölderlin e il crescente interesse nei suoi confronti lo spinse a pubblicare, a partire dagli eventi per il suo ottantesimo compleanno, conversazioni, scritti sul cinema e qualche altro saggio.Nel 2005 subì ulteriori restrizioni alla propria mobilità per la rottura di un femore.
Conglomerati (Milano 2009) chiude in modo testamentario l’opera in versi di Zanzotto. Non mancarono, però, pubblicazioni successive, come la plaquette Il Vero Tema (Milano 2011).
In Conglomerati si mette in discussione l’idea stessa di definitività: la poesia è ormai sostituita dalle sue varianti, in una virtualizzazione che assume in sé anche la testualità, pur nella sua materica stratificazione. Stefano Dal Bianco, in particolare, presenta Conglomerati come una Commedia contemporanea e la chiusura di una «trilogia dell’oltremondo» (in A. Zanzotto, Tutte le poesie, 2011, p. LXXIII).
Morì a Conegliano, il 18 ottobre 2011, in seguito a complicazioni respiratorie.
Opere. Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco – G.M. Villalta, con due saggi di S. Agosti – F. Bandini, Milano 1999; Tutte le poesie, a cura di S. Dal Bianco, Milano 2011, e relativa bibliografia, cui si aggiungano almeno: Il Vero Tema, Milano 2011; In nessuna lingua in nessun luogo. Le poesie in dialetto 1938-2009, nota introduttiva di G. Agamben, prefazione di S. Dal Bianco, Macerata 2019; Haiku. For a Season. Per una stagione, a cura di A. Secco – P. Barron, con una nota di M. Breda, Milano 2019. Per la prosa si vedano: Ascoltando dal prato. Divagazioni e ricordi, a cura di G. Ioli, Novara 2011; Luoghi e paesaggi, a cura di M. Giancotti, Milano 2013; L’arte di Grazia Deledda, prefazione di A Balduino e introduzione di E. Zinato, Padova 2015.
Fonti e Bibl.: Tra gli studi monografici: P. Steffan, Un «giardino di crode disperse». Uno studio di «Addio a Ligonàs» di A. Z., Roma 2012; Il sacro e altro nella poesia di A. Z., a cura di M. Richter – M.L. Daniele Toffanin, Pisa 2013; “Dirti Z.”: Z. e Bologna (1983-2011), a cura di N. Lorenzini – F. Carbognin, Varese 2013; C. Cardolini Rizzo, Dai versi giovanili al vocativo. Semiologia poetica nel primo Z., Taranto 2013; Hommage à A. Z., textes réunis par D. Favaretto – L. Toppan, Paris 2014; N. Lorenzini, Dire il silenzio: la poesia di A. Z., Roma 2014; S. Agosti, Una lunga complicità. Scritti su A. Z., Milano 2015; «A foglia ed a gemma». Letture dall’opera poetica di A. Z., a cura di M. Natale – G. Sandrini, Roma 2016; M. Natale, Il sorriso di lei. Studi su Z., Verona 2016; L. Stefanelli, Il divenire di una poetica. Il «logos veniente» di A. Z. dalla «Beltà» a «Conglomerati», Milano-Udine 2016; F. Venturi, Genesi e storia della «trilogia» di A. Z., Pisa 2016; S. Sferruzza, Vocativo. A. Z. sul margine. Introduzione e commento alle poesie, Ospedaletto 2017; A. Z., la natura, l’idioma, a cura di F. Carbognin, Treviso 2018; Nel melograno di lingue. Plurilinguismo e traduzione in A. Z., a cura di G. Bongiorno – L. Toppan, Firenze 2018; S. Bubola, Dietro il paesaggio. Friedrich Hölderlin nell’opera di A. Z., Udine 2018; A. Russo Previtali, Il destinatario nascosto. Lettore e paratesto nell’opera di A. Z., Firenze 2018; A. Russo Previtali, Z./Lacan. L’impossibile e il dire, Milano-Udine 2019; C. Cardolini Rizzo, La poesia pastorale nell’età moderna. Le «IX Ecloghe» di A. Z., Avellino 2019.
*Critico letterario. Nata a Napoli nel 1923, si spostò giovane nel Nord Italia, dove si laureò in Filosofia, all’Università di Milano. Allieva di Antonio Banfi, uno dei personaggi di spicco della cultura italiana del tempo, fu da questi fortemente influenzata. L’idea della responsabilità morale delle persone che hanno mente e agiscono nel mondo e la partecipazione politica alle lotte anti-fasciste, insieme alla militanza del suo professore nel Partito Comunista Italiano, indirizzarono Armanda Guiducci verso il coinvolgimento politico e l’attivismo culturale.
La scrittrice cominciò, quindi, un’associazione lunga e duratura con gli intellettuali e le pubblicazioni della Sinistra politica. Interessata alla produzione e alla diffusione della cultura, collaborò con quotidiani e settimanali che promuovevano confronti ideologici e dibattiti culturali.
Nel 1955, Franco Fortini, Luciano Amodio e Roberto Guiducci e lei, lanciarono l’acclamato giornale politico letterario Ragionamenti, di cui la Guiducci divenne direttore.
Negli Anni ’60 e ’70, pubblicò diversi libri di critica, tra i quali ricordiamo il più famoso, e spesso tradotto, Dallo zdanovismo allo strutturalismo (1967), e due libri su Cesare Pavese, Il mito Pavese (1967) e Invito alla lettura di Pavese (1950).
Si interessò anche di Sociologia, Psicoanalisi, Etnologia e Antropologia Culturale, scrivendo un saggio su La letteratura della nuova Africa (1979), in collaborazione con Lina Angioletti.
La Guiducci iniziò anche una carriera artistica, con due raccolte di versi: Poesie per un uomo (1965) che ebbe un enorme successo, e vinse il premio Cittadella, e A colpi di silenzio (1982), che vinse il premio Pisa, già vinto dalla scrittrice, nel 1967, con Il mito Pavese.
Negli Anni ’70, la Guiducci partecipò anche attivamente al dibattito femminista, producendo una serie di libri sulla condizione femminile, tra i quali ricordiamo: Due donne da buttare (1976), La donna non è gente (1977), All’ombra di Kalì (1979) e Donna e serva (1983).
In tempi più recenti, continuò a scrivere di femminismo, e pubblicò due volumi della storia delle donne, edita da Sansoni. Morì nel 1992 di cancro.
“Poesie per un uomo”, racchiude il “racconto” di un modo d’amare che è bisogno di totalità, di immediatezza, di forza:..E’ il prorompere di un amore certo, lontano dal dubbio che, dimentico delle stanche ombre notturne, sa cogliere negli occhi dell’amato la luminosità dell’alba.
Il suo è un io aperto, un io che vorrebbe abbracciare l’ALTRO e fondersi con lui, che si nutre nel desiderio della primigenia indivisione fra l’IO e l’ALTRO, la femmina e il maschio, questo io che ha ricevuto il dono di generare l’altro, si vede inesorabilmente negata la possibilità di ricongiungersi con lui nella pienezza di un amore. Non certo di separazione fisica qui si tratta, perchè l’oggetto amato si erge “contro” colei-che-ama non come differenza positiva, che è complementarità, ma come totale estraneità: “Altro da me in tutto… maschio, estraneo,/altra carne, altro cuore, altra mente, …”; è una estraneità tormentosa e feroce, piena di “una repressa voglia di ferire/chi, amando, ti augura il buongiorno” .
Eppure la constatazione che i due universi (il maschile e il femminile) sono retti da logiche totalmente dissonanti, che arrivano perfino a porre una differenza nelle strutture categoriali di percezione del reale “La femminile immagine del mondo/che mi separa da te (e a te mi attrae)/segue un tempo diverso. …” , non produce nelle “Poesie per un uomo” una vera e propria rottura o negazione dell’altro. Di fronte a tutto ciò, l’io femminile, pur incolmabilmente lacerato, si fa attonito, ma fermo e deciso ad affermare le proprie modalità, il proprio universo d’amore, anche se questo significherà assaggiare l’orrore dell’esclusione: “Ma neppure la lettura più azzardata/ha messo in dubbio te-come fai tu/ogni volta sull’asse di una pagina/che ti sposti un sistema costruito./T’ammiro, così astratto, e provo orrore/della tua incerta furia-forza maschile/e debolezza insieme; mancanza di natura/che mi relega in nota-a piè di pagina.”.
Approdata nel ’74 al femminismo, la Guiducci ha giustamente rifiutato di definire la sua opera “poesia femminile” ,perchè troppo spesso questa definizione è servita a mascherare una discriminazione e a rinchiudere la poesia delle donne nello spazio angusto di una sottopoesia, considerata incapace di realizzare quel salto “virile” che allarga l’esperienza individuale (l’autobiografia) alla dimensione universale. Al contrario la Guiducci, col suo linguaggio chiaro ma essenziale, con le sue metafore immediate, con i frequenti enjambements tesi a cadenzare il flusso gorgogliante del pensiero, è riuscita a trasformare il suo dialogo interiore in una riflessione che acquista la valenza di una esperienza doppiamente universale, perchè nella sua poesia l’universo femminile e quello maschile si delineano a vicenda, lentamente e dolorosamente, lasciando, nella scoperta dell’impossibilità di una loro comunicazione, un’anima ridotta a un “colpo di sera” .
Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes), nato a Firenze nel 1917 da padre ebreo e madre cattolica (Fortini è il cognome della madre da lui adottato nel 1940), ha compiuto i suoi studi nella città natale laureandosi in lettere e in giurisprudenza. Espulso, in seguito alle leggi razziali, dall’organizzazione universitaria fascista, dopo l’8 settembre 1943 si trasferisce in Svizzera dove si unisce ai partigiani della Valdossola. Dal l945 si stabilisce a Milano, sua città d’adozione e dove oltre all’insegnamento svolge molteplici attività di copywriter, consulente editoriale, traduttore e, infine, come docente universitario di Storia della Critica all’ Università di Siena. Tra le sue opere: “Foglio di via e altri versi”, Einaudi, Torino, 1946; “Agonia di Natale”, Einaudi, Torino, 1948; “Dieci inverni” (1947-1957), Feltrinelli, Milano, 1957; “Poesia ed errore (1937-1957)”, Feltrinelli, Milano, 1959;”Verifica dei poteri”, Il Saggiatore, Milano, 1965; “L’ospite ingrato”, De Donato, Bari, l966; “I cani del Sinai”, De Donato, Bari, 1967; “Questioni di frontiera”, l977; “Insistenze”, l985; “Composita solvantur”, Einaudi, Torino, l995. Ha tradotto: M. Proust, “Albertina scomparsa”, Einaudi, Torino, 1952; e, dello stesso autore, “Jean Santeuil”, Einaudi, Torino, l953; Bertold Brecht, “Poesie e canzoni”, Einaudi, Torino, 1961; W. Goethe, “Faust”, Mondadori, Milano, 1970; “Il ladro di ciliege”, Einaudi, Torino, l983; “Composita solvantur”, Einaudi, Torino, 1994. Franco Fortini ha collaborato ad alcune tra le più importanti riviste del Novecento: a “Letteratura” (di Bonsanti) e “Riforma letteraria” (di Carocci e Noventa), sotto il regime fascista; e, dopo la guerra, a “Il Politecnico” (di Vittorini), “Ragionamenti” (da lui fondata nel l955 con L. Amodio, S. Caprioglio, e Roberto e Armanda Guiducci) “Officina” e “Comunità”, nonché a diversi quotidiani: dall’ “Avanti!” (di cui è stato redattore dal l945 al l948) al “Corriere della Sera”, al “Sole-24 0re”.
E’ morto a Milano nel l994.
Franco Fortini-Poesie-
Sonetto dei sette cinesi
Una volta il poeta di Augsburg ebbe a dire
che alla parete della stanza aveva appeso
l’Uomo del Dubbio, una stampa cinese.
L’immagine chiedeva: come agire?
Ho una foto alla parete. Vent’anni fa
nel mio obiettivo guardarono sette operai cinesi.
Guardano diffidenti o ironici o sospesi.
Sanno che non scrivo per loro. Io
so che non sono vissuti per me.
Eppure il loro dubbio qualche volta mi ha chiesto
più candide parole o atti più credibili.
A loro chiedo aiuto perché siano visibili
contraddizioni e identità fra noi.
Se un senso esiste, è questo.
(da L’ospite ingrato secondo, 1985)
Molto chiare si vedono le cose.
Puoi contare ogni foglia dei platani.
Lungo il parco di settembre
l’autobus già ne porta via qualcuna.
Ad uno ad uno tornano gli ultimi mesi,
il lavoro imperfetto e l’ansia,
le mattine, le attese e le piogge.
Lo sguardo è là ma non vede una storia
di sé o di altri. Non sa più chi sia
l’ostinato che a notte annera carte
coi segni di una lingua non più sua
e replica il suo errore.
È niente? È qualche cosa?
Una risposta a queste domande è dovuta.
La forza di luglio era grande.
Quando è passata, è passata l’estate.
Però l’estate non è tutto.
Franco Fortini-Poesie-
Franco Fortini, Traducendo Brecht
Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più voce. Gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi, mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelle dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
lasciare che ci giudichino guidarli essere guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.
1944/47
*
Scoprivi il mare di sera, era qua
e là verde, qua e là nero vino.
Un’alga lunga era quieta a mezz’acqua.
Così non visto muta un destino.
Non dava segno di vita la “monaca” violetta.
Poi si staccò, calò al fondo su ali eque.
Fu paura o che? Da allora tacque
la verità ma aspetta.
Franco Fortini
PER TRE MOMENTI
1
Queste foglie d’aceri e questa luce
mi rammentano che una volta sono stato
visitatore d’un santuario, viaggiando la Cina.
Era il mese di settembre, c’era una luce così.
Così le foglie nella valletta ventilata.
Indulgo ai cortili perfetti, indulgo alle carpe
che nelle vasche, se applaudi, salgono. Penso
che anime offese o vinte sempre così cercarono
di persuadersi. Perché in segreto le accusa
l’erba che fino a sera annuisce al vento?
2
Ma l’erba che fino a sera annuisce al vento
e devota sembra a morte consentire
ah non sa nulla delle anime ferite,
di quel loro cauto bramare quiete. E’ senza
mente, una pianta che pazienta, poco
diversa dall’insetto o dal rettile. Sono io
che la mia forma effondo
in quella definita forma e ingenuo credo
realtà la metafora.
Nega l’eterna lirica pietà,
mi dico, la fantastica separazione
del senso del vero dal vero
delle domande sul mondo dal mondo. Disperdi
la deliziosa nuvola del pianto
e fuor del primo errore procedi almeno.
Anche se non è tempo ancora di riposo,
se non è luogo ancora per la saggezza
e tu starai alla fine con un sorriso deluso
che gli altri bene vedranno tremando per sé.
3
Questo conosco nei chiostri chiari, nei santuari,
nelle perfette cavità lasciate dagli anni giovani.
Questo nel suo simbolo mi comanda
l’erba che il vento realmente consuma.
Franco Fortini
LE PICCOLE PIANTE…
Le piccole piante mi vengono incontro e mi dicono:
«Tu, lo sappiamo, nulla puoi fare per noi.
Ma se vorrai entreremo nella tua stanza,
rami e radici fra le carte avranno scampo».
Ho detto di sì a quella loro domanda
e il gregge di foglie ora è qui che mi guarda.
Con le foreste riposerò e le erbe sfinite,
vinte innumerabili armate che mi difendono.
Franco Fortini
Molto chiare…
Molto chiare si vedono le cose.
Puoi contare ogni foglia dei platani.
Lungo il parco di settembre
l’autobus già ne porta via qualcuna.
Ad uno ad uno tornano gli ultimi mesi,
il lavoro imperfetto e l’ansia,
le mattine, le attese e le piogge.
Lo sguardo è là ma non vede una storia
di sé o di altri. Non sa più chi sia
l’ostinato che a notte annera carte
coi segni di una lingua non più sua
e replica il suo errore.
È niente? È qualche cosa?
Una risposta a queste domande è dovuta.
La forza di luglio era grande.
Quando è passata, è passata l’estate.
Però l’estate non è tutto.
Maria Pina Ciancio di origine lucana è nata in Svizzera nel 1965. Trascorre la sua infanzia tra la Svizzera e il Sud dell’Italia e da qualche anno vive nella zona dei Castelli Romani.
Viaggia fin da quand’era giovanissima alla scoperta dei luoghi interiori e dell’appartenenza, quelli solitamente trascurati dai grandi flussi turistici di massa, in un percorso di riappropriazione della propria identità e delle proprie radici.
Ha pubblicato testi che spaziano dalla poesia, alla narrativa, alla saggistica. Tra i suoi lavori più recenti ricordiamo ‘Il gatto e la falena’ (Premio Parola di Donna, 2003), ‘La ragazza con la valigia’ (Ed. LietoColle, 2008), ‘Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro‘ (Fara Editore 2009), ‘Assolo per mia madre’ (Edizioni L’Arca Felice, 2014), ‘Tre fili d’attesa‘ (Associazione Culturale LucaniArt 2022).
Nel 2012 ha curato il volume antologico Scrittori & Scritture – Viaggio dentro i paesaggi interiori di 26 scrittori italiani.
Suoi scritti e interventi critici sono ospitati in cataloghi, antologie e riviste di settore. Recentemente è stata inserita nelle collettive: ‘Orchestra’ (a cura di Guido Oldani) LietoColle 2010; ‘Il rumore delle parole – 28 poeti del Sud‘ (a cura di Giorgio Linguaglossa), Edizioni EdiLet 2015, ‘Sud – Viaggio nella poesia delle donne‘ (a cura di Bonifacio Vincenzi) Edizioni Macabor 2017, ‘Il sarto di Ulm, Bimestrale di poesia’, Macabor Editore, luglio-agosto 2020, ‘Dizionario critico della poesia italiana 1945-2020′ (a cura di Mario Fresa), Società Editrice Fiorentina 2021
Ha fatto parte di diverse giurie letterarie, è presente in numerosi cataloghi e riviste di settore.
È presidente dell’Associazione Culturale LucaniArt e su internet cura lo spazio web lucaniart.wordpress.com
Con il libro Storie Minime e una poesia per Rocco Scotellaro nel 2022 ha vinto il Premio Leandro Polverini per la poesia edita; nel 2015 la X Edizione del Premio Letterario “Gaetano Cingari”; nel 2014 il Premio Internazionale della Migrazione – Attraverso L’Italia e il Premio Letterario Città di Cerchiara – Perla dello Jonio (con un testo tratto dalla raccolta); nel 2009 il Premio “Tremestieri Etneo” (Targa Antonio Corsaro).
Mi abitano i paesi spopolati
e il vento
la luce che scorre in un istante
e frana
nella crepa dei calanchi
nella carne
* (Sola andata)
I cartelli stradali sono tutti uguali stanotte
e puntano dritti alla confluenza del Sinni
unica salvezza che separa dall’attimo
un viaggio di sola andata una via di fuga forse una morsa sfilacciata dalla resa
Lungo strade mezzevuote
il vento arruffa il pelo delle capre
e rallenta la corsa verso casa
dove senza sentenza attendono gli affetti
silenzi imperfetti
incapacità di muoversi
a volte
fianco a fianco
Il riparo atteso della notte
*
Abbiamo allineato lo sguardo i passi, i vasi dei geranei sul selciato ancora fresco senza sapere che nel vaso di pietra riverso alla finestra sono cresciuti i cardi stanotte
con la testa capovolta nella crepa
*
La vita certe volte è ferma al di là delle finestre chiuse e il vento lo senti solo dentro frugare fugace come un clandestino
nelle tasche delle giacche nei granai, sotto gli archi
dappertutto
*
E’ nella crepa grande quella priva di intonaco e calce che il cedimento talvolta arriva come un presagio d’azzurro aperto al cielo
un fiato appena
*
Abbiamo gridato così tanto a vent’anni che la voce si è spezzata nella gora e adesso restano gli occhi
e il petto che ogni notte si scassa per la tosse
Maria Pina Ciancio
da La ragazza con la valigia, LietoColle 2008
La ragazza con la valigia
Parte e ritorna ogni notte
la valigia rossoazzurra
rigonfia di stracci
e lo sguardo di terra
annodato alla luna
*
Stese panni biancoazzurri
al filo delle rondini nere
di ritorno
e rimase immobile, scarmigliata dal vento
i capelli e i vestiti graffiati
da carezze senza cura
chissà perché in quella casa
dai tetti rossi
il tempo del presente
era sempre altrove
*
Timpa Pizzuta
Aveva lavorato una vita
per non sentirsi ai piedi
odore fresco di mastice
ma a Timpa Pizzuta
la strada rovinò
e Nina perse le scarpe nuove
della festa
*
Certi tremori Carla li sentiva ancora adesso
erano piccoli crolli in pieno giorno
su quelle strade battute di notte
(dieci, venti, trenta volte)
e prima dell’alba
divenute misura di un pensiero
domestico
*
La solitudine non le faceva più paura, da quando la vita le aveva fatto scempio in lungo e in largo. A Nina adesso faceva paura guardare in faccia il cielo e in quella smerigliata innocenza, socchiudere gli occhi e non saper pregare.
Da dove viene la tua poesia. Da tante cose. Non sempre i motivi che ci inducono a scrivere sono esaurientemente elencabili e chiaramente consapevoli. Potrei dire, per tentare di rispondere in qualche modo alla domanda, che il filo conduttore della mia scrittura nasce innanzitutto dall’incontro con la Lucania, cioè con quella “terra” del sud affascinante e magica e al tempo stessa terribile e arcaica, dove dalla Svizzera sono ritornata bambina all’età di circa sette anni.
Per chi scrivi, come immagini il tuo lettore? Non scrivo mai per un fine. Per me la scrittura è un modo di stare al mondo, un fatto mio (privato) innanzitutto; tutto ciò che ne consegue (condivisione, riconoscimento, identificazione) è un valore aggiunto, di cui ringraziare ed essere riconoscenti.
Come vivi, con te stessa e con gli altri, il tuo essere poeta? Oggi con (conquistata) serenità, da giovane con la lacerante consapevolezza interiore della marginalità e dell’esclusione.
Come hai iniziato? Ho iniziato alle soglie dell’adolescenza. Ricordo tra le prime composizioni una poesia giovanile sulla luna, dalla chiusa fortemente pessimistica. Fu il mio professore di filosofia a leggerla, ad apprezzarla, a consigliarmi la riflessione e il superamento dolente ed esistenziale che ne caratterizzava gli ultimi versi.
Come ti veniva insegnata a scuola la poesia, che ricordi hai? Non ho ricordi particolarmente nitidi legati alla scuola. La passione per la poesia è nata in territori altri; un’esperienza personale e intima, completamente anarchica direi.
A chi fai leggere per primo i tuoi versi. Quasi mai a nessuno.
Usi la penna o il computer? Scrivo rigorosamente a mano: biro nera e comunissimi fogli bianchi. Ho bisogno di intimità quando scrivo e al computer disperdo l’ispirazione.
Quando viene di getto o è frutto di lunghe elaborazioni. Non credo nell’estemporaneità della parola. La poesia è sempre frutto di un fermento e di una lunga riflessione interiore, seppure appaia di getto.
A parte le tue, quante poesie di altri pensi di ricordare a memoria? Pochissime, ma sicuramente più quelle degli altri che le mie. Mi sono rimaste particolarmente dentro alcune terzine dall’Inferno di Dante.
Un consiglio prezioso da passare agli altri. L’onestà della parola, nient’altro. Per il resto credo nel dialogo costruttivo e nella condivisione.
Un poeta su tutti. Non saprei. Da giovanissima avrei detto Withman e Lee Masters. Ho amato la poesia americana con la stessa ardente passione di Pavese e Campana. Poi, pian piano sono arrivati gli altri, la poesia europea ed italiana e infine i poeti del Sud. Non si può vivere qui, senza aver fatto i conti, prima o poi, con quelli che sono stati i nostri padri “spirituali” della terra.
Maria Pina Ciancio
(San Severino Lucano, 19 ottobre 2010)
Critica
Maria Pina Ciancio
“(Storie minime) Una raccolta breve, ma compatta, stilisticamente consapevole e calibrata, tutta racchiusa in un paesaggio remoto, tra il Sinni e il Pollino, dove la letteratura poche volte è sostata, e dove si compie così felicemente la poesia notturna e limpida e buona di Maria Pina Ciancio” – Andrea Di Consoli (da Il quotidiano di Basilicata, 8 giugno 2009)
*
“Maria Pina Ciancio ha scritto parole che sono rivendicazione di esistenza e di resistenza. Ma la sua poesia è, in primo luogo, passione. Dichiarazione d’amore alla sua terra, alla sua gente, agli incontri e agli addii accaduti durante il cammino. Sono lampi lirici dai toni struggenti” – Mimmo Sammartino (da La Gazzetta del Mezzogiorno, 9 luglio 2009)
*
“Poetessa passionale, ancorata alle sue radici, modellata e forgiata con le lacrime e il sangue della propria terra, la terra lucana, terra del Sud. Storie minime è una preziosa silloge di poesia sull’emigrazione (…) Maria Pina Ciancio racconta il suo mondo attraverso la scrittura, ne assimila le sofferenze , le gioie del quotidiano, si rende messaggera di un malessere atavico. Nei suoi scritti l’impegno, l’ideologia trovano equilibri sottili, si appellano alla coscienza, e la poesia diviene il punto di confluenza, il luogo nel quale abbattere i confini e offrire dimora agli stranieri di tutto il mondo” – Salvo Zappulla (da La Sicilia, 2 novembre 2009)
*
“Maria Pina Ciancio, al contrario di quelli che sono partiti, è nata in Svizzera ma è poi tornata nella terra d’origine, la Basilicata, dove oggi vive. Basilicata o Lucania? Già nella scelta del nome della regione, si coglie il tema di fondo del suo ultimo e intenso bel libro di poesie, dal titolo Storie minime (Fara editore), con il quale conferma il suo notevole talento letterario e la sua scrittura, libera dal versificare barocco e autoreferenziale. E il tema di fondo è lo «spaesamento»” – Michele Brancale (da Il Corriere fiorentino, 13 ottobre 2009)
*
“L’autrice, nata in Svizzera, di origini lucane e operante a San Severino, in provincia di Potenza, affronta un tema così complesso in maniera eccentrica nei confronti dei tradizionali canoni − realistici e neorealistici − che furono tipici, storicamente, della cosiddetta letteratura dell’emigrazione. Elementi realistici non mancano, ma circola accanto ad essi un che di trasognato, qua e là anche una fugace aura visionaria. L’asse è spostata dall’oggettivismo (quintessenziale nell’estetica realistica) alla dimensione della soggettività e l’andamento è più impressionistico che descrittivo” – Lucio Zinna (da Arenaria, ragguagli di letteratura – due, 2009)
*
“I suoi versi scorrono leggeri come haiku. Sono pennellate delicate e incisive a un tempo. E suggeriscono, evocano situazioni che, dalla contingenza spaziale o temporale, tramutano i dati oggettivi in veicoli di significazione esistenziale” – Luigi Reina, Università degli Studi di Salerno, 2002
*
“Questo, il nuovo itinerario di Maria Pina Ciancio (…). E vi si entra piano, come a voler chiedere di abitare coi versi, forse per timore di sgualcirne l’incanto o per il dubbio scontato di restarne incagliati. Ebbene, l’incanto arriva presto, ed è quello della parola, performativa, rituale, conativa, e pur sempre fortemente icastica. La poetessa lo sa e ci accompagna nel viaggio” – Pierino Gallo (da Il Fiacre, Quadrimestrale di Letteratura Italiana, Settembre 2009 – numero 6)
*
“… poesie asciutte e lisce come ciottoli di torrente; testi che, sotto l’occhio di chi legge, rimbalzano sulla superficie dell’anima, lasciando anelli concentrici di senso che si espandono dentro di noi come brividi. È questa la sensazione che si prova a leggere “La ragazza con la valigia”, la smilza ed essenziale raccolta di Maria Pina Ciancio, edita da Lietocolle nel 2008 e dalla quale sono tratte le poesia qui pubblicate. Si tratta di testi brevi, quasi privi di punteggiatura, senza orpelli e aggettivi, rugosi e duri come le mani delle contadine e delle vedove vestite di scuro, scabri come certi muri calcinati e pietrosi dei villaggi del Sud che fanno da cornice a questi versi.” – Luca Benassi (da Noi Donne, Mensile di Politica, Cultura, Attualità fondato nel 1944, dicembre 2009)
*
“… sono soprattutto poesie semplici. Semplicità intrinseca di pathos e di emozioni forti che difficilmente prova chi non vive intensamente i nostri paesi, come fa l’autrice” – Andrea Lauria (da La Piazza, mensile di informazione, cultura, sport, agosto-settembre 2009
*
“Mi è rimasto in corpo questo libro, piccolo, minuto, ma di una sostanza che si innesta direttamente con la terra di cui anch’io sono fatta, terra che nutre. Un libro di sonorità profonda, che, a mio parere, non si limita a calzare le pendenze d’Italia, il meridione che sta giù. Qui, il giù segnalato, con vastità di segni, tanti, una sabbia finissima che ancora non si solleva, si lascia calpestare, è amore,un amore che è mare e comprende l’umanità, tutta, nella sua interezza, nel corpo che continua, oggi, ad essere solcato, non solo graffiato, vilipeso, brutalizzato da segni che, al contrario, non sono affatto minimi”. – Fernanda Ferraresso, luglio 2009
*
“(La ragazza con la valigia) …un gioco di chiaroscuri e di sottintesi, eppure lucidissimo e anche “impegnato” come più non si può, da un punto di vista femminile ma soprattutto umano e ovviamente poetico. – Gina Labriola, 2 agosto 2008
*
“(La ragazza con la valigia) Si tratta di una poesia rarefatta e originale, cifra comune a tutte le composizioni del libro, poesie di solito brevi e scabre, ma, talvolta anche più lunghe e articolate architettonicamente (…). Il tema del viaggio è centrale in questa raccolta, come pure, si avverte, spesso, una vena di quotidianità, nei versi che l’autrice presenta al lettore e c’è da notare che Maria Pina Ciancio riesca a costruire segmenti leggeri e icastici, costruendo immagini che emergono l’una dall’altra, rendendo così piacevole e accattivante la fruizione. – Raffaele Piazza (da Vico Acitiello – Poetry Wave, 2010)
*
“Maria Pina Ciancio è voce solida, ben impostata, caratterizzata da un senso della liricità che ormai, purtroppo, è quasi al tramonto nella nostra epoca e pertanto difficile da trovarsi nella poesia attuale, giocata quasi tutta al gioco dei minimi termini, dell’elenco di cose. Consapevole di una forte tradizione letteraria e poetica, legata alle voci più alte del nostro Novecento, come Montale e Ungaretti, di cui si sente il vento che spira tra le righe nei versi della nostra poeta, veniamo catapultati in un versificare leggero, musicale, che evapora in una apparentemente inconsapevole nettezza di profondo senso ed elevato contenuto, dove si gioca il significato della nostra esistenza, nella quale capita spesso d’impuntarci, di essere colti da un crampo che ci fa restare nell’aporia, la quale può essere risolta soltanto ed esclusivamente dalla parola poetica che ben conosce la tempistica dell’esistenza” – Maurizio Soldini (LietoColle 2010)
*
“(…) Qui non ci sono stanze morbide e non c’è riposo: chi pratica l’«imperfezione» delle “storie minime” si muove. E chi legge, dai suoi abitacoli comodi o nevrotici, impara che è impossibile, davvero impossibile – e forse vergognoso – scrivere senza intensità: «la protesta ha bisogno di passione», e la passione, che protesta, ha anche il suo stile. Questo stile fa una cosa serena e forte: rinuncia a rinunciare ai campi, quindi si espone al dolore dell’oltre la Svizzera. – Massimo Sannelli (da Lettera sull’intensità, Genova, 7-19 marzo 2009)
*
La poesia di Maria Pina Ciancio è un assolo paradossale, che si trasforma in un dialogo forte, silenzioso e quieto: un dialogo che sempre cerca, e sempre chiede, un amoroso contatto con l’assenza, con l’eco del passato (e col riemergere dunque, magico e incomprensibile, di tutto ciò che è stato). Forse è questo, chissà, l’autentico sapere della poesia: riconoscere nella potenza della parola la capacità di dialogare con chi manca, riformulando i principi della vita e della morte, e condensandoli, infine, con l’aiuto di una grazia misteriosa. – Mario Fresa(da un contributo interno alla silloge ‘Assolo per mia madre’, L’Arca Felice 2015)
*
“E giunge la parte politica: la necessità storica di reagire allo spaesamento, di ricominciare a negare gli errori del presente, a desiderare di riprendersi la voce e l’urlo collettivo contro i poteri disgreganti, in un tempo di migrazioni ancora più sanguinanti. Ma per chi rompe la tradizione, per chi urla nel silenzio, ecco immediata la reazione dei benpensanti, dei narcotizzati, dei piccolo-borghesi affondatori: ‘ Per ogni parola contro/ ti lanciano un sasso/ e poi ti schiacciano all’angolo’. Emarginazione delle teste pensanti, misoneismo, ipocrisia, paura di perdita del potere di posizione e delle idee fatte, miseria psicologica che si somma alla miseria economico-sociale. La poesia ribadisce che ‘la vita è una guerra’ e con tale messaggio, positivo per la trasformazione, si dipana la poesia della Ciancio che dispiega, alla fine, il mito di R. Scotellaro narrato al proprio figlio, perché la rabbia e l’orgoglio si levino fino al cielo, impastati di polvere.” – Antonio Lotierzo, settembre 2015.
Carlotta Cicci-Raccolta di Poesie “Sul banco dei pesci”
–Prefazione di Alberto Brtoni- Editrice L’Arcolaio- Forlimpopoli
L’esordiente Carlotta Cicci ha posto tre versi visionari del gallese Kavanagh in apertura di questa raccolta – E Cristo viene/ come un fiore/ di gennaio – fondando così questa poesia sulla sua imprevedibilità, come quell’apparire inatteso di un fiore a gennaio.
La scrittura è fortemente metapoetica, continuamente attraversata dalla necessità di dar conto di sè, della sua germinazione, del suo esserci nel dolore, nell’amore, nell’abbandono e nell’oblio.
L’autrice è disorientata ma sensibilissima, sente la vita ma sa che la poesia la precede – inseguo vertigini/ come un uccello cieco/ che mangia il vuoto// sono preistoria.
Avvertiamo nei testi quasi un travaglio, la fatica che si ripete del vero parto della figlia, a cui Carlotta Cicci dedica la sua silloge – il sangue mi è sfuggito/ tutto è già accaduto/…/ mi lecco le ferite/ chiedo asilo.
L’io è inafferrabile, metamorfico, teso alla pietas ma anche in polemos, tra accettazioni totali e rifiuti radicali.
C’è un poeta spettatore (e io che rimango/ immobile a guardare) e un poeta speculatore (esistere a tratti/ prima del mondo/ prima del caos) ; ed ancora, un poeta del corpo – Voglio ballare/ finalmente sudare – e un poeta dell’anima – In attesa del sangue/ reclamo il fondo del lago/…/ la mia anima è svanita/ tra i seni/ nelle città mutilate/ nelle acque mescolate/ in frammenti di stoffe/ e vortici di silenzio.
Alberto Bertoni, nella prefazione, parla di “un libro generoso e multiforme” e spende il nome di Milo De Angelis per porre l’accento “sulla spinta comune all’inclusività e alla multanimità delle prospettive di rappresentazione”, nonostante la differenza di peso e di personalità tra i due poeti; parla di “scrittura istintivamente fenomenologica”, di “metrica flessuosa e flessibile, come un giunco”, di poeta che preferisce alla metafora “una liberissima associatività d’eco surrealista” – spunti molto interessanti, davvero rari per una poesia d’esordio.
* * *
.
Torna un qualunque mattino
batte il fegato del mondo
insopportabile
nessun presagio
sul palmo della mano
in un passaggio
di vortici e soglie
con l’anima capovolta
in un improvviso odore
di fieno e sale
nel delirio
lei nasce
il suo respiro
come una carezza
assoluta
un suono
piccolo
.
*
.
Nei silenzi vicinissimi
ho la bocca macchiata di reato
rigo muri col pollice
scortico tavoli e sedie
mi sposto di continuo
tocco fondi
riemergo
sola sono tutta mia
.
*
.
Le voci registrate
il suono delle campane
la domenica nei labirinti in fiore
in quei giardini spalancati
tiravo su le pieghe dei vestiti
correvo sulle punte
allontanandomi dal tuo grido
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* * *
Carlotta Cicci
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Breve biografia di Carlotta Cicci videomaker, illustratrice, fotografa, nata a Roma nel 1984, vive a Bologna. Ha curato e realizzato numerosi progetti video e documentari (www.disforme.net). Sul banco dei pesci è la sua opera prima in poesia.
Nota di Antonio Fiori
L’esordiente Carlotta Cicci ha posto tre versi visionari del gallese Kavanagh in apertura di questa raccolta – E Cristo viene/ come un fiore/ di gennaio – fondando così questa poesia sulla sua imprevedibilità, come quell’apparire inatteso di un fiore a gennaio.
La scrittura è fortemente metapoetica, continuamente attraversata dalla necessità di dar conto di sè, della sua germinazione, del suo esserci nel dolore, nell’amore, nell’abbandono e nell’oblio.
L’autrice è disorientata ma sensibilissima, sente la vita ma sa che la poesia la precede – inseguo vertigini/ come un uccello cieco/ che mangia il vuoto// sono preistoria.
Avvertiamo nei testi quasi un travaglio, la fatica che si ripete del vero parto della figlia, a cui Carlotta Cicci dedica la sua silloge – il sangue mi è sfuggito/ tutto è già accaduto/…/ mi lecco le ferite/ chiedo asilo.
L’io è inafferrabile, metamorfico, teso alla pietas ma anche in polemos, tra accettazioni totali e rifiuti radicali.
C’è un poeta spettatore (e io che rimango/ immobile a guardare) e un poeta speculatore (esistere a tratti/ prima del mondo/ prima del caos) ; ed ancora, un poeta del corpo – Voglio ballare/ finalmente sudare – e un poeta dell’anima – In attesa del sangue/ reclamo il fondo del lago/…/ la mia anima è svanita/ tra i seni/ nelle città mutilate/ nelle acque mescolate/ in frammenti di stoffe/ e vortici di silenzio.
Alberto Bertoni, nella prefazione, parla di “un libro generoso e multiforme” e spende il nome di Milo De Angelis per porre l’accento “sulla spinta comune all’inclusività e alla multanimità delle prospettive di rappresentazione”, nonostante la differenza di peso e di personalità tra i due poeti; parla di “scrittura istintivamente fenomenologica”, di “metrica flessuosa e flessibile, come un giunco”, di poeta che preferisce alla metafora “una liberissima associatività d’eco surrealista” – spunti molto interessanti, davvero rari per una poesia d’esordio.
-Editrice L’Arcolaio-
Forlimpopoli
Via Ubaldo Gardelli 15, Forlimpopoli, Italy, 47034
Breve biografia di Francesco Scarabicchi è nato nel 1951 ad Ancona, dove è scomparso nel 2021. Ha pubblicato le raccolte di poesia: La porta murata (prefazione di Franco Scataglini, Residenza, 1982), Il viale d’inverno (l’Obliquo, 1989), Il prato bianco (l’Obliquo, 1997), Il cancello 1980-1999 (peQuod, 2001), L’esperienza della neve (Donzelli, 2003), Il segreto (l’Obliquo, 2007), Frammenti dei dodici mesi (con foto di Giorgio Cutini, l’Obliquo, 2010), L’ora felice (Donzelli, 2010), Nevicata (con acqueforti di Nicola Montanari, Liberilibri, 2013), Con ogni mio saper e diligentia – Stanze per Lorenzo Lotto (Liberilibri, 2013), Il prato bianco (Einaudi, 2017) e traduzioni da Machado e García Lorca: Non domandarmi nulla (Marcos y Marcos, 2015).
Biglietto di settembre Questa pioggia che senti
giovane lungo i muri
picchia, se fai silenzio,
ai nostri vetri,
bagna inferriate e foglie,
crolla dalle grondaie,
allaga il buio,
cancella ponti e polvere
e scompare.
Prologo Sanguina a me di fianco l’ora bianca,
ospita un altro inverno, non capisce
come ancora si ostini, in tanta neve,
a rassegnarsi al mondo, al suo crudele
volgere in niente il niente, dileguando
oltre il vuoto dei giorni, in un addio
di bisbigli caduti nella luce.
2 Della perduta vita non so niente,
ché sempre se ne va per chissà dove,
resa o voltata a un angolo del giorno,
mesi che può la notte cancellare
sulla soglia gelata del mattino.
Non c’è altro che adesso e adesso ancora:
se appena lo pronunci si dissolve
in un adesso che non è più niente.
Siamo quest’oggi chiaro che si spegne,
luce che lascia gli occhi con dolcezza,
uomini che di spalle vanno piano,
seguito della storia, sogno, nube,
ombre che di ogni età fanno silenzio,
onde che si cancellano nel mare.
Luci distanti Il muschio è quell’odore che non muta
la sua antica infantile identità,
come se fosse sempre ovunque Ortona,
nel silenzio notturno che qui scende,
camera d’un albergo di provincia,
luci distanti che dai vetri vedo,
se appena un po’ m’accosto dopo cena.
Cadrà sempre la neve in ogni tempo,
sarà bianca com’era, fresca e intatta,
nasceranno bambini dai suoi fiocchi
come piccoli uomini che vanno
al paese incantato inesistente
che ciascuno conosce, se rammenta
l’albero dai bei doni illuminato.
Questa luce che tocca Questa luce che tocca
ottobre e il mondo
calma scomparirà
da sé in silenzio
nella sera del tempo
e questa nebbia
bianca sulla città
lascerà intatto
tutto il vuoto dell’epoca,
il ritratto di ogni cosa che, ferma,
a voce spenta,
niente saprà di noi
come l’odore
della notte di vento
e pioggia dura
che sui nomi e le case
cade invano.
*
Una lampada
Nelle giornate limpide
non vedi
i vetri delle case
dietro ai quali
brilla ancora
una lampada.
*
L’ombra degli oleandri
Dai vetri di un albergo,
verso sera,
torna soltanto adesso
-superstite d’allora-
l’ombra degli oleandri.
*
Nel fondo
Il poco più di notte
che si attarda
sul manto delle more
non tradisce
quel che di te non dici,
gli anni muti
scivolati nel fondo,
in lontananza.
*
Ci vorrà
Ci vorrà
tutto il tempo necessario
prima che possa anch’io
fare a meno di me
senza voltarmi,
andando,
per lasciare.
*
L’orma leggera
Chi, come te, cortese,
mi sovviene
lascia l’orma leggera
e si allontana,
come fanno le nuvole,
tacendo.
*
Dove cade la pioggia
Dove cade la pioggia,
c’è la luce di ottobre
che finisce.
*
Sesto preludio
Come discreta e intatta
alla quiete d’un mese
a sé m’attrasse
l’ora del pomeriggio
di pietre e vie infinite
e un vento d’aria
a sponda d’ancoraggio
dove il vento finisce,
nell’eterna stagione
d’alba ferma,
immobile sui rami
e sulle cose.
Francesco Scarabicchi
*
Settimo preludio
Tu sola sei venuta
a quel suo stanco
passo di notte bianco,
a quell’estrema luce
d’altra sponda
di chi piano allontana
sé dal nome
e anche se chiamato
non risponde.
*
Sui gradini del mondo
(Un’epigrafe)
Guarda la notte
che non si dirada
sui gradini del mondo,
tu che siedi
dove più forte è il vento
di ogni strada:
questo il presente
della storia, il lutto
reso ai dove del niente,
la contrada
dei passi che si perdono,
il delitto
nel silenzio dei nomi
quando avara
è la virtù del sogno
che condanna
gli uomini al loro nulla,
a una memoria
di volti senza voce,
a un’ombra bianca;
altro non chiedi,
nella luce che tocca
la morte che non vedi
e che ti affianca,
se la pietà, nel freddo,
non ti parla,
se vivere è soltanto
quel che devi.
Francesco Scarabicchi
Partita
2 Essere d’ogni tempo
alla sua soglia,
luce a marzo, d’inverno,
nel cammino
che cancella il pudore
delle impronte.
Non somigliarmi,
non avere, con me, niente in comune,
lascia che sia, ogni volta,
l’imprecisa dolcezza di un saluto
a condurre i tuoi passi
e quel tremore trepido che guarda
il niente per cui è dato consegnarsi.
*
Porto in salvo dal freddo le parole,
curo l’ombra dell’erba, la coltivo
alla luce notturna delle aiuole,
custodisco la casa dove vivo,
dico piano il tuo nome, lo conservo
per l’inverno che viene, come un lume.
*
Così dunque si muore
tra bisbigli
che non sai afferrare.
*
E dopo?
Dopo semplicemente,
la vana solitudine del sogno.
*
Viene
l’aria dell’anno
dal giardino:
cosa avrà in serbo
il giovane gennaio
col suo gelo?
Francesco Scarabicchi
Breve biografia di Francesco Scarabicchi è nato nel 1951 ad Ancona, dove è scomparso nel 2021. Ha pubblicato le raccolte di poesia: La porta murata (prefazione di Franco Scataglini, Residenza, 1982), Il viale d’inverno (l’Obliquo, 1989), Il prato bianco (l’Obliquo, 1997), Il cancello 1980-1999 (peQuod, 2001), L’esperienza della neve (Donzelli, 2003), Il segreto (l’Obliquo, 2007), Frammenti dei dodici mesi (con foto di Giorgio Cutini, l’Obliquo, 2010), L’ora felice (Donzelli, 2010), Nevicata (con acqueforti di Nicola Montanari, Liberilibri, 2013), Con ogni mio saper e diligentia – Stanze per Lorenzo Lotto (Liberilibri, 2013), Il prato bianco (Einaudi, 2017) e traduzioni da Machado e García Lorca: Non domandarmi nulla (Marcos y Marcos, 2015).
Fonte Poesie-Il sito www.italian-poetry.org funziona correntemente dal 2000. Era nato l’anno precedente, dopo una serie di incontri e di confronti con la Poetry Society americana, ai cui criteri di severa selezione si ispira, antologizzando la poesia italiana moderna e contemporanea dagli inizi del Novecento fino ai giorni nostri, a partire dai poeti nati nei primi anni del XX secolo e attivi nei decenni successivi.
Il comitato fondatore, con i rappresentanti del circuito internazionale della poesia, era composto da Alberto Bevilacqua, Tobias Burghardt, Ernesto Calzavara, Casimiro De Brito, Luciano Erba, Alfredo Giuliani, Giuliano Gramigna, Mario Luzi, Elio Pagliarani, Umberto Piersanti, Giovanni Raboni, Paolo Ruffilli, Edoardo Sanguineti, Mark Strand.
Il sito ha totalizzato più di 14 milioni di visualizzazioni nei primi quindici anni di vita ed è indicizzato quale primo risultato di Google per “poesia italiana”.
Il nuovo logo del sito, introdotto nel 2014, all’insegna di Montale, Quasimodo e Ungaretti, rimanda simbolicamente alla grande avventura della poesia italiana contemporanea dal principio del Novecento fino ad oggi.
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