Federico Preziosi,vive in Ungheria e insegna lingua e cultura italiana a Budapest. È fondatore del gruppo di poesia su Facebook “Poienauti”, moderatore di “Poeti Italiani del ‘900 e contemporanei” e portavoce della comunità poetica Versipelle. Collabora con exlibris20 alla sezione poesia e si occupa della divulgazione di opere poetiche nella trasmissione web “La parola da casa” con Giuseppe Cerbino. Autore di Variazione Madre, edito da Controluna – Lepisma floema, i suoi versi sono stati pubblicati su antologie, riviste online e quotidiani locali e nazionali.
Non è detto che la primavera
Della sera battuta dal sangue
sono astante in attesa di un ricovero.
A chiare lettere il caso afflitto
affila il metro e sposta fino a fondere
con l’ultimo tocco
i confini smagriti dell’assenza.
La zona rossa era pandemia
già molto tempo prima nel mio corpo,
la zona rossa era della foglia
l’impeto, la riscossa
prima del cedere il passo all’inverno
e non è detto che la primavera
concederà una tregua.
*
Nel silenzio
Perché mi attardo se non ho un nome
se nella sera qualcuno chiama
vorrei vestire il suono ed esibire un senso
ma ad alta voce la lettura tace
così come taccio io e la stagione me.
*
Inarcatura
Adesso dormi tra le braccia d’ombra
dove il selciato vale
il contrappasso tra ritorno e approdo:
avevi un rogo in gola e non chiedevi
di mordere e fuggire.
Adesso che la fonte è più tranquilla
la riflessione chiara
interroga quel vuoto che tu chiami
nome mio.
Un’adunanza cremisi sulla cornea
si inarca ai riflessi vestali
e corre lungo il volto
strozzandosi in un sorso.
disegno di Pablo Picasso- Nuova Rivista Letteraria-
FEDERICO GARCIA LORCA
Fedrico García Lorca nacque a Fuente Vaqueros, nella provincia di Granada (in Andalusia) il 5 giugno del 1898, figlio di Federico García Rodríguez, un ricco possidente terriero, e di Vicenta Lorca Romero (1870–1959), un’insegnante, seconda moglie del padre[3], dalla fragile e cagionevole salute, al punto che ad allattare il figlio non sarà lei stessa, ma una balia, moglie del capataz[4] del padre, e che tuttavia eserciterà una profonda influenza nella formazione artistica del figlio: lascia infatti presto l’insegnamento per dedicarsi all’educazione del piccolo Federico, al quale trasmette la sua passione per il pianoforte e la musica:
García Lorca nacque a Fuente Vaqueros, nella provincia di Granada (in Andalusia) il 5 giugno del 1898, figlio di Federico García Rodríguez, un ricco possidente terriero, e di Vicenta Lorca Romero (1870–1959), un’insegnante, seconda moglie del padre[3], dalla fragile e cagionevole salute, al punto che ad allattare il figlio non sarà lei stessa, ma una balia, moglie del capataz[4] del padre, e che tuttavia eserciterà una profonda influenza nella formazione artistica del figlio: lascia infatti presto l’insegnamento per dedicarsi all’educazione del piccolo Federico, al quale trasmette la sua passione per il pianoforte e la musica:[3]
«Canticchiava le canzoni popolari ancor prima di saper parlare e si entusiasmava sentendo suonare una chitarra»
La madre gli trasmetterà altresì quella coscienza profonda della realtà degli indigenti e quel rispetto per il loro dolore che García Lorca riverserà all’interno della propria opera letteraria.
Federico trascorre un’infanzia intellettualmente felice ma fisicamente afflitta da malattie[3] nell’ambiente sereno e agreste della casa patriarcale di Fuente Vaqueros fino al 1909, quando la famiglia, che nel frattempo si era accresciuta di altri tre figli – Francisco, Conchita e Isabel (un quarto, Luis, morì all’età di soli due anni per polmonite) – si trasferisce a Granada.
Gli studi e le conoscenze a Granada
A Granada frequenta il “Colegio del Sagrado Corazón”, che era diretto da un cugino di sua madre, e nel 1914 si iscrive all’Università, frequentando dapprima la facoltà di giurisprudenza (non già per personale aspirazione, ma per seguire i desiderî paterni[3]) per poi passare a quella di lettere.[5] Conosce i quartieri gitani della città, che entreranno a far parte della sua poesia, come dimostra il suo Romancero del 1928.
Incontra per la prima volta in questo periodo il letterato Melchor Fernández Almagro e il giurista Fernando de los Ríos, futuro Ministro de Instrucción Pública durante il periodo denominato Seconda Repubblica Spagnola: entrambi (e in special modo il secondo[5]) aiuteranno in modo concreto la carriera del giovane Federico. Inizia nel frattempo lo studio del pianoforte sotto la guida del maestro Antonio Segura Mesa e diventa un abile esecutore del repertorio classico e di quello del folclore andaluso.[5] Con il musicista granadino Manuel de Falla, con cui stringe un’intensa amicizia, collabora all’organizzazione della prima Fiesta del Cante jondo (13 – 14 giugno 1922).[2]
Gli interessi che segnano il periodo formativo spirituale del poeta sono la letteratura, la musica e l’arte che apprende dal professor Martín Domínguez Berrueta che sarà suo compagno nel viaggio di studio in Castiglia, dal quale nascerà la raccolta in prosa Impresiones y paisajes (Impressioni e paesaggi)
L’ingresso alla Residencia de Estudiantes
Nel 1919 il poeta si trasferisce a Madrid per proseguire gli studi universitari e, grazie all’interessamento di Fernando de los Ríos, ottiene l’ingresso nella prestigiosa Residencia de Estudiantes, confidenzialmente chiamata dai suoi ospiti “la resi”, che era considerata il luogo della nuova cultura e delle giovani promesse del ’27.
Nella Residencia García Lorca rimane nove anni (fino al 1928),[5] tranne i soggiorni estivi alla Huerta de San Vicente, la casa di campagna, e alcuni viaggi a Barcellona e a Cadaqués ospite del pittoreSalvador Dalí, a cui lo lega un rapporto di stima e amicizia[6] che coinvolgerà presto anche la sfera sentimentale.
Le prime pubblicazioni
È di questo periodo (1919-1920) la pubblicazione del Libro de poemas, la preparazione delle raccolte Canciones e Poema del Cante jondo (Poema del Canto profondo), al quale fa seguito il drammateatraleEl maleficio de la maríposa (Il maleficio della farfalla, che fu un fallimento: fu rappresentata una sola volta, e in seguito allo scarso successo García Lorca decise di non farla pubblicare[3]) nel 1920 e nel 1927 il dramma storicoMariana Pineda[5] per il quale Salvador Dalí disegna la scenografia.
Seguiranno le prose d’impronta surrealistaSanta Lucía y san Lázaro, Nadadora sumeringa (La nuotatrice sommersa) e Suicidio en Alejandría, gli atti teatraliEl paseo de Buster Keaton (La passeggiata di Buster Keaton) e La doncella, el marinero y el estudiante (La ragazza, il marinaio e lo studente), oltre le raccolte poetiche Primer romancero gitano, Oda a Salvador Dalí e un gran numero di articoli, composizioni, pubblicazioni varie, senza contare le letture in casa di amici, le conferenze e la preparazione della rivista granadina “Gallo” e la mostra di disegni a Barcellona.[7]
Il conflitto interiore e la depressione
Le lettere inviate in questo periodo da Lorca agli amici più intimi, confermano che l’attività febbrile improntata ai contatti e alle relazioni sociali che il poeta in quel momento vive nasconde in realtà una intima sofferenza e ricorrenti pensieri di morte, malessere su cui molto incide il non poter vivere serenamente la propria omosessualità.[8] Al critico catalanoSebastià Gasch, in una lettera datata 1928, confessa la sua dolorosa condizione interiore:
(ES)
«Estoy atravesando una gran crisis «sentimental» (así es) de la que espero salir curado»
(IT)
«Sto attraversando una grave crisi «sentimentale» (è così) dalla quale spero di uscire curato.»
Il conflitto con la cerchia intima di parenti e amici raggiunge il suo apice allorché i due surrealisti Dalí e Buñuel collaborano alla realizzazione del film Un chien andalou, che García Lorca legge come un attacco nei suoi confronti.[9] Allo stesso tempo, la sua passione, acuta ma ricambiata per lo scultore Emilio Aladrén, giunge a una svolta di grande dolore per García Lorca nel momento in cui Aladrén inizia la propria relazione con la donna che ne diverrà moglie.[1][9]
La borsa di studio e il soggiorno a New York
Fernando de los Ríos, il suo amico protettore, venuto a conoscenza dello stato conflittuale del giovane García Lorca gli concede una borsa di studio e nella primavera del 1929 il poeta lascia la Spagna e si reca negli Stati Uniti.[9]
L’esperienza statunitense, che dura fino alla primavera del 1930, sarà fondamentale per il poeta,[7] e darà come risultato una delle produzioni lorchiane più riuscite, Poeta en Nueva York, incentrata su quanto García Lorca osserva con il suo sguardo partecipe e attento: una società di troppo accesi contrasti tra poveri e ricchi, emarginati e classi dominanti, connotata da razzismo. Si rafforza in García Lorca il convincimento della necessità di un Mondo nettamente più equo, non discriminatorio.[9]
Il periodo trascorso a Cuba è un periodo felice. Il poeta stringe nuove amicizie tra gli scrittori locali, tiene conferenze, recita poesie, partecipa a feste e collabora alle riviste letterarie dell’isola, “Musicalia” e “Revista de Avance”, sulla quale pubblica la prosa surrealistica Degollacíon del Bautista (Decapitazione del Battista).[10]
Sempre a Cuba inizia a scrivere i drammiteatraliEl público e Así que pasen cinco años (Finché trascorreranno cinque anni) e l’interesse maturato per i motivi e i ritmi afrocubani lo aiuteranno a comporre la famosa liricaSon de negros en Cuba che risulta essere un canto d’amore per l’anima nera d’America.
Il rientro in Spagna
Nel luglio del 1930 il poeta rientra in Spagna che, dopo la caduta della dittatura di Primo de Rivera, sta vivendo una fase di intensa vita democratica e culturale.
La realizzazione del teatro ambulante
Nel 1931, con l’aiuto di Fernando de los Ríos, che nel frattempo è diventato Ministro della Pubblica istruzione, García Lorca, con attori e interpreti selezionati dall’Istituto Escuela di Madrid con il suo progetto di Museo Pedagocico, realizza il progetto di un teatro popolare ambulante, chiamato La Barraca che, girando per i villaggi, rappresenta il repertorio classico spagnolo.[11]
Conosce in questi anni Rafael Rodríguez Rapún, segretario de La Barraca e studente d’ingegneria a Madrid, che sarà l’amore profondo[12] dei suoi drammi e delle sue poesie e al quale dedicherà, benché non esplicitamente, i Sonetti dell’amor oscuro, pubblicati postumi.[1]
García Lorca, che è l’ideatore, il regista e l’animatore della piccola troupe teatrale, vestito con una semplice tuta azzurra a significare ogni rifiuto di divismo, porta in giro negli ambienti rurali e universitari il suo teatro che riscuote grande successo e che svolge senza interruzione la sua attività fino all’aprile del 1936,[7] a pochi mesi dallo scoppio della guerra civile.
L’attività teatrale non impedisce a García Lorca di continuare a scrivere e compiere diversi viaggi con gli amici madrileni, nella vecchia Castiglia, nei Paesi Baschi e in Galizia.
Alla morte dell’amico banderillero e toreroIgnacio Sánchez Mejías avvenuta il 13 agosto del 1934 (dopo che era stato ferito da un toro due giorni prima), il poeta dedica il famoso Llanto (Compianto) e negli anni successivi pubblica Seis poemas galegos (Sei poesie galiziane), progetta la raccolta poetica del Diván del Tamarit e porta a conclusione il dramma Donna Rosita nubile o il linguaggio dei fiori.[13]
All’inizio del 1936 pubblica Bodas de sangre (Nozze di sangue); il 19 giugno porta a termine La casa de Bernarda Alba dopo aver contribuito, nel febbraio dello stesso anno, insieme a Rafael Alberti e a Bergamín, a fondare l'”Associazione degli intellettuali antifascisti“.
Lo scoppio della guerra civile
Stanno intanto precipitando gli eventi politici. Tuttavia, García Lorca rifiuta la possibilità di asilo offertagli da Colombia e Messico, i cui ambasciatori prevedono il rischio che il poeta possa esser vittima di un attentato a causa del suo ruolo di funzionario della Repubblica. Dopo aver respinto le offerte, il 13 luglio decide di tornare a Granada, nella casa della Huerta de San Vicente, per trascorrervi l’estate e tornare a trovare il padre.[2]
Rilascia un’ultima intervista, al “Sol” di Madrid, in cui c’è una eco delle motivazioni che l’avevano spinto a rifiutare quelle offerte di vita fuori dalla Spagna appena menzionate, ed in cui tuttavia García Lorca chiarisce e ribadisce la propria avversione verso le posizioni di estremismo nazionalistico, tipiche di quella destra che prenderà da lì a poco il potere, instaurando la dittatura:
“Io sono uno Spagnolo integrale e mi sarebbe impossibile vivere fuori dai miei limiti geografici; però odio chi è Spagnolo per essere Spagnolo e nient’altro, io sono fratello di tutti e trovo esecrando l’uomo che si sacrifica per una idea nazionalista, astratta, per il solo fatto di amare la propria Patria con la benda sugli occhi. Il Cinese buono lo sento più prossimo dello spagnolo malvagio. Canto la Spagna e la sento fino al midollo, ma prima viene che sono uomo del Mondo e fratello di tutti. Per questo non credo alla frontiera politica.”
Pochi giorni dopo esplode in Marocco la ribellione franchista, che in breve tempo colpisce la città andalusa e instaura un clima di feroce repressione.
Numerosi si levano gli interventi a suo favore, soprattutto da parte dei fratelli Rosales e del maestro de Falla;[14] ma nonostante la promessa fatta allo stesso Luis Rosales che García Lorca sarebbe stato rimesso in libertà “se non ci sono denunce contro di lui”, il governatoreJosé Valdés Guzmán, con l’appoggio del generale Gonzalo Queipo de Llano, dà ordine, segretamente, di procedere all’esecuzione: a notte fonda, Federico García Lorca è condotto a Víznar, presso Granada, e all’alba del 19 agosto 1936 viene fucilato sulla strada vicino alla Fuente grande, lungo il cammino che va da Víznar ad Alfacar.[9] Il suo corpo non venne mai ritrovato.[9] La sua uccisione provoca riprovazione mondiale: molti intellettuali esprimeranno parole di sdegno, tra le quali spiccano quelle dell’amico Pablo Neruda.
Un documento della polizia franchista del 9 luglio 1965, ritrovato nel 2015, indicava le ragioni dell’esecuzione: “massone appartenente alla loggia Alhambra”[15], “praticava l’omosessualità e altre aberrazioni”.[16][17][18]
Il mancato ritrovamento del corpo di Lorca, tuttavia, accende un’intensa controversia circa i dettagli di questa esecuzione. Controversia ancora adesso tutt’altro che risolta.
Nel 2009 a Fuentegrande de Alfacar (Granada), tecnici incaricati dalle autorità andaluse di condurre uno studio specifico per l’individuazione della fossa comune, dove si suppone sia stato gettato il corpo, accertarono con l’impiego del georadar l’esistenza effettiva di una fossa comune con tre separazioni interne, dove riposerebbero sei corpi.
Il 29 ottobre 2009, sotto la spinta del governo andaluso, sul sito individuato, iniziarono i lavori di scavo con l’obiettivo di individuare gli eventuali resti del poeta; questi avrebbero dovuto interessare un’area di circa 200 metri quadrati per una durata di circa due mesi.
Assieme ai resti di García Lorca era atteso il rinvenimento di quelli di almeno altre tre persone: i banderilleros anarchici Joaquín Arcollas e Francisco Galadí e il maestro repubblicano Dioscoro Galindo. Secondo le autorità della regione autonoma dell’Andalusia, sarebbero stati sepolti nella stessa zona e forse nella stessa fossa comune anche l’ispettore fiscale Fermín Roldán e il restauratore di mobili Manuel Cobo.[19] Nel 2011 però il governo dell’Andalusia ha interrotto le ricerche per mancanza di fondi. Infine, il 19 settembre 2012, il Tribunale di Granada ha archiviato la richiesta di esumazione, interrompendo con ciò ogni attività di ricerca.[20]
García Lorca sotto la dittatura franchista
La dittatura di Franco, instauratasi, impone il bando sulle sue opere, bando in parte rotto nel 1953, quando un Obras completas – pesantemente censurata – viene fatto pubblicare. Quell’edizione tra l’altro non include i suoi ultimi Sonetos del amor oscuro, scritti nel novembre del 1935 e recitati unicamente per gli amici intimi. Quei sonetti, di tema omosessuale, saranno addirittura pubblicati solo a partire dall’anno 1983.
Con la morte di Franco nel 1975, García Lorca ha potuto tornare finalmente e giustamente ad essere quell’esponente importantissimo della vita culturale e politica del proprio Paese.
Nel 1986, la traduzione in lingua inglese fatta dal cantante e autore Leonard Cohen della poesia di García Lorca “Pequeño vals vienés”, e musicata dallo stesso Cohen, raggiunge il primo posto all’interno della classifica dei dischi più venduti in Spagna.
Oggi, la memoria di García Lorca viene solennemente onorata da una statua in Plaza de Santa Ana, a Madrid, opera dello scultore Julio López Hernández.
L’opera poetica
Pur esistendo importanti edizioni dell’opera completa di Lorca non si ha ancora un testo definitivo che metta fine ai dubbi e agli interrogativi nati intorno ai libri annunciati e mai pubblicati e non si è ancora risolta la questione della genesi di alcune raccolte importanti.
Si può comunque dire che la produzione che conosciamo, insieme ai materiali inediti recentemente trovati, è sufficiente ad offrirci una chiara testimonianza della corrispondenza dell’uomo con la sua poesia.
In un primo tempo Lorca manifesta il suo talento come espressione orale seguendo lo stile della tradizione giullaresca. Il poeta infatti recita, legge, interpreta i suoi versi e le sue pièce teatrali davanti agli amici e agli studenti dell’università prima ancora che siano raccolte e stampate.
Ma García Lorca, pur essendo un artista geniale ed esuberante, mantiene verso la sua attività creativa un atteggiamento severo chiedendo ad essa due condizioni essenziali: amor y disciplina.
Il periodo andaluso
Impresiones y paisajes
Nella raccolta di prose Impresiones y paisajes che esce nel 1918 dopo il viaggio in Castiglia e Andalusia, García Lorca afferma le sue grandi doti d’intuizione e di fantasia. La raccolta è densa di impressioni liriche, di note musicali, annotazioni critiche e realistiche intorno alla vita, la religione, l’arte e la poesia.
Libro de poemas
Nel Libro de poemas, composto dal 1918 al 1920, Lorca documenta il suo grande amore per il canto e la vita. Dialoga con il paesaggio e con gli animali con il tono modernista di un Rubén Darío o un Juan Ramón Jiménez facendo affiorare le sue inquietudini sotto forma di nostalgia, di abbandoni, di angosce e di protesta ponendosi domande di natura esistenziale:
Che cosa racchiudo in me
in questi momenti di tristezza?
Ahi, chi taglia i miei boschi
dorati e fioriti!
Che cosa leggo nello specchio
d’argento commosso
che l’aurora mi offre
sull’acqua del fiume?.
In questi versi sembra di sentire il sottofondo musicale che, modulando la pena del cuore, riflette la situazione d’incertezza vissuta e il suo distacco dalla fase dell’adolescenza.
Un momento di grande rilevanza per la vita artistica di Federico Garcia Lorca è l’incontro con il compositore Manuel de Falla avvenuto nel 1920. Grazie alla sua figura Lorca si avvicina al Cante jondo, che mescolandosi con la sua poesia dà origine alle raccolte delle Canciones Españiolas Antiguas, armonizzate al pianoforte proprio dallo stesso Lorca.
Il periodo che va dal 1921 al 1924 rappresenta un momento molto creativo e di grande entusiasmo anche se molte delle opere prodotte vedranno la luce solo anni dopo.
Poema del Cante jondo
Il Poema del Cante jondo, scritto tra il 1921 e il 1922 uscirà solamente dieci anni dopo. Presenta tutti i motivi del mondo andaluso ritmati sulle modalità musicali del cante jondo a cui il poeta aveva lavorato con il maestro de Falla in occasione della celebrazione della prima Fiesta del Cante jondo al quale Lorca aveva dedicato, nel 1922, la conferenza Importancia histórica y artística del primitivo canto andaluz llamado “cante jondo”.
Il libro vuole essere un’interpretazione poetica dei significati legati a questo cantoprimitivo che esplode nella ripetizione ossessiva di suoni e di ritmi popolari, come nelle canzoni della siguiriya, la soleá, la petenera, la toná, la liviana, accompagnate dal suono della chitarra:
Sebastiana Savoca nata a Messina, 1993-vive a Vicenza, dove ha curato la rassegna di poesia Poeti al porto. Incontri con poeti contemporanei(2019 e 2020). Laureata magistralmente in Linguistica all’Università degli Studi di Padova con la tesi dal titolo Il rapporto tra metro e sintassi nelle poesie di Enrico Testa. Uno studio secondo la linguistica teorica contemporanea, attualmente frequenta il Master in Didattica dell’Italiano come Lingua Seconda all’Università degli Studi di Verona. Nel 2015 ha conseguito la laurea in Lettere moderne all’Università degli Studi di Padova con la tesi
Sebastiana Savoca
Della felicità è ombra la tristezza:
un’inezia del mondo questo lato
sordo che si trascina ai nostri piedi.
Non vedi? Riflettiamo, nello stesso
punto, lo stesso colore. Perché,
forse, specchiandoci dentro l’intonaco
del muro, scopriremo,
insieme, d’essere ancora uno solo.
Come la pioggia
– che cade su terra –,
perforare leggeri la distanza
di una vita (nell’aria poi discendere
veloci ma sospesi, trasparenti)
per avvedersi, con lo sguardo teso
verso l’alto, cadendo verso il basso,
insieme a mille gocce uguali a sé,
che nell’arco di giorni in cui si vive
il cielo ha le dimensioni di un’iride.
Prendersi così gioco della morte
lasciare aperte le porte, corrompere
lo spazio il tempo il peso
il sottinteso di ogni inizio – un vizio.
È ritrosia alla vita la mia
– oppure piena adesione, considero.
M’attardo a correre
con le solite scuse lapidarie,
quasi come potessi sapere – lo intravedo
a volte – dove si trova il mio corpo.
Sebastiana Savoca, “Senza grammatica”, annotazioni di poetica
L’aggettivo indicibile e i termini contraddizione, menzogna e simili – si pensi alla relazione fallace che lega parole e cose – risiedono da tempo nell’area semantica occupata dalla lingua e più in generale dal linguaggio. Il discrimine tra la nominazione e l’oggetto rileva la naturale insufficienza dei lemmi dinanzi a una realtà nella quale i soggetti vivono ma non (ri)conoscono. E allora sorge spontaneo chiedersi quale possa essere il motus corporis della poesia, quale sia l’obiettivo di un’arte che si concretizza attraverso il linguaggio e pertanto porta in sé il germe del fallimento. A ben vedere, come la parola vive di speranza prima d’essere enunciata – e scoprirsi così altro da ciò che avrebbe voluto indicare –, allo stesso modo l’essere umano, conscio della venuta della sua morte, vive di speranza prima della sua fine. Ecco dunque che, parimenti alla relazione che lega i cristiani a Dio, la poesia si fa atto di fede e chi la frequenta crede nella sua trascendenza. La sensazione di chi scrive e chi legge testi lirici è che ci sia qualcosa che vada oltre la forma e il contenuto, oltre lo scibile; qualcosa in cui riporre la propria fiducia.
Per questo motivo i componimenti sono luoghi di attesa, di silenzi, di spazi bianchi; tra gli interstizi del corpo del testo ci si aspetta forse di ravvisare una profondità lacustre in cui sorprendere le fattezze del mondo che abitiamo. Attendiamo l’inatteso, un’increspatura del nostro sentire. Si tratta, in definitiva, di un’epifania, l’istante che sancisce un ribaltamento del nostro punto di vista e quindi della nostra verità, di noi stessi. Così è possibile affermare che una poesia è tale quando riesce a commuovere – nel significato latino del termine –, quando riesce cioè a mettere in movimento, a creare turbamento, a emozionare.
Se le poesie hanno una loro forma, una struttura attraverso la quale si manifestano, è pur vero che è nel cortocircuito che smuovono gli animi: in una sequenza calcolata di ritmi e di immagini è la sospensione della ragione a generare bellezza, è, tra tutto ciò che si può decifrare, l’incomprensibile a originare un varco verso il non noto.
Da qui nasce l’esigenza da parte di chi scrive di esasperare la lingua, di decostruirla e reificarla in una trasgressione della norma; un minimo scarto della forma – della grammatica –, ad esempio, dà luogo a un’estensione dello sguardo, attivando una realtà potenziale e precedentemente assopita fuori dal campo visivo canonico. È vocazione dei poeti dunque trovare le porosità dei significanti e dei significati e orientare così l’attenzione di lettori e uditori negli interstizi di cui si è già detto.
Per farlo è necessario fare uso di una lingua che sia quanto più possibile vicina alla lingua comune – pur non rinunciando agli snodi difficili, talvolta oscuri, di cui la poesia necessita –, una lingua quindi che non implode su se stessa e non si chiude nelle riflessioni intimistiche di un io soggettivo; una lingua, invece, accessibile, attorno alla quale fondare le relazioni sociali e cominciare nuovamente a costruire comunità. E proprio in virtù della nudità della parola (ma non solo), e della vulnerabilità quindi del suo creatore, scrivere poesia oggi richiede umiltà e coraggio. L’umiltà trova le sue fondamenta nella consapevolezza che i poeti oggi sono persone tra tante e non sono né pretendono di essere diversi. Al contempo, consci della limitatezza del proprio io, forse proprio perché ci si riconosce come corpo integrante di un gruppo di persone, i poeti prendono il coraggio di condividersi e di dire, e quindi di agire, perché potenzialmente la poesia è sempre un atto perlocutorio.
Sulla scorta di queste premesse, presento brevemente la mia prima raccolta edita di poesie, Senza grammatica, pubblicata nel 2020 dalla casa editrice Transeuropa.
«A parlare, in questo libro», dice Guglielmin nella prefazione, «è […] un io collettivo, ma non omologato […] il quale, pur rinunciando a cantare, ad essere lirico, rivendica il proprio diritto d’esistenza e di resistenza all’annullamento per opera di un mondo, il nostro, che vuole identità passive, immobili alla vita, segnate da solitudine, frustrazione e violenza, un mondo senza regole, sgrammaticato, appunto, che disorienta il soggetto e lo mette in crisi».
E sgrammaticato è pure l’amore, per definizione, come ricorda la poesia che dà il titolo alla raccolta: «Senza grammatica / chi ti ama / senza dubbio domanda dilemma / ama / l’ortografia delle tue labbra». L’amore assurge qui non a fine ultimo a cui ambire per dare senso al discorso esistenziale, ma a mezzo attraverso il quale resistere al degrado e prefigurare nuovi inizi.
Lo stesso avviene sul piano stilistico che, messo in crisi, tende verso un’emancipazione dai canoni tradizionali; l’aspetto formale risente infatti di un allontanamento da una norma consolidata: non vi sono forme metriche chiuse e strutture rimiche prefissate. L’uso dei versi liberi è, in generale, uno stilema della poesia contemporanea, ma all’interno di Senza grammatica concorre ad accrescere il senso di smarrimento di un’epoca caratterizzata dalla fine delle grandi narrazioni, priva di punti di riferimento, che lascia l’individuo nell’ansia generata dal libero arbitrio.
Permane, ad ogni modo, la volontà di resistere al disordine e al disorientamento, come registra la presenza quasi ossessiva dell’endecasillabo; quest’ultimo si alterna solo a versi ipometri che, nel tentativo di ancorarsi ancora a un presunto discorso poetico, mantengono un accento di quarta o di sesta, come a lasciare traccia della loro fondatezza.
Sia sul piano contenutistico sia sul piano stilistico, dunque, pur immergendosi in universi sregolati, è possibile identificare dei segnavia la cui presenza attesta lo sforzo di dare collocazione alla propria esistenza e conferirle così una propria legittimità.
Da Senza grammatica (Transeuropa, 2020)
Sebastiana Savoca
Senza grammatica
chi ti ama
senza domanda dubbio dilemma ama
l’ortografia delle tue labbra
*
«Questo Suo mondo è tutto un io d’ansia… Non può dare risposta a questa Sua domanda. Ora chiuda la finestra.
̶ conoscevo gli infissi, i loro scatti
anacronistica scienza dell’io
Non si può mettere ordine nel vuoto di una stanza»
*
Hai la lacerazione della tua anima
negli occhi, il nero della tua pupilla
indossa un bianco vuoto di dolore;
l’odore rosso del sangue e del sale
ossida il ferro del nostro presente
e siamo un pugno di chiodi avanzati
fissati a una parete nell’attesa.
*
Ho bucato la vena mediana di tuo padre
per un prelievo di sangue classista…
Non ha lo stesso colore il rosso
Non vedi l’esegesi dei poveri conigli
che deglutiscono il pane dei loro padroni?
Si sono chiusi a palla gli animali domestici,
forse assopiti dal loro mangime
*
Cosa rimane se non frustrazione
questo gioco di attese e disattese
la processione dei pensieri persi
i piedi spersi nelle vie natie
la foschia dell’inverno
le mani nelle tasche del giubbotto.
Endre Ady (1877-1919) è vissuto nell’Ungheria a cavallo di due secoli, alla vigilia del crollo dell’impero austro-ungarico, mentre il paese era combattuto tra arretratezza e modernità, tra le rivendicazioni sociali stroncate dalla tragedia della Grande Guerra e la nascita dei grandi movimenti artistici e culturali del Novecento. Di tutti gli umori del tempo ha fatto materia dei suoi versi. Poeta “maledetto”, consumato dall’alcool e dal fumo, spesso in povertà, ma con l’ambizione di frequentare il grande mondo internazionale della cultura, fu portato a morte precoce dalla sifilide contratta in un incontro occasionale. Inviso ai benpensanti, adorato dal popolo e dagli artisti, nella Budapest in cui si addensavano le ombre di un fascismo spietato seppe tenere aperto uno spiraglio di libertà, assieme a Béla Bartók, György Lukács, Lajos Kassák. Di famiglia calvinista, ebbe sempre una passione profonda per i testi della tradizione biblica, ma non ne fece mai oggetto di una devozione formale. Il suo definirsi un «incredulo che crede» lo fa sentire vicino alla sensibilità dell’Occidente contemporaneo.
Endre Ady (1877-1919)
*
Testi selezionati da Il perdono della luna. Poesie 1906-1919 (trad. di G. Caramore, V. Gheno, Marsilio, 2018)
ENDRE ADY
Poesie scelte
Il poeta di Hortobágy
Un giovane cumano, occhi grandi,
dilaniato da brame pensose,
custode di mandrie, andava verso Hortobágy,
la celebre steppa magiara.
Miraggi e crepuscoli allora
cento volte gli presero l’anima.
E se nel cuore un fiore sbocciava
se lo brucavano i popoli branco.
Mille volte pensò cose sublimi.
Pensò alle donne, al vino, alla morte.
Ovunque altrove nel mondo
sarebbe stato un sacro cantore.
Ma se osservava i compagni – sporchi,
ebeti, in brache – se osservava il suo gregge,
seppelliva veloce il suo canto:
erompeva in bestemmie. O fischiava.
Al cospetto del principe buono Silenzio
Cammino nel bosco, sotto la luna.
Mi battono i denti, fischietto.
Alle mie spalle, alto, un colosso:
il principe buono Silenzio;
e guai a me se indietro mi volto.
Guai a me se tacessi,
o guardassi lassù, verso la luna.
Un gemito, uno schianto.
Un solo passo, e il principe buono, Silenzio,
già mi avrebbe schiacciato.
Il Maligno antico
[…]
«Signore, ho una madre: una donna che è santa.
Ho una Léda: che sia benedetta.
Ho un paio di guizzi di sogni,
qualche seguace. E sotto la mia anima
un grande acquitrino: l’orrore».
«Avrei forse anche uno o due canti,
una o due nuove, grandi canzoni lascive,
ma ecco, voglio soccombere
sotto il tavolo, nell’ebbrezza,
in questa antica contesa».
«Signore, congeda il tuo servo desolato,
non c’è nulla ormai, solo la certezza
l’antica certezza, il sicuro sfacelo.
Non m’incantare, non farmi male, non darmi da bere.
Signore, io non voglio più bere».
«Ho la nausea, un gran disgusto
e reni malati e consunti.
Mi inchino a te un’ultima volta,
scaglio a terra il bicchiere.
Io mi arrendo, Signore».
[…]
Sangue e oro
A me, al mio orecchio fa lo stesso,
se ansima la voluttà o rantola il tormento,
se sgorga il sangue o tintinna l’oro.
Io so, proclamo che questo è il Tutto
e che a nulla serve ogni altra cosa:
solo il sangue e l’oro. Il sangue e l’oro.
Tutto muore e tutto trascorre,
gloria, canti, potere, denaro.
Ma sopravvivono il sangue e l’oro.
Popoli muoiono e ancora rinascono
e santo è l’audace che, come me, afferma
per sempre: il sangue e l’oro.
Sotto il monte di Sion
Con barba arruffata, bianca, da Dio,
lacero, tremulo, correva ansimante,
il mio Signore, da tempo in oblio,
in alba d’autunno, umida, cieca,
da qualche parte, sotto il monte di Sion.
Una grande campana il mantello,
rattoppato con lettere rosse,
mesto e malconcio, il vecchio Signore,
percuoteva, picchiava la bruma,
per il Rorate cœli suonava campane.
Un lume nella mia tremula mano,
una fede nella mia anima lacera,
e nella mente la giovinezza di un tempo:
allora fiutavo l’odore di Dio,
e qualcuno andavo a cercare.
Mi attendeva là, sotto il monte di Sion,
ardevano i sassi con fiamme robuste.
Suonando campane mi accarezzava,
le sue lacrime mi mondavano il viso,
era buono il vecchio, e clemente.
La vecchia mano rugosa baciavo,
e contorcendomi rimuginavo
«Come ti chiami, bel vecchio Signore?
A chi ho rivolte le tante preghiere?
Ahimè, non riesco a ricordare».
«Una volta morto a te son tornato
io, che in vita ero dannato.
Potessi ricordare una preghiera di bimbo!»
Lui mi guardò con grande tristezza
e suonava, suonava campane.
«Oh, se sapessi il tuo nome grandioso!»
Attese, attese, poi ascese correndo.
Ogni suo passo il rintocco di un salmo:
salmo di morte. E intanto io siedo, piangendo,
piangendo, sotto il monte di Sion.
In tre sulla pianura
Siamo solo in tre sulla grande pianura:
Dio, io e una maledizione contadina.
So bene che tutti moriremo,
ma io lancio un forte grido spietato.
Io da solo non temo, non tremo,
tanto ormai il mio guscio è di Satana.
Eppure conservo la pianura e il suo Dio
assieme a quella maledizione contadina.
Qui ormai è inutile tutto, in autunno,
in inverno, e primavera, e nella lenta estate.
Sulla grande pianura non ci sarà prodigio,
se noi, noi tre, non proviamo a resistere.
E adesso ammutoliamo
Baciami in bocca, Sera, bella sorella
fammi tacere e dài la notizia
che il tuo fratello, quello che assorda,
ha smesso, irritato, i suoi canti.
Ora per l’ultima volta vuol raccontare
la poca letizia che ha ricavato
da questo matto matto cantare.
Baciami in bocca, Sera, bella sorella.
Divieti mesti, liete confessioni,
melodiosi lamenti, ferite profonde,
mai più scaverò nell’anima mia
pozzi per voi risonanti.
Ogni fonte di sangue è ricolma.
Sulla tomba del sacro tacere di ogni cosa
siedono, muti e come in croce,
divieti mesti e liete confessioni.
Viva ormai ogni cosa, e ciascuno.
Vivano le parole solenni,
ma Endre Ady non parla,
ma Endre Ady non parli.
Si nasconda pure, se sa dove andare,
dimentichi tutti i suoi desideri,
col cuore vermiglio percosso a livida morte,
viva ormai ogni cosa, e ciascuno.
Ammutoliamo, Sera, bella sorella.
Ammutoliamo con un grande bacio.
Guardiamo come fossimo morti,
allentate le corde, la sordità della notte.
Forse ancora romperemo il silenzio,
ma la nostra parola non sarà un sacro segreto,
tormento per noi e per gli altri.
Ammutoliamo, Sera, bella sorella.
La tristezza della resurrezione
[…]
Oh, guai a chi risorge
e non sente la propria vita,
la sua è la parola di vacuo burattino
e lui stesso è marionetta di un teatrino,
domanda, tentazione e mistero.
Io questo aspetto: che qualcuno
mi chiami
e con bocca dolce, calda
mi sussurri chi sono.
Qui nella valle dei Tatra c’è un lago,
scintillante, pulito, selvaggio.
Vi cerco dentro i secoli,
la mia vita,
i canti che schiudono le tombe.
Cerco vicinanza a me stesso,
al Tempo che vola via,
allo specchio, alla magia,
per riconoscermi dentro.
E si ferma la Vita
e so che ormai non c’è nulla,
nessuno vive più
e niente è vero.
Un vecchio viso grinzoso ghigna dal lago.
Non so chi sia.
Sono risorto, ahimè, sono risorto.
La vendetta del silenzio
(Una vecchia leggenda)
Gli venne tagliata la lingua
e languì a morte chi
le sue confortanti parole
assetato amava e bramava.
Così nella puszta viveva
l’ammutolito eremita,
fluttuando in pomeriggi sordi
come calda melodia estiva.
E quando tutto fu taciuto,
eruppe dolore e angoscia,
ogni pietà e silenzio,
accumulati nel muto.
Il vocio vociante in precedenza
mai s’era così presentato;
e tonante l’eremita sparse
tra tutti il suo verbo in abbondanza.
E dei semplici si acquetò
la collera e il cordoglio,
e come un Dio che dispone e castiga
la lingua tagliata parlò.
Stringo con la mia mano che invecchia, la tua mano, e proteggo i tuoi occhi con questi occhi che invecchiano.
Belva di spente età, mi bracca l’orrore, sono arrivato da te attraverso rovine di mondi, e attendo, insieme a te, atterrito.
Stringo con la mia mano che invecchia, la tua mano, e proteggo i tuoi occhi con questi occhi che invecchiano.
Non so perché né sino a quando rimarrò qui con te: ma stringo la tua mano e proteggo i tuoi occhi.
Endre Ady
(Traduzione di Umberto Albini)
da “Endre Ady, Poesie”, Guanda, Milano, 1978
***
Őrizem a szemedet
Már vénülő kezemmel Fogom meg a kezedet, Már vénülő szememmel Őrizem a szemedet,
Világok pusztulásán Ősi vad, kit rettenet Űz, érkeztem meg hozzád S várok riadtan veled.
Már vénülő kezemmel Fogom meg a kezedet, Már vénülő szememmel Őrizem a szemedet.
Nem tudom, miért, meddig Maradok meg még neked, De a kezedet fogom S őrizem a szemedet.
Endre Ady
da “Életem nyitott könyve”, Gondolat, 1977
Parente della morte
Io sono parente della Morte.
Amo l’amore morente,
amo baciare
chi se ne va.
Amo le rose malate,
le vogliose donne sfiorenti,
e i lucenti, malinconici
tempi d’autunno.
Amo il richiamo spettrale
delle ore tristi
e il fratello giocoso
della grande e santa Morte.
Amo coloro che partono,
che piangono e si destano
e, nei freddi mattini brinati,
i campi.
Amo la stanca rinuncia,
il pianto senza lagrime,
la pace, rifugio di saggi, di poeti
e di malati.
Amo i delusi, gl’infermi,
coloro che sono fermi,
gl’increduli, i tristi:
il mondo.
Io sono parente della Morte.
Amo l’amore morente,
amo baciare
chi se ne va.
Proteggo i tuoi occhi
Stringo con la mia mano
che invecchia, la tua mano,
e proteggo i tuoi occhi
con questi occhi che invecchiano.
Belva di spente età, mi bracca l’orrore,
sono arrivato da te
attraverso rovine di mondi,
e attendo, insieme a te, atterrito.
Stringo con la mia mano
che invecchia, la tua mano,
e proteggo i tuoi occhi
con questi occhi che invecchiano.
Non so perché né sino a quando
rimarrò qui con te:
ma stringo la tua mano
e proteggo i tuoi occhi.
Endre Ady (1877-1919)
Endre Ady era un poeta ungherese, nato in una famiglia calvinista aristocratica decaduta. Era nato con sei dita per mano, segno di eccezionalità ma anche di malaugurio, di un destino diabolico. Fu l’ ostetrica ad accorgersene e ad amputargli quello che avanzava. Per tutta la vita il poeta mostrò con orgoglio le sue cicatrici, che chiamava magiche.
Visse e studiò in Ungheria, abbandonando gli studi di Legge per diventare giornalista. Due donne gli furono fatali, la prima perché lo avvelenò. E’ lei la protagonista di un bellissimo racconto intitolato “Il bacio di Rosalia Mihaly“. Rosalia, che nasconde la vera identità di Maria Rienzi, visse solo ventisei anni. Fu “piccola, teatrale e virago”. Aveva i capelli rossi e rideva fragorosamente, secondo quanto si addice a una ballerina. “Non l’ ho mai vista Rosalia Mihaly”, scrive il poeta, “ma nessuna altra donna ha segnato la mia vita in modo più possente”. Si era invece invaghito di Marcella Kun, anche lei attrice, e le aveva promesso che se si fosse concessa avrebbe scritto per lei una bella recensione. Ma lei tentennava, spaventata dal suo ardore. “Io non mi ero mica messo a studiare l’ amore per sapere che diavolo fosse”, le diceva, “ma per consumarmici, per ridurmici in cenere, come più mi fa piacere”. Ma alla fine cedette. E lo contagiò. Una ricerca ossessiva delle origini della malattia, porta il poeta, attraverso un giornalista mediocre e volgare, fino alla tomba di Rosalia Mihaly, ultimo anello della catena. Così scriveva Ende Adry, e identica era la sua vita. La sifilide lo tenne in ostaggio tutta la vita. E l’ alcool accompagnò la sua autodistruzione.
Quel bacio avvelenato divenne l’ immagine primaria della sua poesia, e insieme il diaframma che lo costrinse al di qua della vita che avrebbe voluto. Era un giornalista di successo e un poeta quasi sconosciuto, quando gli fu diagnosticata da un medico parigino. Era lì, nella ville lumiere dei poeti simbolisti – dove scopre le opere di Mallarmè, Verlaine, Rimbaud, Baudelaire, fratelli d’ arte e di insanità – insieme alla donna che amò perdutamente. Adel Brul, divenuta poi Leda nei canti che le dedicò, era la moglie di un eccentrico e ricco uomo d’ affari, Odon Diosy. “Aveva i capelli tinti di azzurro cupo, le scarpe, le calze dello stesso azzurro; si metteva del rossetto non soltanto sulle guance e sulle labbra, ma ne tingeva anche, rendendole simili all’ interno di una conchiglia, le narici dal disegno inconsueto sul naso imponente”. La descrive così Paolo Santarcangeli nella prefazione alla raccolta di poesie pubblicate da Lerici editore. Una femme fatale, una donna alta provocante sensuale e colta. Lei lo trasformò da giornalista di talento a poeta grandissimo, tra i più importanti della cultura austro-ungarica. Profeta di un mondo prossimo alla dissoluzione, cantore di passione e desiderio, sensuale e potentissimo. “Credo di essere la coscienza dell’ odierna magiarità colta” scriveva Endre Andy di sè dopo la pubblicazione della raccolta di poesie che lo consacrò al successo e lo travolse insieme di critiche e riprovazione (Új ver sek, Poesie nuove), – “ma questa coscienza non può essere sempre pulita”. Rimane a Parigi per un anno, con Leda e il marito, poi torna in Ungheria. Ma nel 1906 ripartono insieme e viene per la prima volta in Italia. Per una crociera che parte da Trieste e arriva fino in Sicilia. Sarà di nuovo a Roma nel 1911 ma il suo amore con Leda, sempre tormentato e funestato dal male e dalla sua vita disperata, sta per finire.
L’ anno successivo lei lo lascia per un altro uomo, e lui, su consiglio dell’ amico Sándor Ferenczi, allievo prediletto di Freud, decide di ricoverarsi in un ospedale per malattie mentali. “Siamo in piedi, rigidi e dimenticati/ sull’ orlo di un precipizio selvaggio/ l’ uno all’ altra attaccati,/ né un lamento lacrima o parola/per precipitare basta una mossa/come legami di carne e sangue/ci proteggono le nostre labbra/blu e tremanti, ci tengono attaccati/finche mi baci non abbiamo parole/ma dì un parola e cadiamo entrambi”, scrive in una sua poesia famosa che risale a quel periodo. Si consolerà sposando qualche anno dopo la giovanissima ammiratrice Beruka Bonza, la Csinszka delle sue poesie. Con lei si trasferisce in Transilvania.
Nel frattempo, il 28 giugno 1914, lo studente bosniaco Gavrilo Princip uccide l’ arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Endre Ady scrive, si spende contro la catastrofe del conflitto in agguato, ma invano. Un mese dopo l’ Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia, dando inizio alla prima guerra mondiale. La sconfitta militare, avrà come conseguenza la fine dell’ Impero. Nel 1918, in seguito al Trattato Versailles, nascono Austriae Ungheria come stati autonomi, e insieme la Cecoslovacchia e un nuovo assetto dei Balcani che diventarà la Yugoslavia. I nuovi confini costringono un quarto della entia magiara a vivere fuori dalla nuova nazione ungherese. La Transilvania diventa rumena, e anche il paese natìo di Endre Ady, Érmindszent, che alla morte del poeta verrà a lui intitolato. Nella nuova repubblica, il poeta viene eletto presidente della Accademia Vorosmarty, la più importante istituzione culturale del paese. Ma le sue condizioni di salute non gli permisero neanche di tenere il discorso di insediamento. Muore il 27 gennaio 1919 e i suoi funerali furono seguiti da una folla enorme che lo acclamava come il poeta simbolo della nuova nazione. Lui lasciò scritto soltanto che voleva essere dimenticato, come una domanda senza risposta.
Vittorino Curci è nato a Noci nel 1952, dove vive. Musicista e poeta. Cura su la Repubblica di Bari la rubrica La Bottega della Poesia. Ha pubblicato numerose opere di poesia La stanchezza della specie, LietoColle, 2005, Un cielo senza repliche, LietoColle, 2008, Il frutteto, LietoColle, 2009, Il pane degli addii, La Vita Felice, 2012, Verso i sette anni anch’io volevo un cane, La Vita Felice, 2015, Liturgie del silenzio, La Vita Felice, 2017. Tra le sue altre pubblicazioni, un libro di racconti, Era notte a Sud, Besa, 2007, e due libri di poetica, La ferita e l’obbedienza, Icaro, 2007 – Spagine. 2017, e Note sull’arte poetica, Spagine, 2018. Nel 2021 è uscita l’opera antologica Poesie (2020-2017), La Vita Felice, con prefazione di Milo De Angelis
Vittorino Curci
Poesie (2020-1997)
prefazione di Milo De Angelis
Edizioni La vita felice, pp. 164,
Vittorino Curci
Poesie di Vittorino Curci
*
albe mute ci mangiano
i sogni che facciamo.
la parola cade sul foglio
per scaricare il peso di mille storie
sembra una preghiera stare qui.
le labbra cercano in silenzio
la strada del ritorno
la notte resta impigliata nei vestiti.
fuori, non ci siamo che noi
sotto mentite spoglie
*
un bambino dietro una porta a vetri
guarda la strada coperta di neve.
lì dove torniamo
il senso raggruma nel bianco
volevamo che fosse così
il mondo, un luogo immaginato e vivo
come l’arte che pulsava alle tempie.
ma a furia di togliere ci è rimasta
la fortuna… e promesse come brividi…
scene mute che ci consumano…
cani che abbaiano in lontananza
arruolati nel sogno
Parto proprio dal dettaglio del titolo, “Poesie (2020-1997)”, per indovinare l’operazione intellettuale e, prima ancora, psicologica di Vittorino Curci: lo sfalsamento delle cronologie nel loro ordine di percezione solita e solitaria, la giustapposizione emotiva e linguistica delle ere personali e collettive attraverso la narrazione multidirezionale della Storia nelle infinite minime dilatanti storie di tutti. Il dato biografico appare volutamente sfuggente, evasivo, criptico così da rappresentare materia flessibile che si appoggia sulle parti del verso più visionarie affinché affiori la possibilità della loro coincidenza (“un bambino dietro una porta a vetri/guarda la strada coperta di neve./lì dove torniamo/il senso raggruma nel bianco”). Eppure è l’elemento realistico che infittisce la trama narrativa e quella lirica (“Sul crinale avverso un piccolo bar/di provincia con l’insegna al neon/e il cartello SI VENDE/Culture millenarie muoiono/in uno spavento immane”), proprio come avviene, con le dovute differenze, nella poesia filosofica di Hulme: la costruzione semantica si compone di correlativi oggettivi che si soggettivizzano nell’alternarsi di similitudini e contrapposizioni logiche e ontologiche per giungere alla trasfigurazione etica di ogni elemento della realtà (“Uomini accartocciati sui rami./La visione abbagliante dello schermo./L’orrore assoluto/passa il tempo”). Il cinismo, visuale acuta e necessaria, frutto maturo dell’albero radicale che non ha ignorato la sostanza universalistica e fertilizzante del tempo, pro-rompe tra i versi con la ferocia di un testamento precoce (“bisognava solo agire con lo sguardo. Per il resto, a quei tempi gli argini non crollavano”.) ma non ci si illuda che esso abbandoni il suo finalismo all’autocommiserazione: ogni frazione perduta del sé può recuperare la sua individuazione attraverso la compenetrazione osmotica delle età che ci appartengono tutte insieme (“collane di bambini intrecciano/trame di vendetta./il mesto giro delle stagioni affianca/la crudeltà dei sigilli./i nomi potrebbero tornarmi”). Ed è esattamente dai nomi che si parte per smarrire, nell’impronta di suono che rende la statura della carne, la temerarietà del potenziale umano (“La perfezione/all’altro capo del tempo/non ha memoria del nome”). Il linguaggio insedia l’esistenza, ne sincretizza apologie e disfatte (“La lingua che ho rubato è per voi/per le vostre bocche asciutte, contadini”), recupera la decodifica della vulnerabilità (“d’accordo sui rami, sulle i sbagliate, su tutto quello che arriva come un mal di testo nelle sere fortunate”). Torno al dettaglio, notando come il topos dell’infanzia che precorre e percorre tutta l’opera (che, si ricorda, è una antologia di estratti di varie pubblicazioni dell’autore che copre un lasso di tempo molto ampio) rappresenti una consapevole esposizione all’indietro (“forse, per una scucitura del tempo e una prolungata infanzia che cede sovranità al mondo”) che permette all’uomo di essere l’occasione di se stesso: “La gioia si capisce dagli occhi, dalla decisione con cui impugnano”. Nella divagazione onnivora di registri linguistici differenti che transitano dalla poesia in versi alla prosa poetica, mi sembra che una evidenza, benché impercettibile, non possa sfuggire: le composizioni più recenti hanno abbandonato le maiuscole e molta della punteggiatura degli scritti più risalenti, forse perché se da giovani la libertà è un istinto, nell’età matura, se lo vogliamo, può diventare un talento che ci allena all’etica del plurale.
Sei poesie dall’ultimo libro uscito per ‘Lo Specchio’ Mondadori
Biografia di Vivian Lamarque –nata a Tesero nel 1946, piccolo comune di montagna della provincia di Trento, viene data in adozione all’età di nove mesi ad una famiglia milanese perché figlia illegittima. Dopo la precoce perdita del padre adottivo scopre a dieci anni di avere due madri, nello stesso anno inizia a scrivere le prime poesie.
È cresciuta a Milano dove tuttora lavora e vive con la figlia e i nipoti.
Le prime pubblicazioni avvengono grazie al poeta Giovanni Raboni, che inserisce le poesie della Lamarque in alcune riviste letterarie.
Il suo primo libro, Teresino, vince il Premio Viareggio Opera Prima nel 1981, primo di una lunga serie di riconoscimenti: Premio Montale, Premio Camajore, Premio Elsa Morante e Premio Rodari.
Nel campo della letteratura per ragazzi, Vivian Lamarque si è dedicata alla scrittura di molte fiabe originali, oltre che alla traduzione di molte della tradizione classica. Per la sua trascrizione per ragazzi de Il flauto magico, riceve il Premio Andersen nel 2010.
Ha fatto l’insegnante di italiano e lettere, da molti anni collabora con Il Corriere della Sera.
MAI L’INVERNO
Mai l’inverno con la primavera – e lei è l’inverno e Ics la primavera – (be’ non esageriamo e Ics l’estate, be’ non esageriamo, la fine estate, quasi autunno) fuor di metafora mai un uomo giovane (be’ non esageriamo semi-giovane, insomma di mezza età) torniamo alle stagioni, mai un bell’albero in fiore una fogliolina gialla guarderà (anzi, ben lo sappiamo cosa combina d’autunno un albero alle foglie).
LUGETE O VENERES
Lugete o Veneres Cupidinesque e anime gentili, infelice nella sua gabbia piegato sotto l’ala lo spiumato capino sta l’amore suo che si era immaginato.
Oh l’immaginazione non riesce più a immaginare ora procede per una strada oscura che fare? Inventa ancora un poco ti prego che ci credo. Bucami iniezione d’illusione, che due più due non faccia quell’esiguo totale che in gabbia non stia già cadendo dal suo filo quel press’a poco amare, sosia dell’amare.
JANE
Ne faceva l’appello nome per nome, e ogni tanto se li contava i fiori del balcone. Un inverno apparve un Elleboro e spuntò una bacca all’Agrifoglio che non ne faceva mai e spuntò un fiore strano, mai visto, di chissà quale nome.
Con i prediletti usava dei nickname per esempio una violetta la chiamava come la Austen – Jane.
CARTA DA RICALCO
Sul vetro terso della finestra con carta-ricalco e affilata matita di ricalcare lei tenta della vita ogni singolo giorno non manchi un’alba all’appello né un mezzogiorno. Ben tesa la carta? Combaciano disegno e contorno? Oh, che non manchi quel minuto quell’ora, che non ne manchi nessuna, che nel ricalco non si sposti la luna. Che non si perda neppure lo spuntare del tram da lontano, quel volo da quel ramo a quel ramo, con le dita conto e riconto che non si perda un secondo del mondo. E con l’udito ricalca pompieri ambulanze sirene e del merlo il fischiare e di Guappo giù in strada l’educato sottovoce abbaiare e il sottile righìo che sul vetro fa la matita il dolce rumore, caro Sandro Penna, della vita.
COME NEL FILM «OGNI COSA È ILLUMINATA» (2005)
Come nel film “Ogni cosa è illuminata” che la guida ucraina Alex traducendo parla una lingua stranita lungo i fianchi della memoria tra gli sterminati di Trochenbrod nel cominciamento di una rigida ricerca (e c’è anche un cameo con Foer vero, che soffia via le foglie del cimitero)
Così stranisce la lingua poesia e quando ti parla saltano i tempi verbali e ritorna di tutto anche ritornano parole che erano morte e le bianche lenzuola del film ed è tutto un andare venire come il cane Sem nel finale che dalla tomba del vecchio padrone corre al sentiero poi alla tomba poi al sentiero, ma infine non sceglie la tomba, fugge via, via, sceglie la vita, così anche noi, la vita.
ESERCITO
Al bisogno faccio l’appello le nomino le convoco e loro accorrono in punta di gambette, di curve, di occhielli, loro le lettere a formare parole, le rifiutate si ritirano mogie con la coda tra le gambe, le prescelte si allineano lì dove le metto, anzi non lì, là, anzi qua, in riga! attente! riposo! a capo! ordino al mio esercito fidato. Per ora fidato.
(non lasciarmi mai, Alfabeto)
Vivian Lamarque
Vivian Lamarque è stata ospite al festival Mare di Libri nell’edizione 2013.
Adrienne Rich- Poesie da”Tonight no Poetry will serve”
(Norton, 2011 – l’ultima raccolta pubblicata in vita)
traduzione dall’inglese di Maria Luisa Vezzali
-Rivista Atelier-
Biografia di Adrienne Rich (Baltimora, 1929 – Santa Cruz, 2012) è stata una poeta, saggista, insegnante e femminista statunitense.Poco dopo essersi laureata al Radcliff College nel 1951 vince il premio “Yale Series of Younger Poets” per i poeti emergenti che le permette di pubblicare la sua prima raccolta , A Change of the Wolrd con introduzione di W.H. Auden, presidente di giuria di quell’anno. L’anno seguente ottiene una borsa di studio per viaggiare in Europa. Sposa nel 1953 l’economista Alfred Conrad e nel 1955 pubblica la sua seconda raccolta, The Diamond Cutters.Con la pubblicazione del terzo libro avvenuta nel 1963, Snapshots of a Daughter-in-Law, viene riconosciuta una delle scrittrici più importanti a livello nazionale sia per la sua voce poetica che per i temi femministi dei testi. Nel 1966 si trasferisce a New York e i libri che seguono sono influenzati dal fermento culturale e dall’attivismo politico del periodo: Necessities of Life (1966), Leaflets (1969), Will to Change (1971). Nel 1969 la Rich si allontana dal marito e diviene attivista dei movimenti di liberazione femminile. Pubblica nel 1974 Diving into the Wreck che riceve il “National Book Award for Poetry”. La Rich rifiuta di ricevere il premio a titolo personale preferendo invece accettarlo -assieme ad altre due poete- a nome di tutte le donne condannate al silenzio. Nel 1976 si dichiara lesbica e nel 1977 pubblica Twenty-One Love Poems successivamente incluso in Dream of a Common Language del 1978. In questo stesso periodo da alle stampe il più importante e influente contributo da saggista: Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence. Nel 1997 rifiuta la “Medical Medal of Art” affermando che non poteva accettare un premio dalla presidenza Clinton in quanto “(cit) l’arte, per come la concepisco io, è incompatibile con la politica di questa amministrazione”. Nel 1999 si trasferisce a Santa Cruz, in California, assieme alla compagna Michelle Cliff (romanziera, poeta ed accademica). Le due donne stavano assieme dal 1976. Nel 2003 Adrienne Rich -assieme ad altri poeti- per protesta contro la guerra in Iraq rifiuta di partecipare ad una conferenza alla Casa Bianca. Nel 2011 viene pubblicata la sua ultima raccolta: Tonight no Poetry will serve. Adrienne Rich si spegne nel Marzo 2012 a Santa Cruz all’età di 82 anni.
Adrienne Rich
Leggendo l’ Iliade (come) per la prima volta [1]
Violento, sgargiante, squarcio
una creatura dilaniata arranca per alzarsi, correre
con il ventre che cola
Il sangue rende tutto più reale
pulsa nel braccio armato d’asta come nel
collo del cecchino l’attimo
presente – Ora! – prima di
far fuori i bastardi
*
Splendore in nero e ocra su un’urna greca
Bellezza come verità
Il mare come sfondo
battuto da nere navi lunghi-remi
a riva carri scudi gambe muscolose dai buoni schinieri
cavalli che impennano Bellezza! carne prima della cancrena
*
Dei dalla mente cangiante corrono avanti e indietro Inganno [2]
una figlia afferrata per i capelli scagliata per confondere uomini
Tutto qui è conflitto ed è chiamato destino dell’uomo
*
Gloria orrenda: ferite spalancate
nutrono mosche enormi
Zoccoli sdrucciolano su smalto di sangue
I cavalli distolgono il capo
versando lacrime equine [3]
Bellezza?
un muro con i nomi dei caduti
da entrambe le parti appassionata imparzialità
.
.
[1 Cfr. Simone Weil, L’ Iliade o il poema della forza (traduzione di Francesca Rubini, a cura di Alessandro di Grazia, Asterios, Trieste 2012), p. 39: «Chi aveva sognato che, grazie al progresso, la forza appartenesse ormai al passato, ha potuto scorgere in questo poema solo un documento; chi invece, oggi come allora, individua nella forza il centro di ogni storia umana, trova qui il più bello, il più puro degli specchi.»
[2 Cfr. Iliade, XIX 91-130: «Ate è la figlia maggiore di Zeus, che tutti fa errare, / funesta; essa ha piedi molli; perciò non sul suolo / si muove, ma tra le teste degli uomini avanza, / danneggiando gli umani: un dopo l’altro li impania… pena acuta colpì Zeus nel petto profondo, / e subito afferrò Ate, che tutti fa errare: / dicendo questo la scagliò giù dal cielo stellato, / roteandola con la mano; e giunse subito nei campi degli uomini» (versione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1950).
[3 Cfr. Iliade, XVII 426-440: «Ma i cavalli d’Achille fuori della battaglia / piangevano, da che avevano visto l’auriga / caduto nella polvere sotto Ettore massacratore… così restavano immobili, col carro bellissimo, / in terra appoggiando le teste; e lacrime calde / cadevano loro giù dalle palpebre, scorrevano in terra; piangevano, / nel desiderio del loro auriga; e si sporcavano la ricca criniera / cadendo dal soggolo, di qua e di là lungo il giogo» (versione di Rosa Calzecchi Onesti, cit.).
Adrienne Rich
[N.d.A.]
.
.
Benjamin rivisitato
L’angelo
…della storia è
volato via
.
ora incontra l’usciere
…….giù
nel seminterrato che
………….a petto nudo fuma
.
ha il compito di attizzare
…il cosiddetto passato
……nel cosiddetto presente
.
.
In quarto
1.
Chiamatemi Sebastiano, frecce piantate su tutta
la mappa dei miei campi di battaglia. Maratona.
Wounded Knee. Vicksbug. Gerico.
Battaglia dell’Overpass.
Vittorie rivoltate
Ma nessuna resa
Cimiteri di rimorso
Il campione sconfitto singhiozza
Spettri accorrono per nascondergli le lacrime
2.
Nessuno scrive liriche su un campo di battaglia
Su una mappa trapunta di frecce
Ma io credo di potere se solo striscio
Nella mia tenda fingendo di
Ripiumare le mie frecce
Vengo subito! grido
Quando arrivano con balestre e fosforo bianco
Ad arruolarmi
Rannicchiata sui miei abbozzi
Per paura che mi scoprano
E mi sparino
3. Appoggi la guancia sulle mie medaglie, attraverso ascolti il mio cuore Dottore, riesce a vedermi se sono nudo?
Ho trascorso più tempo qui che al fronte Nessuno viene se non di rado e non so nemmeno per cosa
Ho raggiunto quel deserto come molti prima Addii e fede e speranza di non morire
Speranza di non morire e cosa era la vita Che pensavamo ci aspettasse dopo
Posi lo stetoscopio rispolveri le sue abilità Dottore riesce a vedermi quando sono nudo?
4.
Vi racconterò della sirena
Che muta la coda da pesce Prende gambe per danzare
Canta come il mare con la gola strozzata
Lame piantate nella schiena
Ferite a ogni passo
C’è un prezzo
C’è un prezzo
Per ogni dono
E tutti i consigli
Adrienne Rich
Maria Luisa Vezzali (Bologna 1964), docente di Materie letterarie nella scuola superiore, è traduttrice di Adrienne Rich (Cartografie del silenzio, Milano, Crocetti 2000, e La guida nel labirinto, Ibid., 2011; premio per la traduzione dell’Università di Bologna) e Lorand Gaspar (Conoscenza della luce, Roma, Donzelli 2006). Ha curato l’edizione di Saint-John Perse, Anabasi (Raffaelli 2011). In poesia ha pubblicato L’altra eternità (Edizioni del Laboratorio 1987), Eleusi marina (in Terzo quaderno italiano a cura di Franco Buffoni, Guerini e Associati 1992), dieci nell’uno (Eidos 2004, disegni e sculture di Mirta Carroli), lineamadre (Donzelli 2007, premio Anterem/Montano), Forme implicite (Allemandi 2011, con gioielli e disegni di Mirta Carroli). Suoi testi sono tradotti in inglese, spagnolo, francese, tedesco e svedese. E’ comparsa in numerose riviste e antologie.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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Amalia Bautista, scrittrice e giornalista spagnola, è nata a Madrid nel 1962. La sua laurea in scienze dell’informazione le ha permesso di lavorare come attrice di doppiaggio, ma attualmente lavora come giornalista; più conosciuta per il suo lavoro poetico sviluppato in un percorso breve ma molto interessante
La regina Mab
Tu che non mi chiedi dove abito, ti meriti la risposta più di chiunque altro: non devi cercarmi nel profondo della foresta, né sulla riva di un lago dove galleggiano cadaveri gonfi, né nelle grotte umide, né sulle vette dove ci sono fiori di zucchero o di ghiaccio. Sarò dove vorrai contemplarmi dietro le tue palpebre chiuse. Ovunque i tuoi occhi mi mettano le ali
BERKSHIRE
Devo tornare a casa, è molto tardi,
ma dici “aspetta, ti voglio vedere”
le ginocchia con quelle calze nere”.
Ti mostro le mie ginocchia. Ti saluto
per l’ennesima volta. Ma non vado
né del resto tu vuoi che me ne vada.
Mi hai mostrato buffe fotografie,
i paesi più bizzarri sull’atlante,
i tuoi scacchi, le stampe della Vergine,
le tue matite e alcuni dei tuoi versi.
Mi hai parlato di tutto ciò che odi
e delle poche cose che ti piacciono.
Entrambi allora abbiamo pensato
che le risorse si erano esaurite,
ma le mie gambe sono decisive,
e fanno complottare in un istante
notturna e folle una storia d’amore.
Tornerò a casa che sarà già l’alba;
incontrerò un ubriaco per la strada
un gatto che fruga la spazzatura,
i cani infastiditi che non dormono,
e anche l’auto potrebbe non partire.
Amalia Bautista
Il ponte
Se mi dicono che sei dall’altra parte di un ponte, per quanto strano sembri che tu sia dall’altra parte ad aspettarmi, io attraverserei il ponte. Dimmi qual è il ponte che separa la tua vita e la mia, in quale ora scura, in quale città piovosa, in quale mondo senza luce è questo ponte, e lo attraverserò.
Dimmi ancora
Dimmelo ancora, è così bello che non mi stancherò mai di ascoltarlo. Dimmi ancora che la coppia della storia fu felice fino alla morte, che lei non era infedele, che a lui neppure venne in mente di ingannarla. E non dimenticare che, nonostante i problemi, continuavano a baciarsi ogni notte. Dimmi mille volte, per favore: È la storia più bella che conosca.
Luce di mezzogiorno
Né il tuo nome né il mio sono gran cosa solo poche lettere, un segno se li vediamo scritti, un suono se qualcuno pronuncia queste lettere insieme.
Perciò non capisco bene cosa mi succede, perché tremo o mi sorprendo, perché sorrido o divento impaziente, perché scherzo o divento così triste se incontro le lettere del tuo nome.
Non c’è nemmeno bisogno di nominarti, chiamano sempre la luce di mezzogiorno, il frutto, il paradiso prima dell’espulsione.
LA TORRE
Edifichiamo una torre di minuti,
accatastiamo i momenti in cui abbiamo potuto vederci,
parlare, sorridere, fare l’amore, accarezzarci
fino in fondo all’anima.
Ammucchiamoli con cura infinita,
perché non cadano,
questi secondi di limpida gioia
che ci hanno dato la pace e dolci lacrime.
Costruiamo un fragile grattacielo
che brilli al sole e resista alla pioggia.
La torre arriverà fino alle nuvole.
Però non innalzeremo mai al suo fianco un’altra torre
con tutti i minuti in cui non siamo stati insieme,
con i giorni perduti al di là del mare
e le notti trascorse ad abbracciare altri corpi.
Sarebbe insopportabile contemplare questa torre.
Rovescerebbe troppe volte l’universo.
Amalia Bautista
GLI OLEANDRI
Li ho visti crescere sui marciapiedi
e in autostrada sugli spartitraffico,
nei giardini privati più lussuosi
e cingere blocchi di mattonelle
lungo sobborghi tristi come l’uomo.
Mi sorprende che siano così belli,
che si adattino bene a ogni terreno,
che richiedano ben poche attenzioni.
Mi sorprende che siano velenosi.
Amalia Bautista, scrittrice e giornalista spagnola, è nata a Madrid nel 1962.La sua laurea in scienze dell’informazione le ha permesso di lavorare come attrice di doppiaggio, ma attualmente lavora come giornalista; più conosciuta per il suo lavoro poetico sviluppato in un percorso breve ma molto interessante
Massimiliano Bardotti, La disciplina della nebbia (peQuod, 2022)
–A cura di Antonio Fiori-
Breve biografia di Massimiliano Bardotti (1976) è nato e vive a Castelfiorentino. Poeta, è presidente dell’associazione culturale Sguardo e Sogno, fondata da Paola Lucarini. Pubblica tra gli altri: Il Dio che ho incontrato (2017 Edizioni Nerbini), I dettagli minori, (2018 Fara Editore) opera di poesia e prosa dal quale è stato tratto l’omonimo spettacolo teatrale interpretato insieme a Viviana Piccolo. Diario segreto di un uomo qualunque, appunti spirituali (2019 Tau Edizioni). A marzo 2020, sempre con Fara editore esce Il colore dei ciliegi da febbraio a maggio, scritto insieme a Gregorio Iacopini e con la prefazione di Filippo Davoli e la postfazione di Isabella Leardini. Nel mese di maggio 2021 esce Idillio alla morte, scritto con Serse Cardellini. Il libro apre la collana poetica: Fuori Stagione, di FirenzeLibri, della quale Bardotti, Cardellini e Iacopini sono curatori. A giugno 2021, per Puntoacapo Ed. esce La terra e la radice. Nel 2017 a Castelfiorentino dà vita a: LA POESIA È DI TUTTI, percorso poetico e spirituale, presso l’ass. cult. OltreDanza. Dal 2018 conduce: “L’infinito, la poesia come sguardo: Ciclo di incontri con poeti contemporanei” al san Leonardo al Palco di Prato.
Bisogna essere prossimi alla terra
avere già nel corpo l’ambizione della fossa.
Sentire nella carne l’appassire delle ore.
E come si fa urgente fare il bene
praticare la salvezza.
Avere già negli occhi un po’ di quello che vedremo
quando gli occhi chiuderemo a questa luce.
Bisogna poi saperlo un po’ di cielo
averlo imparato dall’allodola e dal gufo.
Seguire come cambia la stagione
intuirne nei colori le promesse.
E poi bisogna andare
quando è ora essere pronti.
Allora sarà chiaro finalmente
che avevamo fatto tante prove
che in fondo vivere è coltivare
il seme eterno dell’attesa.
*
Abbi cura di me, dico,
tutto affidando.
Poi con la fronte tocco la terra,
chiedo perdono al vicino di casa
perché quando lo guardo
negli occhi non vedo
l’eterna sua giovinezza, non vedo
la fronte rugosa che chiama speranza
non vedo la sua adolescenza.
Vedo soltanto la forma del mento
l’imprecisione del colletto
della camicia, mal piegata
la giacca sgualcita.
Vedo il passo insicuro, stanco
adeguato al peso dei suoi settant’anni.
Vedo solo quello che misero
riesco a vedere.
La pelle che muore.
*
Benedico il piatto di ceci e la minestra di pane
l’acqua bollente che cuoce le verdure.
Il prato benedico e la foresta
l’oceano e il corso d’acqua.
Il piccolo pezzo di mondo che vedo dalla mia finestra.
* * *
Nota di Antonio Fiori-Massimiliano Bardotti educa lo sguardo e il respiro per vedere oltre la nebbia, nebbia che è simbolo e sfida per questa disciplina. Antonella Sbuelz, nella prefazione, parla di ricerca, di domanda inesausta, di luce, “di una disciplina declinata talvolta in forza ascetica”.
Ed è significativa la citazione in ex-ergo di Antonia Pozzi: E forse ci sono più stelle/ e segreti e insondabili vie/ tra noi, nel silenzio,/ che in tutto il cielo disteso/ al di là della nebbia. Sono versi che indicano dove dobbiamo alla fine davvero guardare: tra di noi.
La natura è osservata con una dolcezza orientale – Ogni vero poeta è un asceta.// Si allena alla meraviglia dell’ape./…/ Segue il volo della farfalla./…/ Si stira come il gatto/ si inarca come il serpente. Il dettato si dispone talvolta in prosa poetica, che fa cambiare leggermente il respiro: “È alle porte un tempo nuovo, spazzerà via quello che ancora rimugina il vecchio.
Ne intuiamo le membra forti e vigorose, ci spaventa l’ardire della sua bocca e quanto sia famelico. Le porte della città sono aperte. Qualcuno attende.”
Il poeta testimonia anche una grande fede religiosa, ribadita con entusiasmo ogni volta che si incontra la bellezza o si vacilla per l’errore: “Ma sempre più devoto, di errore in errore, sempre più devoto a questa volontà, di essere nelle mani dell’Amore, Sua creatura peritura e fragile: felice.”
Il libro è diviso in cinque sezioni (Non posssiamo tacere; Il gufo e l’allodola; Il dolore, la gioia, la pazienza; Delle benedizioni; La quercia e il mandorlo), che segnano un percorso sempre più spirituale, di avvicinamento al mistero che la nebbia nasconde.
Massimiliano Bardotti
Biblioteca DEA SABINA-
La rivista «Atelier»
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La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Antonia Pozzi –Poesia “Indugiano” da Brughiera del 1937
Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
Indugiano
carezze non date
fra le dita dei peschi
e gli sguardi
d’amore che mai non avemmo
s’appendono alle glicini sui ponti –
Ma il fiume
è densa furia d’acque senza creste, nel grembo
porta profondi visi di montagne:
e all’immenso
svolto dei boschi trova lieve il vento,
tocca le fresche nuvole
d’aprile.
(da Brughiera – Antonia Pozzi – 28 aprile 1937)
Antonia POZZI
Per troppa vita che ho nel sangue
tremo nel vasto inverno.
(Antonia Pozzi)-Foto: Antonia, Casorate 1937
Antonia Pozzi
Biografia di ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)-Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzied Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita.
ANTONIA POZZI-Poetessa
Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Onorina Dino
Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
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