Silvia Bre-E’ nata a Bergamo nel 1953. Ha pubblicato la raccolta di poesie I riposi (Rotundo, 1990) e Le barricate misteriose (Einaudi) con cui ha vinto il premio Montale. Nel 2007 ha pubblicato il libro Marmo (Einaudi, ) vincitore, tra gli altri, del Premio Viareggio. Per le Edizioni nottetempo ha pubblicato nel 2006 “Sempre perdendosi”, portato con successo a teatro da Alfonso Benadduce. Ha tradotto, tra l’altro, Il Canzoniere di Louise Labé (Mondatori 2000) e Centoquattro poesie di Emily Dickinson (Einaudi 2011).
Le Parole
Levigata costruzione di consapevolezza è la sua poesia, che porta la nostra febbre interiore a riflettere su questo mondo delirante che solo una nuova visione può salvare.
La sua poesia è questa ricerca, questa voglia di trovare con la sua voce tesa e ferma, l’urlo di una risposta nuova, che da dentro “occhi ignoti sa entrare, dentro ai nostri occhi di pietra”.
e qui dove io sono io non sono
che la pace profonda di me stessa
e non so più che sono
e nemmeno un pensiero che mi venga
in questo luogo astratto della storia
per quanto lieve volli la mia vita
mai quanto volli lieve la mia morte
e ormai che sono qui
io sono quieta
soltanto
a volte
come fosse in sogno
sento due occhi ignoti
entrare
dentro i miei occhi di pietra.
Marmo (Einaudi)
Le barricate misteriose (Einaudi)
da Passi
Quali ripari vado immaginando…
È dove non s’avverte che universo
remoto al mio dolere e le sere
farsi previsione sterminata, case
libere al vento. Sono le illuse strade
dove la fortuna d’un momento
sparendo mi ritrova e io m’accendo
alla più magra luna senza cielo:
con tanti minuscoli bagliori
si fa il sereno d’una notte.
Così il tempo mi svola, le ali accosta
nella fine di una lucciola stanca
a cercar sosta – ma pure i fili d’erba tra le rovine
sono contenti della primavera
e per la quercia grande che m’invento
s’allunga in belvedere una finestra
via dal deserto, e l’ombra piove,
come se fossi già quel che divento.
*
da Edere
Ascolta, un viale avevo
di sterminate rose
da guardare la sera,
cieli di viole
che l’edera rampava a grandi tele,
avevo corde amorose.
E guarda adesso
com’è tutto raccolto in un mirino,
che finalmente la mia strada ho perso
nel mondo delle cose
e mi sento salire rami nuovi
e il cielo ce l’ho steso sulle dita
e amo, e mi rinchiudo
tutta nella vita.
Silvia Bre
*
da Il parco
Io vado destinata a un sentimento
che ha la forma del parco che ora vedo,
e ciò che vedo è il viale in cui l’inverno
è rami, pietra, acque, tramontana,
e passi di una donna che cammina.
Ma per come procede e come leva
lo sguardo secolare sulle foglie,
lei è la specie, a lei torna la rima
nella quale riposa il mondo intero –
così la qualità del giorno vaga
continuamente tra le parole e il cielo.
Marmo (Einaudi)
da L’argomento
Tutto l’essere qui
non viene detto –
resta da solo in noi
già benedetto
se solo lo si lascia respirare
vagamente
come un fiato continuo dentro un flauto
con noncuranza
come un verso un cielo non guardato.
*
da La figura
Ognuno vuole avere il suo dolore
e dargli un corpo, una sembianza, un letto,
e maledirlo nel buio delle notti,
portarlo su di sé tenacemente
perché si veda come una bandiera,
come la spada che regala forze.
Ma c’è persa nell’aria della vita
un’altra fede, un dovere diverso
che non sopporta d’esser nominato
e tocca solamente a chi lo prova.
È questo. È rimanere
qui a sentire come adesso
l’onda che sale nelle nostre menti,
le stringe insieme in un respiro solo
come fosse per sempre,
e le abbandona.
Ma nemmeno la pupilla d’un cieco
dimentica l’azzurro che non vede.
*
da L’opera dell’arte
Che baci appassionati
si danno di nascosto le tue rime
quale piacere stringe tra loro i versi
è godimento avere in bocca il senso
da capire.
(È sera, dico le tue poesie
confesso lenta al buio
brevissime bugie.
Così è l’incontro,
nel tempo che s’arrende
e mentre la rete larga
della grammatica
della poca sintassi
si rapprende
nell’impressione acuta
d’essere vicini
forse è da qui che passa
semmai ne esiste una
la storia impensabile
della letteratura).
Silvia Bre
Sempre perdendosi (Edizioni nottetempo)
Sebastiano
Poiché il cielo è così alto io sono un servo:
è giusto non dormire.
La gola è stretta, da intonare all’urlo,
dentro ho la vocazione maledetta.
Ma mi confondo
con tutto questo sonno.
Amo senza capire.
E’ non capire, che amo fino in fondo.
Mi spoglia
mi porta in giro sanguinante.
Lo spazio che mi cerca e che mi strozza
è un movimento andato
dove mi trovo infermo
nella malinconia d’essere altro.
Io vengo deportato
vengo allo sguardo.
Meno non posso.
Essere qui col corpo, col dolore,
tutto ferito, pronto al mio assalto,
a un altro finire ancora dietro l’altro.
Silenzio
Ecco, mi scordo, mi slego –
sarà lo smarrimento a suggerire
quasi una formula, un confine,
forse una frase sola che sia tutto,
un’eleganza
che vanti fino al nulla questo lutto.
Mi perdo
per un’arte che raduna
e rallenta ogni gesto in una forma
e in ogni forma il gesto che saluta.
Silvia Bre
C’è dello spazio negli occhi da riempire
e nella mente occorre una parola
da ridire con le labbra nella notte
fino a quando la notte si rovescia.
Così gira una ronda innamorata
così canta quel coro che s’ammira.
Si è parte
dentro una belva che si sfama.
Ah, mi fa stare qui, a cantare il coro –
che l’ultimo volere
sia questo stringersi nell’ultimo tono
come un filo che pende nel pensiero,
che si insegue perdutamente,
che ci dimentica.
Colpo
Qui io magistralmente scongiuro di morire –
finché mi tocca sfondo la mia scena,
la svesto, la depongo
con dentro tutto il sonno da dormire.
Faccio di meno intanto
faccio a meno
abbasso la pretesa, mi riduco –
la vastità immisurabile del luogo
forzata nella vastità della mente,
nella tenuta stagna delle parole.
Ma non è vero –
è così che si muore
ve lo dico: sempre perdendosi
per sempre.
Beati voi che dormite.
Un cuore invece batte a sangue,
sa il mio nome.
Nessuna faccia smetta di infierire,
va in cerca pure lei della sua fine
oltre la pelle
in me che sono vuoto,
nell’anima del corpo
tra i muscoli, tra i nervi
che si fanno da parte,
nel buio ostinato della vita
che rinchiude la morte.
È a me che lo fa dire,
a un disgraziato, al servo –
mi tortura il respiro
lo sorprende, lo scuote,
che io rimanga sveglio! che io gridi…
Così un altro rinvio
eppure addio, addio
addio sempre.
Silvia Bre
Silvia Bre-E’ nata a Bergamo nel 1953. Ha pubblicato la raccolta di poesie I riposi (Rotundo, 1990) e Le barricate misteriose (Einaudi) con cui ha vinto il premio Montale. Nel 2007 ha pubblicato il libro Marmo (Einaudi, ) vincitore, tra gli altri, del Premio Viareggio. Per le Edizioni nottetempo ha pubblicato nel 2006 “Sempre perdendosi”, portato con successo a teatro da Alfonso Benadduce. Ha tradotto, tra l’altro, Il Canzoniere di Louise Labé (Mondatori 2000) e Centoquattro poesie di Emily Dickinson (Einaudi 2011).
Breve biografia di Vladislav Karaneuski dalla Rivista Atelier (Minsk, Bielorussia, 1999) vive a Monza, è laureato in lettere all’Università degli studi di Milano con una tesi in filologia romanza, sta attualmente continuando gli studi specializzandosi nella medesima disciplina. Suoi articoli di letteratura, critica, storia, linguistica e filologia romanza sono usciti per riviste online come ilSuperuovo, Frammenti Rivista, Magma Magazine e Arateacultura. In via di pubblicazione è una sua plaquette poetica per un progetto antologico sostenuto dall’Università IULM di Milano.
In fondo all’anima c’è la notte,
non la muta il desiderio,
e non sprofonda tra le necessità, i vizi.
Ma non è oggi, è domani
per guardare indietro
con gli orologi che non scattano
e il sapere che nel buio
il bagliore, a scatti, scava sotterranei
sincopati, e non si torna indietro
ma si lascia la briglia
il cavallo veloce, primo a vittoria.
Ritornare dove i morti parlano
Nel nucleo delle cause
in scatti insensati
e sfioriture turbate
da un’immensa e tanto sola notte,
nel fondo quieto in ripidi ripari. Anima al fondo in.
*
Our enemy, our own loss how repair,
How overcome this dire calamity
What reinforcement we may gain from hope,
If not, what resolution from despair
Paradise Lost, Milton
Sono l’angelo scartato da Dio
che la fede non prese
nelle schiere delle antitesi dei contrari.
l’ammissione dell’accettazione
di un vuoto che sapeva di candido
ma che la maldestra natura
saturava tra gli intervalli
spazi dove il vento
Lambisce il sole
dichiarando morti i tempi
sfumate le stagioni
nella nebbia in fondo ai ponti
di collegamenti mancati.
Il dolore che mi portò
a voler uccidere Dio
è lo stesso silenzio
del boia
nel minuto prima
Ricordati,
nell’indifferenza
tra i tagli
ci hai condannati ad amarti.
*
Vivere nell’angolo
svoltare in un incontro
Tradire gli incroci
Perdonare i lati opposti,
Rincorrere gli intrecci
sdraiarsi nei margini.
Siamo nelle direzioni spezzate,
senza toccarle e senza soffrirne
l’assenza.
È nell’esercizio di caduta
Che s’acquista la vita.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
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Biografia di Alberto Bertoni è nato a Modena nel 1955 e insegna Letteratura italiana contemporanea e Poesia del Novecento nell’Università di Bologna. In poesia, dopo una serie di opuscoli, libretti, plaquettes inaugurata nel 1981, ha esordito con il volume Lettere stagionali (Book Editore, 1996, con una nota di Giovanni Giudici), a inaugurare una sequenza di otto libri, composta nei suoi ultimi esiti da Traversate (SEF 2014, prefazione di Paolo Valesio), dalla silloge Poesie 1980-2014, Nino Aragno Editore 2018, dal libro in dialetto modenese Zàndri, Book Editore 2018, dalle traduzioni di Irlandesi, Corsiero Editore 2020, dall’Isola dei topi, Einaudi 2021 Premio Carducci 2021 e Premio Pontedilegno 2022 e dall’”Autobestiario” Culo di tua mamma, Collana Giallo oro di Pordenonelegge, Samuele Editore 2022. Per riscontro critico e diffusione, spiccano tra loro le tre edizioni di Ricordi di Alzheimer (2008, 2012, 2016), pubblicate da Book Editore e accompagnate da una poesia in versi pavanesi di Francesco Guccini oltre che da una nota critica di Milo De Angelis.
Un semaforo a Tokyo
In memoria di Hans Magnus Enzensberger
No, non mi tossisca mentre apro
con istinto da stupido la bocca,
non mi trasmetta i suoi germi, il suo
inesausto desiderio di lotta
all’incrocio che assieme attraversiamo,
pedoni al semaforo-mostro di Shibuya,
passaggio che non sai dove ti porta
perché tutt’altra cosa
dall’incontro razionale di due strade
Cuore mondiale, invece, di sciarade
qui dove tutto e tutti convergiamo
in un unico punto,
molecole invisibili nel flusso
di cui ci si è trovati a fare parte
percorrendo in diagonali smisurate
quel che non è più l’itinerario
del piano di cammino originale
o del ristorante a buon mercato
studiato sulle carte
quando niente più è chiaro
a partire dal tuo
stesso statuto identitario,
la posizione d’allineamento al raggio
dei soli o delle lune come vuote
ipotesi di viaggio
Andare all’attacco d’interi eserciti
se non in casi estremi
per l’uomo solo non ha
speranze di riuscita,
così che io viandante mi ritrovo
a interrompere per sempre la mia rotta
e il pensiero vuole buchi nella pioggia
una scelta o una porta
come uniche e remote
vie d’uscita
*
L’uomo
Sembra il medico di un tempo trapassato
l’uomo alto nel cappotto démodé
e un paio di scarpe con la para, l’aria
di chi è passato per caso,
in direzione contraria
Forestiero o angelo
d’un po’ di duraturo
brutto tempo?
O invece un tuo segreto
comparire d’incanto
sotto mentite spoglie
di sesso, di abito, di sguardo?
Non voglio sia questione
di puro smarrimento
né lo choc il dolore inatteso
del ra-ta-ta improvviso di persiane
calate da mia madre come un amen
*
Al funerale di un amico
In memoria di Marco Santagata
Con gli addii
è il solito disastro
Dopo mio padre che un prete ubriaco
ha accompagnato dall’altra parte
chiamandolo per tutto il funerale
Gisberto invece di Gilberto
tanto che ancora lo penso
vagante in un pioppeto
col suo nuovo nome medievale
dentro lo snebbiare di questo
inverno non più inverno
Dopo questo mancato congedo
più o meno lo stesso
è successo con te l’altro sabato
quando con voce tonante
un suddiacono ha chiamato
sotto l’altare, per due
concise parole di saluto
un tale Livio o Emilio
Bertone professore,
autorizzato a traghettar di là
ma solo sotto falso nome
il suo amico Marco,
esperto mondiale di Dante,
Petrarca e tutto,
tutto il nostro meglio
Così però quel suddiacono ha scambiato
il tuo posto vicino al Purgatorio
con quello di chissà chi altro
lì, nell’ingorgo di coloro
che per speculum in aenigmate
e cioè arrivati al dunque,
aspettano solo
d’imboccare all’incrocio
una strada qualunque
*
Ma Dio è poeta?
a G. P.
Sarà mica un angelo di Dio
questa nuvola orlata di rosa
appena guardo il cielo, un gesto
impalpabile di frulli messaggeri,
ancor meglio se di passeri
metafisici segni
Di Gesù o di Marinetti
aeropoemi?
Ma no,
ad ascoltarne gli adepti,
Dio esistendo canterebbe
cuori più semplici e più veri
in un’epifania di estasi
e di varchi celesti
fra la gola e lo stomaco
lì dove si rompono i respiri
mentre una penna buona da prodigi
traduce in tre parole
e molte armonie divinatorie
questo Ente Supremo travestito
da poeta romantico
già estinto
*
Quanta neve
Progressivamente, verso il modenese
si liquefà e scompare
la neve
Pochissimo, a noi, quasi niente
resta da fare
se non pensare
alle donne come sono belle
ancora senza trucco, appena sveglie
le labbra di ciliegia, le gambe snelle
e alla voglia d’incontrarle
lontano dalle case
quando a ogni costo
vorremmo farci largo
fra i cespugli e le isole di fango
del piccolo parco domenicale
in quelle mezze ore senza sole
un attimo dopo che è sembrato
cadere il finimondo
sui vetri delle auto
le dita assiderate nell’inverno
di musiche bianco
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Margaret Atwood Brevi scene di lupi. Poesie scelte (1966-2020)
a cura di Renata Morresi- Editore Ponte alle Grazie
Biografia di Margaret Atwoodè una delle voci più importanti della narrativa e della poesia canadesi. Laureata a Harvard, ha esordito a diciannove anni. Ha pubblicato romanzi, racconti, raccolte di poesia, libri per bambini e saggi. Più volte candidata al Premio Nobel perla Letteratura, ha vinto il Booker Prize nel 2000 per L’assassino cieco. Fra i suoi titoli più importanti ricordiamo: L’altra Grace (2008), Il racconto dell’Ancella (2017), Il canto di Penelope (2018), I testamenti (vincitore del Booker Prize 2019), La donna da mangiare (2020), Lesioni personali (2021), e le raccolte di poesie Brevi scene di lupi (2020)e Moltissimo (2021), tutti usciti per Ponte alle Grazie. L’autrice vive a Toronto, in Canada.
Margaret Atwood
Breve premessa-Per la prima volta Ponte alle Grazie offre al pubblico italiano una scelta delle poesie della grande scrittrice canadese, che abbraccia tutta la sua produzione, dal 1966 al 2020, ed è curata da Renata Morresi, una fra le più apprezzate poetesse italiane. «Essere accesa da dentro vena per vena essere il sole».
È pericoloso leggere i giornali
Mentre costruivo accurati castelli nel recintino di sabbia le fosse scavate alla svelta si riempivano di cadaveri spinti dai bulldozer e mentre andavo a scuola pettinata e linda, i miei piedi sulle crepe dell’asfalto detonavano bombe vermiglie.
Ora sono adulta e alfabetizzata, e siedo sulla mia sedia placida come un fuso
e si incendiano le giungle, il sotto- bosco si fa pesante di soldati, i nomi sulle mappe complicate salgono in fumo.
Sono io la causa, sono una massa di giocattoli chimici, il mio corpo è un congegno mortale, mi protendo con amore, le mie mani diventano pistole, le mie buone intenzioni sono del tutto letali.
Persino i miei occhi passivi trasmutano tutto ciò che guardo in una foto di guerra in bianco e nero come posso fermarmi?
È pericoloso leggere i giornali.
Ogni volta che batto un tasto su questa macchina elettrica per parlare di un placido albero
esplode un altro villaggio.
Da Brevi scene di lupi (Ponte alle Grazie, 2020)
Questa è una mia fotografia
È stata scattata qualche tempo fa. A prima vista sembra una copia sciupata: contorni sfocati e chiazze grigie fuse nella carta:
poi se la esamini, vedi nell’angolo a sinistra qualcosa come un ramo: parte di un albero (balsamina o abete) che affiora e a destra, a metà di quello che appare un dolce declivio, una piccola casa di legno.
Sullo sfondo vi è un lago, e oltre questo, basse colline.
(la foto è stata scattata il giorno dopo che annegai.
Io sono nel lago, al centro dell’immagine, appena sotto la superficie.
È difficile dire dove con precisione, o dire quanto grande o piccola io sia: l’effetto dell’acqua sulla luce inganna
ma se guardi abbastanza a lungo, alla fine riuscirai a vedermi).
Da Brevi scene di lupi (Ponte alle Grazie, 2020)
Moltissimo
È na parola antica, che va sbiadendo. Moltissimo volli. Moltissimo pregai. Io lo amai moltissimo.
Mi faccio strada camminando con attenzione, per via delle ginocchia malandate di cui mi frega assai meno di quanto possiate immaginare visto che esistono altre cose un pelino più importanti (aspetta e vedrai).
Ho in mano un mezzo caffè in una tazza di carta con – me ne rammarico moltissimo – un coperchio di plastica, cerco di ricordare cos’erano quelle parole un tempo.
Moltissimo. Com’era usata? Moltissimo amati. Moltissimo amati, siamo riuniti. Moltissimo amati, siamo oggi qui riuniti in questo album di foto dimenticate che ho ritrovato di recente.
Sbiadite ormai, color seppia, in bianco e nero, stampate a colori, ognuno di noi così tanto più giovane. Le Polaroid. Cos’è una Polaroid? Chiede il neonato. Neonato da un decennio.
Come spiegarlo? Tu scatti e la foto esce dalla parte rialzata. Alzata sopra cosa? Con quello sguardo perplesso che vedo di continuo. Così difficile da descrivere i dettagli più minuti di come – tutti questi moltissimo amati qui riuniti – di come vivevamo un tempo. Si incartava l’immondizia con la carta del quotidiano legata con un filo. Cos’è un quotidiano? Voi capite cosa intendo.
Il filo però, di filo ne abbiamo ancora. Lega le cose insieme. Un filo di perle. Ecco cosa ti dicono. Come tenere traccia dei giorni?
Ognuno splendido, ognuno separato, ognuno unico e finito. Li ho tenuti sulla carta in un cassetto, quei giorni, adesso svaniti. Le perle possono essere usate per contare. Come nei rosari. Ma non mi piace avere pietre intorno al collo.
Lungo questa strada ci sono molti fiori,
sbiaditi adesso ché è agosto, polverosi e diretti verso l’autunno. Presto i crisantemi fioriranno, i fiori dei morti, in Francia. Non pensare che questo sia morboso. Sono le cose come stanno.
Così difficile descrivere i dettagli più minuti dei fiori. Ecco gli stami, niente a che fare con gli umani. Ecco i pistilli, niente a che fare con le pistole. Sono i dettagli più minuti a ostacolare i traduttori e anche me, quando provo a descrivere. Capite cosa intendo dire. Tu puoi deviare. Tu puoi perderti. Lo stesso accade alle parole. Moltissimo amate, riunite qui insieme in questo cassetto chiuso, ormai sbiadite, mi mancate. Mi manca chi è mancato, chi è partito troppo presto. Mi mancano anche quelli che sono ancora qui. Mi mancate tutti moltissimo. Moltissimo rimpianto ho di voi.
Rimpianto: ecco un’altra parola che non senti più tanto spesso. Io rimpiango moltissimo.
Da Moltissimo (Ponte alle Grazie, 2021)
Poesie tarde
Queste sono le poesie tarde. Quasi tutte le poesie sono in ritardo, ovvio: troppo tardi, come una lettera spedita da un marinaio che arriva dopo che è annegato.
Troppo tardi per essere di aiuto, certe lettere, e le poesie tarde non sono diverse. Arrivano come via mare.
Di qualsiasi cosa si tratti è già accaduta: la battaglia, il giorno di sole felice, il chiaro di luna che diventa voglia, il bacio d’addio. La poesia si arena sulla riva come un detrito.
Oppure tardi e la cucina è chiusa: tutte mangiate o fredde le parole. Galeotto, sorte e disfatto, o sospesi, attese e un poco, pensoso, dolente, desolata. Persino amore e gioia: vecchi canti pluri-masticati. Sortilegi arrugginiti. Ritornelli consunti.
È tardi, è molto tardi; troppo tardi per ballare. Allora, canta quel che puoi. Accendi la luce: canta ancora, canta: Ora.
Da Moltissimo (Ponte alle Grazie, 2021)
Margaret Atwood
Biografia di Margaret Atwoodè una delle voci più importanti della narrativa e della poesia canadesi. Laureata a Harvard, ha esordito a diciannove anni. Ha pubblicato romanzi, racconti, raccolte di poesia, libri per bambini e saggi. Più volte candidata al Premio Nobel perla Letteratura, ha vinto il Booker Prize nel 2000 per L’assassino cieco. Fra i suoi titoli più importanti ricordiamo: L’altra Grace (2008), Il racconto dell’Ancella (2017), Il canto di Penelope (2018), I testamenti (vincitore del Booker Prize 2019), La donna da mangiare (2020), Lesioni personali (2021), e le raccolte di poesie Brevi scene di lupi (2020)e Moltissimo (2021), tutti usciti per Ponte alle Grazie. L’autrice vive a Toronto, in Canada.
Stefano Massari ritorna quest’anno alla poesia dopo un lungo silenzio. La parola è recuperata dal poeta con coraggio, sapendola ormai sfruttata fino all’insignificanza dal mainstream sociale, dove anche l’arte è triturata e trasformata in altro. Si avverte chiaramente un necessario ritorno alla poesia civile – politica in senso lato – ma anche un’attenzione particolare alle relazioni interpersonali e amorose (ti poso le labbra sugli occhi mentre dormi/ faccio piano).
Il poeta sceglie di iniziare con un percorso tragico e potente, quasi una via crucis, con dodici morti che chiedono memoria e risurrezione. La scrittura è ritmata su versi liberi molto ben costruiti, con brevi distanze che intervallano i sintagmi e sostituiscono la punteggiatura.
Il lettore è costretto a porsi gli stessi interrogativi del poeta, le domande ultime sull’ingiustizia che si perpetua, sull’illusorietà di ogni facile sogno, sulla nostra vita e la sua fine destinale (anche quando crediamo noi di deciderla, la fine non è che il precipitare degli eventi – il più amato tra noi non sa obbedire/…/ e si impicca alle ciminiere/ più alte con un cappio conservato intatto/ nei secoli dei secoli dai padroni/ delle cattedrali dei quartieri/ dei tribunali).
Nonostante la laicità con cui legge il mondo, si avverte in Massari una spiritualità di fondo, dove, dopo la durezza delle denunce e le delusioni della storia, compare la fiducia in un progetto di vita nuova, come se le figure e le macchine del diluvio possano finalmente restare solo reperti antropologici e più risvegliarsi a ripetere il male:
guardiamo tre volte la calma
la casa costellazione la posizione nuda
dell’alba l’odore della schiena guardiana avremo i nostri figli legioni
i nostri fiori sentinelle
le vene disarmate le gambe unite
come latitudini avverate le mani
impareranno a riposare il pane
lo faremo insieme
VI
Sei volte annunciata arrivò la morte
dell’amico più grande che diceva ormai
di neanche pregarla che non c’era bisogno
perchè la pelle era già vetro abbastanza
e l’ago andava infilato caldo e buono
anche per l’osso e piano piano piano
così non avrebbe lottato ma pianto
all’infinito e dormito con i topi nel letto
che per rispetto gli avrebbero mangiato
soltanto una mano la madreperla mano
(dalla sezione I primi dodici morti 1969 – 1996)
*
il vincitore rovescia la maschera ai sepolti
battezza con migliaia di chiodi incendia
i libri santi la materia dei vetri dei venti
e degli alberi raggianti predica le braccia
a tenaglia la bava del bene penitente
confonde l’urlo nel numero e nel nome
di ognuno di noi
(dalla sezione, Figure del diluvio)
*
IV
la rotazione delle torri le nervature locuste
cresciute unanimi e insonni le cuciture dei cementi
e degli allarmi le giuste confessioni delle carni
(dalla sezione, Macchine del diluvio)
* * *
Biografia di Stefano Massari è nato a Roma (1969), poeta, videomaker, artista visivo, vive a Bologna. Ha pubblicato in poesia: diario del pane (Raffaelli 2003 – post-fazione di Alberto Bertoni); libro dei vivi (Book editore 2006 – post-fazione di Alberto Bertoni); serie del ritorno (La vita felice 2009 – prefazione di Milo De Angelis). Libri che hanno ottenuto premi e una vasta attenzione critica. Suoi testi sono presenti su numerose riviste letterarie e antologie critiche e tematiche, in rete, in Italia e all’estero. In dialogo critico con Alberto Bertoni e Pier Damiano Ori ha pubblicato il volume Stati di poesia contemporanea (l’Arcolaio 2017). Ha realizzato video su poeti contemporanei italiani e stranieri e suoi progetti di videopoesia e videoarte sono stati ospitati in vari festival di letteratura e arti visive, italiani e internazionali. In videopoesia ha vinto il premio TreviglioPoesia nel 2009; un suo lavoro di videopoesia è stata esposto nel 2011 alla Biennale d’arte di Venezia. Tra il 2000 e il 2010 ha fondato e animato diversi progetti culturali: FuoriCasa.Poesia, SECOLOZERO, LAND e CARTA|BIANCA, muovendosi tra web, video e arti visive, riviste, ideazione e direzione di collane di poesia ed organizzazione di eventi e curatele di mostre. Ha curato per oltre quindici anni i progetti video del Teatro delle ariette (www.teatrodelleariette.it), con cui ha realizzato numerosi lungometraggi in Italia e all’estero, ha inoltre realizzato numerosissimi altri progetti video tra teatro, poesia, video-arte, arti visive, comunicazione istituzionale e promozione sociale.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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“In fil di trama”- è la nuova raccolta di poesie di Stefania Rabuffetti
Stefania Rabuffetti, in libreria per Castelvecchi Editore con una prefazione di Massimo Arcangeli-100 parole – una per poesia – concatenate una con l’altra a intessere una trama, come fa un ragno con la sua ragnatela. Non a caso, sono proprio questi i due vocaboli che aprono e chiudono l’antologia. I versi qui raccolti, esito di un’intensa indagine su di sé resa possibile da una lunga pratica poetica, abbracciano molteplici contrasti: vita/morte, nulla/tutto, prigione/libertà, pace/guerra, notte/giorno, sorriso/pianto, per citarne alcuni. Queste dicotomie sono fondanti della vita stessa e necessarie per una visione universale, che abbraccia il mondo, l’infinito e il tempo nella sua interezza, «ciò che non ha dimensione», e – spingendosi ancora più in alto – lo Spirito.
La raccolta è frutto di un richiamo irresistibile della poesia. Come spiega l’italianista Massimo Arcangeli nella prefazione: «Se la poesia ti detta dentro non puoi farci niente. La cerchi, e non sempre la trovi (e, se anche la trovi, non sempre ti ascolta), ma quando è lei a trovarti, stanandoti da infingimenti e paure, non puoi resisterle, sei costretto a riportarne le parole. Stefania Rabuffetti vive l’esperienza poetica in questa misura». L’atto di scrivere diventa quindi atto necessario, l’autrice ha bisogno in modo insaziabile della poesia per dar voce a se stessa e ritrovarsi. Nei suoi versi si incontra una fame sazia di parole, e ancora un’infinita voglia di lasciare traccia della vena creativa.
La ruota gira la mente si muove il pensiero respira germogliano parole la penna scivola sul foglio l’inchiostro scrive la poesia rivive.
Stefania Rabuffetti
La scrittura è, dunque, per la poetessa lo specchio dell’anima: riflette la sua irrequietudine e le sue debolezze, ma è anche testimone di una costante ricerca di senso e della volontà di seguire il filo che si intreccia con al vortice/labirinto della vita, in «un abbraccio mortale che – come scrive Arcangeli – in realtà, è una promessa di rinascita.»
Stefania Rabuffetti è nata a Roma, dove vive. Per dieci anni ha lavorato nella redazione di programmi televisivi della Rai. Le sue poesie hanno dato vita a diverse raccolte, pubblicate da Manni: Il perimetro dell’anima (2009, Premio Minturnae 2010), Libertà vigilata (2011), Vietati gli specchi (2016), Cartoline dall’universo (2017, finalista al 44° Premio internazionale Città di Marineo), Parole affamate di parole (2019).
In fil di trama è la nuova raccolta di poesie di Stefania Rabuffetti, in libreria per Castelvecchi Editore con una prefazione di Massimo Arcangeli (pp. 112 – euro 14,50).
Breve biografia di Yvette K. Centenoè nata a Lisbona nel 1940 in una famiglia di origine tedesco-polacca. È sposata, ha quattro figli e la musica e la letteratura abitano, da sempre, la sua casa. Si è laureata in Filologia Germanica con una tesi su L’uomo senza qualità di Musil e si è addottorata con una tesi sull’Alchimia nel Faust di Goethe. Dal 1983 è Professoressa Ordinaria all’Universidade Nova de Lisboa, dove ha fondato il Gabinete de Estudos de Simbologia, attualmente parte del Centro de Estudos do Imaginário Literário. Sin da giovane, si è interessata al teatro, ha scritto commedie e racconti e ha fondato il CITAC a Coimbra. Ha pubblicato letteratura per bambini, saggi di ricerca, poesia, teatro e narrativa, con romanzi come Três histórias de amor (1994), Os jardins de Eva (1998) e Amores secretos (2006), con parte della sua opera tradotta in Francia, Spagna e Germania. Tra gli autori che ha tradotto ci sono Shakespeare, Goethe, Stendhal, Brecht, Rilke, Celan e Fassbinder.
UM DIA, DIZ A MULHER
Um dia
também eu sairei porta fora
caminharei nas ruas
ausente de sentido
atravessando esplanadas
e jardins
bairros que não conheço
irei em frente
sem parar nas lojas elegantes
da Avenida
que pouca Liberdade tem
irei assim
perdida e sem destino
descendo
à beira-rio
quando me virem na água
darão então por mim
(in Dizer, 2021, p. 13)
*
UN GIORNO, DICE LA DONNA
Un giorno
anch’io uscirò fuori casa
camminerò per le strade
errante
attraversando piazzali
e giardini
quartieri che non conosco
andrò avanti
senza fermarmi in quei negozi di lusso
dell’Avenida
che poca Liberdade ha
andrò così
persa e senza meta
scendendo
verso la sponda del fiume
quando mi vedranno nell’acqua
si accorgeranno di me
*
AO MODO DE ALBERTO CAEIRO, O MESTRE E ALTER EGO…
Vivemos entre dois mundos.
Um a que chamamos real, objectivo, quotidiano, normal.
Mas que não é nada disso, é tão ilusório, esse mundo real,
como qualquer outro que possamos fantasiar. São palavras, essas que repetimos e que não chegam a convencer: o que é
ser real, o que é ser objectivo, o que é ser normal? Onde
está ela, essa normalidade, que não encontro em ninguém?
Nem em mim nem nos outros, nem sequer no espaço sideral?
Para cada outro há uma palavra que se diz objectiva, real,
com o ar mais natural…
A cada um seu real, e assim cai por terra a ilusão que eu
tinha de um dos mundos…
Quanto ao outro, em que também julgo viver: é mais
íntimo, mais secreto, mais fraterno, será esse afinal o nosso
mundo real? O das escapatórias, das fantasias, dos rebanhos
que são montes de pensamentos por alinhar ao assobio de
um cão? E o cão? É ele elemento real? Ladra, como se deve
ladrar? Abana a cauda a sorrir? Ou vive apenas na ideia do
poeta, uma cabeça que nem ela é inteira…
Disse: vivemos entre dois mundos. Mas serão dois? Serão
mundos? Serão poucos, serão muitos? E como me permito,
eu que tanto hesito e duvido, usar este plural?
(in Dizer, 2021, p. 61)
*
ALLA MANIERA DI ALBERTO CAEIRO , IL MAESTRO E L’ALTER EGO.
Viviamo tra due mondi.
Uno che chiamiamo reale, oggettivo, quotidiano, normale.
Ma che non è nulla di tutto ciò, è così illusorio, questo mondo reale
come qualsiasi altro su cui possiamo fantasticare. Sono parole,
queste che ripetiamo e che non riescono a convincerci: cos’è
essere reale, cos’è essere oggettivo, cos’è essere normale? Dove
si trova lei, questa normalità che non riesco a trovare in nessuno?
Né in me né in altri, nemmeno nello spazio sidereo?
Per ogni altro c’è una parola che si definisce oggettiva, reale,
con l’aria più naturale…
A ognuno il suo reale, e così cade a terra l’illusione che io
avevo di uno dei mondi…
Quanto all’altro, in cui altrettanto credo di vivere: è più
intimo, più segreto, più fraterno, sarà questo alla fine il nostro
mondo reale? Quello delle scappatoie, delle fantasie, delle greggi
che sono mucchi di pensieri da allineare con il richiamo di
di un cane? E il cane? È un elemento reale? Abbaia, come si deve
abbaiare? Scodinzola sorridendo? O vive solo nell’idea del
poeta, una testa che non è nemmeno intera…
Ho detto: viviamo tra due mondi. Ma sono due? Saranno
mondi? Saranno pochi, saranno molti? E come mi sono permessa,
proprio io che esito e dubito tanto, a usare questo plurale?
*
O AMOR O ANJO E O CÃO (para a Ana Maria Pereirinha, 2020)
Havia amor por ali,
uma entrega tão subtil
que não podia ser dita
cortava a respiração
só podia ser vivida
em segredo
e só de dia
quando o Anjo os protegia…
Ainda assim havia a noite,
a floresta e o jardim,
um cão amigo a brincar
um céu com novas estrelas
acesas para o amor
que seria amor sem fim
(in Dizer, 2021, p. 64)
*
L’AMORE, L’ANGELO E IL CANE (per Ana Maria Pereirinha, 2020)
C’era amore lì
una dedizione così sottile
che non poteva essere detta
toglieva il fiato
poteva solo essere vissuta
in segreto
e solo durante il giorno
quando l’Angelo li proteggeva…
Eppure c’era la notte
la foresta e il giardino,
un cane amichevole che giocava
un cielo con nuove stelle
illuminate per l’ amore
che era amore senza fine
*
Traduttore Matteo Pupilloha conseguito la laurea magistrale in Lingua e Letteratura Portoghese presso l’Universidade Nova de Lisboa. A settembre del 2021, ha vinto una borsa di ricerca dottorale in Letterature Comparate e, attualmente, è dottorando presso il Centro de Estudos em Letras dell’Università di Évora, nonché Cultore della Materia in Lingua e Traduzione Portoghese e Brasiliana presso l’Università per Stranieri di Siena. Precedentemente, invece, è stato professore a contratto di Lingua Portoghese. Partecipa attivamente a congressi internazionali e i suoi interessi di ricerca vertono prevalentemente su scrittrici portoghesi e brasiliane e didattica del portoghese per stranieri. È membro dell’Associazione Internazionale dei Lusitanisti (AIL) e socio sostenitore dell’Associazione Italiana di Studi Portoghesi e Brasiliani (AISPEB).
*
Yvette K. Centeno – Inediti (trad. di Matteo Pupillo)
FOTO DI PROPRIETA’ DI Alexandre Almeida.
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Welso Giovanni Mucci (Giòanin per gli amici) nacque a Napoli il 29 maggio del 1911 da Ranieri, abruzzese e maestro di musica nel Regio Esercito, e Domenica Boglione di Bra. Rimase affezionato a questa cittadina tutta la vita, passandovi nell’età matura lunghi periodi.
OTTO DOZZINE DI VERSI PER IL COMPAGNO VENUTO A TENERE LA RIUNIONEI
Il compagno è senza un soldo Senza un soldo di lontano
E’ venuto con la pioggia
Con la pioggia e per le strade Di collina e poi del piano Con la moto e con la giubba Con la giubba sua di cuoio Che è solcata dalla pioggia Come a marzo una vallata
Il compagno è qui venuto
E ha tenuto
La riunione.
II Ha tenuto la riunione
Han parlato dei bollini
Dei bollini delle tessere
Dei problemi del Comune Hanno messo insieme i soldi Per la rata che si deve
Che si deve al fornitore
Che ha fornito il ciclostile
Poi qualcuno ha detto andiamo Chè alle cinque debbo alzarmi.
III Alle cinque hanno da alzarsi Per andare a lavorare
Al padrone non puoi dire Questa notte ho fatto tardi Nel Partito Comunista
Per discuter dei problemi Dei problemi del Comune Dei bollini delle tessere Delle rate da pagare
Se poi dice il ciclostile
Cose invise
Al padrone.
IV Ma quest’anno è un mostro il tempo Se pioveva un’ora fa
Marzo adesso è freddo e nevica
Il compagno che è venuto
Pioggia e fango ha già passati
Con la giubba e con la moto
Fango e pioggia può passare
Ma se nevica è un disastro
E’ un disastro da finire
Da finire dentro un fosso
Con al neve nei due occhi.
V Con al neve nei due occhi
Nei due occhi che hanno sonno Il compagno resta qui
Resta qui ma senza un soldo
A dormire dove va
La locanda che fa credito
Ma il portone già sprangato Sulla via che è bianca, è nero
Il portone, è nero il muro
Il compagno senza un soldo Non può andare
Nell’Hotel
VI Non può andare nell’Hotel Questo è chiaro a tutti quanti
Tutti quanti son persuasi
Che il compagno che è venuto Non può andare e non può stare E continuano a parlare
Dei problemi del Paese
Della guerra e della pace
Del Congresso del Partito
Del Partito dell’Unione
Della Cina
Della vita.
VII Della Cina della vita
Nelle strade che son bianche Lungo i muri che son neri Questi qui vanno parlando Come un tempo già i poeti
I poeti che ora stanno
Chiusi e freddi e muti e stanchi Senza un soldo dentro il cuore Con la resa dentro gli occhi Con la stizza sulla pelle
Di domani
Non si sa.
VIII
Di domani non si sa
Ma lo sanno questi qui Questi qui lo sanno, ché Ogni giorno un po’ lo fanno Il domani un po’ lo fanno Anche adesso che si parla Del lavoro e della vita Mentre portano il compagno A dormire sopra un tavolo Del Partito, con la testa Appoggiata al
Ciclostile.
LETTERA AI MEMBRI DEL CC E DELLA CCC DEL PCI
ascolto i vostri dibattiti come si ascolta il gorgo dei cassoni dell’acqua durante
le notti d’insonnia
reumatica.
(stando al piano delle lavanderie
com’io sto da quando ho memoria
si potrebbe anche tentare d’essere lucidi e assegnare più origini
a questi singulti del ferro
ma tutto
arriva qui col medesimo tuono) scusate dunque
la confusione che i vostri canali mettono nelle mie arterie infreddolite
non è un caso
che proprio il mio reuma più acuto sia accaduto insieme
con i vostri dibattiti
siamo stati aggrediti
da un medesimo vento
che le mie ossa ricevono gelido
e che molti di voi definiscono caldo vedete
che per poco che i miei versi
si prolunghino nella notte
come larve di antichi dolori
c’è rischio che anch’io entri tra voi a dibattere
sulla qualità
da dare
a quel vento
ora
ciò che manca nei vostri dibattiti (perché tutti noi si sappia che fare) è proprio
quel che una gran base
del Partito
vi addita
(se voi foste più logici)
un pizzico di
silenzio dicembre 1961
Passaporto di Welso Giovanni Mucci
TEMPO E MAREE –da Continuum 1962-1963
Will it bloom this year?T.S.Eliot
noi viviamo in un tempo
che la Morte è sospesa
vola un piccione grigio alla lavagna
del cielo di Charing Cross
i più vecchi tra noi
hanno strani ricordi
a quest’ora
nella piana di Pimlico
la Luna alza le strade
e sul Ponte di Londra
le acque umane si gonfiano
da un limo all’altro del fiume
se la memoria indugia
è sommersa
questo è l’ultimo tonfo della chiatta
alla chiatta che attracca
c’è il sottoterra e le domeniche
per covare i ricordi
noi viviamo in un tempo
che la Morte è sospesa
e i più vecchi tra noi
non hanno il cuore facile
se qualcuno verrà dopo di noi
in questi cunicoli
dove i treni biforcano
e i nostri giorni in piena ebbero pausa
sotto il crinale
ventoso della brughiera di Hampstead
non badi alle nostre ossa
ma alla vita che avemmo
per toglier di mezzo la Morte
questo è un tempo che torce ogni nostra ora
è lontano lo sparo
del suicida alla prua della sirena
il futuro è a portata di mano
ma nessuno verrà dopo di noi
a ruspare nel limo
delle basse maree vetri di guinness
o qualche magro rame
d’Elisabetta la Seconda
se al pelo morto delle acque
approda solitario un coccio bianco
dell’umano deterrent
corriamo un Sole basso all’orizzonte
sopra spalti di neve e sulla Terra obliqua
un cielo freddo si schiaccia
fino al ventre delle nostre memorie
Welso Giovanni Mucci a Londra 1962-63
………………
Londra, gennaio-febbraio 1963
ZONA
Ad Anna.
Nell’officina che ha le finestre sulla campagna
e lontano si vede il muretto
del cimitero ov’è la tua tomba,
quest’oggi tuo padre ed io litigavamo;
tra i ferri e le incudini
noi si gridava e scherzava
con queste giornaliere passioni,
come quando tu eri tra noi
ancora nel giuoco della vita.
Larve inconsapevoli
e accalorate
noi parlavamo di guerre
e di padroni del mondo;
e non capivamo che il tumulto
di questa età
è il rimbombo delle nostre voci
nel cavo del vostro silenzio.
Bra, settembre 1935.
A DORA
Qualche volta un ricordo mi rosica il cuore in silenzio
Puškin
Tu mi domandi perché amor non sciolga
mai la tristezza nel mio solitario
e pigro sangue. Non sai quale ossario
di alterchi è la memoria in me. Si volga
pure ogni anno: non c’è ch’io non mi dolga
di affrettati abbandoni. Era un orario
di scontri e buie morti e di afe il vario
apparir dell’età. Vuoi tu ch’io tolga
melanconica carne ormai dal cuore
che gli anni irosi han chiuso in questa dura
maschera? È segno che scordi il dolore
che mi costò anche il tuo dono; e ho paura,
se tu scordi, che il poco e lento amore
si perda ancor nella mia vita oscura.
Roma, 14 ottobre 1946
ISPEZIONE
Ho fatto per tanti anni la vita di trincea
in camere sudice con qualche libro
e un letto disfatto da mesi,
che neanch’io so più da che parte sia il nemico.
So che se tento un’uscita,
non vedo che facce pronte e ostili
a un mio passo sbagliato.
Né mi è valso mutar stanza e città,
ché mi trovo assediato nella polvere
con un sorso di grappa.
Tuttavia ho sempre guardato con piacere
nel vetro delle finestre
questa dura cosa
che è ancora la vita d’un uomo.
E un giorno
morirò nella strada.
Roma, dicembre 1948
A DORA, DURANTE UNA SUA LONTANANZA
Quando io muoio
vorrei che tu mi chiudessi gli occhi
e mi lasciassi sulle labbra
la pressione di un bacio.
Ci siamo incontrati a vivere
in questi
dei molti anni, da che esiste l’uomo
sopra la Terra;
e abbiamo avuto gli stessi giri di Sole
e le stesse piogge e gl’inverni
e gli umori primaverili.
Con qualche leggera fatica
abbiamo anche avuto gli stessi moti,
poiché insieme imparammo a conoscere
quali sono
questi dei molti
anni da che esiste l’uomo.
Andrò nella terra senza rimpianto.
E se i posteri dei posteri
scaveranno le nostre tombe,
vorrei che trovassero
accanto alla nostra polvere
la palla di gomma con cui giocavamo
un’estate
nelle ore di bassa marea.
Questa mia volontà
anche se immagino che non sarà rispettata,
fa capo al mio più gaio ricordo:
di te che corri lontana sulla riva
e che torni ridendo con gli occhi,
in uno degli anni
che ci siamo trovati a vivere
e a muoverci insieme.
Bra, 15 settembre 1955
DISINTOSSICAZIONE
Uno di questi giorni mi vedrai sparire,
inghiottito dai ricordi.
Quando i veleni quotidiani
cominciano a venir meno,
la memoria diventa un oceano.
Per qualche istante sarò anche buffo da vedere,
mentre mi dimeno
sulla cresta d’un ricordo più alto degli atri;
poi il risucchio sarà così forte,
che colerò per sempre a picco
nelle profondità della memoria.
Novara, aprile 1959
POESIE DI MAO
……………………..
Questa poesia, che tanti voli d’anatre
ha visti ai confini dello sguardo nel sud,
e dal massiccio K’un Lun
da cui il cielo dista non più di tre pollici
ha guardato
tutti i colori e i tempi della Cina,
deve farsi ora più esile e obliqua,
come dopo la pioggia torna obliquo il sole,
per attraversare i gioghi dell’Appennino
e la grigioverde Provenza
e le coste del Levante di Spagna,
fino a posarsi sui tetti infuocati d’Alicante
dove vive il mio amico.
Io da Roma,
quale un agente dei re della droga,
travaso in cartine di sillabe
questa polverina azzurra e dorata.
La poesia di Mao, come la Rossa Armata,
non ha temuto la difficile lunga marcia,
ha passato diecimila fiumi e mille montagne
e ha disteso il volto al sorriso.
Ora però deve ricordare
che la visuale cresce secondo la misura dell’occhio,
e mettersi ancora in cammino
senza perdere un segno
per le forre e le crepe di quelle arse pianure.
Welso Giovanni Mucci
MUSEO DELLE FACCE CHE DANNO SPAVENTO AGLI UOMINI
a Bertolt Brecht
…………………………..
In questo Museo
non cercate le facce
di ladri, assassini,
briganti o bari.
Ci sono al mondo, badate,
facce cattive,
facce mostruose,
facce che non promettono nulla di buono,
ma sono facce umane,
facce che si esprimono,
e di fronte alle quali
uno che per disgrazia si trovi a passare
sa subito
che deve difendersi
e magari perire in quel punto
per mano di uno
che porta scritto in viso
il nome della sua solitudine.
Ma di fronte a una faccia
di quelle che danno spavento agli uomini,
non è un solitario, né un misero,
che abbiamo davanti:
è un essere superiore,
che è sicuro di essere meglio
di te e di me,
e sa che ogni ragione
è dalla sua,
perchè sente di avere dietro di sé
una forza, la forza
dei suoi padroni, capace di far prediligere
le sue viltà più discordi,
da chiunque.
Anche se non ricorda,
nel punto che ci schiaccia,
di essere un servo, un braccio, un’unghia
di padroni,
che non vogliono mostrare la faccia
e hanno preso la sua.
E così,
se sorride,
dà spavento agli uomini.
————————-
Ma il giorno che avremo finito
di toglier di mezzo la forza
dei padroni di facce che danno spavento,
e avremo messo le altre
che ancora potrebbero crescere,
a far da custodi
nel Museo delle loro antenate,
con la mansione di tenere,
sia pure di pessimo umore,
spolverate le facce
che diedero spavento agli uomini,
quel giorno i ragazzi,
senza un’ombra,
giocheranno sui prati.
Bra, 29 settembre 1955
DELL’AMORE E DI QUALCHE ALTRA PASSIONE
Il giorno che le mie stanche ossa
e i nervi
cadranno in terra,
alle marcite gore del sangue
andranno i volti amati
e le ore
e i paesi più cari.
Anche se snervi
tutto questo la morte,
è questo il cuore
che sospinto m’avrà
sotto protervi cieli,
che tanto odiai.
Ti perderò per sempre,
amato volto del padre!
E tu
da quell’alba lontana,
che sopra un colle di ulivi
alla piana fresca del mare
il fiato ultimo hai colto,
in fondo agli occhi miei avrai fine.
Ascolto
le tue sbiadite tracce,
in questa frana
che fa il mio tempo;
e se incontro una tana
più calda al viver mio,
qui c’è più folto
un ricordo di te.
Sempre che ai vecchi portici io torni,
troverò ai miei passi
il tuo braccio affettuoso.
Anche al quartiere
dove ira ci spezzò,
son vivi i sassi.
E con noi scherzerà le estreme sere
il calabrone intorno agli arti secchi.
È raro che io t’incontri, o madre.
Vaghi
tu in età più remote;
e se a parlarti mi scopro,
è antico vizio.
Alle tue parti
spira un vento leggero e chiaro:
draghi luminosi di carta, le ansie;
e laghi docili d’acque, i giorni.
Ma se rasento il ciglio ove ti apparti;
giovane madre, e sconsolata indaghi
negli ultimi anni tuoi
cosa è che strugge
la fresca vita,
io ti vedo che ancora
pieghi il capo
a nascondere una lacrima.
Vuoi
che allegri io ricordi gli occhi,
e di acri tuoi pensieri non sappia!
Ma una ruggine
ogni costrutto tuo
presto divora.
——————–
E pur se il capo
ci confuse una tenebra,
or che stesi, e con i corpi stretti,
alle tue palpebre accosto
le mie labbra,
il sangue ha un caldo
che arde anche i più tristi arnesi
delle nostre paure;
e a me fa dolce
il tempo che verrà dopo queste ore,
e il ricordar gli amici che eran vivi
or son pochi anni,
e riguardar le cose
che lasceremo in breve.
Così andiamo alla notte
abbracciati,
o moglie mia;
e io sento ancora il tuo bel viso acceso,
che in me dileguerà l’ora ch’io muoio.
Roma, maggio 1960
Welso Giovanni Mucci al Giro d’Italia-1962
QUEST’UOMO
conoscete quest’ uomo
a quale perielio
bruci la domanda
e quale fossa del tempo
sempre un attimo sfiori
conoscete quest’ uomo
quale che sia le tenebra
a cui d’un alito fugge
e da che cieli defunti
guardi ancora la fine
bianca
d’una qualsiasi notte
conoscete quest’uomo
come che sia la specie
ancora accesa e la piazza
dove il saluto o il ricordo sta inciso
nella polvere delle pietre
come un incontro all’angolo
o come una storia estinta
dietro fogli d’alluminio
che presto un vento sopra la città
farà volare pesanti
…………………………
in quale mai folgore di tempo
conoscete quest’uomo
perchè sia necessario entrare
in orbite più minute
o cercare tra rughe
d’uno spazio meno feroce
ognuno potrà a prima vista distinguere
mané i bicchieri toccati al vertice dell’allegria
né le ruote dei primi carri
sapranno da soli tirarci dal groviglio
dei giri
che ci confondono
…………………………..
conoscete quest’uomo
è una domanda che mozza
il fiato delle galassie
e qui scatta a ripetersi
come un segmento
di monotone dinastie terrestri
in cui l’insipienza dei gesti
è il solo universo
cocciuto di qualsiasi gendarme abbia ordine
e maschera
d’intersecare una traccia
……………………..
nell’insieme degli uomini
dalle caverne agli astri
sola grandezza
che le galassie lascino
a ciascuno di noi ch’è niente
tra le scorie
di qualche stagione
che si mescoleranno forse alle ore
sempre incerte da vivere
se non odia e non lotta
con l’insieme degli uomini
a dare fossa
ai secoli che ci dànno la caccia
su un grumo di terra sperduto
in fondo agli universi
per questa nostra folgore di tempo
Parigi-Basilea-Roma, gennaio-febbraio 1962-
Welso Giovanni Mucci -Autobiografia
Welso Giovanni Mucci (Giòanin per gli amici) nacque a Napoli il 29 maggio del 1911 da Ranieri, abruzzese e maestro di musica nel Regio Esercito, e Domenica Boglione di Bra. Rimase affezionato a questa cittadina tutta la vita, passandovi nell’età matura lunghi periodi.
Da ragazzo dovette seguire le peregrinazioni per tutta Italia del padre, fino a stabilirsi a Torino, dove si laureò in filosofia estetica. Durante il periodo dell’Università giocò nelle riserve della Juventus, bohémien nel cosiddetto fascismo di sinistra. Romano Bilenchi ricorda nel suo libro “Amici” l’epico pestaggio a cui fu sottoposto allora con Primo Zeglio da parte di alcuni esagitati del Guf.
Fu proprio a Torino che esordì sul “Selvaggio” di Maccari come critico musicale (si firmava ancora Welso),e conobbe gli artisti che rimasero i suoi amici per tutta la vita (Spazzapan, Menzio, Cremona, Rosso e tanti altri)
Nel 1934 si trasferì a Parigi, dove aprì con il cugino Sandrino Alberti una libreria antiquaria. Qui tennero anche mostre dei loro amici pittori fino allo scoppio della guerra che pose fine a tutto. A Parigi poterono frequentare le avanguardie artistiche e letterarie del tempo.
Pubblicò in quel periodo i suoi scritti e le poesie giovanili in brochures semiclandestine oggi introvabili.
Ma fu a Roma, nel dopoguerra, che iniziò il suo periodo creativo più felice.
Insieme a Leonardo Sinisgalli, Nicola Ciarletta e Aldo Gaetano Ferrara fondò la rivista bimestrale “Il Costume politico e letterario”, dove per cinque anni raccolse le firme migliori dell’Italia letteraria di allora.
Poi ideò con Dora, la sua moglie-donna-compagna, le tredici superbe cartelle del “Concilium Lithographicum”, dove alle litografie di De Chirico, Maccari, De Pisis, Fazzini e altri erano affiancati gli scritti di Ungaretti, Palazzeschi, Cardarelli, Sinisgalli.. Dora gliel’aveva presentata Maccari nel ’39 a Roma, e lo amò sempre, fino all’ultimo.
La moglie di Sinisgalli, Giorgia de Cousandier, rievocherà nel 1965 in un commosso ricordo di Mucci sulle pagine della rivista “La botte e il violino” anche la gestazione del “Concilium” e del “Costume”.
Sempre negli anni cinquanta venne la sua collaborazione con il ”Contemporaneo”, la rivista politico-letteraria di ispirazione marxista diretta da Antonello Trombadori. (Mucci aveva preso la tessera del PCI nel ’45). Diresse anche “La Voce“ di Cuneo, e pubblicò i suoi saggi nel volume “L’azione letteraria 1.”
Ma fu solo nel 1962 che una grande casa editrice, la Feltrinelli, pubblicò per la prima volta le sue poesie in “L’età della Terra”. Ne scrisse la prefazione Natalino Sapegno, e vinse il premio Chianciano ex-aequo con Andrea Zanzotto. Fu anche in Spagna a prendere contatti per il PCI con l’opposizione antifranchista, e da questo viaggio nacque uno storico numero del Contemporaneo. Sempre nel 1962 fu inviato dall’Unità al Giro d’Italia, e ne fu il cronista attento e polemico.
La sua ultima stagione iniziò a Londra, dove si era trasferito per imparare l’inglese alla perfezione. Ufficialmente era per poter leggere l’Ulisse di Joyce in lingua originale, che aveva già scoperto a Torino in francese tanti anni prima. Il suo vero sogno, però, era di andare come inviato dell’Unità a Pechino. Aveva cominciato a coltivarlo nel ’58 a Tashkent, quando aveva partecipato alla Conferenza degli scrittori afro-asiatici e conosciuto Nazim Hikmet, il grande poeta turco che aveva tradotto in italiano. In quell’occasione aveva conosciuto i compagni del Partito comunista cinese, con i quali aveva fraternizzato.
A Londra scrisse le 200 cartelle del suo romanzo, “L’uomo di Torino”. Ci mise sei mesi, dal 7 novembre del 1963 all’aprile seguente. A maggio lo colse il primo infarto. Dora disse che non smise di fumare dopo questo. Il secondo, la notte fra il 5 e il 6 settembre 1964, gli fu fatale.
Le sue opere uscirono postume, lentamente, nell’arco di quasi quindici anni. Feltrinelli pubblicò nel 1967 “L’uomo di Torino” e l’anno dopo la raccolta di tutte le sue poesie “Carte in tavola”. Nel 1973 uscirono le sue “Carte di un italiano dell’11”, e l’antologia dei suoi saggi filosofici e letterari curata da Mario Lunetta fu pubblicata nel 1977 con il titolo “L’azione letteraria”. Poi più nulla fino al 2009, quando uscì una plaquette con una scelta delle sue poesie a cura di Massimo Raffaeli.
Lo conobbe e lo apprezzò praticamente tutta la critica militante italiana del ‘900, dalla quale non ricevette quasi mai stroncature, anche se lui invece non le risparmiò. Clamorose furono quelle di Louis Aragon che lodava il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e del Dottor Zivago di Pasternak. Nel 2008 gli fu conferito, postumo, il premio letterario Feronia.
Biografia di Velso Mucci (Napoli, 29 maggio 1911 – Londra, 5 settembre 1964)è stato uno scrittore italiano. Durante gli anni del fascismo, per le idee politiche comuniste, è costretto a peregrinare in molte città italiane dove alternò la passione per le lettere alla professione di libraio. pur nelle difficoltà del periodo, continuò a scrivere (“Scartafaccio” viene pubblicato nel ’48 ma è presumibilmente scritto nei primi anni Trenta), fondando e dirigendo nel ’45 la rivista “Il costume politico e letterario”. Negli anni Cinquanta si trasferisce a Bra dove ha modo di proseguire la sua attività letteraria ed impegnarsi politicamente. Nel 1956 viene eletto consigliere comunale, carica che manterrà fino al 1960, ed è chiamato a dirigere il settimanale politico cuneese “La Voce”. Il suo capolavoro letterario è il romanzo “L’uomo di Torino”, che offre uno spaccato della realtà cittadina ai tempi delle prime industrie conciarie negli anni Venti.
Visse in diverse parti d’Italia a seguito degli spostamenti del padre, militare e maestro di musica, fino a stabilirsi definitivamente nel 1924 a Torino, dove frequentò il Liceo classico Cavour, conoscendovi, tra gli altri, Giancarlo Pajetta. All’inizio degli anni ’30 entrò come critico musicale nella redazione de “Il Selvaggio”, dove conobbe, oltre al direttore Mino Maccari, personaggi come l’architetto Carlo Mollino e artisti come Carlo Carrà, Filippo De Pisis, Giorgio Morandi e Luigi Spazzapan, che ospitò poi nella libreria antiquaria aperta sulla Rive Gauche a Parigi, dove si era trasferito nel 1934. Il suo profilo letterario, legato nelle prime esperienze degli anni ’20 soprattutto alla personalità di Vincenzo Cardarelli, di cui più tardi curerà le edizioni delle Lettere non spedite (Roma, Astrolabio, 1946) e dei Prologhi viaggi favole (Milano, Mondadori, 1946), si arricchì a Parigi grazie alla frequentazione di intellettuali come Paul Éluard, Tristan Tzara, Nazim Hikmet, di cui tradusse più tardi le Poesie (Roma, Editori riuniti, 1960). Dopo la guerra si trasferì a Roma, dove fondò e diresse Il costume politico e letterario, bimestrale dove pubblicarono, tra gli altri, Leonardo Sinisgalli, Umberto Saba, Giorgio Bassani, Mario Tobino, Giuseppe Raimondi, Giuseppe Ungaretti. Nel 1947, dopo essersi iscritto al Partito comunista italiano, entrò in contatto con scrittori quali Niccolò Gallo, Mario Socrate, Giuseppe Dessì, e venne chiamato nel 1958 a far parte del comitato direttivo del Contemporaneo.
Opere principali
Esercizi: 1927-1933 (liriche), Torino, Il Portico, 1935
Le carte (prose e versi liberi), Roma, Il Selvaggio, 1936
Scartafaccio 1930-1946 (versi e prose), Roma, Tip. Ist. Grafico Tiberino, 1948
L’ umana compagnia, con un disegno di Giorgio De Chirico e due incisioni di Mino Rosso, Roma, Il Costume editoriale, 1953
L’ azione letteraria, Roma, Il Costume editoriale, 1958
L’ età della terra (versi), Milano, Feltrinelli, 1962 (premio Chianciano ex aequo con Andrea Zanzotto)
L’ uomo di Torino (romanzo), Milano, Feltrinelli, 1967, ripubblicato nel 2012, Milano, Scalpendi ed.
Carte in tavola (versi), prefazione di Natalino Sapegno, Milano, Feltrinelli, 1968
L’azione letteraria (raccolta di saggi filosofici e letterari, a cura di Mario Lunetta), Roma, Ed. riuniti, 1977
Bibliografia
Dizionario generale degli autori italiani contemporanei, vol. II, Firenze, Vallecchi, 1974, ad vocem
Quest’uomo: Velso Mucci: contributi sulla figura e l’opera, Cosenza, Mondo Nuovo, 1974
Alberto Asor Rosa, Dizionario della letteratura italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1992, ad vocem
Conoscete quest’uomo (Atti del convegno in occasione del centenario della nascita, a cura di Alberto Alberti) Milano, Scalpendi ed., 2012
Mercato delle pulci – Scritti inediti e rari 1930-1963, a cura di Alberto Alberti, prefazione di Massimo Raffaeli, Scalpendi ed., Milano maggio 2015
C’è ancora molto sulla terra – Antologia poetica di Velso Mucci, a cura di Alberto Alberti e Nicola Vacca, Collana “Agorà”, L’Argolibro ed. giugno 2021
Maya Angelou- La poetessa che ha cambiato il mondo con le sue parole –
Maya Angelou
Maya Angelou (nata Marguerite Ann Johnson)ha pubblicato, nell’arco di mezzo secolo, un’autobiografia divisa in sette parti, tre libri di saggistica e numerose raccolte di poesia, oltre a libri per bambini, drammi teatrali, sceneggiature e programmi televisivi. Ha ricevuto decine di premi e più di trenta dottorati di ricerca honoris causa. Angelou è celebre soprattutto per le sette autobiografie incentrate sulle sue esperienze adolescenziali e della prima maturità. Con la prima autobiografia, Il canto del silenzio nella quale racconta la propria vita fino all’età di diciassette anni, ha incontrato un enorme successo e apprezzamento internazionale. –
SOLI
A letto, a pensare
Ieri notte
Come trovare casa alla mia anima
Dove l’acqua non abbia sete
E il pane non sia pietra
Ho capito una cosa
Non credo di sbagliarmi
Che nessuno
Ma nessuno
Qui può cavarsela da solo.
Ci sono milionari
Con denaro che non sanno usare
Le mogli corrono a destra e a manca come furie
I loro figli fanno il piagnisteo
Si rivolgono a medici costosi
Per curare i loro cuori di pietra.
Ma nessuno
No, nessuno
Qui può cavarsela da solo.
Adesso se mi ascolti attentamente
Ti dirò quel che so
Nuvole tempestose si vanno adunando
Il vento soffierà
La razza umana soffre
E io ne sento i gemiti,
Perché nessuno
Ma proprio nessuno
Qui può cavarsela da solo.
Eppure mi rialzo
Puoi infangarmi nella storia
con le tue amare, contorte bugie.
Puoi schiacciarmi nella terra
ma, come la polvere, iomi rialzo.
La mia sfacciataggine ti disturba?
Perché sei afflitto dallo sconforto?
Perché cammino come se avessi pozzi di petrolio
che pompano nel mio salotto.
Proprio come le lune e i soli,
con la certezza delle maree,
come le speranze che volano alte, iomi rialzo.
Volevi vedermi spezzata?
Con la testa china e gli occhi bassi?
Spalle cadenti come lacrime,
indebolite dai pianti della mia anima?
La mia immodestia ti offende?
Non te la prendere così tanto
solo perché io rido come se avessi miniere d’oro
scavate nel mio giardino
Puoi ferirmi con le tue parole,
puoi trafiggermi con i tuoi sguardi,
puoi uccidermi con il tuo odio,
eppure, come la vita, io mi rialzo.
La mia sensualità ti disturba?
Ti coglie di sorpresa
Che io danzi come se avessi diamanti
alla confluenza delle mie cosce?
Dalle capanne della storia ignobile iomi rialzo.
Da un passato radicato nel dolore iomi rialzo.
Sono un oceano nero, impetuoso e vasto
che traboccante e gonfio avanza con la marea.
Lasciandomi indietro notti di terrore e paura iomi rialzo
in un nuovo giorno miracolosamente chiaro Iomi rialzo
Portando i doni lasciati dai miei antenati,
sono la speranza e il sogno dello schiavo.
E così mi rialzo, mi rialzo mi rialzo.
Ancora, mi rialzo
Puoi sminuirmi nella storia
Con le tue amare, contorte bugie;
Puoi calpestarmi nella sporcizia
Ma, ancora, come polvere, mi rialzerò
La mia presunzione ti infastidisce?
Perché sei avvolto dall’oscurità?
Perché io cammino come se avessi pozzi di petrolio
Che pompano nel mio soggiorno
Proprio come le lune e come i soli,
Con la certezza delle maree,
Proprio come le speranze che si librano alte,
Ancora, mi rialzerò
Volevi vedermi distrutta?
Testa china e occhi bassi?
Con le spalle cadenti come lacrime,
Indebolita dai miei pianti struggenti?
La mia arroganza ti offende?
Non prenderla troppo male
Perché io rido come avessi trovato miniere d’oro
Scavando nel giardino
Puoi spararmi con le parole,
Puoi trapassarmi con gli occhi,
Puoi uccidermi con l’odio,
Ma, ancora, come l’aria, mi rialzerò.
La mia sensualità ti disturba?
Ti giunge come sorpresa
Che io balli come avessi diamanti
Al congiungersi delle mie cosce?
Fuori dai tuguri della vergogna della storia
Mi rialzo
In alto, da un passato che ha radici nel dolore
Mi rialzo
Io sono un oceano nero, tempestoso e vasto,
Sgorgando e crescendo rinasco nella marea.
Lasciandomi dietro notti di terrore e paura
Mi rialzo
In un nuovo giorno che è meravigliosamente chiaro
Mi rialzo
Portando i doni dei miei antenati,
Io sono il sogno e la speranza dello schiavo.
Mi rialzo
Mi rialzo
Mi rialzo
———–
Le belle donne si domandano dove si celi il mio segreto.
Non sono appariscente, né disegnata per vestire
taglie da modella,
ma quando comincio a raccontarmi
credono stia raccontando storie.
Dico loro
Che è nello spazio del mio abbraccio,
è nell’ampiezza dei miei fianchi
è nell’andatura del mio passo,
è nella linea delle mie labbra.
Sono una donna,
intensamente.
Sono una donna fenomenale
Ecco io chi sono.
Quando entro in una stanza,
disinvolta, come piace a te
E cammino verso un uomo
tutti gli altri si alzano in piedi
O cadono sulle ginocchia,
poi si raccolgono intorno a me
Come le api intorno al miele.
Dico loro
Che è il fuoco del mio sguardo,
è lo splendore del mio sorriso
è l’ondeggiare della mia vita,
ed è la gioia nei miei piedi.
Sono una donna,
intensamente.
Una donna fenomenale
Ecco io chi sono.
Anche gli uomini si domandano
cosa vedano in me,
ci provano davvero,
ma non riescono a toccare
l’essenza del mio mistero.
Quando tento di mostrarlo
essi dicono che ancora non vedono.
Dico loro
Che è nell’arco della mia schiena,
è nella luce del mio sorriso,
è nel sentiero dei miei seni,
è nella grazia del mio stile.
Sono una donna,
intensamente.
Sono una donna fenomenale.
Ecco chi sono io.
Ora puoi comprendere
perché il mio capo non è chino.
Io non urlo o salto in giro
io non parlo con un grido.
E quando mi vedi passare provi un orgoglio glorioso.
Io dico
è nello scatto delle mie ginocchia,
è nell’onda dei miei capelli,
è nel palmo delle mie mani,
è nel bisogno delle mie attenzioni.
Perché io sono una donna,
intensamente.
Una donna fenomenale.
Ecco io chi sono.
Maya Angelou
Maya Angelou (nata Marguerite Ann Johnson) ha pubblicato, nell’arco di mezzo secolo, un’autobiografia divisa in sette parti, tre libri di saggistica e numerose raccolte di poesia, oltre a libri per bambini, drammi teatrali, sceneggiature e programmi televisivi. Ha ricevuto decine di premi e più di trenta dottorati di ricerca honoris causa. Angelou è celebre soprattutto per le sette autobiografie incentrate sulle sue esperienze adolescenziali e della prima maturità. Con la prima autobiografia, Il canto del silenzio nella quale racconta la propria vita fino all’età di diciassette anni, ha incontrato un enorme successo e apprezzamento internazionale. –
Gabriele Galloni (1995 – 2020). Ha pubblicato le raccolte poetiche Slittamenti (Augh!, 2017), In che luce cadranno (RP, 2018), Creatura breve (Ensemble, 2018) e L’estate del mondo (Marco Saya, 2019). Ha pubblicato, inoltre, la raccolta di racconti Sonno giapponese (Italic Pequod, 2019). È stato co-direttore di Inverso – Giornale di poesia e autore e ideatore, per la rivista Pangea, della rubrica Cronache dalla Fine: dodici conversazioni con altrettanti malati terminali
Gabriele Galloni. Pensiamo che il modo più opportuno per ricordarlo sia proporre ai lettori una selezione dei versi che ci ha lasciato: una breve mappa che ci permetta ancora di dire «La musica dei morti è il contrappunto/ dei passi sulla terra». Una mappa – così, crediamo, avrebbe sorriso – finalmente libera dai punti cardinali.
Slittamenti
È giù negli interstizi di
tempo tra i minimi
e i massimi che accade
l’irreparabile.
*
Sappiamo per esempio
senza dirlo che adesso Villa Sciarra
è di nuovo uno scatto
sovraesposto, un abbassare lo sguardo
per troppa luce, il conto
di questa estate e di quelle trascorse.
*
Dormiva: questo ha detto. Lo ha svegliato
un fischio: così ha scritto. Un fischio come
d’aria tra spazi vuoti – già passato.
Di tutto questo a malapena il nome.
In che luce cadranno
I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile:
sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile
della conversazione. Sanno amarci
con una mano – e l’altra all’Invisibile.
*
Ho conosciuto un uomo che leggeva
la mano ai morti. Preferiva quelli
sotto i vent’anni; tutte le domeniche
nell’obitorio prediceva loro
le coordinate per un’altra vita.
*
I morti guardano alla luna come
un errore, uno sgarbo del creato;
pensano infatti che sia cosa messa
lì per illuderli (non percorribile).
L’imitazione di un antico sesso
senza ingresso né uscita né sala
d’attesa.
*
La musica dei morti è il contrappunto
dei passi sulla terra.
Creatura breve
Fabula
Volle provare la dissoluzione
della carne. Provarla con coscienza.
Rendersi terra fertile, ma senza
morire; vivo senza soluzione.
Pro Verbis #3
Rompi la roccia e ne uscirà dell’acqua.
Potrai berla, pensare un ritorno
alla materia dell’ultimo giorno.
La cosa che ti anticipa e ti chiude.
Fabula
Questa luna è una corsa di bambini
attorno a un pozzo quando il pozzo è pieno
fino all’orlo. E nessuno per chilometri.
Pro Verbis #4
E saremo l’Immagine dell’uomo.
Non la creatura breve, ma la traccia.
L’estate del mondo
Me ne vado; ma tu sei lontananza
che ritorna. L’eternità felice
del tuo viso indagato controluce –
dalla Magliana vecchia alla mia stanza.
*
Luna di luglio: dalla tua finestra
scoperta di sfuggita sopra il mare.
Per poco, ma l’abbiamo fatta nostra
pensando fosse un fondo di bicchiere.
Luna di mare; ciotole di legno
in fila tutte lungo il davanzale.
Il cielo non si asciuga – intanto
la marea sale.
III
Ma l’ultima parola sulla Luna
spettò al più piccolo di noi, che disse:
la Luna è questa duna senza attesa
di mare; è l’autostrada che da Piana
del Sole porta fuori le città
di tutto il mondo.
*
Capitava la notte che si andasse
a frugare, bambini, tra gli scogli;
cercando il Filo che riavvicinasse
le stelle l’una all’altra.
Raggiungere lo spazio dalla riva
del mare; intanto cogliere una lucciola
dal bagnasciuga e saperla sorpresi
ancora viva.
*
È la notte di san Lorenzo. Prima
che cadano le stelle scavalchiamo
il muretto del centro sportivo.
L’acqua della piscina è ancora mossa;
imita nei suoi guizzi le vicine
luci del campo da calcio; riflette
i nostri visi oltre il bordo, curiosi
del fondale laccato.
“Guarda”, mi dici alzando la tua Tennent’s
verso la Luna, “è come se a momenti
tutti i passati a noi qui ritornassero;
l’acqua si muove, si sta preparando
a ridarceli tutti”. Getti via
la bottiglia ormai vuota. Ci sediamo.
Ignoravamo che una volta nudi
saremmo nudi rimasti per sempre.
C’è qualcuno vicino a noi, ma l’ombra
lo nasconde. Sappiamo a cosa i corpi
servono gli uni agli altri, ché vent’anni
sono bastati a questo.
Abbiamo smesso di parlare; adesso
ascoltiamo soltanto.
Le presenze
non ci temono più; così continuano
i loro giochi a bassa voce, quasi
chiedessero a noi di imitarle.
Bestiario dei giorni di festa
Il cane
Un cane con due zampe è sempre un cane.
Purché sempre ricerchi con la coda
la fissità delle cose lontane.
Il pesce rosso
Il pesce rosso è aruspice celeste;
prova tu a decifrare le stelle da un vetro –
sicuramente non ci riusciresti.
Lo struzzo
Andando sempre avanti tutto il mondo
ci dimenticherà. Lo struzzo
preferisce così girare in tondo.
Fonte-Redazione «Inverso – Giornale di poesia»
a cura di Mattia Tarantino-fotografia di Arianna Vartolo
Le cicatrici di Gabriele Galloni nelle poesie che ci ha lasciato-Articolo di Gianni Montieri
“Sulla riva dei corpi e delle anime” è un’ampissima scelta di liriche in un volume molto bello, che si legge con piacere e a cui si pensa con qualche malinconia dopo la sua scomparsa: cos’altro avrebbe potuto essere? Cosa non è stato?
Articolo del 22 Giugno 2023
Diversi anni fa mi sono imbattuto nelle poesie di Gabriele Galloni, era giovanissimo e giovanissimo qualche anno dopo se ne è andato; erano versi freschi, pieni di squarci e illuminazioni e d’ingenuità, quest’ultima caratteristica non mi parve un difetto, ma qualcosa in divenire, necessaria al farsi di questo ragazzo che aveva voglia di scrivere, di farsi notare, di stare nel mondo delle lettere, di stare al mondo. Pubblicammo, su una rivista on-line (che esiste ancora Poetarum Silva) qualche poesia, tempo dopo, poco prima della sua morte – avvenuta nel settembre del 2020, a soli 25 anni – Galloni mi scrisse ringraziandomi perché eravamo stati i primi a pubblicare dei suoi testi, era un bravo ragazzo, un bravo poeta, destinato a diventare bravissimo. L’editore Crocetti pubblica in questo 2023 un’ampissima scelta delle poesie di Gabriele Galloni – una produzione vasta per un poeta così giovane, aveva fretta, aveva ragione – Sulla riva dei corpi e delle anime, ne viene fuori un volume molto bello, che si legge con piacere e a cui si pensa con qualche malinconia: cos’altro avrebbe potuto essere? Cosa non è stato?
«Così un giorno, per caso, / i morti costruirono / il primo cimitero sotto il mare. / Se ne dimenticarono / in un tuffo soltanto».
Galloni ha sempre scritto di vita e morte, del confine che le unisce più che separarle, e unendole sfuma come succede con l’orizzonte in certi pomeriggi al mare, o come accade a certi palazzi di periferia che paiono agitarsi sotto l’effetto di una Fata Morgana. Così come ha scritto del suo tempo di ragazzo senza indugiare nella cronaca, sospendendo il giudizio intanto che cercava di capire, perché questo – tra le altre cose – provi a fare quando sei molto giovane. A Galloni interessava la luce che si posava sulle cose, sulle case, su un lungomare, sui corpi per vedere come avrebbe potuto cambiarne lo stato, come in effetti lo mutava. Gli importava, di conseguenza, anche l’opposto: cosa accade quando la luce non filtra, non cala, non squarcia? Ed ecco il buio, la cupezza, l’istante nero che ci avvolge e che lo scatto della poesia risolve.
«I cavi elettrici, mi fai notare, / sembrano scie di cometa stasera».
Le cinque parti che formano il libro – introdotte da un testo di Alessandro Moscè – si tengono e si parlano come attraversate da un filo rosso molto sottile che quasi in silenzio le cuce e le lega. Le poesie di Galloni sono quasi tutte molto brevi, come se fossero attraversate da un fulmine che le proietta al suolo in poco tempo, di nuovo la fretta ma pure l’accelerazione reale del testo poetico, che arriva al punto in poche mosse. Non c’è fine alla vita, e allora i morti continuano a porsi le stesse domande dei vivi, e forse se le pongono meglio, hanno più tempo. La luna sulle case popolari è sempre sola, i morti (ancora) di notte (ma quale?) gettano via l’intonaco. Liberano i muri e lo spazio? Il mare, che può esistere, dietro una sala d’attesa. L’estate, che mi pare la stagione del respiro di ogni poesia di Galloni, come se l’inverno non fosse concepibile. Come se si potesse vivere, o scrivere, stando solo nella stagione più breve, quella della luce, quella in cui i corpi e le anime vengono sottratti alla notte, e possono essere raccontati, compresi, amati.
«Un bianco pomeriggio senza vento / Noi ce ne andiamo soli per la strada».
Le cicatrici camminano insieme alle speranze, le estati vengono prima di noi, della nostra nascita, siamo parte dei tempi che ci hanno preceduto. Questo mare che l’immaginazione di Galloni proietta nelle stanze, nel disordine dei giorni, come se volesse le sue poesie fatte di acqua e sale, in gran parte riuscendoci. Galloni sentiva la morte sempre a un passo, non la sua, quella di tutti, così si riempiva di vita, ne riempiva i versi. Non scriveva poesie politiche e nemmeno d’amore, perciò faceva entrambe le cose, inevitabilmente. Credeva nell’inutilità della poesia. In-utile, utile in sé, fedele a nessuna linea, a nessun profilo, modello. Unica regola: tracciare una linea, seguirla fino a che non scompare perché troppo visibile, perché irraggiungibile. Gabriele Galloni condivideva con me la passione per una canzone di Bruce Springsteen, Atlantic City, e allora chiudiamo questo pezzo cantando: «Well now everything dies baby that’s a fact / but maybe everything that dies someday comes back».
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