Breve biografia di Valentina Furlotti nasce a Parma nel 1993, città dove vive e insegna. Laureata con lode in Filosofia con una tesi sull’autore letterario, ad oggi sta ultimando la sua prima raccolta poetica. Suoi testi appaiono in Farapoesia.
Pasqua in RSA
Te lo presentano tirato a lucido
capelli argentati e barba fatta
solo qualche pelo sugli zigomi
sfuggito alla lama del rasoio.
Siede nel bianco come chi pretende;
calze nei sandali, piede che ondeggia.
Ornata di perle lo interroghi
su proverbi e tabelline, narri di un uovo
di cioccolato fondente
disciolto nell’auto. Labbra succhiano
dalla tua mano nido, finché la porta
spalanca luce e polvere.
*
Insegni come domare gli animali
al mendicante che osa chiedere;
sai piegare i vitelli in una pentola
e fingi di mangiarli in cinque
bocconi esatti. Ti accogliamo
al buio, sull’erba di candele:
è arrivato il Rabbunì. Lascia
che ti mostri la mia gratitudine
mentre ti prego di non sparire.
*
Stoviglie che tintinnano e limoni
tra le vie di Malaga, banchi
vendono mandorle e al mattino
biglietti della lotteria. Un genio levita
sotto l’ombra della Manquita,
da ventiquattr’ore a bordo strada
uno scarafaggio a gambe all’aria.
Biblioteca DEA SABINA -La rivista «Atelier»
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La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Descrizione–A distanza di oltre 500 anni dalla sua scomparsa, Louise Labé (1524 ca -1566), delicatissima poetessa lionese, mantiene intatto il suo fascino di donna libera e bella, evoluta ed emancipata, padrona, insieme, del suo corpo e della sua dignità, della sua cultura e della sua vita privata. Sebbene per secoli emarginata dagli ambiti educativi ed accademici perché considerata una voce avversa a quella delle patrie tradizioni – dunque femminista – il suo antico grido di protesta contro lo sfruttamento e la prevaricazione della donna da parte del suo “vir” incoerente e spesso brutale, e quindi anche ad opera degli ambiti maschilisti socialmente affermati, non si è mai spento. Perché l’uomo, secondo Lei, per essere veramente degno “d’honore e di rispetto”, deve sempre, da “vir”, mirare ad essere un “civis urbanus”; e la donna, non più ignorante e bigotta, svincolarsi dalla tendenza alla passività, ovvero da quello stato di rassegnazione che si è fatto complice della sua secolare inferiorità, per ambire ad un tenore di vita quanto più consono alle potenzialità della sua indole, davvero capace di qualificare la sua persona.
SONETTO IV
Da quando il crudele amore avvelenò
per la prima volta del suo fuoco il mio petto,
ho bruciato senza tregua del suo furore divino
che mai un giorno ha abbandonato il mio cuore.
Qualunque sia il supplizio, ed abbastanza me ne ha dato,
qualunque sia la minaccia e la prossima disgrazia
qualunque pensiero di morte che mette fine a tutto,
il mio cuore ardente non si stupisce di nulla.
Tanto più Amore ci assale con forza,
più ci fa raccogliere le nostre forze,
e ci fa essere sempre vigorosi nei suoi conflitti;
ma questo non è perché ci favorisce,
lui che disprezza gli dei e gli uomini,
ma per apparire più forte contro i forti.
XVIII
Baciami, baciami, baciami ancora!
Devi essere avventato, impudente, audace!
Corteggiami! Inseguimi! Baciami, così,
e ti ricambierò in carboni ardenti.
Soffri? Vieni, decoriamo il dolore.
Te ne darò ancora, come questi, e ancora
e ci baceremo, ancora, mentre
la gioia ci lacera.
So che il fuoco anima la tua creta informe,
permettimi, allora, di esagerare in felicità:
che la passione, violenta, sia regina, oggi.
Amo ciò che faccio
ma la gioia suprema mi è preclusa
se sono priva dei miei incontri selvaggi.
* SONETTO VIII
Io vivo, io muoio; io brucio e annego.
Ho molto caldo mentre soffro il freddo;
la vita mi è troppo dolce e troppo dura;
ho una grande tristezza mescolata di gioia.
Rido e piango nello stesso momento,
e nel mio piacere soffro molti grandi tormenti;
la mia felicità se ne va, e mai dura;
nello stesso momento sono secca e lussureggiante.
Così Amore mi conduce incostante;
e quando io penso di essere nel maggior dolore
all’improvviso mi trovo fuori da ogni pena.
Poi quando credo la mia gioia essere certa
e che sono nel punto più alto della mia desiderata felicità
ritorno nella mia sventura precedente.
SONETTO XIII
Oh! se fossi rapita sul bel petto
di colui per il quale io mi sento morire:
se la voglia non mi impedisse di vivere
il poco tempo che mi resta:
se stringendomi mi dicesse “cara Amica,
appaghiamoci l’uno con l’altro”, sarebbe certo
che mai tempesta, Euripe, ne vento
potranno separarci durante la nostra vita:
se nel tenerlo stretto tra le mie braccia,
come l’edera all’albero avvinghiata,
giungesse la morte invidiosa della mia felicità:
quando nella dolcezza dei nostri amplessi,
il mio spirito fuggisse sulle sue labbra
io morirei felice più di quanto lo fossi vivendo.
XXIV
Non condannatemi, donne, se mi commuovo
se sento mille fiamme ardere,
e mille scosse e mille spasimi,
se non mi stanco di piangere l’amore.
Oh, no! Non insultatemi
se sbaglio, la sentenza è questa.
Non esagerate coi pettegolezzi:
capitemi, quell’amore fu dolce.
Non è il dio del fuoco a indire
battaglia. Non ridite di Adone
che precipitò nel delirio d’amore
violento e splendido. Siate caute
soffrite ciò che io ho sofferto: allora,
gentili signore, non sarete tanto invidiose.
Poesie di Massimo Ferretti “Allergia” (1952-1962)-
Giometti & Antonello Editori-Macerata
Una volta ancora, la casa editrice Giometti e Antonello di Macerata ha fatto insorgere con le Poesie di Massimo Ferretti un’opera fondamentale da quella cupa fangaia dove vengono gettati gli autori di cui non si è potuto fare un calco preciso. In questo caso si tratta di Allergia, breviario dell’inappartenenza composto dal poeta Massimo Ferretti e stampato per Garzanti nel 1963: «Nella mia vita il viaggio resta il segno / di ciò che doveva essere la vita / se l’avessi capita troppo tardi. / Ma ho capito tutto troppo presto / e ogni viaggio è uno spostamento / da una solitudine a un silenzio». Lette oggi, queste sue parole imbevute di torto mi appaiono come lividi in rilievo, e in ogni nicchia gelata vi spio una lotta per riportarvi calore.
Nato a Chiaravalle il 13 febbraio del 1935, Ferretti morirà a 39 anni a causa di un problema cardiaco, quell’endocardite reumatica che contribuì a fare della sua esistenza il resoconto di chi del mondo ha visto soprattutto le secche, le stretture, e che nonostante ciò ha sparso un rigo d’inchiostro per ogni fitta: «Il suo sperimentare» scriverà Pasolini «non è altro che il suo attaccarsi alla vita: un solo gesto, cioè, che per valere deve essere sempre diverso.». Certo: Ferretti si tormenta, prende congedo, e sembra tramare uno sciopero ogni volta che va a capo. Eppure è proprio questo tenace adoprarsi per fare del libro un perenne scuotimento che bisogna insistere a chiamare poesia.
Così il verso di Ferretti, proprio quando sembra ripararsi nella soffitta della decadenza, ci esorta piuttosto a stravolgere la rovina, a guastare festosamente qualsiasi sentore di prosciugamento, di siccità. Soprattutto, a reclamare la vita: «[…] Ma resterò. Resterò a rincorrere la vostra perfezione di selvaggi […] Ma sappiate che io non so nuotare: e il coltello dell’odio e dell’amore l’ho sepolto nel mare».
Di seguito, pubblico una selezione di poesie dal volume, per gentile concessione degli editori, che ringrazio.
Massimo Ferretti
Da Ad un giradischi
(Il Donchisciotte della Rabbia)
[…]
Volevo andare a scuola d’ottimismo
quando mi accorsi d’essere felice.
Come chi dice di fotografie lasciate
allo stato negativo
per confortare di contorni bianchi
il buio delle parti addette all’anima
e un alfabeto d’onomatopee:
rutto / pernacchia / fischio / gargarismo /
e un finale a sorpresa di
risate.
È aperto – vi prego – non bussate.
***
Da I versi urbani
Tra il pollice e l’indice è tesa
un’arpa di nichel o d’argento…
… colore incontrollabile!:
con il lampione lontano
e l’interruttore sul muro
alle spalle della finestra
da cui ti contemplo dormire.
Ma in questa minuscola rete
è presa «tutta la storia»:
i tetti del centro
gli alberi del rione
la Cupola e l’Antenna
Eliogabalo e Accattone
Catullo e Sandro Penna
i preti i preti i preti
le stelle i culi le mammelle
il muschio dei governanti
i vespasiani i ruderi i fascisti
la libertà del meccanismo
i direttori i redattori i professori
i feti gli aborti i figli –
i sette colli della tua leggenda
e i sette giorni della mia settimana…
Città-capitale,
io ti guardo dal filtro della sostanza
che ho estratto dai buchi del naso
con l’unghia del dito minore.
***
Da Deoso
[…]
Già sento malfidi tremiti,
ecco che il falbo sole s’assiepa!
Il fluire di rabidi fermenti diviene costante… Ecco strabocca!
Ti s’è svegliato il cuore! Sobbuglia!
Più forte ansima su di me con le tue creste,
squassa, divelgi, sfacela questo corpo
che avvelena l’aria che respira
che agita la sabbia dei deserti
che toglie luce al sole.
Il tuo rabbuffoso fermento,
credimi, non è un tormento.
Arremba su di me una sola minaccia:
che tu ti stenda in quieta bonaccia.
E già grandeggia il rumore del silenzio,
seviziatore e tiranno dei suoni…
Lontani si protendono i monti,
dai bivacchi dei pastori s’alzano sopiti fumi –
qui i fari pascolano con i loro lumi.
O voce, questa notte di cinigia
m’è più dolce d’un’alba bigia.
Vi fu, sempre, una intransigenza. A Carlo Antognini, interessato alla sua opera, il 3 maggio 1967, scrive, recisamente, “Vorrei, in breve, che fosse evitato ogni riferimento a padrini (reali o presunti) a premi letterari (vinti o perduti) all’appartenenza a gruppi letterari (presente o passata), ecc.”. Già allora, a 32 anni – era nato a metà febbraio, nel 1935, a Chiaravalle – Massimo Ferretti tornava sulle sue tracce, cancellandole. Benedetto da una allucinata precocità, Ferretti scrive uno dei libri emblematici – e perciò remoti fino al pungolo dell’oblio – del secondo Novecento, Allergia. L’aveva scritto meno che ventenne, questo Dino Campana marchigiano, con una lampeggiante – e tutt’altro che ingenua – giovinezza, con un gesto d’ustione sul corpo della poesia – montaliana, ungarettiana, luziana – italica. Leggete questa, dal titolo emblematico, Polemica per un’epopea tascabile:
Sono un animale ferito.
Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda.
Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il cuore m’avrebbe solo bagnato.
Ero nato per la felicità della solitudine e il panico vergine dell’incontro: e mi sono ritrovato in una folla di eroi incatenati.
Ero nato per vivere: e m’avete maturato nella morte autorizzata dalla legge, nell’orgoglio delle macchine, nell’orrore del tempo imprigionato.
Ma resterò. Resterò a rincorrere la vostra perfezione di selvaggi organizzati nelle palestre, educati nelle caserme, ammaestrati nelle scuole: per la morte veloce delle bombe, per la morte lenta degli orologi delle seggiole dei telefoni.
Ma sappiate che io non so nuotare: e il coltello dell’odio e dell’amore l’ho sepolto nel mare.
*
Vanno fatte giocare insieme, gemelli contrari, secondo me, le parole “polemica” ed “epopea”, “tascabile” e “ferito”. Ogni epos ha il gergo di polemos. C’era un ragazzo, insomma, che aveva fiducia lirica e coscienza storica, che si sentiva espulso e sputato, “con un bigino di Marx nella tasca della blusa e pillole di Leopardi nell’altra”, sintetizzavo – giovanilista pure io – inserendolo tra i Maledetti italiani (il Saggiatore, 2007), per merito di due maledetti lettori, Flavio Santi e Massimo Raffaeli.
*
Prima di voltare le spalle al mondo, gettando sale sul fatto letterario, per occuparsi, a Jesi, nei tardi Sessanta, dell’azienda del padre, d’ambito edilizio, Massimo Ferretti fu il prodigio della poesia italiana. A promuoverlo e a esortarlo al verso fu Pier Paolo Pasolini, privatamente (“sei un mistero davvero appassionante”), poi al pubblico, su “Officina”, nel 1956, dicendo del “caso di questo ragazzo ventenne, traumatizzato e quindi prematuramente rivelato a se stesso da un’endocardite reumatica” che “è veramente unico, preistorico meglio che pregrammaticale, malgrado la sua straordinaria maturità”. Ferretti, per sempre incluso in una battagliera giovinezza, aspra, rigettò il vezzo tragico di Pasolini – come testimonia la lettera che si pubblica – soprattutto quando si confronta con la tragedia vera, nel 1959, il suicidio del cugino venticinquenne. Tuttavia, a Roma frequenta, tiepidamente, Bertolucci e Siciliano, passeggia lungo i convegni del Gruppo 63 e nel 1963, per Garzanti, pubblica Allergia, ricavandone un Viareggio per l’opera prima. Il libro, vigoroso, anomalo, poi dimenticato, fu recuperato da Raffaeli per Marcos y Marcos nel 1994 e risorge oggi per Giometti & Antonello insieme ad altri documenti (le lettere, ad esempio) che dicono l’indole del poeta.
La parabola letteraria di Ferretti si dice presto. All’onda del successo poetico s’aggiungono due romanzi, Rodrigo (ancora Garzanti, 1963) e Il gazzarra (Feltrinelli, 1965); qualche incarico nel mondo editoriale – un passaggio in Longanesi, la traduzione, per Astrolabio, di testi di antropologia, e, per Feltrinelli, di Tra, romanzo sperimentale di una scrittrice da riscoprire, Christine Brooke-Rose – e niente. Segue, per disposizione d’indole, il rifiuto d’un mondo che si avverte già marcato dal mercato, prono all’abuso estetico, inutile e inerte, insomma (a Gianfranco Canestrari, nel 1970, “Lo snobismo di sinistra – la politica come afrodisiaco – è una cosa che m’ha fatto sempre schifo, ma Feltrinelli e C. hanno proprio rotto gli argini del disgusto. E intanto sto ad aspettare traduzioni che nessuno mi manda”). La morte precoce – nel 1974 – i carati del carattere (che non le mandava a dire), ne hanno garantito, da un lato, la palude dell’oblio, dall’altro il culto, per intimi.
Massimo Ferretti
*
Di questo Donchisciotte della Rabbia (così una sezione del libro) vanno amate le poesie inquiete, l’imperfezione, le provvidenziali sbavature, gli sbalzi lirici. Come questo, che ha nome Anch’io sono il mare.
Spolperanno le montagne fino allo scheletro del corallo
ruberanno la fiamma al fuoco
e violeranno l’aria fin dove sospira,
ma il mare resterà il mare:
l’eterna emozione
l’elemento senza futuro.
Si sanno le piaghe aperte dalle navi
i delitti delle reti
e i tatuaggi carnali dei pescatori di perle,
ma il mare non cambia colore.
Non dico questo
perché ho segreti di conchiglie ribelli,
e l’amo perché la sua bellezza non mi fa soffrire.
Da piccolo mi ci portavano per farmi crescere forte
ma la mia stella incrociava altre acque
e nel libro del buio stava scritto
che il volto delle meduse
lo avrei trovato nella gente di terra:
e gli sono cresciuto lontano
con la misera invidia per i suoi sereni peccati
fatti di sole e di carne spogliata,
e ho accettato la sua potenza,
i lividi muri alzati tra nuvolo e abisso,
e l’onda del nord senza sogni.
Ma non ho avuto pazienza:
e l’acqua è rimasta col sale;
non ho avuto pazienza
perché anch’io sono il mare.
*
L’austera innocenza di Ferretti è un dono – d’altronde, quasi mai l’epoca riconosce i suoi. (d.b.)
***
A Pier Paolo Pasolini, Roma Jesi, 1 luglio 1959
Caro Pier Paolo,
«Molte volte un poeta si accusa e calunnia… »
mi hanno dirottato da Perugia la tua lettera che disgraziatamente non s’è perduta per la strada. Mi scrivi di capire tutto di me: e dimostri di non capire niente.
1) Il «desiderio di morire» appartiene alla tua psicologia, alla mia è del tutto estraneo. A 16 anni quando con la bicicletta mi sono buttato sotto un’auto (e s’è rovinata solo la bicicletta) l’ho fatto per disperazione «fisica»: da due anni una nevralgia reumatica nella zona del mediastino mi tormentava giorno e notte, e solo la morfina o gli ingorghi di stanchezza mi procuravano un dormiveglia di due ore una volta al mese: questa è «realtà» non auto-tenerezza, come è «realtà» – e non auto-esaltazione – il fatto che io non sono mai stato il malatino che fa pena; ma un «che peccato!», un’«incongruenza della natura», un «atleta fallito»: ho sorbettato queste qualifiche per tutta l’adolescenza: dal più scalcinato medico di campagna, al grande clinico, al colonnello-medico della visita di leva. Se ho registrato il «sentimento della morte» l’ho fatto per celebrare la vita. Io ho sempre desiderato vivere: e più stavo male, più volevo guarire.
2) Né l’Italia né io siamo in pericolo per il mio presunto e potenziale fascismo: l’Italia – come sempre – è minacciata dalla sua sacra ed eterna Natura, io dall’Indifferenza. Se scrivo di voler diventare un reazionario nello stesso momento so di aver semplicemente bestemmiato. A 17 anni, al tempo di Allergia, (quando ero «unico», «eccezionale», «straordinario») cercavo l’«immunità»: e tu sai che questo giovanotto «sufficientemente poeta» è sempre stato sufficientemente imprudente nel mondo dominato dalla «brutalità della prudenza». E tieni presente che ciò che io ho subito come si subiscono gli irrazionali fenomeni della natura, tu hai avuto modo di vederlo e capirlo: nel ’40 tu avevi 18 anni, io 5 (cfr. La Croce Copiativa).
3) Quanto al narcisismo schematizzi troppo. Io ho 24 anni. E se mi rimproveri di scrivere in prima persona (Leonetti direbbe in persona prima), mi costringi a guardarti con sospetto: «Se la nuova poesia si limita a denunciare in falsetto le ovvie miserie dei pastori e dei contadini a che cosa serve? Denunci, invece, quel proprio interno vizio conformistico…» scrivevi sul «Punto» del 25 maggio 1957 a proposito dei poeti meridionali, ma era un avvertimento che valeva per tutti. Allora: sei diventato vecchio o non hai più niente da dirmi? Non offre altre alternative la tua lettera acida in cui hai approfittato del mio dolore per fare il moralista a buon mercato. Lo saprò quest’inverno. Per ora ti prego soltanto di sopportare la noia della mia amicizia di cui tu non sai che fartene: io ho bisogno della tua: ti ho incontrato in un’età difficile e per me sei rimasto una presenza quotidiana. Che ti costa una lettera di otto righe, una volta all’anno? In bocca al lupo e rallegramenti anticipati per i premi; spero poi che avrai superato il trauma del trasloco e che i libri e i mobili siano in perfetto ordine. E i soliti abbracci sempre molto affettuosi, tuo
Massimo Ferretti
P.S. Mio cugino ha bisogno di molto silenzio: ora che appartiene ai commenti dei paesani.
Biografia di Massimo Ferretti nasce a Chiaravalle nel 1935.Sin da piccolo l’endocardite reumatica lo costringe a ripetuti ricoveri ospedalieri. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale si trasferisce con la sua famiglia nei pressi di Belvedere Ostrense. La sua passione verso lo studio del pensiero di poeti come Rimbaud, Eliot e Montale lo spinge a scrivere i suoi primi versi. Ha con il padre un rapporto conflittuale, dettato dal suo scarso interesse per lo studio. Pier Paolo Pasolini pubblica su “Officina” alcuni estratti dalle sue prime prove in versi. Dietro pressioni paterne si iscrive a giurisprudenza a Perugia. La morte suicida di un suo cugino lo sconvolge determinando l’avvio di un lungo periodo introspettivo. Collabora con “Paese Sera”e “Il Giorno”. Partecipa anche ad un concorso come programmista indetto dalla Rai, ma le sue cagionevoli condizioni di salute non gli danno la possibilità di superare la selezione. Successivamente, i rapporti con Pasolini si incrinano a causa del suo interesse riposto per il Gruppo 63. A seguito della morte del padre è costretto ad immergersi nell’attività lavorativa. Studia e perfeziona a Londra la lingua inglese. Nel 1968 riprende a scrivere svolgendo anche l’attività di traduttore. Nel 1974 la morte lo coglie nel sonno. Riposa nel cimitero di Jesi.
In versi pubblica:
Allergia. Prefazione ad una giovinezza(Jesi, Tipografia Civerchia, 1955);
Allergia (1952-1962)(Milano, Garzanti, 1963; Premio Viareggio “Poesia, opera prima“ 1963). L’opera viene ristampata da Marcos y Marcos nel 1994 e da Giometti & Antonello nel 2019.
In narrativa pubblica i romanzi:
Rodrigo (Milano, Garzanti, 1963);
Il gazzarra (Milano, Feltrinelli, 1965).
Premessa dell’autore a Deoso. Rappresentazione poetica (1954)
Questo nuovo mito è dedicato a tutti coloro che credono – anche se non con troppa fiducia – in un mondo interminato fatto a strati che ogni età, con la sua civiltà, colma, ma non completa; e che il tempo rende sempre più difficile a riempire la parte nuova, perché il progresso si scrolla di dosso anche delle scorie, inevitabili eredità per chi resta. Come ai figli generati dagli uomini e dalle donne che vissero in una ipotetica età dell’argento – se la vogliamo lontana da noi – o dell’uranio – se la preferiamo più vicina – in cui la paura pesava tutta sulle spalle di un capro espiatorio: Deoso, un infelice bastardo, figlio non riconosciuto della Paura e del Genere Umano.
Massimo Ferretti
di Massimo Ferretti
[Massimo Ferretti (1935-1974) è un poeta da riscoprire. Nato nella provincia marchigiana (a Chiaravalle) e morto a Roma, Ferretti ha vissuto sempre ai margini della letteratura ufficiale, pur conquistandosi con le sue opere diversi riconoscimenti importanti, come il Premio Viareggio Opera Prima per la raccolta Allergia (Garzanti, 1963), e pur avendo interlocutori e consiglieri d’eccezione come Pier Paolo Pasolini (cui è dedicata Lode d’un amico poeta, leggibile di seguito) e Antonio Porta. Affetto da una malattia cardiaca che, secondo la sua stessa interpretazione, lo costrinse a sperimentare una forma di «alienazione particolare» che si tradusse poi in quella «professionale» della scrittura, Ferretti nasce come poeta con un libro notevole che oggi finalmente la casa editrice Giometti & Antonello ci permette di rileggere: Allergia, per l’appunto, che nella sua prima edizione autoprodotta del 1955 reca il sottotitolo Prefazione ad una giovanezza e una nota in cui l’autore spiega ciò che l’ironica deformazione del titolo ungarettiano per eccellenza dovrebbe suggerire istantaneamente ai lettori: «Questa “allergia”», scrive Ferretti, «va intesa come immunità possibile e necessaria d’una malattia ben diagnosticata: la storia, insomma, d’una presenza delusa ma non sconfitta». Un’autodiagnosi perfetta, verrebbe da dire, e quasi, a posteriori, un commento del destino letterario di questo marchigiano irregolare e quasi crepuscolare (perlomeno come poeta e prima dell’adesione al Gruppo 63), che del grande archetipo leopardiano eredita per esempio il rapporto di amore-odio con una provincia che sentiva meschina, arida o, meglio, agghiacciante, come una delle più belle poesie di Allergia, I colori del gelo (riprodotta qui sotto), dichiara nei suoi versi finali: «La mia provincia verde di colline / la mia valle torbida di nebbia / il paese dove sono nato / la casa che mi ha cresciuto – / tornarono nel buio del paesaggio / che il treno divorava nella corsa: / venivo da loro e a loro ritornavo, / ma loro non mi offrivano la vita: / m’offrivano il teatro di me stesso / per monologare all’infinito / lucidando l’archivio degli errori, / vitali colori del mio gelo».
*
Polemica per un’epopea tascabile
Sono un animale ferito.
Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda.
Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il cuore m’avrebbe solo bagnato.
Ero nato per la felicità della solitudine e il panico vergine dell’incontro: e mi sono ritrovato in una folla di eroi incatenati.
Ero nato per vivere: e m’avete maturato nella morte autorizzata dalla legge, nell’orgoglio delle macchine, nell’orrore del tempo imprigionato. Ma resterò. Resterò a rincorrere la vostra perfezione di selvaggi
organizzati nelle palestre, educati nelle caserme, ammaestrati nelle scuole: per la morte veloce delle bombe, per la morte lenta degli orologi delle seggiole dei telefoni.
Ma sappiate che io non so nuotare: e il coltello dell’odio e dell’amore l’ho sepolto nel mare.
*
Ballata interrotta
Gioia infinita di sentirsi
nel coro; di dire: anch’io canto
con loro. Non sono belle le loro
canzoni, ed essi hanno
la voce stonata. Eppure ora tace
la capra stranita legata
all’albero magro. Non è il frastuono
che strozza i belati: anch’essa ha visto
quelle ironiche bocche far saltare
l’allegria lungo i campi. – Non m’ammazzare, bionda, sono giovane! – Coraggio! Pedala: scopri i ginocchi! – Hei bionda, svicola: e avrai cento amanti!
Ma passa la bionda ciclista
e viene una siepe di filo
di ferro che senza sfiorarmi
mi squarcia la carne e il cuore mi sfibra:
rammenta una sorte. E non sono
nel coro. Io sono solo.
*
Anch’io sono il mare
Spolperanno le montagne fino allo scheletro del corallo
ruberanno la fiamma al fuoco
e violeranno l’aria fin dove sospira,
ma il mare resterà il mare:
l’eterna emozione
l’elemento senza futuro.
Si sanno le piaghe aperte dalle navi
i delitti delle reti
e i tatuaggi carnali dei pescatori di perle,
ma il mare non cambia colore.
Non dico questo
perché ho segreti di conchiglie ribelli,
e l’amo perché la sua bellezza non mi fa soffrire.
Da piccolo mi ci portavano per farmi crescere forte
ma la mia stella incrociava altre acque
e nel libro del buio stava scritto
che il volto delle meduse
lo avrei trovato nella gente di terra:
e gli sono cresciuto lontano
con la misera invidia per i suoi sereni peccati
fatti di sole e di carne spogliata,
e ho accettato la sua potenza,
i lividi muri alzati tra nuvolo e abisso,
e l’onda del nord senza sogni.
Ma non ho avuto pazienza:
e l’acqua è rimasta col sale;
non ho avuto pazienza
perché anch’io sono il mare.
*
Lode d’un amico poeta
Tu sei della stirpe di chi vince:
il male che scalfisci non ti tocca,
la tua maturità non ha timori –
ma non ripetermi che qui è la foresta,
che l’uomo è sempre una rivolta in atto,
che il verbo del poeta è la pietà:
una rondine sottratta alla corrente.
E un giorno non mi capirai.
Entrerò nella turba dei Falliti
con l’umiltà che sempre mi ha distinto;
brucerò tanta rabbia dentro il cuore
che l’inferno tremerà nel riscaldarmi:
e avrò anch’io un duro contrappasso:
sarò il bullone d’un ponte americano.
La tribù degli eroi delle parole,
ripiegata sui freddi tavolini
dove la carta brucia nella penna,
si presta a certi sbagli disumani:
ed ecco i fumatori di matite,
i coppieri dei calamai ammuffiti,
gli alfieri delle «leggi» del partito,
i sacrestani delle muse benedette:
una folla assurda e senza volto
che nuota nell’inchiostro
con la scienza della carta-calcante.
E la marea li mescola agli onesti:
ai profeti della giustizia anchilosata,
alle trombe medievali della Croce,
agli amanti delle immagini rapite.
Ma il tuo sangue non vive in questi lacci:
e io brucio stelle pel tuo canto vergine
turbato solamente dalla vita!
Io brucio stelle pel tuo verso barbaro
fermato nelle canzoni verdi
dell’uomo vivo, immerso nella terra.
Il vento di Provenza che lo scuote
è il rifiuto della pace degli antichi,
l’insulto alla vergogna del ricatto sociale,
l’urlo per la misura della morte.
Ma l’ansia di toccare il cuore al mondo
t’ha piegato al torpore della Lingua
che hai destato in difficili rime.
E l’Italia salvata nelle origini
rivive nel profumo della luce:
ed ecco i fiumi inquieti dell’infanzia,
la cupa adolescenza delle ombre,
gli ardori consumati nel silenzio,
i passi svuotati nelle strade,
la costante follia della Chiarezza,
la nostalgia invincibile dell’alba,
la solitudine accettata come un pegno
da risolvere in numeri di vita.
La tua origine è un’onda mostruosa
che ha radici negli abissi della luna,
il tuo pianto è una luce senza limiti
che libera dal buio esseri veri,
e il tuo furore critico
che incendia foreste filologiche
e scava negli angoli dell’anima
in fondo non conosce che una meta:
il tropico del canto corrisposto
dove il cuore è il calore della terra
e il popolo il palpito del mondo.
*
La coltivatrice diretta
Sono salito su un colle sottovento
perché la voce risultasse chiara
e ho gridato critiche gelate
alla mira del fratello adolescente:
ma lui non m’ascoltava affatto
e continuò a sparare
senza sbagliare un bersaglio
con i suoi polsi di roccia
guidati da l’occhio sereno.
E anch’io ho preso a sparare
pel gusto di esplodere colpi:
ho sparato su lampadine fulminate
su barattoli vuoti di conserva
su una lady delle pellicole «ferrania»,
scollatissima e a formato naturale,
su coperchi di scatole di scarpe
su defunte bottiglie di spumante –
e su tutta l’angoscia del mondo.
E per ogni bersaglio centrato
ho ballato nel verde del grano:
e la fresca rugiada del grano
m’ha invaso e passato i calzoni
dai piedi fino alle cosce.
E sono corso fino a un casolare
per portarvi la festa del fuoco
che hanno acceso per farmi asciugare:
e ho bagnato la gola asciugata
dal fuoco di troppe parole sconvolte
nel secchio ramato del latte
munto all’istante dalla ragazza più giovane
stordita dal fuoco e dal latte
bevuto nel secchio ramato
per bagnare la gola asciugata
dalle risate scavate da troppe parole sconvolte –
e lei m’ha pulito le scarpe
e lei m’ha asciugato i calzini
provando il secco calore
sulla sua guancia di perla.
Che importa salire,
che vale varcare la porta del mondo? –
se la vita è in fondo alle scale.
*
I colori del gelo
Nella mia vita il viaggio resta il segno
di ciò che doveva essere la vita
se l’avessi capita troppo tardi.
Ma ho capito tutto troppo presto
e ogni viaggio è uno spostamento
da una solitudine a un silenzio:
da un’attesa a un tacito possesso.
Non posso non fermarmi al corridoio
d’un rapido treno della notte,
pieno di tedeschi d’ogni sesso
e di reclute del nostro nuovo esercito.
– Dal congedo delle insegne luminose
dal patetico gergo dei consigli
salva, frau, questo provinciale!:
la tenerezza che sale da un abisso
è una luce che mi fa tremare,
la rivolta d’un reietto è una canzone,
il sole è il calore d’un relitto.
Sì, questa notte non sono entrato
perché sono un maschio in borghese
e non sono più un ragazzo
(«militari e ragazzi metà prezzo»):
sarò un alpino e avrò una penna nera,
non starò più attaccato a un finestrino
a decifrare teoremi neutrali
su estetiche statali e militari.
L’esercito amava alle mie spalle,
ma io non sono un soldato dell’esercito:
io sono un soldato della vita
e stanotte ho giocato una partita
molto più dura di quelle che faranno
i soldati che stanotte ti hanno avuta
e quelli che dormivano beati
nelle scomode amache improvvisate
con le retine dei portabagagli
e quelli incastrati nei sedili
tra tedeschi saturi di birra
e l’incenso dei piedi senza scarpe.
Davanti al vetro in cui ti specchi
per pettinare in pace i tuoi capelli
e mi chiedi perché non sono entrato
e mi dici che sarò un alpino,
stanotte ho guardato il mio destino.
La mia provincia verde di colline
la mia valle torbida di nebbia
il paese dove sono nato
la casa che mi ha cresciuto –
tornarono nel buio del paesaggio
che il treno divorava nella corsa:
venivo da loro e a loro ritornavo,
ma loro non mi offrivano la vita:
m’offrivano il teatro di me stesso
per monologare all’infinito
lucidando l’archivio degli errori,
vitali colori del mio gelo.
È inutile, ragazzo, pensare di correre se il cuore ha le valvole bruciate;
è inutile moltiplicare un metro di bosco e chiamarlo jungla, o voltare le spalle al mare e chiamare la sabbia deserto;
è inutile prendere la tessera al partito per sentirti comunista, o girare un disco di negri per sentirti negro:
e avere un motivo per protestare.
Il mondo non si accomoda, ma questo non è un male.
Il male è che il sabato continua a fare il padrone e la domenica la serva avvilita:
perché la carezza sognata può essere un miracolo azzurro e quella avuta è solo un vento di mano.
Ragazzo, tu sarai l’uomo che leggerà nel giornale come va avanti il mondo –
non darti pensiero di lasciare il posto pulito
e non picchiare tua moglie quando si vergognerà d’invecchiare:
la giostra girerà lo stesso e il tuo sangue non saprà di sale.
Nota degli editori
Allergia è un libro fondamentale per ridiscutere il canone obsoleto della poesia italiana del Novecento a partire dai senza patria, dagli scrittori irregolari e dalle individualità non facilmente catalogabili in una suddivisione per correnti. E l’autore ne era ben consapevole, se ancora ventenne scriveva in una lettera: «Dal ’52 in poi ho letto con passione e disordine diversi libri di poesia – buoni e cattivi –; tutti mi hanno dato qualcosa ma nessuno mi ha offerto un mondo da continuare.» E dodici anni dopo, nel comunicare una sua nota biografica: «Vorrei, in breve, che fosse evitato ogni riferimento a padrini (reali o presunti) a premi letterari (vinti o perduti) all’appartenenza a gruppi letterari (presente o passata), ecc.» Questa sua vocazione all’inappartenenza lo colloca naturalmente a fianco di autori già presenti nella nostra collana, come Armand Robin con il volume L’indesiderabile, o Marcello Barlocco, di cui a breve riproporremo i racconti. La notorietà in vita di Massimo Ferretti (Chiaravalle 1935 – Roma 1974) è legata alla pubblicazione della sua unica raccolta poetica, Allergia, la cui versione definitiva vede la luce nel 1963 per l’editore Garzanti e arriva a vincere il Premio Viareggio «Opera prima». Pubblicherà anche due romanzi, Rodrigo per Garzanti nel 1963 e Il gazzarra per Feltrinelli nel 1965, prima di abbandonare deluso la scena letteraria e rilevare l’attività commerciale del padre. Canzoniere crepuscolare e irrequieto di piccole vicende marginali di vita privata – dalle tragicomiche cronistorie familiari, sempre al limine tra parodia del poemetto storico e vocazione alla ballata, ai tableaux di ilare disperazione di una vita universitaria cui si sente fisiologicamente ostile, dall’isolamento marchigiano ai deserti delle relazioni culturali a Roma cui partecipa da estraneo – Bildungsroman auto-ironico e sentimentale «di un adolescente che diventa uomo» e infine scrittore, Allergia è la storia di una irriducibilità assoluta e irredimibile della vita poetica a qualsiasi norma umana o letteraria. Anche per questo, nonostante qualche meritorio tentativo, il libro è rimasto fino ad oggi in ombra, fra gli oggetti sommersi e inconoscibili della letteratura italiana per cui non si riusciva a trovare una via di recupero. Confidiamo che conquisti grazie a questa riedizione il suo spazio adeguato.
«La notorietà in vita di Massimo Ferretti (Chiaravalle 1935 – Roma 1974) è legata alla pubblicazione della sua unica raccolta poetica, Allergia, la cui versione definitiva vede la luce nel 1963 per l’editore Garzanti e arriva a vincere il Premio Viareggio “Opera prima„. Pubblicherà anche due romanzi, Rodrigo per Garzanti nel 1963 e Il gazzarra per Feltrinelli nel 1965, prima di abbandonare deluso la scena letteraria e rilevare l’attività commerciale del padre.
Canzoniere crepuscolare e irrequieto di piccole vicende marginali di vita privata – dalle tragicomiche cronistorie familiari, sempre al limine tra parodia del poemetto storico e vocazione alla ballata, ai tableaux di ilare disperazione di una vita universitaria cui si sente fisiologicamente ostile, dall’isolamento marchigiano ai deserti delle relazioni culturali a Roma cui partecipa da estraneo – Bildungsroman auto-ironico e sentimentale “di un adolescente che diventa uomo„ e infine scrittore, Allergia è la storia di una irriducibilità assoluta e irredimibile della vita poetica a qualsiasi norma umana o letteraria.»
Sonia Elvireanu, “Ensoleillements au cœur du silence” –
“Scintillii nel cuore del silenzio”
(Giuliano Ladolfi editore, 2022) dalla Rivista Atelier-
Nota di Claude Luezior, traduzione a cura di Giuliano Ladolfi
Nella raccolta di Sonia Elvireanu la contemplazione della natura si nutre di profonda riflessione secondo due diverse modalità: una poetica e una esistenziale. Il titolo “Scintillii nel cuore del silenzio” ci indirizza nella lettura: il primo termine ribadisce la vocazione della poetessa a procedere mediante “illuminazioni” o “fulgurazioni”, momenti di grazia in cui la visione poetica viene fermata sulla carta, senza alcun obbligo di trovare tra di essi nessi, consequenzialità, coerenza, sviluppo. Ma questa è la vita che procede in modo desultorio e contraddittorio; è il nostro modo di rapportarci con il reale, modo sempre esposto a una quantità di moti interiori in cui presente, passato e futuro si uniscono e discordano, in cui ricordi e speranze rivivono nella dimensione conscia e inconscia e creano quel magma che nessun tipo di analisi riesce a razionalizzare completamente.
Premio d’Onore al concorso “Exellence 2022”, Accademia poetica e letteraria della Provenza, Francia.
Nella raccolta di Sonia Elvireanu la contemplazione della natura si nutre di profonda riflessione secondo due diverse modalità: una poetica e una esistenziale. Il titolo Scintillii nel cuore del silenzio ci indirizza nella lettura: il primo termine ribadisce la vocazione della poetessa a procedere mediante “illuminazioni” o “fulgurazioni”, momenti di grazia in cui la visione poetica viene fermata sulla carta, senza alcun obbligo di trovare tra di essi nessi, consequenzialità, coerenza, sviluppo. Ma questa è la vita che procede in modo desultorio e contraddittorio; è il nostro modo di rapportarci con il reale, modo sempre esposto a una quantità di moti interiori in cui presente, passato e futuro si uniscono e discordano, in cui ricordi e speranze rivivono nella dimensione conscia e inconscia e creano quel magma che nessun tipo di analisi riesce a razionalizzare completamente.
Dans le recueil de poèmes de Sonia Elvireanu, la contemplation de la nature se nourrit d’une réflexion profonde selon deux modalités différentes : poétique et existentielle. Le titre Ensoleillements au cœur du silence nous guide dans notre lecture : le premier terme réitère la vocation du poète à procéder par “ illuminations “, moments de grâce où la vision poétique s’arrête sur le papier, sans obligation de trouver entre eux des connexions, des conséquences, des cohérences, des développements. Mais c’est la vie, qui se déroule de façon désordonnée et contradictoire ; c’est notre façon de nous rapporter à la réalité, une façon qui est toujours exposée à une quantité de mouvements intérieurs dans lesquels le présent, le passé et le futur s’unissent et discordent, dans lesquels les souvenirs et les espoirs revivent dans la dimension consciente et inconsciente et créent ce magma qu’aucun type d’analyse ne parvient à rationaliser complètement.
Sonia Elvireanu è poetessa, romanziere, critico letterario, saggista, traduttore, membro dell’Unione degli Scrittori della Romania. Ha conseguito il dottorato in Filologia, è professoressa; membro del Centro di ricerca sull’immaginario e del Centro di ricerca filologica per il dialogo multiculturale dell’Università “1 dicembre 1918”, Alba Iulia; è membro della Federazione internazionale degli insegnanti francesi (FIPF), vicepresidente e coordinatore culturale dell’Associazione franco-rumena AMI.
Con la casa editrice Giuliano Ladolfi ha pubblicato la raccolta di poesie Il canto del mare all’ombra dell’airone cinerino (2021).
Peindre les mots: l’expression est connue et a été employée en particulier par l’écrivain suisse Jacques Chessex. De plus, celui qui sait exactement d’avance ce qu’il va peindre est-il vraiment un artiste ? Celui qui connaît précisément ce qu’il va écrire en renvoyant les muses accrochées à ses lignes est-il poète ?
Lire Elvireanu, c’est s’immerger dans un monde onirique qui nous fait penser à celui de Claude Monet, comme nous l’avons déjà noté dans notre recension de son recueil, Le souffle du ciel. Monde enchanté où l’on picore les miettes de la couleur, des ensoleillements où chantent espaces et quiétudes…
Ne t’en vas pas, Lecteur : prends la pause sur le pont japonais du génial impressionniste : écoute la poétesse, susurre, psalmodie ses lignes au goût de miel. En français qu’Elvireanu maîtrise avec une aisance déconcertante, mais ici également en italien, la langue des anges que nous propose avec élégance son traducteur, préfacier et éditeur Giuliano Ladolfi.
Idiomes peints par des créateurs, au-delà du descriptif, propres au rêve, tout à la fois profanes et sacrés, intimistes et fantastiques, dans un au-delà de la texture grammaticale, dans un dépassement de soi.
Dans le brouillard (p.56)
Une brume bleuâtre
enveloppe l’argile au crépuscule,
le murmure d’un bourgeon
meurtri,
sous l’écorce,
le frémissement du silence,
l’iris de l’épanouissement
esseulé.
Brouillard, teintes bleuâtres, murmures, sous l’écorce, touches verbales mais aussi fascination transculturelle d’une écrivaine roumaine nous prenant par la rétine, avec, en miroir, les sonorités transalpines si riches de leurs voyelles! Les nymphéas de Monet en frémissent d’aise… Déambulation délicate, sécrétions de pétales et de mots en un silence feutré…
La poésie, telle la peinture, est souvent faite de surprises, d’émotions, d’inconscient à la marge du narratif : j’ai l’impression d’être dans l’attente du mystère / avec son pouvoir de te prendre aux tréfonds / pour te faire sentir la vie, aux mille visages / s’émerveillant de ses mots, de ton image (p. 106).
On se rapproche du passage entre le formel et le non-figuratif. L’académicien Henri Troyat ne disait-il que, même dans un roman, les personnages prennent le pouvoir ? Ici, c’est l’âme qui, dans l’éclat / de l’argile / céleste (p. 210), occupe toute la scène.
Peintre des mots : Sonia Elvireanu serait-elle un auteur impressionniste ?
Écrivain suisse romand (francophone), Claude Luezior est médecin, spécialiste en neurologie (son nom civil est Claude-André Dessibourg) et ancien professeur à l’Université. Par ailleurs, il a publié une cinquantaine d’ouvrages littéraires, dont une majorité à Paris : romans, nouvelles, recueils de poésie, une biographie romancée à propos du peintre Armand Niquille, un essai concernant la cathédrale de Fribourg ainsi que des ouvrages d’art. Plusieurs livres de Luezior sont traduits en langues étrangères et en braille. Huit d’entre-eux sont enregistrés en livres parlés pour les malvoyants de langue française. Il reçoit plusieurs distinctions, dont le Prix européen ADELF-Ville de Paris au Sénat en 1995 ainsi qu’un Prix de poésie de l’Académie française en 2001 (Hélène Carrère d’Encausse). Fasciné par le monde des idées et des mots, à la fois prosateur (Urbs), poète (Haute Couture) et homme de plume engagé (Nourrir les Colombes contre la guerre en Irak), Claude Luezior défend l’exclu (Monastères), celui que le sort fragilise (Impatiences) ou ceux atteints de handicaps (Rebelles).
Claude Luezior
Sonia Elvireanu
Sonia Elvireanu è poetessa, romanziere, critico letterario, saggista, traduttore, membro dell’Unione degli Scrittori della Romania. Ha conseguito il dottorato in Filologia, è professoressa; membro del Centro di ricerca sull’immaginario e del Centro di ricerca filologica per il dialogo multiculturale dell’Università “1 dicembre 1918”, Alba Iulia; è membro della Federazione internazionale degli insegnanti francesi (FIPF), vicepresidente e coordinatore culturale dell’Associazione franco-rumena AMI. Ha scritto diverse opere molto apprezzate in patria e all’estero. Con la casa editrice Giuliano Ladolfi ha pubblicato la raccolta di poesie Il canto del mare all’ombra dell’airone cinerino (2021).
Claude Luezior è uno scrittore svizzero di lingua francese, medico specializzato in neurologia (il suo nome civile è Claude-André Dessibourg) ed ex professore universitario. Ha pubblicato una cinquantina di opere letterarie, la maggior parte delle quali a Parigi: romanzi, racconti, raccolte di poesie, una biografia romanzata del pittore Armand Niquille, un saggio sulla cattedrale di Friburgo e libri d’arte. Molti dei libri di Luezior sono stati tradotti in lingue straniere e in Braille. Otto di essi sono registrati come libri parlanti per ipovedenti in francese. Ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui il Premio europeo ADELF-Città di Parigi al Senato nel 1995 e il Premio di poesia dell’Accademia di Francia nel 2001 (Hélène Carrère d’Encausse). Affascinato dal mondo delle idee e delle parole, scrittore di prosa (Urbs), poeta (Haute Couture) e scrittore impegnato (Nourrir les Colombes contre la guerre en Irak), Claude Luezior difende gli esclusi (Monastères), i fiaccati dal destino (Impatiences) o i disabili (Rebelles).
Traduzione a cura di Giuliano Ladolfi
Dipingere le parole: l’espressione è ben nota ed è stata utilizzata in particolare dallo scrittore svizzero Jacques Chessex. Inoltre, la persona che sa esattamente in anticipo che cosa dipingerà è davvero un artista? È poeta colui che sa esattamente cosa scriverà licenziando le muse aggrappate ai suoi versi?
Leggere Elvireanu comporta immergersi in un mondo onirico che ricorda quello di Claude Monet, come abbiamo già notato nella nostra recensione della sua raccolta Le souffle du ciel: un mondo incantato dove si beccano le briciole del colore, scintillii dove cantano spazi sereni…
Non andare via, lettore: fai una pausa sul ponte giapponese del genio impressionista; ascolta la poetessa, sussurra, canta i suoi versi dal sapore di miele: in francese, lingua che Elvireanu padroneggia con sconcertante facilità, ma qui anche in italiano, la lingua degli angeli, che il suo traduttore, prefatore e curatore Giuliano Ladolfi ci offre con eleganza.
Modi di dire dipinti dai creatori, al di là di una descrizione, affini al sogno, profani e sacri insieme, intimi e fantastici, in un al di là della trama grammaticale, in un superamento di sé.
Nella nebbia (p. 57)
Una nebbia azzurrina
al crepuscolo avvolge l’argilla,
il mormorio di una gemma
straziata
sotto la corteccia,
il sussulto del silenzio,
l’iris della fioritura
solitaria.
Nebbia, sfumature bluastre, sussurri, sotto la corteccia, tocchi verbali ma anche fascino transculturale di una scrittrice rumena che ci prende per la retina, con, di riflesso, i suoni transalpini così ricchi di vocali! Le ninfee di Monet fremono di gioia… Passeggiata delicata, secrezioni di petali e parole in un silenzio sommesso…
La poesia, come la pittura, è spesso fatta di sorprese, di emozioni, di inconscio al margine della narrazione: Mi sento come se stessi aspettando il mistero / con il suo potere di portarti nelle profondità / per farti sentire la vita, dai mille volti, / che si meraviglia delle sue parole, della tua immagine (p. 107).
Ci stiamo avvicinando alla transizione tra il formale e il non figurativo. L’accademico Henri Troyat non diceva forse che, anche in un romanzo, i personaggi prendono il sopravvento? Qui è l’anima che, nel bagliore / dell’argilla / celeste (p. 211), occupa tutta la scena.
Pittrice di parole: Sonia Elvireanu è un’autrice impressionista?
Biblioteca DEA SABINA- La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
direzioneatelierpoesiaonline@gmail.com
Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
Inger Marianne Larsen[2] (born 27 January 1951 in Kalundborg) is a Danish poet, writer, and novelist.
Between 1970 and 1975 Larsen was studying literature and Chinese at the University of Copenhagen, but then made the decision to write full-time.[1]
First poems were published in the magazine Hvedekorn (Wheatgrain) when she was 18,[3] followed by her first poetry collection, Koncentrationer (Concentrations), in 1971. Her writing at this early stage was experimental, giving way to a more engaged, affirmative style, both critical of officialdom and supportive of the underdog from a leftist point of view.[4]
Larsen’s first three novels, published between 1989 and 1992, were about a provincial girl’s coming of age and partly autobiographical. Since then she has written more novels, as well as books for children and young adults.[5]
Over the years she has been the recipient of many literary awards and prizes. The most recent of these was the Danske Akademis Store Pris (Great Prize of the Danish Academy) in 2022 with the citation: “Since her debut in 1971…her openly political dream world has been a seemingly endless and natural source of power in literature and in the Danish language.”[6]
There have been three English selections of Marianne Larsen’s poetry from three continents. The first, by Nadia Christensen, appeared in 1982 in the United States,[7] and Robyn Ianssen’s selection, Shadow Calendar, followed in Australia in 1995.[8] A third, gathering work from several translators, was published from the UK as A Common Language in 2006.[9]
Quando la gente la mattina si desta nei suoi isolati nuclei familiari con uno strano sapore di canti di libertà nella bocca, si desta anche il suo vuoto. E subito il vuoto pregusta la gioia di quando la gente sparirà nel buio, diretta alle macchine in attesa e resterà solo a possedere le cose e lo spazio che son loro. Attende invisibile con ansia. Quando è sicuro che la madre, il padre e i figli sono via salta come un pupazzo da una scatola magica e si mette a rovistare facendo da padrone. Nessuno sa quanto perverso sia il vuoto. Il vuoto che resta nelle case private quando la gente è uscita. Rovista fra lettere e armadi della gente, ne prova le vesti, si volta e rivolta davanti ai loro specchi. Il vuoto ha via libera quando la gente non c’è. Il tempo in cui sono costretti a stare insieme è una pena. Ma ciascuno si ingoia la sua uggia. Il vuoto se l’ingoia perché sempre sa che l’aspetta una mattina felice quando la gente sarà sparita per tutta una giornata di lavoro. Ma perché si ingoia la gente la sua uggia nei confronti del vuoto,quando non sempre può aspettarsi in fabbriche e uffici una mattina felice lontana dal vuoto. No, nelle fabbriche può però imparare a essere unita, e quando è unita non s’accorge tanto del vuoto. La gente parla sempre di unirsi per scacciare il vuoto dalle loro case e dal lavoro.
Fabel Når folk om morgenen vågner i deres isolerede familieceller med en sær smag af sange om frihed i munden, vågner deres tomhed også. Og tomheden begynder straks at glæde sigtil at se folkene forsvinde ud i mørket til de ventende maskiner så den kan få deres familierum og ting for sig selv. Den venter usynlig spændt. Når den er sikker på at både moren og faren og børnene er våek springer den som trolld op af æske, og begynder at rode og regere. Ingen ved hvior perverse tomheden er. Tomheden der ligger hen i de private hjem, når folk er gået. Den roder i folkenes breve og skabe, den prøver alt deres tøj, vender og drejer sig foran alle deres spejle. Tomheden har helt frit slag, når folkene ikke er der. Folk hader tomheden, og tomheden hader folk. Den tid de er nødt til at være sammen er en lidelse. Men de bider hver sine ulystfølelser i sig. Tomheden bider den i sig, fordi den altid kan sehen til en glad morgen, hvor folk forsvinde en arbejdsdag ud af syne. Men hvorfor bider folkene deres ulystfølelser over for tomheden i sig, de kan ikke altid se hen til en glad morgen borte fra den i kontorerne og på fabrikkerne. Nej, men på fabrikkerne kan de lære at holde sammen, og når de holder sammen føler de den ikke. Så meget. Folkene taler altid om sammen at fordrive tomheden fra deres hjem og fra arbejde.
Marianne Larsen (Kalundborg, 27 gennaio 1951), da Giovani poeti danesi (Einaudi, 1979)
Jack Hirschman nasce il 13 dicembre 1933 a New York nel Bronx, figlio di Stephen Dannemark Hirschman e Nellie Keller. Mentre frequentava ancora il liceo, comincia a scrivere come reporter per il Bronx Times e il Bronx Press-Review. Tra il 1951 e il 1959 completa gli studi al City College di New York e alla Indian University (con una tesi su Joyce).
Lamento d’una mamma napoletana (Alfondo Gatto tradotto da J.H.)
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Mio, il figlio, non era della guerra,
dei padroni che lasciano ch’io pianga
dietro la porta come un cane, mio,
delle mie mani, del mio petto giallo
ove le mamme seccano sul cuore.
Mio, e del mare che ci lava i piedi
tutta la vita, del vestito nero
che m’acceca di polvere se grido.
Mio, il figlio, non era della guerra,
non era della morte e la pietà
che cerco è di svegliare col suo nome
tutta la notte, di fermare i treni
perché non parta, lui, ch’è già partito
e che non tornerà.
Mio, il figlio, e la sua morte mia, la guerra.
I cavalli mi corrano sul petto,
i treni i fiumi ch’egli vide: il fuoco
m’arda i capelli ove la notte sola
alle mie spalle s’accompagna.
Il vento
resti del mondo allucinato, il sale
degli abissi che abbagliano, il lenzuolo
del nostro lutto…
Traduzione: Jack Hirschman
Le tombe le case (Rocco Scotellaro tradotto da J.H.)
Le tombe le case…
cuore cuore
oltre non ti fermare.
Il fumo dei camini
nell’aria bagnata
il passo dei nemici
bussano alla tua porta, proprio.
Cuore cuore
oltre non ti fermare.
Le tombe le case.
novembre è venuto,
la campana: è mezzogiorno
è lo scherzo del tempo.
I morti non possono vedere
la mamma è cieca presso il focolare.
Cuore cuore
oltre non ti fermare.
Le tombe le case,
dirsi addio e rimandare
l’amore ad altra sera.
Come le mosche moribonde ai vetri
scorrono ai cancelli i prigionieri,
è sempre chiuso l’orizzonte.
Quanti non hanno che sperare!
cuore, non ti fermare.
Le tombe le case,
è il dieci di agosto
che abbiamo scasato.
Che fanno dove abitavamo?
Negli alberghi girano le chiavi?
I miseri, i buoni
son dannati ai traslochi?
Le donne ebree gridano sui massi
del tempio rovinato.
Quanti non hanno chi pregare!
cuore, non ti fermare.
Le tombe le case
uomini curvi, donne aggrovigliate
si confessano alle inferriate
della Ricevitoria del lotto.
L’anima mia
è in questo respiro
che mi riempie e mi vuota.
Cosa sarà di me?
Cosa sarà di noi?
Per chi vuol camminare
dalle tombe alle case
dalle case alle tombe
grida nei cantieri
grida ai minatori
cuore, non ti fermare.
La poesia resistente! Napolipoesia, 2010
Traduzione: Jack Hirschman
La felicità
C’è una felicità, una gioia
nell’anima che è stata
sepolta viva in ciascuno di noi
e dimenticata.
Non si tratta di uno scherzo da bar
né di tenero, intimo umorismo
né di amicizia affettuosa
né un grande, brillante gioco di parole.
Sono i superstiti sopravvissuti
a ciò che accadde quando la felicità
fu sepolta viva, quando essa
non guardò più
dagli occhi di oggi, e non si
manifesta neanche quando
uno di noi muore – semplicemente ci allontaniamo
da tutto, soli
con quello che resta di noi,
continuando ad essere esseri umani
senza essere umani,
senza quella felicità.
Traduzione: Raffaella Marzano
L’arcano delle Torri Gemelle
1.
Un lutto tale dal quale
potremmo svegliarci
(essendo stati risvegliati da una tale luce)
per vedere la luce
alla fine:
che noi siamo ora
non più
né meno ma siamo stati più di altri
una terra violenta
nei nostri mercati monetari
nella nostra “legge ed ordine”
nei nostri “Quotidiani” quotidiani
nei nostri letti
una vita violenta
fingendo un’innocenza impenetrabile
e il potere simbolizzato
da quelle gigantesche
Twins.
La loro distruzione:
sogno di Hitler, sognato persino
prima che fossero costruite,
prima che il suo suicidio
cominciasse a combattere al fianco
del fanatismo religioso.
E noi
che avevamo ereditato tanto
della sua violenza ed anti-comunismo,
noi, che infine abbiamo persino
finanziato l’attacco
alla nostra pretesa innocenza
– noi così a nostro agio
con il fascismo (negato, naturalmente)
con la brutalità (rinnegata naturalmente)
con la libertà sentimentalizzata
da un nucleo di vuoto distruttivo,
disperazione,
cinismo in fondo,
figli di un nichilismo
a stelle e strisce (naturalmente negato e rinnegato)
“dalla California
all’isola di New York”
fratelli e sorelle,
i miei
così tristemente colpiti,
così profondamente colpiti.
2.
L’Israeliano dice: “Ora lo sanno”
lui che è stato infestato
dai geni
di una siringa di male indimenticabile
lunga dodici anni.
Probabilmente siamo noi ora a sapere
che cosa significhi essere totalmente detestati
fino all’apocalisse.
Ed è una difesa fascista contro
un attacco fascista che il mondo
sta preparando, perché non c’è altro
che quel nulla
di un pianeta scorpione che si mangia
la coda;
ed è la consapevolezza di questa verità
che raddoppia il lutto
e rende più profonda la paura
della perdita dell’innocenza
che già prima era una bugia.
Questa volta siamo davvero intrappolati
dalla verità e ci addolora
noi che siamo stati così a nostro agio
nella libertà della menzogna.
Questa volta la mobilitazione totale
della consapevolezza della guerra dice:
anche se il pacifismo cresce,
anche se esso impedirà attacchi in risposta,
anche se la non violenza trionfa,
il futuro sarà
come un uomo di colore,
o come l’erotismo,
che pur non più linciato o censurato,
comunque non si sentirà
mai completamente a proprio agio
in questa vita terrena.
Il dominio del nulla
è completo ora.
Dio assassinato da un lato.
Dio suicidato dall’altro.
Il trionfo del fascismo.
Siamo condannati a vivere
le nostre vite non-violente
comprando e vendendo
e pregando la violenza
nostro malgrado
perché non c’è nient’altro,
nulla è cambiato,
è solo più chiaramente rivelato.
3.
Celia,
so che sei corsa verso
non via da,
per aiutare, salvare.
E che hai visto il
secondo aereo svanire
nel muro mentre correvi
in quella direzione.
E che hai visto, per
la prima volta nella tua vita,
esseri umani saltare giù
da finestre altissime.
E le Twins collassare
in un’unica montagna ripiegata
di una morte moltiplicata per mille
e macerie e polvere.
Nulla di ciò che ho visto
su uno schermo televisivo
migliaia di miglia lontano
in un altro continente
può avvicinarsi all’orrore
di ciò che tu hai visto mentre
correvi verso la scena
fin quando non hai più potuto,
nuvole di polvere si espandevano
nelle strade e
quelli che correvano
via dal nucleo per salvarsi
ti dicevano che non potevi
andare oltre, non potevi aiutare,
non potevi salvare, o mia
coraggiosa, coraggiosa figlia.
So che il tuo dolore non viene
da lontano. In vano, in vano
sono morti! gridi e
e la tua disperazione allora forse
ci risparmia, forse addirittura ci salva
dallo shock che
ha trasformato il futuro in un
arcaico scavo archeologico.
4.
La notte che è arrivata, la notte tecnologica, lunga tutto il giorno,
e con essa il lutto,
il digiuno dei veloci,
il gusto amaro
del proprio deserto.
E che non è solo nostro
perché tutti parliamo con bocche di sabbia,
e le dune crescono, a onde con le parole
di un’oscurità abbagliante nel sole
che è infranto in ciascuno di noi.
Per tutta la notte, aeroplani ed elicotteri hanno volato
sui portici terra bruciata di Bologna,
dove mi ritrovo
in lutto.
È diventato lo Stato
dell’Essere.
Una bandiera nera
a mezz’asta.
Sospesa a mezz’aria.
(2001)
Traduzione: Raffaella Marzano
Sentiero
Vai al tuo cuore infranto. Se pensi di non averne uno, procuratelo. Per procurartelo, sii sincero. Impara la sincerità di intenti lasciando entrare la vita, perché non puoi, davvero, fare altrimenti. Anche mentre cerchi di scappare, lascia che ti prenda e ti laceri come una lettera spedita come una sentenza all’interno che hai aspettato per tutta la vita anche se non hai commesso nulla. Lascia che ti spedisca. Lascia che ti infranga, cuore. L’avere il cuore infranto è l’inizio di ogni vera accoglienza. L’orecchio dell’umiltà ascolta oltre i cancelli. Vedi i cancelli che si aprono. Senti le tue mani sui tuoi fianchi, la tua bocca che si apre come un utero dando alla vita la tua voce per la prima volta. Vai cantando volteggiando nella gloria di essere estaticamente semplice. Scrivi la poesia.
Little Kaddish
per mio figlio, David
Sono morto quando sei morto tu, mio caro, piccolo ravanello del grande mondo rosso piccolo kaddish del mio respiro
il mio digiuno è finito il mio attimo è compiuto
Io sono il verme sul fondo del mezcal, io sono il vento parassita che corre inseguendo le tue ceneri
per trattenere il calore in memoria del tuo fuoco, per nutrire il cuore della luce perchè il mio non c’è più.
In memoria di Ernest Hemingway
Sfilze di lampi nella mezzanotte del cielo del Dakota.
Dormivamo nel retro della macchina, i piedi che sporgevano dalla zanzariera.
Faceva caldo. Il Wy-
oming di mattina era rosso- indiano con montagne dai nasi aguzzi di
Shoshone, strapiombi di sedimenti stratificati che raccontano
di quando le montagne lottarono una contro l’altra e il Big Horn si restringeva con l’argilla e il limo fino
ai marroni e verdi montana. Cervi che saltavano sulle colline, orsi delle regioni selvatiche, un grande albero che spuntava dalla testa di un alce.
Ci dirigevamo verso sud nell’Idaho, evitando le città, prendendo strade secondarie, riempiendo il retro della macchina di ramoscelli e fiori.
Non accendemmo mai la radio. Non leggemmo mai un giornale.
Arrivammo in California. Il giornale diceva, Papà, che eri morto da tre giorni.
Le città e i paesi di nuovo in fila uno dopo l’altro. Il sole diventò accecante. Lei si mise gli occhiali scuri.
Guidai lentamente lungo le strade fino alla fine.
Saidichestoparlando
Quanti figli e figlie di tutte le centinaia di uomini e donne del Congresso stanno combattendo in Irak? Due. Bene, si tratta di un esercito volontario e gli uomini e le donne del Congresso, malgrado i loro impegni e i loro investimenti privati, sono per la maggior parte milionari. Saidichestoparlando I loro figli non hanno bisogno di un lavaggio militare perché sono stati sporcati da calunnie razziste, crivellati dalla paura della galera, perseguitati dalla povertà, come il 20 per cento degli Afro-Americani nelle forze armate (gli Afro-Americani rappresentano solo il 12 per cento della popolazione), o come la forte percentuale di Latini e bianchi poveri, che prendono ordini, lavorando in un paese la cui metà della popolazione sono bambini di 15 anni o più piccoli. Saidichestoparlando E io dovrei sentirmi patriottico ed abbracciare questa spinta verso la minaccia planetaria dalla parte di quella giunta militare di teste-morte che quotidianamente fanno galleggiare le sue infamie morali sui canali della nostra disperazione? La paura nucleare ha riportato indietro Dio dalla morte, e le Guerre Sante si guardano l’un l’altra nelle loro bugie, mentre i bambini qui e i bambini là sono devastati fino alle radici dei loro ancora possibili sorrisi innocenti. Nelle loro piccole teste, nelle loro entrate e letti, si augurano di potere, si augurano che potranno seppellirti, tu nullità assassino, per tutti i bambini che hai ferito, e getteranno sporcizia felice sul tuo cadavere, Mr. President. Saidichestoparlando!
Interludio umano
Lei stava appoggiata
al muro vicino
all’Hotel Tevere con in mano
un biccchiere di plastica
quando iniziò a piovere.
Ho cercato una moneta, le sono
andato vicino
e l’ho fatta cadere nel bicchiere.
Cadde sul fondo
di un’aranciata.
Sono arrossito, ho guardato
i suoi occhi devastati e la pelle
e i capelli diventati prematuramente
grigi, e ho detto che
mi dispiaceva, che avevo pensato
avesse bisogno di soldi.
“Ne ho bisogno”, rispose
e sorrise “Stavo
solo bevendo
qualcosa”.
E restammo così
a ridere assieme
mentre guardavamo le gocce di pioggia cadere
sul lago d’arancia
sopra la moneta che affondava.
Traduzione: Bruno Gullì
Jack Hirschman nasce il 13 dicembre 1933 a New York nel Bronx, figlio di Stephen Dannemark Hirschman e Nellie Keller. Mentre frequentava ancora il liceo, comincia a scrivere come reporter per il Bronx Times e il Bronx Press-Review. Tra il 1951 e il 1959 completa gli studi al City College di New York e alla Indian University (con una tesi su Joyce).
Nel 1953 Hirschman invia alcuni suoi racconti a Ernest Hemingway, che vive a Finca Vija a Cuba. Hemingway gli risponde incoraggiandolo a continuare a scrivere e gli suggerisce di leggere Stephen Crane, Guy de Maupassant, Ambrose Bierce, Gustave Flaubert e il primo Thomas Mann. Anni dopo, in seguito alla morte di Hemingway, la Associated Press diffonde la lettera che viene pubblicata sui giornali di tutto il paese compreso il New York Times, come “Lettera a un giovane scrittore”.
Nel 1954 sposa Ruth Epstein, una compagna di classe del City College, dalla quale ha due figli (David nel 1956 e Celia nel 1958) e dalla quale si separa nel 1972 e divorzia nel 1974.
Professore di inglese alla UCLA di Los Angeles dal 1961 al 1966, ha fra i suoi studenti Gary Gach, Steven Kesslerm, Max Schwartz e Jim Morrison. Fra il 1964 e il 1965 grazie ad una borsa di studio della UCLA fa il suo primo viaggio in Europa visitando Parigi, la Grecia e l’Inghilterra dove Asa Benveniste, della Trigram Press, pubblica Yod. È l’inizio della tendenza cabalistica nel lavoro di Hirschman che riapparirà nelle decadi successive.
Mentre Hirschman è in Europa scoppia la guerra del Vietnam. Tornato negli Stati Uniti riprende l’insegnamento alla UCLA e dà vita ad una serie di proteste e manifestazioni contro la guerra. Fra le altre cose comincia ad attribuire la “A” (corrispondente al voto più alto) a tutti gli studenti passibili di arruolamento per aiutarli a sfuggire alla guerra. Per questa attività definita “contro lo Stato” viene licenziato dalla UCLA nel 1966.
Rimane in California stabilendosi a Venice dal 1967 al 1970 dedicando tutto il suo tempo a scrivere, tradurre e dipingere. Inizia una collaborazione con David Meltzer che pubblica nella rivista Tree diverse sue traduzioni cabalistiche.
Nel 1972 traduce e pubblica Un Arc-en-ciel pour l’Occident chrétien di René Depestre, la cui opera lo conduce definitivamente al marxismo.
Fra il 1972 e il 1980 vive a North Beach, San Francisco, e continua a scrivere e tradurre poesia contemporanea, imparando il russo e – dopo un anno di traduzioni quotidiane – prendendo a scrivere poesie in quella lingua.
Dal 1980 si unisce al Communist Labor Party e lavora come attivista culturale con un gruppo di poeti fra cui Luis Rodriguez, Michael Warr, Kimiko Hahn, Sarah Menefee, Bruno Gullì, fino al volontario scioglimento del gruppo nel 1992.
Dopo un periodo di transizione, nel 1994, diventa membro della League of Revolutionaries for a New America e contribuisce al suo giornale People’s Tribune.
Durante gli anni Ottanta, dirige Compages, una rivista internazionale di traduzione di poesia rivoluzionaria. Poeti di tutto il mondo vengono tradotti in americano da un gruppo di poeti e traduttori, e poeti americani vengono a loro volta tradotti in altre lingue. La rivista viene spedita in 50 paesi a gruppi rivoluzionari e ad organizzazioni culturali. In quel periodo Hirschman pubblica l’unica antologia di poesia albanese degli anni comunisti che sia mai stata pubblicata negli Stati Uniti, Jabishak.
È stato in contatto fin dalla metà degli anni Cinquanta con i poeti della beat-generation (alla quale è stato a volte associato) dai quali però si differenzia subito proprio per le sue posizioni politiche. Pur amico di Allen Ginsberg, Gregory Corso, Bob Kaufman e di tutti gli altri poeti beat, dissente da quella che ritiene una rivoluzione “borghese”, fatta di droghe e misticismo orientale, mentre si sente più vicino politicamente e culturalmente ai movimenti radicali afroamericani (Black Panther Party e tra i poeti Amiri Baraka).
Nel 1972 Hirschman comincia a scrivere i poemi lunghi che chiama Arcanes. Negli ultimi 42 anni ne ha scritti quasi 250 rimasti inediti per molti anni. Alcuni sono stati pubblicati dalla rivista Left Curve edita e diretta da Csaba Polony.
Hirschman descrive gli Arcanes come la trasformazione dialettica materialistica di ciò che è spesso alchemico o mistico. Essi si sforzano di portare avanti il significato spirituale del pensiero e del sentimento dialettico in un senso personale e politico.
Gli Arcanes, anche quando toccano temi personali (come nell’Arcano per suo figlio David, morto a 25 anni per un linfoma nel 1982), hanno sempre relazioni con le trasformazioni politiche e sociali. Negli ultimi anni il suo impegno ci ha dato opere di struttura e coscienza politica e poetica che sono baluardo per l’anima contro l’ondata di caos e fascismo che sta divorando lo spirito umano.
Ha pubblicato più di 100 libri e opuscoli di poesia, e saggi e traduzioni da nove lingue. Fra i suoi libri di poesia più importanti: A Correspondence of Americans (Bloomington, Indiana University, 1960), Black Alephs (Trigram Books, New York/London, 1969), Lyripol (City Lights Books, San Francisco, 1976), The Bottom Line (Curbstone Press, Willimantic, 1988), Endless Threshold (Curbstone Press, Willimantic, 1992), Front Lines (City Lights Books, San Francisco, 2002), I was Born Murdered (Sore Dove Press, San Francisco, 2004).
Nella sua intensa opera di traduttore ha lavorato su autori come Mayakovsky, Roque Dalton, Pier Paolo Pasolini, Rocco Scotellaro, Paul Laraque, Paul Celan, Martin Heidegger, Pablo Neruda, René Char, Stéphane Mallarmé, Alexei Kruchenykh, Ismaël Aït Djafer, Alberto Masala, Ferruccio Brugnaro.
È stato anche curatore e traduttore nel 1965 della prima importante antologia di Antonin Artaud pubblicata negli Stati Uniti da City Lights Books, opera che ha influenzato profondamente molti intellettuali, scrittori e gruppi teatrali (su tutti il Living Theatre). Ha rivelato una sensibilità particolare traducendo e pubblicando diverse poetesse, tra cui Sarah Kirsch (Germania), Natasha Belyaeva (Russia), Anna Lombardo, Lucia Lucchesino e Teodora Mastrototaro (Italia), Katerina Gogou (Grecia), Luisa Pasamanik (Argentina), Ambar Past (Mexico).
Il rapporto di Hirschman con l’Italia inizia alla fine degli anni Cinquanta.
La poesia che dà titolo al suo primo libro, A Correspondence of Americans, fu pubblicata nella rivista Botteghe Oscure a Roma nel 1958, due anni prima della sua pubblicazione negli Stati Uniti. Nel 1980 è in Sicilia per la pubblicazione bilingue della sua traduzione di Yossyph Shyryn del poeta siciliano Santo Calì.
Nel 1990, una versione italiana del suo libro di poesie militanti, The Bottom Line, curata da Bruno Gullì, è pubblicata dall’Editoriale Mongolfiera di Bologna con il titolo Quello Che Conta.
Nel 1992 comincia un tour in Italia, dando origine ad un sodalizio con la Multimedia Edizioni e la Casa della Poesia di Salerno, con il libro Soglia Infinita, tradotto ancora da Bruno Gullì. Questa collaborazione continua nel 2000 con la pubblicazione della prima raccolta di Arcanes, tradotti da Raffaella Marzano (che ha anche revisionato e dato corpo unico ad altre traduzioni di Anna Lombardo e Mariella Setzu) che ha poi continuato a proporre le opere di Jack Hirschman in Italia.
Hirschman è stato tra i primi poeti di livello internazionale ad aderire al progetto di Casa della poesia, di cui è uno dei più assidui collaboratori e frequentatori, partecipando agli Incontri internazionali di poesia che si sono svolti a Salerno, Napoli, Baronissi, Amalfi, Pistoia, Trieste, Reggio Calabria, Sarajevo.
È spesso accompagnato da sua moglie, la poetessa e pittrice anglosvedese Agneta Falk, sposata nel 1999.
Nel 2002 la Before Columbus Foundation attribuisce a Jack Hirschman l’American Book Award for Lifetime Achievement. La motivazione del premio, scritta dal poeta e scrittore David Meltzer, recita tra l’altro: “Jack Hirschman è una figura incredibilmente presente e tuttavia nascosta nella politica culturale e nella vita della poesia americana. Straordinariamente prolifico – ai più alti livelli dell’impegno artistico e del coinvolgimento attivo – il suo lavoro è generoso, aperto, e profondamente critico. La sua critica non è mai banale o inefficace ma ha immensa profondità. La sua opera maggiore – Arcani– si inserisce nella scia dell’epica moderna dei Cantos di Pound, del Paterson di William Carlos Williams, del The Maximum Poems di Charles Olson e delle Letters To An Imaginary Friend di Thomas McGrath. Instancabile lavoratore per la giustizia sociale e la libertà artistica. Noi siamo onorati nel dare riconoscimento alla sua opera e alla sua vita, ed egli onora e sfida la nostra opera e le nostre vite.”
Finalmente nel 2006 la città di San Francisco gli attribuisce il riconoscimento di “Poeta Laureato”, la Multimedia Edizioni pubblica in inglese, in un unico volume di 1000 pagine, l’intero corpus degli Arcani con il titolo The Arcanes e la City Lighs, nel 2008 All that’s left.
Sempre nel 2006 riceve a Reggio Calabria il Premio “Città dello Stretto”.
Il volume The Arcanes viene salutato dalla critica e dagli appassionati come un vero e proprio evento editoriale e culturale.
Nel 2007 riceve a Salerno il Premio Alfonso Gatto (sezione internazionale) ed è ad Haiti per il centenario di Jacques Roumain, invitato dal fratello di Paul Laraque, Franck Laraque. Inoltre, lo stesso anno, è l’organizzatore degli Incontri internazionali di poesia di San Francisco.
Nel 2008, riceve in Italia la cittadinanza onoraria di Baronissi.
Il 2009 è un anno ricco di avvenimenti: al termine del suo incarico come poeta laureato, l’Associazione Amici del Biblioteca di San Francisco gli affidano l’organizzazione dell’International Poetry Festival of San Francisco e delle letture settimanali di giovani poeti negli 11 distretti della città dal titolo Poets 11. Inoltre lo stesso anno, insieme con Sarah Menefee, Cathleen Willams e Bobby Coleman fonda The Revolutionary Poets Brigade, un’organizzazione di poeti politicamente e socialmente impegnati. Questa Brigada oggi ha nuclei di aggregazione anche in altre città quali Los Angeles, Albuquerque, Chicago, Burlington e in Europa a Roma e Parigi.
Negli Stati Uniti pubblica, nel 2010, in collaborazione con Casa della poesia e la Fondazione Alfonso Gatto, il volume Magma che raccoglie le sue traduzioni di poesie di Alfonso Gatto. Nello stesso anno partecipa, insieme ad altri poeti, ad una serie di letture a Basra, come protagonisti della prima apertura internazionale dell’Iraq dall’invasione americana.
Nel 2011 fonda insieme con 35 poeti e con gli organizzatori di vari festival il World Poetry Movement a Medellin, in Colombia, dove era già stato con Agneta Falk nel 2009.
L’anno successivo è in tour in Cina per alcuni reading con Agneta Falk e altri poeti cinesi.
Con la Multimedia Edizioni di Salerno pubblica nel 2014 28 Arcani, sempre tradotto da Raffaella Marzano. Nel 2016 viene pubblicato sempore dalla Multimedia Edizioni il secondo grande volume in lingua originale che raccoglie i suoi Arcanes scritti dal 2007 al 2016. Infine nel 2017 in Italia, sempre la con la traduzione di Raffaella Marzano, viene pubblicato il “libro-miracolo” L’Arcano del Vietnam.
Nel 2018 sono stati ristampati (con la revisione di Raffaella Marzano, in una nuova edizione) i primi due libri di Hirschman pubblicati in Italia “Quello che conta” e “Soglia infinita”.
Nel 2019 viene pubblicato (sempre in lingua originale) il terzo volume “The Arcanes”.
Per fine 2021 è prevista la pubblicazione del quarto volume “The Arcanes”.
Breve Biografia di Ewa Lipska poetessa e pubblicista, è nata a Cracovia l’8 ottobre 1945. Comincia a scrivere versi già negli anni del liceo. Debutta come poetessa nel 1961, pubblicando sul quotidiano Gazeta Krakowska la poesie Krakowska noc (Notte cracoviana), Smutek (Tristezza) e Van Gogh. Si diploma all’Accademia di Belle Arti di Cracovia. Dal 1970 al 1980 lavora presso la prestigiosa casa editrice Wydawnictwo Literackie, dove cura le collane di poesia, continuando la sua attività creativa. Dal 1995 al 1997 direttrice dell’Istituto Polacco di Vienna. Cofondatrice e redattrice di diverse riviste letterarie, tra cui il mensile “Pismo”. Vicepresidente del PEN Club polacco. Ha ricevuto molti prestigiosi premi nazionali e internazionali per la sua creazione letteraria. Le sue poesie sono state tradotte e pubblicate in quasi 40 lingue. Autrice di numerose raccolte poetiche, tra le ultime: Ja (Io 2004), Pogłos (Rimbombo 2010), per la quale ha ricevuto il premio “Gdynia”, e Droga pani Schubert… (Cara signora Schubert…, 2012), 20 poesie scelte (CFR 2014), Il lettore di impronte digitali (titolo originale Czytnik linii papilarnych, Donzelli 2017). Ha scritto inoltre diversi testi poetici di canzoni di successo.
Ewa Lipska poesie
Forse
Forse ancora mi resterà sbiadita come inutile verso una fotografia. L’ultima separazione il cielo con la pioggia svolgerà su tamburi. E il giorno verrà il giorno verrà il giorno verrà nel tuo grigio stinto vestito nella fotografia così piccola così concisa che è possibile stringere in una mano. E più non so più non so più non so se tu eri o sei o sarai forse guardi e di rimpianto è il grigiore forse soltanto con noncuranza gioisci forse pensi che la vecchiaia già vecchiaia adesso da me con impeto si affretti. Tu ti sei fermata e aspetti. Io sono in cammino. Tu negli occhi aperti ti sei fermata. Ed io guardare non posso non posso. Perciò guardo mortalmente ostinata.
– Vetri
Che pena guardare quei vetri oblunghi. Donne assonnate si tolgono il trucco dal volto. E accanto cupi passano i viaggiatori. Dietro di loro c‘è il paesaggio. La truppa marcia. Nel paesaggio ci sono i tavoli. Sui tavoli c’è il vino. A un tavolo una ragazza. Nella ragazza c’è il sorriso. E nel sorriso c’è la tristezza. E tutto è come al cinema in quei vetri oblunghi. Nella ragazza c’è il sorriso.
Fa pena guardare. Donne assonnate. Nelle donne c’è l’amore. Nell’amore c’è la fine. E poi ci sono solo vetri oblunghi e la tristezza. Viaggiatori. Nell’amore c’è la fine.
Nei viaggiatori c’è il treno. Battono in essi le ruote. E nelle ruote c’è l’eternità. Nell’eternità c’è la paura. E nella paura c’è il silenzio. E nel silenzio il più silenzioso. Nei viaggiatori c’è il treno. E il continuo gioco delle ruote.
Che pena guardare. La truppa marcia. Nel soldato c’è la pallottola. E nella pallottola c’è la morte. E nella morte c’è tutto e nulla c’è nella morte. E nel sorriso c’è la tristezza. Nell’amore c’è la fine.
A un tavolo una ragazza. Nella ragazza c’è il cuore. E nel cuore c’è un soldato. Nel soldato c’è la pallottola. E piange la ragazza. Passano i viaggiatori. La fresca notte si specchia nei vetri oblunghi.
Nessuno
Sono d’accordo su questo paesaggio che non esiste. Mio padre regge nella mano il violino. I bambini leccano il suono. La corrente d’aria investe i petali delle rose. Poi la guerra. Ci perdiamo di vista. A frasi intere si celano le parole. La stanza vuota parcheggiata nell’oscurità dell’edificio. Prego lasciare un biglietto dice nessuno.
Natura morta
La natura morta comincia a guastarsi. Arrugginiscono le viti dei giaggioli. Dalla frutta di Chardin Courbet Cézanne si leva un odore nauseante. La tela perde la vista. Nel bicchiere una pietra di vino. Insopportabile il nero. Profetiche visioni dei dittatori della moda: si approssima l’epoca dei lampi. Piante terrestri anfibi e mammiferi soffierà via il corno. Il tempo accadrà sempre più raramente. Sarà sempre più breve. Sempre di meno. Dunque togli dalla borsetta il nostro amore. E affrettati. Un brandello di oltremare annuncia che faremo in tempo a ridere.
Amore
L’amore è un indovino. Prevede se stesso te e me. E’ del popolo eletto e usa una lingua ad alta tensione. Nella Biblioteca Nazionale macchia perfino i libri poco letti. In una valanga di cori scopre un’eco di euforia e di morte. E quando ti raggiungerà cerca di essere in casa. O qualcosa del genere. Pur di incontrarvi.
Sogno
Il sogno mi dava quindici possibilità. Tre vie d’uscita da una situazione alquanto difficile. In una di esse bisognava usare la chiave che tenevo in mano. Nel sogno proiettavano un film sulla fine del mondo. Nessuno dei presenti in sala ha chiesto: e dopo? Le poesie scritte nel sogno erano molto buone. Quelle non scritte affatto – non erano peggiori. Il tempo era come doveva essere. Bisognava con tutto questo andare verso la veglia. Mi ha sorpassata un gruppo di atleti che correvano oltre il tempo. Una vecchietta ha preso un sonnifero ed è tornata indietro. La veglia è sopraggiunta inattesa. Le ho comunicato soltanto il dolore alla testa posata male sul bianco cuscino.
Mia sorella
Mia sorella ancora non sa che il mondo è condannato all’atlante. E l’atlante è un enorme piatto eternamente affamato. E’ un giornale di paesi-modelli ritagliati. A volte fuori moda. Che all’improvviso tutto è chiaro quando si esce dal cinema. Che le idee aderiscono perfettamente ai manichini. Che non c’è morte che serva di esempio. Che la morte è soltanto di natura. Che volendo guardare il cielo bisogna portarlo prima alla censura. Che il più alto sapere è nella biblioteca dello spazio. Che l’amore è amore. E l’amore è un giardino. Che in questo giardino bisogna sfuggire l’autunno. Che in un giardino non si può sfuggire l’autunno. Che nessuno impedirà più la divisione delle cellule. Che la vita è finita quando comincia. Che Isolda è vecchia. Soffre di reumatismi. Che la storia è una grande pattumiera. Serve a far sparire le date e a spaventare i bambini. Che quando la notte per un attimo gli occhi ci adombra si risvegliano in noi gli uccelli gridando: Terra! Terra! E allora scopriamo un nuovo continente: l’Uomo che sulle palpebre la calda mano ci posa… Ma mia sorella sa già Che A come Ada.
*
Non mi ha salvata l’alluvione benché giacessi già sul fondo. Non mi ha salvata l‘incendio benché bruciassi per molti anni. Non mi hanno salvata le disgrazie benché mi investissero treni e automobili. Non mi hanno salvata gli aerei che sono esplosi con me nell’aria. Si sono abbattute su di me le mura di grandi città. Non mi hanno salvata i funghi velenosi né i precisi tiri dei plotoni d’esecuzione. Non mi ha salvata la fine del mondo perché non ne ha avuto il tempo. Nulla mi ha salvata. VIVO.
Certificato di garanzia
La nostra macchina da matrimonio si è inceppata all’improvviso. E benché continuiamo a pelare i pomodori a tagliare sottilmente l’aglio a infarcire la serata di parole sul sesso e a mangiare ricordo dopo ricordo cerchiamo nervosamente il certificato di garanzia che mantiene la parola.
L’esame
L’esame per il posto di re andò a meraviglia. Si presentarono alcuni re e un apprendista re. Fu scelto re un certo re che doveva essere re. Ottenne punti extra per le origini l’educazione spartana e per il sorriso che prese tutti alla gola. In storia rivelò notevoli capacità di sorvolare. La lingua obbligatoria risultò la sua madrelingua. Quando toccò il tema dell’arte avvinse il cuore della commissione. Uno dei membri della commissione avvinse un po’ troppo forte. Sì quello era davvero un re. Il presidente della commissione corse a chiamare il popolo per consegnarlo solennemente al re. Il popolo era rilegato in pelle.
. A due voci
– Non sarò più tua moglie. – Non sarò più tuo marito. – I bambini non capiranno cos’è accaduto. – Bisogna mandarli al cinema. – I segugi dei miei pensieri hanno fiutato la separazione. – Una grossa cicatrice dopo questo amore resterà. – Lo seppelliremo visto che è giunto così insensato. – Le sentinelle dei ricordi metteremo presso la bara. – Quanto si può tenere un cadavere in casa? – Quanto si può tenere un cadavere nel cuore? – Faremo brevi discorsi. – Gli augureremo ogni bene. – Affinché non ritorni. – Forse ancora una volta… – Non ci troverà in casa. Andiamo in tintoria. – Troppo incauti siamo stati con noi stessi. Prima dell’alluvione fuggivamo verso il fiume. – Prima della siccità fuggivamo verso il sole. Eternamente stanchi abusavamo della farmacia. – Coprivamo le orecchie quando l’orologio ci minacciava sonando l’allarme sonando l’allarme. – Ci separavamo per ulteriori incontri su una funivia. Fissando il baratro sceglievamo l’amore che ci occorreva. – Eravamo atterriti dalla profondità del destino. – Soli come il deserto che non spera più nel cielo. – E soltanto del nostro amore ancora la camicetta di seta. Del nostro amore il pettine. – E le labbra che impediscono l’accesso alla parola. – La sera fa già fresco. Prendiamo i cappotti dei bambini. – E andiamogli incontro. Il cinema è lontano.
Il giorno dei Vivi
Nel giorno dei Vivi i morti giungono alle loro tombe – accendono le luci al neon e piantano i crisantemi delle antenne sui tetti dei multipiani sepolcri a riscaldamento centralizzato. Poi scendono con gli ascensori verso il quotidiano lavoro: la morte.
Ewa Lipska poetessa polacca-
Poesie tradotte da Paolo Statutiè nato a Roma il 1 giugno 1936. Nel 1963 si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Roma. Nello stesso anno è stato assunto come impiegato dalle Linee Aeree Italiane Alitalia, che ha lasciato nel 1980. Nel 1975, presso la stessa Università romana, ha conseguito la laurea in lingua e letteratura russa ed altre lingue slave (allievo di Angelo Maria Ripellino). Nel 1982 ha debuttato in Polonia come poeta e nel 1985 come prosatore. E’ autore di numerose traduzioni letterarie pubblicate (prosa e poesia) dal russo, ceco e soprattutto dal polacco nella lingua italiana. Ha collaborato con diverse riviste letterarie polacche e italiane. Nel 1987 ha pubblicato in Italia due libri di favole: “Il principe-albero” e “Gocce di fantasia” (Edizioni Effelle di Marino Fabbri). Una scelta di queste favole è uscita anche in Polonia con il titolo “L’albero che era un principe” (”Drzewo, które było księciem”, Ed. Nasza Księgarnia, Warszawa, 1989). Dal 1982 al 1990 ha lavorato presso la Redazione Italiana di Radio Polonia a Varsavia, realizzando molte apprezzate trasmissioni prevalentemente letterarie. Nel 1990 ha ricevuto il premio annuale della Associazione di Cultura Europea – Sezione Polacca, per i meriti conseguiti nella divulgazione della cultura polacca in Italia. Negli anni 1991-1997 ha insegnato la lingua italiana presso il liceo statale “J. Dąbrowski”di Varsavia ed ha preparato l’esame scritto di maturità in questa lingua, a livello nazionale, per conto del Provveditorato Polacco agli Studi. A gennaio del 2012 ha creato un suo blog: musashop.wordpress.com, dedicato a poesia, musica e pittura, dove pubblica in particolare le sue traduzioni di poesia polacca e russa. Recentemente sono uscite in Italia nella sua versione raccolte di poesie di: Małgorzata Hillar, Urszula Kozioł, Ewa Lipska, Halina Poświatowska e sono in corso di stampa: K.I. Gałczyński, Anna Kamieńska e Anna Świrszczyńska. Pratica anche la pittura (olio e pastello) ed ha al suo attivo 9 mostre personali in Polonia, dove risiede da molti anni.
Marianne Moore (St. Louis, Missouri, 1887 – New York 1972) esordì nel 1921 con Poems, una raccolta di poesie giovanili che H. Doolittle, sua ex compagna al Bryn Mawr College, e R. McAlmon s’incaricarono di pubblicare nel più stretto riserbo. Tra il 1925 e il 1929, dopo un primo successo ottenuto con Observations (1924), diresse la rivista letteraria «The Dial», divenendo uno dei protagonisti del dibattito sulla poesia modernista. Spesso sospesa tra sconfinamenti fantastici e scientifica puntualità d’osservazione (noto l’eclettico bestiario cui M. dà vita nei suoi versi), la sua poesia è siglata da una cifra ironica e da un linguaggio che si fa sempre più rarefatto e compresso. Tra le sue opere più significative: The pangolin and other verse (1936); What are years (1941); Nevertheless (1944); A face (1949); Collected poems (1951 – Premio Pulitzer, National Book Award e Premio Bollingen). Oltre alle raccolte successive (Like a bulwark, 1956, trad. it. 1974; O to be a dragon, 1959; Tell me, tell me: granite, steel, and other topics, 1966), ha lasciato un volume di saggi, Predilections (1955) e un’esemplare traduzione di The fables of La Fontaine (1954). Il Complete poems of MarianneMoore è apparso nel 1967 (trad. it., in 2 voll., 1972-74).
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La poesia
Non piace neanche a me: ci sono cose assai più importanti di simili inezie. Comunque, leggendola con tranquillo disprezzo, uno scopre che in fin dei conti può esserci del genuino. Mani capaci di afferrare, occhi capaci di dilatarsi, capelli all’occorrenza capaci di rizzarsi, sono cose importanti non in virtù delle interpretazioni pompose che possono suggerirvi, ma perchè sono utili. Quando diventano derivate a tal punto da non essere più intellegibili siamo tutti d’accordo: non possiamo ammirare ciò che non riusciamo a capire: il pipistrello appeso a testa in giù o in cerca di qualcosa da mangiare, elefanti che cozzano, un cavallo selvaggio che si rotola, un lupo sotto un albero, instancabile, il critico ottuso che si contrae di scatto la pelle come a un cavallo infastidito da un tafano, il tifoso di base-ball, l’esperto di statistica- e non ha senso neppure svalutare “documenti commerciali e libri scolastici”. Sono importanti anche questi. Però occorre distinguere: se vengono utilizzati a sproposito da poeti di secondo ordine, il risultato non sarà mai poesia. Nè vi sarà poesia finchè i poeti non sapranno essere i “veristi dell’immaginazione” sdegnando banalità e insolenza, e non sottoporranno al vostro esame “giardini immaginari con dentro rospi veri”. Se, comunque, pretendete da un lato il materiale della poesia allo stato grezzo e dall’altro richiedete ciò che è genuino, allora vuol dire che la poesia vi interessa.
Da Unicorni di mare e di terra. Poesie 1935-1951, Rizzoli.
Serpenti, manguste, incantatori di serpenti e simili
Ho un amico che pagherebbe un occhio della testa per quelle lunghe dita tutte uguali –
per quegli orrendi artigli d’uccello, per quell’aspide esotico e la mangusta –
prodotti del paese dove tutto è fatica, il paese del cercatore d’erba,
del portatore di torce, del servo addetto al cane, del portatore messaggero, del santone.
Affascinato da questo esimio verme, selvatico e feroce quasi quanto il giorno della cattura,
lo fissa con occhi sbarrati che sembrano incapaci d’analisi.
«Il serpe sottile che si snoda fulmineo nell’erba,
la tartaruga placida dal dorso variegato,
il camaleonte che passa dalla frasca alla pietra e dalla pietra al ruscello»,
un tempo gli accendevano l’immaginazione;
ora la sua ammirazione è concentrata tutta qui.
Spesso, ma non pesante, si drizza sporgendo dal suo cesello da viaggio,
l’essenzialmente ellenico, il plastico animale tutto d’un pezzo dal naso alla coda;
non si può fare a meno di guardarlo come si è costretti a guardare le ombre delle Alpi
che nelle loro pieghe imprigionano come mosche nell’ambra
i ritmi della pista di pattinaggio.
Questo animale, al quale dalla notte dei tempi
è stata attribuita tanta importanza,
bello, a quanto sostenevano i suoi adoratori – a che scopo fu inventato?
Forse per dimostrare che quando l’intelligenza nella sua forma pura
s’imbarca in un ordine di pensiero improduttivo deve fare marcia indietro?
Chissà; la sola cosa certa al riguardo è la sua forma; ma perché protestare?
La passione di migliorare il prossimo è di per sé una malattia affliggente.
Meglio la repulsione, che non avanza pretese.
Che cosa sono gli anni?
Cos’è la nostra innocenza,
cos’è la nostra colpa?
Tutti sono nudi,
nessuno è salvo.
E da dove viene il coraggio:
la domanda senza risposta,
il dubbio risoluto – che chiama
muto, e sordo ascolta –
che nella sventura,
nella morte stessa
dà coraggio agli altri,
e nella stessa sconfitta induce
l’anima a farsi forte?
Sa vedere nel fondo delle cose ed è lieto
chi accede alla mortalità e nella sua prigione si eleva
al di sopra di se stesso,
come il mare dentro un abisso
lotta invano per liberarsi
e trova nell’arrendersi
il suo perdurare.
Così chi sente fortemente
opera da forte. Anche l’uccello
cresciuto cantando
rinsalda la propria forma e l’innalza.
Benché prigioniero, dice
col suo canto potente
che la soddisfazione è cosa vile,
cosa pura è la gioia.
Questa è la mortalità.
Questa è l’eternità.
A una lumaca
Se «la concisione è la prima grazia dello stile»,
tu la possiedi. La contraibilità è una virtù
come lo è la modestia.
Non è l’acquisizione d’una cosa qualsiasi
capace di adornare,
né la qualità accidentale
che può accompagnarsi a una cosa espressa bene,
che noi apprezziamo nello stile,
ma il principio nascosto:
nell’assenza di piedi, «un metodo conclusivo»;
«una conoscenza dei princìpi»,
nel curioso fenomeno del tuo corno occipitale.
New York
l’epopea del selvaggio,
cresciuta dove lo spazio ci occorre per i traffici –
il centro del commercio all’ingrosso delle pellicce,
costellato di tende d’ermellino e popolato di volpi,
i lunghi peli che ondeggiano due dita sopra il pellame;
il terreno cosparso di pelli di daino – macchie di bianco su bianco,
«così come un ricamo monocromo su raso può avere una trama varia»;
e vizze piume d’aquila compresse dal vento;
e strisce di pelli di castoro – bianche, sollecite di neve.
Ce ne corre di spazio tra la «regina carica di gioielli»
e il bellimbusto col manicotto,
tra il cocchio dorato a forma di flacone di profumo,
e la confluenza del Monongahela con l’Allegheny
e la filosofia scolastica delle terre selvagge.
Non è la copertina dei romanzetti di frontiera che conta,
le cascate del Niagara, i cavalli pezzati e la canoa da guerra;
non è il dire «la pelliccia se non è più bella delle pellicce delle altre,
è meglio non averla» –
e il cui equivalente in carne cruda e in bacche ci basterebbe
per sfamare l’universo;
non è il clima dell’ingegnosità,
le pelli di lontra, di castoro, di puma
senza armi da fuoco, né cani;
non è il profitto,
ma «la possibilità di accedere all’esperienza».
Una tomba
Uomo che scruti dentro il mare,
impedendo la vista ad altri che come te avrebbero diritto di guardare,
e dell’umana natura porsi nel bel mezzo d’una cosa,
ma in mezzo a questa non ti è possibile stare;
il mare non ha altro da offrire che una tomba ben scavata.
Gli abeti stanno in processione con in cima
una smeraldina zampetta di tacchino,
riservati come i loro profili, non dicono nulla;
non è la repressione, comunque, la più evidente caratteristica del mare;
il mare è un collezionista, pronto a restituire uno sguardo rapace.
Altri, oltre a te, hanno avuto quello sguardo –
e la loro espressione non è più di protesta; i pesci non li esplorano più
poiché le loro ossa non hanno durato;
gli uomini calano le reti, senza sapere che stanno dissacrando una tomba,
e remano via veloci – le pale dei remi
che si muovono insieme come le zampe dei ragni d’acqua
quasi non vi fosse una cosa come la morte.
Le increspature avanzano insieme in una falange –
belle sotto i ricami della spuma,
e svaniscono esauste mentre il mare
penetra mormorando fra le alghe e si ritira;
gli uccelli, attraversano a nuoto l’aria velocissimi, stridendo come sempre –
lo scudo della tartaruga tormenta la base degli scogli muovendosi sotto;
e l’oceano, sotto il pulsare dei fari e il rintocco delle boe,
come al solito avanza, e non sembra neppure
lo stesso oceano in cui le cose, cadendo, sono destinate ad affondare –
quell’oceano in cui, se una cosa si torce o si rigira,
lo fa, semmai, senza volontà né coscienza.
Non c’è cigno più bello
«Non c’è acqua più immobile
delle morte fontane di Versailles.» Non c’è cigno
dal cupo cieco sguardo obliquo
e dalle gambe di gondoliere, bello quanto
il cigno di porcellana
dalle pupille nocciola e dall’aureo collare dentato
che ne attesta l’appartenenza.
Allogato nel candelabro Luigi XV
di boccioli dipinti di celòsie
dalie, ricci di mare e sempreverdi,
se ne sta appollaiato sulla spuma ramificante
di lucidi fiori scolpiti,
alto, a suo agio. Il re è morto.
Che cosa sono gli anni
Che cos’è la nostra innocenza, che cosa la nostra colpa? Tutti sono nudi, nessuno è salvo. E donde viene il coraggio: la domanda senza risposta, l’intrepido dubbio, – che chiama senza voce, ascolta senza udire – che nell’avversità, perfino nella morte, ad altri dà coraggio e nella sua sconfitta sprona
l’anima a farsi forte? Vede profondo ed è contento chi accede alla mortalità e nella sua prigionia ti leva sopra se stesso, come fa il mare dentro una voragine, che combatte per essere libero e benché respinto trova nella sua resa la sua sopravvivenza.
Così colui che sente fortemente si comporta. L’uccello stesso, che è cresciuto cantando, tempra la sua forma e la innalza. È prigioniero, ma il suo cantare vigoroso dice: misera cosa è la soddisfazione, e come pura e nobile è la gioia. Questo è mortalità, questo è eternità.
Da Le poesie, a cura di Lina Angioletti e Gilberto Forti, Adelphi.
In questa età di aspra ambizione giova la noncuranza e
“in verità, non è affare degli dèi cuocere vasi d’argilla”. Non lo fecero in questa circostanza. Alcuni rotarono sull’asse del proprio valore, come se l’eccessiva popolarità potesse essere un vaso;
non si avventurarono in una professione di umiltà. Il cuneo levigato che poteva spaccare il firmamento era ammutolito. Infine si buttò via da se stesso e ricadendo conferì ad un povero sciocco un privilegio.
“Superiore in altezza a tutti gli altri di quanto può esser lunga una conversazione di cinquecento anni”, ci fu uno che raccontava cose che non avrebbero potuto mai essere vere – ed erano migliori le sue storie di tutta l’insocievole, senile
filastrocca che parla di certezza; il suo recitare in sordina era più tremendo, nella sua efficacia,
del più feroce assalto a viso aperto. Il bastone, la sacca, la finta incoerenza dei modi sono i segni che rivelano quell’arma, la salvaguardia di se stessi.
Cogliere e scegliere
La letteratura è un fase della vita. Per chi ne ha paura la situazione è senza rimedio; per chi le si accosta in confidenza non conta quello che se ne può dire. L’opaca allusione, il simulato volo verso l’alto non ottengono nulla. Perché stendere un velo sopra il fatto che Shaw si muove con impaccio sul terreno dei sentimenti ma per il resto è gratificante; che James è tutto quello che di lui si è detto? Non esiste uno Hardy romanziere e uno Hardy poeta, ma un uomo solo che interpreta la vita come emozione. Il critico deve sapere quello che a lui piace: Gordon Craig con il suo “questo sono io” e “questo è mio”, con i suoi tre re magi, i suoi “tristi prati francesi” e il suo “ciliegio cinese”,
Gordon Craig così soggettivo e privo di pudori – un vero critico.
E Burke è uno psicologo, di una curiosità acuta da procione. Summa diligentia; per quell’imbroglione che ha un nome così divertente – molto giovane e molto temerario – Cesare attraversò le Alpi sul sommo di una “diligenza”! Noi non siamo maniaci del significato, ma ci sconcerta la dimestichezza con i significati errati. Noioso calabrone, le candele non sono fatte per l’elettricità. Cagnolino che corri per il prato ad addentare la biancheria
e sostieni di avere preso un tasso, ricorda Senofonte: basta un comportamento elementare per metterci sulla pista. “Una buona salva di latrati”, qualche robusta grinza che increspa la pelle tra le orecchie, è tutto quello che noi pretendiamo.
Nei giorni del colore prismatico
non nei giorni di Adamo ed Eva, ma quando Adamo era ancora solo; quando il fumo non c’era, e il colore era bello, non per l’affinamento di un’arte primitiva, ma per la sua stessa originalità; e nulla c’era a modificarlo se non la nebbia che saliva, e l’obliquo era una variante del perpendicolare, semplice a vedersi e a spiegarsi: non è più così; né la fascia blu-rosso-gialla di incandescenza che era il colore ha serbato il suo schema: è anch’essa una di quelle cose in cui si può immettere e scoprire molto di peculiare; la complessità non è un delitto, ma se la portate fino alla soglia dell’oscurità, più nulla sarà semplice. La complessità, poi, che sia stata affidata alle tenebre, invece di dichiararsi per quella peste che è in realtà, si agita intorno come per confonderci con la tetra illusione che l’insistenza è la misura di ogni risultato e che ogni verità dev’essere caligine. Gutturale com’è principalmente la sofisticazione è quel che è sem- pre stata – agli antipodi delle iniziali grandi verità. “Parte strisciava, parte si accingeva a strisciare, il resto stava torpido nella tana”. Nel procedere lento, sussul- tante, nel gorgogliare e in tutte le minuzie – noi abbiamo la classica moltitudine di piedi. A quale scopo! La verità non è l’Apollo del Belvedere, non è cosa formale. L’onda potrà sommergerla, se vuole. Sappi però che ci sarà se dice: “Ci sarò quando l’onda se n’è andata”.
Da Le poesie, a cura di Lina Angioletti e Gilberto Forti, Adelphi.
«Avamposto»
«Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Avamposto
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
Nasceva l’11 novembre 1929 Hans Magnum Enzensberger, poeta, traduttore, editore e autore tedesco. Nato in Baviera, aveva solo 15 anni quando il Terzo Reich crollò. Dopo aver studiato letteratura, filosofia e lingua tedesca nelle università di Erlangen, Friburgo e Amburgo, Enzensberger conseguì il dottorato alla Sorbona di Parigi.
Hans Magnum Enzensberger, poeta, traduttore, editore e autore tedesco
Enzensberger scrisse sia in inglese che in tedesco. Oltre ai romanzi, pubblicò più di cinque volumi di poesie, tra cui raccolte per bambini. Il poeta Charles Simic elogiò la vasta portata della scrittura di Enzensberger in questo modo: «Hans Enzensberger ha la più vasta gamma di argomenti, impiega una varietà di stili… quasi tutte le sue poesie, siano esse liriche, drammatiche o narrative, hanno una qualità polemica».
Venne considerato come una delle figure fondanti della letteratura della Repubblica Federale Tedesca e fu uno dei principali autori del Gruppo 47, partecipando, nel 1968, al Movimento studentesco della Germania occidentale. Tra i suoi vari riconoscimenti e onorificenze ricordiamo il Premio Georg Büchner, il Premio Heinrich-Böll e il Premio Principe delle Asturie del 2002. Nel 2009 ricevette il prestigioso premio Griffin Poetry Lifetime Recognition Award.
Enzensberger scrisse molte delle sue poesie in tono sarcastico e ironico. Ne è un esempio, la poesia Middle Class Blues, composta da varie tipicità della vita della classe media, con la frase “non possiamo lamentarci” ripetuta più volte e si conclude con “cosa aspettiamo ancora”.
Qui la poesia in una traduzione di A. M. Giachino:
Non possiamo lamentarci. Abbiamo da fare. Siamo sazi. Mangiamo.
Cresce l’erba, il prodotto sociale, l’unghia delle dita, il passato.
Le strade sono vuote. Le chiusure sono perfette. Le sirene tacciono. Questo passa.
I morti hanno fatto il loro testamento. La pioggia è cessata. La guerra non è stata dichiarata. Questo non è urgente.
Noi mangiamo l’erba. Noi mangiamo il prodotto sociale. Noi mangiamo le unghie. Noi mangiamo il passato.
Non abbiamo nulla da nascondere. Non abbiamo nulla da perdere. Non abbiamo nulla da dire. Abbiamo.
L’orologio è caricato. La vita è regolata. I piatti sono lavati. L’ultimo autobus sta passando.
È vuoto.
Non possiamo lamentarci.
Cosa aspettiamo ancora?
da “Poesia Tedesca del Novecento”, Rizzoli.
Molte delle poesie di Hans Enzensberger presentano questi temi di disordini civili su questioni economiche e di classe.
Ne è un esempio anche Divisione del lavoro:
Che la stragrande maggioranza della stragrande maggioranza non capisca pressoché nulla, per es. poesia, diritti d’opzione, numeri pseudoprimi, e mettici perfino i massimi sistemi – è piú che comprensibile!
La stragrande maggioranza ha tutt’altre preoccupazioni, imperturbabile si tiene ai figli e alle mutue, letto soldi pop sport, a tutto ciò di cui la minima minoranza non vuol sapere nulla.
Dove andremmo a finire coi nostri cervellini se tutti pensassero su tutto?
Solo di quando in quando, in certe interminabili sere, un’occhiata dall’altra parte, alla finestra illuminata dove vivono altri, e la vaga sensazione di essersi persi qualcosa.
da “Piú leggeri dell’aria”, Einaudi. Traduzione di Anna Maria Carpi.
Hans Magnum Enzensberger, poeta, traduttore, editore e autore tedesco
Il lavoro di Enzensberger del 1974 L’industria della coscienza sulla letteratura, la politica e i media diede origine al termine “industria della coscienza”, che identifica i meccanismi attraverso i quali la mente umana è riprodotta come un prodotto sociale. I principali tra questi meccanismi sono le istituzioni di mass media e educazione. Secondo Enzensberger, l’industria della mente non produce nulla di specifico; piuttosto, la sua attività principale è quella di perpetuare l’attuale ordine di dominio dell’uomo sull’uomo. Hans elabora l’industria della coscienza in quanto si applica alle arti in un più ampio sistema di produzione, distribuzione e consumo. Il porta coinvolge specificamente i musei come produttori di percezione estetica che non riconoscono il loro intellettuale, politico e autorità morale: «Piuttosto che sponsorizzare una consapevolezza intelligente e critica, i musei tendono quindi a favorire la pacificazione».
Sebbene principalmente poeta e saggista, Hans Enzensberger si avventurò anche nel teatro, nel cinema, nell’opera, nel dramma radiofonico, nel reportage e nella traduzione. Il suo lavoro fu tradotto in oltre 40 lingue.
Nel 2000 inventò e collaborò alla costruzione di una macchina che compone automaticamente poesie (Der LandsbergerPoesieautomat) Questo dispositivo fu usato durante il Mondiale di calcio del 2006 per commentare i giochi. «Se non sai scrivere poesie meglio della macchina, faresti meglio a lasciar perdere», disse.
First things first
In fondo non abbiamo niente da obiettare a purgatorio, reincarnazione, paradiso. Se cosí dev’essere, prego! Al momento tuttavia abbiamo altre priorità.
Della toilette del gatto, del conto in banca e delle insostenibili condizioni del mondo dobbiamo assolutamente occuparci, già a prescindere da internet e dalle notizie sul livello delle acque.
Certe volte non sappiamo piú dove a forza di problemi sbattere la testa. Intanto c’è sempre qualcuno che muore, e di continuo qualcuno che nasce.
Non si arriva mai sul serio a fare delle riflessioni sulla propria immortalità. Prima bisogna gettare un occhio all’agenda, alle scadenze,
il resto si vedrà.
da “Piú leggeri dell’aria”, Einaudi. Traduzione di Anna Maria Carpi.
Enzensberger Hans Magnus
Hans Magnum Enzensberger, poeta, traduttore, editore e autore tedesco
Hans Magnum Enzensberger, poeta, traduttore, editore e autore tedesco-Scrittore tedesco (Kaufbeuren, Allgäu, 1929 – Monaco di Baviera 2022). Autore anticonformista e versatile (romanziere, autore di testi teatrali, radiofonici ecc.), è stato tra gli animatori del Gruppo 47 ed è una delle figure più interessanti della letteratura tedesca del secondo dopoguerra. I suoi scritti, in particolare i saggi, sono permeati da un profondo pessimismo e denunciano causticamente le storture e le debolezze della società contemporanea.
Opere
Ancora adolescente patì la dura esperienza della guerra a cui partecipò nel 1944-45. La sua poesia (Verteidigung der Wölfe, 1957; Landessprache, 1960; Blindenschrift, 1964; Gedichte 1955-70, 1971; Mausoleum, 1975, trad. it. 1979; Der Untergang der Titanic, 1978, trad. it. 1980), pur risentendo molto dell’insegnamento brechtiano, non vede tuttavia un mezzo di salvezza per l’uomo e si presenta come denuncia spietata di tutte le storture e debolezze della società di oggi. Essa si distingue per l’originalità dell’espressione volutamente antipoetica e provocatoria, ricorrendo sia ai mezzi più facili di rottura (abolizione delle maiuscole, introduzione del gergo commerciale, rottura sintattica, ecc.), sia alla più raffinata demitizzazione della letteratura “bella” nell’uso profanante della citazione. Lo stesso carattere aggressivo e accusatore si rivela nei saggi più strettamente letterari, in cui E., nella ricerca dell'”artista radicale” (Clemens Brentanos Poetik, 1961), denuncia ogni debolezza o inattualità del fenomeno letterario. Molto importante la sua attività giornalistica, sviluppatasi soprattutto su Kursbuch e su Trans-Atlantik, battagliere riviste da lui create rispettivamente nel 1965 e nel 1980, nonché la sua opera saggistica, sempre a contatto con l’attualità senza però mai ridurvisi: Einzelheiten (1962; trad. it. Questioni di dettaglio, 1965); Politik und Verbrechen (1964; trad. it. 1979); Deutschland, Deutschland unter anderem (1967); Das Verhör von Habana (1970; trad. it. 1971); Der kurze Sommer der Anarchie (sotto forma di romanzo, 1972; trad. it. 1973); Palaver. Politische Überlegungen (1974; trad. it. 1976); Ach, Europa! (1987; trad. it. 1989). Del 1995 è la raccolta di poesie Kiosk. Neue Gedichte (trad. it. 2013), mentre sono stati pubblicati nel 1997 ZichZack (trad. it. 1999) e il fortunato Der Zahlenteufel (trad. it. 1997), tra l’apologo e la fiaba, in cui la matematica diventa, per un alunno che non ne è attratto, un mondo quasi magico. Ha poi scritto, tra l’altro: Esterhazy. Eine Hasengeschichte (con I. Dische, 1998; trad. it. 2002); Die Elixiere der Wissenschaft (2002; trad. it. 2004), in cui racconta storie, vere e mitologiche, che orbitano intorno alla scienza; Schreckens Männer. Versuch über den radikalen Verlierer (2006; trad. it. 2007); Josefine und Ich. Eine Erzählung (2006; trad. it. 2010); Hammerstein oder der Eigensinn: eine deutsche Geschichte (2008; trad. it. 2008); la raccolta di poesie Rebus (2009); i saggi Fortuna und Kalkül. Zwei mathematische Belustigungen (2009), Meine Lieblings-Flops, gefolgt von einem Ideen-Magazin (2010; trad. it. 2012) e Sanftes Monster Brüssel oder Die Entmündigung Europas (2011). Tra i suoi lavori più recenti occorre ancora citare Tumult (2014; trad. it. 2016) e Immer das Geld! (2015; trad. it. Parli sempre di soldi!, 2017).
Fonte- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Misakh Metzarents, l’eterno talento della poesia armena
– Pangea-Rivista avventuriera di cultura & idee
Il Poeta armeno Misakh Metzarents -Ogni paese si rispecchia nel bambino d’oro, l’infante che divora tutti i doni nell’arco di una stagione, il poeta perpetuamente giovane, che svanisce, in un lascito di nostalgia, dissipato dalle sue ispirazioni. Che sia Thomas Chatterton o John Keats, Novalis o Antonia Pozzi, Rimbaud – che muore alla poesia poco più che ventenne – o Shelley o Sergej Esenin, poeti dai tratti sempre inediti, vigorosi di una solitudine del sangue, tra il capriccio e l’estasi. Stagliati in teca, questi poeti dalla giovinezza infinita, a monito, moneta di scambio per popoli dalla creatività disseccata, sempre troppo precoci, cioè troppo ingenui. Tanto al di là da trovarteli sotto al letto, coi coltellini in tasca.
Misakh Metzarents-Poeta armeno
Per l’Armenia, il poeta per sempre bambino, rovinato da una tragedia che diventa lirica, si chiama Misakh Metzarents. Nato nel gennaio del 1886, è stato di recente onorato con un francobollo celebrativo, quasi che, addentellato, pronto per l’affrancatura, il poeta sia più potente e prono alla patria, nella zona franca di chi può tutto e nulla. La vita di Metzarents è priva di eventi clamorosi, di ornamenti che diano al profilo onore di leggenda: tutto, in lui, è lotta con il male, la tisi, che comincia ad agguantarlo quattordicenne. Nel 1902, dopo gli studi presso il collegio di Merzifon, il ragazzo si trasferisce a Costantinopoli: si orienta alla poesia, pronto a recintare in verbi i singoli sintagmi dell’anima, con talento da paesaggista.
Misakh Metzarents-Poeta armeno
Il ragazzo, roso dall’infermità, amante della poesia simbolista francese, muore nell’estate del 1908, a 22 anni. L’anno prima, riesce a pubblicare due raccolti di versi, Tziatzan (“Arcobaleno”) e Nor Tagher (“Odi nuove”), accolte con stupore: c’è chi, in questi versi devoti e ‘moderni’, rintraccia una specie di eversione. Con delicata furia, Misakh porta la poesia armena nella modernità; devoto a Gregorio di Narek, il grande monaco-poeta armeno vissuto intorno al Mille, scrive salmi di irrequieta limpidezza. Ecco, ad esempio, alcuni versi da Madre di Dio:
“Ecco mi accingo ad arrampicarmi sul monticello del mio dolore;
dissipa tu le nuvole dalla via di madreperla dei sogni…
Nella notte discende ancora il ruscello di luce,
una goccia di latte della tua santità divenuta un mare;
e vedi, o Madre di Dio, ecco sto diventando bambino!
e vedi, sto diventando bambino in mezzo alla notte,
in cui sentii discendere la divina voce,
che echeggiava per la mia anima permeata da Dio”.
Nel volumeLa mistica cristiana (Mondadori, 2020), Boghos Levon Zekiyan installa Misakh Metzarents tra gli ultimi protagonisti della Mistica armena: “Anima di una sensibilità assai delicata ed elevata, di una religiosità consapevole e profonda, è autore di composizioni che, oltre all’altissimo valore poetico, sono intrise di un vissuto religioso così singolare e originale da rasentare lo spessore di un’esperienza mistica vera e propria”.
Misakh Metzarents-Poeta armeno
In Metzarents le immagini liriche sembrano acqua tra le dita, riflessi che danno l’idea di un falò, chiostri in assedio, il tempo in un elmo: tutto è trasfigurato dalla disciplina della solitudine, da una riservatezza senza riserve, una preparazione all’addio in danza, potremmo dire, avvento di contrari venti. D’altronde è questo il genio dei poeti morti giovani: si giunge all’appuntamento con loro in ritardo di un secolo; la giacca sull’attaccapanni sembra appartenergli, la riconosci dai polsi e dai bottoni, ma è preparata per te, perché non ti turbi il tormento, il freddo di un oggi con le chele.
Veglia domenicale
Della sera che lentamente fugge è gioiosa la luce purpurea.
Fili d’oro avvolti nella nebbia di velluto dell’incenso,
frange azzurre, l’arcobaleno, voci fluttuanti, una mistica rosa,
lacrime di luce dei ceri che nella quiete si consumano.
La mia anima, assetata d’incenso, s’imbeve dell’attimo quieto,
mentre oscillano i turiboli dagli occhi oro fuoco.
Un torpore d’incanto mi lascia là immobile,
sento il bacio del tulle di zaffiro che l’animo mi avvolge.
Tinte di ametista ungono le volute dell’incenso,
m’inginocchio al mistero le braccia incrociate,
e attendo che spunti dalla mia anima la domenica di luce.
Tutto di smeraldo e di rubino è ora il sogno delle fiaccole,
dagli archi, dall’altare spuntano luce e risa,
adagio la mia anima in questo meraviglioso sogno si tuffa.
Della sera che lentamente fugge, è gioiosa la luce purpurea.
Traduzione di Boghos Levon Zekiyan
*
La sera
Come una ragazza che cammina sotto i pini
che va dove soffia la brezza serale
presso un bosco di melograni in fiore
la sera passa, il giorno si allontana.
Cade la sera come un fiore appassito
in varie sfumature di blu, cammina,
muore lentamente, si piega,
fragile stame di speranza, luce che fluttua infima.
Poi è buio: come la mia anima, incassata
nella solitudine, che fermenta nell’oscurità –
la lampa dei sogni si è sbriciolata, tempo fa,
abbandonando lo spirito sotto la pioggia –
cerca una casa.
*
Canto d’amore
Il vento ha sentimento sufficiente
per illuminare i fiori
piccole torce di luce.
Questa notte la festa illumina le strade
dolce è il balsamo, dolce hashish
nel vento – ne divento ebbro.
Come baci i fiori riempiono il tempo
con petali e semi – tutto è in eccesso
tutto è nel delirio
ma a me manca il solo bacio che desidero.
*
Se potessi conservare qualcosa
terrei quest’ora come un pezzo di me;
distillerei questa singola ora
come fosse un’essenza;
se potessi scegliere, vorrei
che questa singola ora
diventasse tutta la mia vita –
confuso e benedetto,
potrei scrivere per sempre
di questa singola ora con te
e lucidare nel suo lavacro
la mia esistenza, purificato
finalmente di tutto.
*
L’acqua scorre
Barba d’argento sul fiume
che sbatte contro le rocce sterili:
sboccia nel golfo dove l’acqua
è calda e il sole è un nascituro.
I montanari si arrampicano oltre
il villaggio dai ponti sospesi.
Nel cortile del monastero anche
gli alberi si chinano in preghiera.
Il silenzio inghiotte le lacrime del mattino:
questo è il momento in cui bagnano gli orti
e i novizi restano in piedi, in piena luce.
Le chiuse vengono aperte, le vanghe
incurvano il corpo serpentino delle acque.
Le pale girano senza fermarsi, come richiami:
una ragazza intona una canzone – un giorno
si scoprirà donna. La terra mette una mano
sulla bocca del fiume, che chiacchiera ancora:
soltanto lo stolto si lamenta in anticipo
del suo futuro.
*
Delirio
Buio costruito ad arte dalla strega: sono
in delirio – è Amore che mi crolla sul corpo –
un frutto fatato innesta nell’anima
ricordi che voglio dimenticare.
Le luci si spengono ma io amo
la tenebra che fa germinare agonia:
il dolore è largo, è un lago, ed espelle
il mio cuore – berrò il nero calice della vita triste.
È troppo buio e non posso più sognare:
smetto di vogare intorno ai miei amori.
Gli occhi hanno unghie, lampi d’alba
ed è lì che le mie pene, selvagge, si consumano.
*
Le api
I miei desideri sono api:
scavano cinture d’oro
fanno piovere
i loro favi, volano, sciamano,
ronzano, riempiono il sentiero,
strappano il velo della nebbia
ricamato e trasparente
ovunque portano il sole.
Misakh Metzarents
Fonte-Pangea-Rivista avventuriera di cultura & idee
Misak Metsarents or Medzarents (Armenian: ; 18 January 1886 – 5 July 1908) was a leading Armenianneo-romantic poet.
Biography
Misak Metsarents was born Misak Metsadourian in the village of Pingian [hy], near Agn in the Vilayet of Kharpert. In 1886, he moved with his family to Sepastia, where he attended the Aramian School. Until 1902, he attended the Anatolia Boarding School in Marzvan, which was run by American missionaries. From 1902 to 1905, he attended the Central School in Constantinople. However, tuberculosis forced him to leave his education, and he later died from the ailment July 5, 1908, at the age of 22.[1]
Poetry
Metsarents began writing in 1901, with his first verses published in 1903. He also collaborated with many Armenian publications such as “Masis”, “Hanragitak”, “Eastern Press”, “Light”, “Courier”, “Manzumei Efkiar”, “Buzandion”.[2] Much of his poetry discussed the despair of his inevitable mortality.
Legacy
The poet enriched Armenian poetry with his lyrical and genuine masterpieces, although Metsarents only managed to publish two volumes of poetry in his lifetime: “Dziadzan” (Rainbow) (1907) and “Nor dagher” (1907). He was commemorated in 2012 by his portrait appearing on an Armenian postal stamp.[3]
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