Breve biografia di Karin Maria Boye – Poetessa svedese (Göteborg 1900 – Alingsås 1941). L’immoralismo eroico di Nietzsche, l’umanesimo socialisteggiante predicato da E. Blomberg e la psicanalisi formano il sostrato della sua opera lirica e narrativa, in cui si rispecchia il cammino ideale di tutta una generazione: dalla rivolta alla religione tradizionale fino al vitalismo e al nichilismo. Alle prime raccolte di poesie: Moln (“Nubi”, 1922); Gömda land (“Terre nascoste”, 1924); Härdarna (“I focolari”, 1927), seguirono För trädets skull (“Per amore dell’albero”, 1935); De sju dödssynderna (“I sette peccati mortali”, 1941, postumo). L’urgenza di irrisolti problemi morali è eloquentemente illustrata nel romanzo autobiografico: Kris (“Crisi”, 1934) e nell’allegoria politica alla Huxley, Kallocain (1940), sul paventato trionfo d’una dittatura universale. Morì suicida.
Sento i tuoi passi nella sala
Sento i tuoi passi nella sala,
sento in ogni nervo i tuoi rapidi passi
che nessuno nota altrimenti.
Intorno a me soffia un vento di fuoco.
Sento i tuoi passi, i tuoi amati passi,
e l’anima fa male.
Cammini lontano nella sala,
ma l’aria ondeggia dei tuoi passi
e canta come canta il mare.
Ascolto, prigioniera dell’oppressione che consuma.
Nel ritmo del tuo ritmo, nel tempo del tuo tempo
batte il mio polso nella fame.
Come posso dire
Come posso dire se la tua voce è bella.
So soltanto che mi penetra
e che mi fa tremare come foglia
e mi lacera e mi dirompe.
Cosa so della tua pelle e delle tue membra.
Mi scuote soltanto che sono tue,
così che per me non c’è sonno nè riposo,
finché non saranno mie.
Ricordo
Quieta voglio ringraziare il mio destino:
mai ti perdo del tutto
Come una perla cresce nella conchiglia,
così dentro di me
germoglia dolcemente il tuo essere bagnato di rugiada.
Se infine un giorno ti dimenticassi –
allora sarai tu sangue del mio sangue
allora sarai tu una cosa sola con me –
lo vogliano gli dei.
Karin Boye
Il meglio
Il meglio che possediamo
non lo si può dare,
non lo si può dire
e neanche scrivere.
Il meglio del tuo animo
niente lo può lordare.
Risplende profondo laggiù
per te e per Dio solamente.
È il colmo della nostra ricchezza
che nessun altro possa raggiungerlo.
È il tormento della nostra miseria
che nessun altro possa averlo.
Io non ti perderò mai-
Nessun cielo di una notte d’estate senza respiro
giunge così profondo nell’eternità,
nessun lago, quando le nebbie si diradano,
riflette una calma simile
come l’attimo –
quando i confini della solitudine si cancellano
e gli occhi diventano trasparenti
e le voci diventano semplici come venti
e niente c’è più da nascondere.
Come posso ora aver paura?
Io non ti perderò mai.
Karin Boye
Certo che fa male
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono.
Perché dovrebbe altrimenti esitare la primavera?
Perché tutta la nostra bruciante nostalgia
dovrebbe rimanere avvinta nel gelido pallore amaro?
Involucro fu il bocciolo, tutto l’inverno.
Cosa di nuovo ora consuma e spinge?
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono,
male a ciò che cresce
male a ciò che racchiude.
Certo che è difficile quando le gocce cadono.
Tremano d’inquietudine pesanti, stanno sospese
si aggrappano al piccolo ramo, si gonfiano, scivolano
il peso le trascina e provano ad aggrapparsi.
Difficile essere incerti, timorosi e divisi,
difficile sentire il profondo che trae, che chiama
e lì restare ancora e tremare soltanto
difficile voler stare
e volere cadere.
Allora, quando più niente aiuta
si rompono esultando i boccioli dell’albero,
allora, quando il timore non più trattiene,
cadono scintillando le gocce dal piccolo ramo,
dimenticano la vecchia paura del nuovo
dimenticano l’apprensione del viaggio –
conoscono in un attimo la più grande serenità
riposano in quella fiducia
che crea il mondo.
Salva
(da Nuvole, 1922)
Il mondo scorre da fango, vuoto lo riempie.
Ferite, che il giorno ha aperto, si chiudono, quando è sera.
Calma, calma inclino il capo
a una santa visione, il tuo ricordo che indugia.
Tempio; rifugio; purificazione;
santuario mio!
Sulle tue scale lontana la tenebra, salva,
serena come un bimbo mi addormento.
Le stelle
(da Terre nascoste, 1924)
Ora è finita. Ora mi sveglio.
Ed è quieto e facile l’andare,
quando non c’è più niente da attendere
e niente da sopportare.
Oro rosso ieri, foglia secca oggi.
Domani non ci sarà niente.
Ma stelle ardono in silenzio come prima
stanotte, nello spazio intorno.
Ora voglio regalare me stessa,
così non mi resterà alcuna briciola.
Dite, stelle, volete ricevere
un’anima che non possiede tesori?
Presso di voi è libertà senza difetto
lontana la pace dell’eternità.
Non video forse mai il cielo vuoto,
chi dette a voi il suo sogno e la sua lotta.
Karin Boye
(da I focolari, 1927)
Credo che la morte sia come te,
alta e pallida e diritta come te,
tempie ugualmente incurvate,
occhi di mare, occhi di lontananze come te
le stesse labbra chiuse nel dolore.
Sei la morte. Io sono tua,
tua la mano e tua la mente.
Hai stordito tutte le forze della vita,
cullato in un triste torpore
sogno e atto, che appena hanno provato l’ala.
Ma ti amo, mia morte,
tu mia lunga amara morte,
nella cui mano chiusa inaridisce la mia vita.
Tu mia dolce, dolce morte –
Ti benedico ogni istante che tormenti!
Il violoncello profondo della notte
(da Per l’albero, 1935)
Il violoncello profondo della notte
scaglia nelle ampie distese la sua oscura esultanza.
Le immagini vaghe delle cose sciolgono la loro forma
in fiumi di luce cosmica.
I marosi, brillando lunghi,
si frangono onda su onda attraverso l’eternità blu notte.
Tu! Tu! Tu!
Spiegata leggera materia, schiuma fiorente del ritmo,
sospeso, vertiginoso sogno di sogni,
bianco abbagliante!
Un gabbiamo io sono, e su ali plananti
bevo beatitudine salata di mare
molto più ad est di tutto ciò che so,
molto più ad ovest di tutto ciò che voglio,
e sfioro il cuore del mondo –
bianco abbagliante!
Molte voci parlano
(da I sette peccati capitali e altre poesie postume, 1941)
Molte voci parlano.
La tua è come acqua.
La tua è come pioggia,
quando cade attraverso la notte.
Mormora sottovoce,
scende brancolando,
lenta, incerta,
penosamente viva.
Trema come terra
dietro ogni rumore,
stilla e cola
contro la mia pelle,
morbidamente s’avvolge,
mi avviluppa,
riempie le mie orecchie
di ricordi sussurranti.
Voglio sedere in silenzio
dove non posso disturbarti.
Voglio abitare e vivere
dove posso udirti.
Molte voci parlano.
Attraverso tutte queste
odo solo la tua
cadere come pioggia notturna.
Chandra Livia Candiani poesie da “Bevendo il tè con i morti”
Edizioni Interlinea
Chandra Livia Candiani è nata a Milano nel 1952. È traduttrice di testi buddhisti e tiene corsi di meditazione. Ha pubblicato le raccolte di poesie Io con vestito leggero (Campanotto 2005), La nave di nebbia. Ninnananne per il mondo (La biblioteca di Vivarium 2005), La porta (La biblioteca di Vivarium 2006), Bevendo il tè con i morti (Viennepierre 2007) e La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore (Einaudi 2014). È presente nell’antologia Nuovi poeti italiani 6 curata da Giovanna Rosadini (Einaudi 2012).
Verso sera
i morti siedono sui fili della luce
come gocce di pioggia
che è già caduta.
—
Bevendo il tè con i morti
c’è sempre uno
che sottilmente tace
non un silenzio esangue
ma un narrare interdetto
che non vuole
nell’ascolto pace.
—
Il vecchio cedro è caduto
in una notte di litigi
tra la bufera di notizie
della primavera e l’assoluta
stanza dell’inverno.
Non più verticale al sogno
della terra, ora non separa
radici e uccelli ma profumando
esala l’ultimo urlo
di meraviglia della creatura:
«La primavera, possibile,
solo una stagione?»
—
Ti amo come
ho amato il tuo abisso,
di solito degli esseri
io amo il bacio
dell’orma sul terreno,
la tua era scucita
e non lasciava segni
se non come nuvole e uccelli
segni di aria
liberata.
—
Abito nella tua voce e quando tace il silenzio è alato abito sotto la violenza delle tue ali e quando il silenzio è sommerso dai rumori essi sono il cuore del mondo abito nel mondo e le piume del mondo sanno che la bellezza esiste: «Quando arriverà il tuo passo metterò una conchiglia sopra la soglia e nell’aprirla i frantumi volando reciteranno il tuo nome».
Dall’autrice di uno dei più recenti casi editoriali di poesia con La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore (Einaudi) un libro originale: non sulla morte ma sui morti, su un mondo di ombre più vive dei vivi, fantasmi amici e compassionevoli, abitanti di un regno che è la patria della memoria e la compagnia dei solitari. Candiani ci consegna una doppia vista con un linguaggio che ammutolisce grazie a versi che hanno per interlocutore il silenzio. «Candiani vive in un suo pianeta, come il Piccolo Principe, cui molto assomiglia. Traduce testi buddhisti, recita, dipinge… Molti suoi versi non vi usciranno più dal cuore e dalla mente» (Vivian Lamarque).
In copertina Chandra Candiani in un dettaglio da una foto di Melina Mulas.
Chandra Livia Candiani
Grazia Calanna -Intervista a Chandra Livia Candiani-7 luglio 2014
“La poesia è la quintessenza dell’ascolto”
“Quando vuoi pregare, / quando vuoi sapere / quel che sa la poesia, / sporgiti, / e senza esitazione / cerca il gesto più piccolo che hai, / piegalo all’infinito, / piegalo fino a terra, / al suo batticuore”. Quelli di Chandra Livia Candiani (autrice di La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore, Einaudi, 2014) sono versi rotondi di rinnovamento, ricostruzione, incanto, incantamento, “sereno disincanto”. Leggendoli, ora ci si sente benamati, “per avere luce / bisogna farsi crepa, / spaccarsi, / sminuzzarsi, / offrire”, ora ci si sente abbandonati, “nella prospettiva fluttuante dell’ignoto”, ora ci si sente parte (tutt’uno) di un universo animato, interminabile, “La mia famiglia sono io / vive all’insaputa di me”.
Quali i ricordi legati alla tua prima poesia? Hanno (forse) a che fare con la possibilità di lasciarsi “guidare dall’orma asciutta della gioia”?
Se la gioia non è (come non è) l’opposto del dolore, allora sì. Perché la mia prima poesia è nata, verso i 9 anni, in morte di un pesce rosso, vinto al luna park. Un giorno, tornata da scuola, l’ho trovato a galleggiare su un fianco. Il mistero della sua presenza vuota mi ha colpito quasi più del dolore e ho scritto una serie di ieri contrapposti a una serie di oggi, era quel suo essere sgusciato fuori dal tempo e avermi lasciato con delle azioni sospese, così, senza preavviso, a disorientarmi, perdevano senso le azioni, anche quella di chiamarlo per nome, infatti la poesia terminava con: ieri ti chiamavo Xxxxx, oggi non ti chiamo più. Ma scrivere era cercare a tentoni la gioia possibile anche nel male, ‘la gonfia gioia del riconoscere’, la definizione che Mandel’štam dà della poesia. C’è sempre questa gioia asciutta della conoscenza che può prendere il posto della pretesa che ci possa andare tutto bene. Bene come? Bene cosa? E secondo quali criteri?
Quali i poeti dell’anima (per quali ragioni, con quali legami)?
Si sono susseguiti vari poeti sul percorso, ma gli intramontabili sono Rilke, Marina Cvetaeva, Pasternak, Mandel’štam, Celan, Emily Dickinson. Ci sono legami tematici e altri linguistici. C’è un male che la poesia mi fa, sento di essere costeggiata da un poeta, sento che faremo un po’ di navigazioni e naufragi insieme quando avverto quello speciale male: è un vuoto vivo nel petto, un mancare che non vuole essere riempito ma colto, un’assenza di nomi e di orientamento che vuole essere vista e abitata. Quei poeti mi portano in luoghi di ‘non so’ sconfinati, mi gira la vita, la sento che gira e gira e perde i riferimenti, allora sono senza mondo e ricevo l’essere senza mondo dell’altro, allora siamo svegli in piena vita. O morte, fa lo stesso. L’assoluta devozione di Rilke alla poesia mi ha aiutato a sceglierla come destino, come Via, come rischio e pericolo di perdersi totalmente e di indirizzarsi a un’assenza di riferimenti mondani che non rende proprio proprio tranquilli. Le sue lettere a un giovane poeta, come le sue elegie, sono istruzioni per inoltrarsi dove non ci sono riferimenti consolanti, grammatiche familiari. E i russi sono stati nostalgia di un’anima feroce e famelica di se stessa e della conoscenza, di quando siamo bestie dell’esperimento di vivere che non osavo senza le loro righe per andare dritta. Sentivo questa sproporzione e non sapevo come addomesticarla, è stata soprattutto Marina a dare un perimetro all’esagerazione e a farne verso di poesia e non solo urlo ferito o fame di amore. Pasternak mi ha dato un passo sereno, una sensazione di poter fare epoca a sé senza perdere il contatto col dolore degli altri, un sereno disincanto. Emily Dickinson ha legittimato tanta mia solitudine, tanto universo immenso in un centimetro di prato e il fitto dell’infinito, i tempi stretti dell’eterno, una Maestra di divinità infantile, di pugni serrati e ossa rotte per fissare in faccia il cielo per uno zero più grande. E Celan è maestro di riduzione, di non concedere niente alla narrazione né alla spiegazione ma avere parole come lame di diverse lunghezze, larghezze, affilature, ma sempre lucide, sempre alla luce. Ho ancora molto da apprendere dal suo coraggio di non compiacere, di essere solo lingua. E dettata e dedicata, cioè lasciare che i versi vengano essenziali non dalla cronaca di sé e che si dedichino a dirci e non noi a dire loro.
Chandra Livia Candiani
Due poesie – una tua, una di altri – alle quali sei più affezionata? Sarebbe bello se volessi riportarle come stessi recitandole…
Adesso che non so più niente
che il vuoto è bella dimora
che ho passi senza arsura
che siedo e imparo
a esitare, adesso
che non sei più al centro
e quello che conta non è più
al centro
ma spostato
tra le mani
dove le dita si disarmano
e fanno un gesto limato,
adesso questa categorica bellezza
di rami e cieli
pugnala solo
perché entri luce.
(Chandra L. Candiani da La bambina pugile
ovvero La precisione dell’amore, Einaudi, 2014)
*
Vi sono nell’esperienza dei grandi poeti
tali tratti di naturalezza,
che non si può, dopo averli conosciuti,
non finire con una mutezza completa.
Imparentati a tutto ciò che esiste, convincendosi
e frequentando il futuro nella vita di ogni giorno,
non si può non incorrere alla fine, come in un’eresia,
in un’incredibile semplicità.
Ma noi non saremo risparmiati,
se non sapremo tenerla segreta.
Più d’ogni cosa è necessaria agli uomini,
ma essi intendono meglio ciò che è complesso.
(Pasternak dal poema Le onde in Poesie,
Einaudi, 1957, traduzione di A. M. Ripellino)
Per Goffredo Parise la poesia “é qualcosa che arriva da fuori, va e viene, vive e muore, quando vuole lei, non quando vogliamo noi, un po’ come la vita, soprattutto come l’amore”, per Chandra Livia Candiani?
Sottoscrivo, sì, non so se la poesia venga da fuori solamente o da luoghi intermedi e misteriosi, periferie tra dentro e fuori, sottofondi, frontiere. Dentro e fuori sono coniugazioni di uno stesso spazio, di una nostra imprecisione nel percepire e percepirci. Ma certo quello che precede la poesia è la totale assenza di controllo, forse per questo è sempre stata raffigurata come una dea. Non le importa molto di noi, non ha riguardi. Passo lunghi tempi sottoterra, mi sento sciocca, ottusa, opaca e mi sembra che mai più tornerà un verso di mia anima e poi, quando la poesia torna, tornano i miei versi, ecco che proprio quel tempo sotterraneo si rivela come il più fecondo. Soprattutto come l’amore sì, quando si fa la muta, si cambia pelle e pensiero, ci si ritrova estranei a se stessi e io mi guardo nei miei versi nuovi con imbarazzo e timidezza e allora so che sono tra i migliori, perché non ho interferito con le mie consuetudini e le mie concezioni. Lasciarsi disfare e rifare da capo, lasciarsi dire da qualcosa che è un po’ più di noi. Siamo stanchi di noi. Sappiamo già tutto quello che sappiamo. La poesia mi sbaraglia, se no è un’altra cosa, qualcosa di meno.
“Sapere che non si scrive per l’altro, sapere che le cose che sto per scrivere non mi faranno amare da chi amo, sapere che la scrittura non compensa niente, non sublima niente, che è precisamente là dove non sei: è l’inizio della scrittura”. Una considerazione di Roland Barthes per chiederti: oggigiorno quale dovrebbe essere la funzione della scrittura e, più miratamente, della poesia? E, ancora, in che modo potremmo (o dovremmo) muoverci (tra tutte le difficoltà che conosciamo) per preservare il valore autentico della cultura?
Mantenere viva la parola. Fare ancora della parola innanzi tutto una presenza. Vibrante, vera, che pulsa e intimorisce. Essere vivi e mantenersi vivi non è scontato, è lotta dura. Non assomigliare, non compiacere, non chiedere il permesso, non lasciare, per spiccioli di compagnia, la solitudine, non chiudere la faccia agli altri. Distinguere tra vita e mondo, essere vivi, essere al mondo. Tra i due c’è una preposizione in più. Ce n’è di cose da fare. Alloggiare, abitare, dare asilo. Però io non credo allo scrivere per sé, si è sempre sul balcone o all’aria aperta, semmai si sta chiedendo come Pasternak ai bambini che giocano in cortile: “In che secolo siamo, ragazzi?” Ma anche quella è apertura, è essere con l’altro, senza mimarlo, con la propria sproporzione. ‘Con’ è una parola bella che non leva niente alla solitudine interiore, all’etica della non compiacenza. Scrivere senza programmi certo, senza didascalie, né spiegazioni, ma rivolti sì, rivolti fuori. Sì la scrittura è la dove non sei, è vero e si sposta sempre, come l’orizzonte e le si corre dietro e poi magari si scopre che ti sta alle spalle. Penso che l’importante è essere onesti, sapere quando si sta mentendo e quando no. Non c’entra con il dire l’onestà, ma con il leggere e il lasciarsi dire, con lo studio assiduo, con la devozione. Farsi orti, essere zappati dalla vita, anche cattivamente, lasciarsi rivoltare e innaffiare e lasciarsi osservare mentre si fa la fatica di sbocciare e poi guardare quel che è successo. È un momento importante quella sosta del guardare: ecco, è compiuto, come va? Forse non si tratta di pensare alla cultura perché questo fa subito sentire troppo importanti, e fa costruire armature di parole, io preferisco limitarmi a sentire il mondo, compresa me, con i sensi, incluso quell’organo vuoto che prova compassione per il dolore dell’altro e gioia per la sua gioia, quell’organo coltivabile ed educabile a cui sono stati dati tanti nomi che ora sono tutti decadenti e zuccherosi ma che ha molto bisogno di essere di nuovo abitato. Forse la cultura ha bisogno di sapere che le culture sono tante e lasciarsi mutare, parlare con le altre, fare l’amore e lottare, convivere e trasformarsi come fa l’aperto, la natura, bestie e rocce e alberi, tutto quanto. E non dimenticare i regni non umani, lo smisurato essere vivente che è il cosmo e il pianeta di cui siamo responsabili. Ci preoccupiamo di parlare un inglese bellissimo, ma non ci intendiamo con gli animali. E la nostra ancora oggi totale incapacità di frequentare i regni invisibili. Dove vanno i morti? Dove si è prima di nascere?
“La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore”. Perché questo titolo per il tuo nuovo libro?
La bambina pugile è un verso di una poesia che sta dentro il libro, è una faccia che certe mattine ci si ritrova nello specchio, quando si è lottato tutta la notte con le memorie, con l’identità perduta o da conquistare come uno che naufraga e ritrova la terraferma, con la non-voglia di essere al mondo, alla luce, forma tra le forme, con le cattiverie delle persone e le nostre cattive risposte. Ho difeso questo titolo, perché secondo alcuni era aggressivo e non mi si attagliava, ma io in quel titolo vedo l’allenamento, la disciplina, e la precisione è parte essenziale dell’addestramento. Così la precisione dell’amore è la precisione dei colpi che la vita ci sferra, esatti esattissimi per noi e bisogna cercare di essere altrettanto precisi nelle risposte. L’amore è precisissimo, non è romantico, ma matematico, ci insegna come una maestra tradizionale che parte dalle aste e arriva alla fisica quantistica, per me è fatto così. La proposta di unire i due titoli è venuta da Mauro Bersani, responsabile della collana di poesia di Einaudi, perché pensava che La bambina pugile non rappresentasse tutto il libro, ma solo una parte, (il libro è diviso in tre sezioni: La bambina pugile, Pianissimo per non svegliarti, La precisione dell’amore) ed è verissimo, gli sono molto riconoscente perché quel titolo doppio fa riflettere, sia sul pugilato che sull’amore, che sui bambini, tutto alla luce della precisione. ‘Ovvero’, anche questo su suo suggerimento, è una parola meravigliosa che ha qualcosa di settecentesco e ha unito i due titoli rispettandone la differenza e segnando uno spazio vuoto che fa un po’ trasalire, un po’ riflettere. Difendo il titolo, fino in fondo.
Come “sarà la dignità della vita umana, / sorvegliando l’arrivo / della poesia?”.
Citi una poesia che è fatta tutta di domande, per arrivare a chiedersi come sarà la dignità della vita umana che passa in un’attesa accesa e vigile, un’attesa che sorveglia l’arrivo della poesia. Non solo di quella scritta, quella nostra, ma anche poesia del mondo, fare nuovo nel mondo, fare giusto. E la poesia sembra che inviti a scegliersi come si è, un po’ alberi che proprio quando fa più freddo si spogliano, esseri immersi nei paradossi delle meccaniche dell’universo, ma anche un po’ lacrime che non sanno scendere, ferite che non sanno guarire, persone che non sanno parlare, né tenere, né dire il bene. Essere poveracci senza destino ma che sorvegliano l’orizzonte, attenti alla possibilità che arrivi il dono. E in quel sorvegliare c’è la dignità di saper esitare e insieme di fare azione utile e grande nel farsi un po’ da parte, nel farsi fare dal vivere ma non ammazzare dal mondo. E fermare le mani cattive e farsi benedire da quelle buone e non dare le stesse risposte delle domande quando c’è crudeltà, spostare il colpo e il campo, imparare a non colpire chi ci colpisce, ma a non farsi massacrare, fargli trovare lo spazio vuoto davanti, allora sarà la sapienza di quello spazio a fargli intendere come stanno le cose. La poesia come arte marziale.
“Per ascoltare bisogna aver fame / e anche sete, / sete che sia tutt’uno col deserto, / fame che è pezzetto di pane in tasca / e briciole per chiamare i voli, / perché è in volo che arriva il senso / e non rifacendo il cammino a ritroso, / visto che il sentiero, / anche quando è il medesimo, / non è mai lo stesso / dell’andata”. Con i tuoi versi per domandarti: la poesia può (e se può, in che modo?) aiutarci a recuperare la capacità d’ascolto? Può (e se può, in che modo?) ricondurci alla “nudità delle cose”?
Certo che può. La poesia è la quintessenza dell’ascolto, prima di tutto per chi scrive, se scrivo quel che so già, non è poesia. Voglio imparare dai miei versi, varcare frontiere che fanno un po’ spaventare di perdersi, rischiare le derive e dopo sapere qualcosa di nuovo, come nei sogni, quando i maestri ci parlano di notte, per immagini, per salti del senso, che poi danno più senso di qualsiasi poco a poco, piano piano dei metodi rassicuranti. La poesia contiene tanto silenzio, gli a capo, ma non solo, quel silenzio delle parole che non possono essere sostituite con altre. E quelle parole che diresti in punto di separazione, quando il silenzio preme fortissimo. Per ascoltare bisogna aver fame dell’altro, se no si ascolta sempre e solo quello che ci conferma. La poesia dovrebbe far sussultare il sapere condiviso, le consolazioni. E aprire varchi, farci intravvedere altre possibilità. Rendere invisibile il visibile diceva Rilke. Ascoltiamo meglio se la mente tace, se non associa e invece risuona. Per risuonare bisogna essere vuoti. Le domande stanno scomparendo dal mondo. Mi fa il cuore stretto passare ore con persone che non mi fanno nessuna domanda, come se fosse impudico, ma in realtà è assenza di differenze, di interesse, come fossimo tutti senza volto e chiedessimo di confermarci che tutto è opaco, che non c’è niente per cui valga la pena lasciare la casa e inoltrarsi nel non conosciuto. I bambini, quando stanno ancora bene, lasciano la casa ogni volta che parlano. Quando ballano poi…
“«La poesia è conoscenza e passione» / ha detto uno di voi / uno di otto anni”, ancora i tuoi versi per chiederti (ricordiamo che da qualche anno curi seminari di poesia in diverse scuole elementari milanesi) di renderci partecipi di alcuni dei momenti più “lirici” trascorsi in compagnia dei tuoi maestri-bambini poeti. E, ancora, avendola, e avendone voglia, potresti riportare una definizione di poeta formulata da una di quelle tue “giovani belve con gli occhi inflessibili”?
Scelgo le scuole periferiche di Milano, quelle con tanti migranti e figli di migranti e italiani spaesati, poveri, perché c’è più necessità di parole, parole per dire il brutto, il poco, il senza qualità. Uno dei momenti più intensi è quando entro per la prima volta in classe, quando mi ‘vedono’. È una questione di vita o di morte, in pochi secondi ti giochi tutto. Per questo seguo anche da tanti anni una formazione clown, per avere una faccia viva, abitabile, accogliente. Con tanti di loro, c’è solo la faccia, le parole non le capiscono. Ne ho tante di storie, tra tante quella di Ginai, cinese. Entro in classe e parlo di cos’è la poesia. Lui mi fissa e dice: “Maestra in Cina non c’è la poesia!”. Io gli dico: “Ma certo che c’è e antichissima anche, ti porto delle poesie la prossima volta”.
L’ultima lezione, Ginai scrive:
La poesia scapa nel mondo
e la mia mamma non lo sa
la poesia dopo la mia mamma
va cercare nel mondo.
E poi un bambino molto ferito che parlava pochissimo, come se le parole bruciassero. Gli do un titolo: Il silenzio. Lui scrive solo una parola: luna. Quando la legge:
Il silenzio.
Luna.
E noi il silenzio l’abbiamo sentito, toccato: luna.
Non ho definizioni di poeta ma della poesia sì, scrivono quasi sempre una poesia che si chiama Cos’è la poesia.
Anita, 9 anni:
La poesia è come vento
viene
e va
ti lascia sola
e poi ritorna.
È un mare
di parole
che ti colpiscono
o ti uccidono.
La poesia
unisce
ma
non si sa cosa.
Edmondo, 9 anni:
La poesia un insieme di cose inspiegabili
come perché esiste l’universo
o chi l’ha creato
queste cose sono inspiegabili
come la poesia
si sono fatte molte ipotesi ma
la poesia però è sempre un mistero
e quando credi di aver trovato
una risposta in verità
hai trovato una risposta ma cento domande.
Ti invito a scegliere una tua poesia (spiegandoci perché l’hai scelta) per salutare i nostri lettori.
La poesia che dà il titolo al libro, perché è semplice, diretta, parla del dopo, dell’adulto nato da un’infanzia che sfracella, e termina con qualcosa che è anche più del perdono, è la comprensione del dolore dell’altro, della solitudine del tiranno, del suo essere fuori mondo, mostro. E così saluto con l’augurio di non cancellare il male, di accoglierlo tutto, di sentirlo in pieno e di spostare solo dopo l’attenzione sull’altro e di vederne la miseria, che non è condonare niente, ma prospettiva ampia che può portare ad azioni forti, ma sempre calibrate dal sapere che i ruoli si invertono, che la complessità della vita non fa sconti, che è necessario rallentare, perfino fermarsi e lasciarsi riflettere, aspettare una comprensione smisurata come l’universo. Forse si chiama giustizia.
Poetessa, scrittrice e traduttrice spagnola Pilar Adón . I suoi testi si trovano inclusi in diverse antologie poetiche e la sua opera è considerata letteratura pura; inoltre ha tradotto autori come Henry James e Joan Lindsay.
Chi si prenderà cura di me quando sarò vecchia?
Chi mi aspetterà, felice di vedermi?
Capelli annodati. Senza pettinature notturne.
Pettini e specchi d’argento.
Sola sulla mia poltrona. Stufa della stanchezza e delle prediche.
Senza figli che mi facciano il bagno,
che mi cucinino arrosto con purè,
che mi portino maglioni taglie forti,
che mi lavino i piedi e le ascelle
quando ci saranno oramai pochi motivi per esistere.
Sconfitta dai ragionamenti
riguardo la raccolta di ciò che è stato seminato.
Celebrazioni, compleanni e feste
in prospettiva di una solitudine rotonda.
Chi verrà a trovarmi
nei fine settimana?
Se non sono una madre.
Se vivo senza riconoscere la devozione, l’ausilio.
La tenerezza. Le visite agli amici in lutto.
Tra scuse, documenti e libri,
lontana dal sentimento originale.
Scappando dalla prima chiamata.
Senza sapere che cos’è il donarsi.
La pietà. La delicatezza
dei bambini fotocopia. La loro mente dolce e semplice
come pezzi di mela cotta. Come sacchetti
di orsetti Haribo.Chi mi abbraccerà quando sarò vecchia?
E sia, sola. E non ci sia nessuno che voglia parlare con me.
E le tende prendano fuoco
e le fiamme salgano al soffitto. E nessuno
possa avvicinarsi
al telefono. Per chiamare i vigili
del fuoco.
Pilar Adón
Pilar Adón Poetessa, scrittrice e traduttrice spagnola. I suoi testi si trovano inclusi in diverse antologie poetiche e la sua opera è considerata letteratura pura; inoltre ha tradotto autori come Henry James e Joan Lindsay.
Pilar parla dell’oscurità dei misteri quotidiani, si presenta come una forza, i suoi versi sono lucidi, pieni di immagini infantili, ma osservati con la lente delle macerie: “L’odore delle margherite non porterà primavera”. Solitudine, un mondo in arrivo, ricerche del tempo, viaggi verso l’interiore per trovare ciò che non si vede: “Credere. Credere nelle braccia aperte e in una parola.”Questo resta al lettore, la possibilità di credere in un paesaggio che parla, un percorso verso un luogo segreto.
Descrizione L’esordio di Poesie a Casarsa di Pier Paolo Pasolini irrompe sulla scena letteraria del 1942 con la perentorietà dell’eccezione creatrice. Il libriccino conteneva appena 14 testi, ma subito si lasciava alle spalle ogni ipoteca vernacolare o popolareggiante e inaugurava un canto nuovo di raffinata sperimentazione, tra un’acuminata sensibilità d’autore e il filtro di una preziosa cultura poetica, intrisa di echi ermetici e simbolisti. D’eccezione era poi l’intuizione del dialetto come linguaggio naturalmente poetico, «lingua pura per poesia» e tensione alla «melodia infinita». In quel caso era il casarsese, idioma di periferia letterariamente vergine, e inoltre, in quanto suono di eco materna, saturo di implicazioni affettive. In quel codice Pasolini calò la sua Provenza sentimentale, facendovi convergere la squisita mitografia di un sé Narciso, precocemente scisso dalle antinomie tra amore e morte e tra innocenza e peccato, e poi sempre più, con l’ampliarsi di quel félibrige coagulato anche intorno all’«Academiuta», vi espresse l’altro da sé, l’epos della realtà popolare, cristiana e contadina, impigliata nei riti di un’arcaica atemporalità. Con quella operazione Pasolini fornì un geniale esempio di sublimazione a significatività universale del particolare locale e introdusse una sintesi poetica che poi connotò il fenomeno vistoso della poesia in dialetto del secondo Novecento italiano. Fu un’influenza decisiva su cui gettano fasci di luce interpretativa i 14 saggi di questo volume, originariamente presentati al convegno del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa nel novembre 2012. Essi contribuiscono a rileggere l’apprendistato poetico pasoliniano secondo aggiornati punti di vista linguistico-letterari e insieme a ricostruire la mappa delle intersezioni e del dibattito teorico che la poesia friulana di Pasolini ha saputo riverberare intorno a sé, con le sue espressioni liriche giovanili, come anche con l’antilirico rovesciamento con cui nel 1974 Pasolini riscrisse parte del canzoniere del 1954 La meglio gioventù.
Breve biografia degli Autori-
Giampaolo Borghello
Giampaolo Borghello (Verona, 1946) ha studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa. È stato professore ordinario di Letteratura italiana e direttore del Dipartimento di Italianistica dell’Università di Udine. Nel 2017 ha ricevuto la laurea honoris causa in Lettere dall’Università di Szeged (Ungheria). Si è occupato di Boccaccio, Pascoli, Svevo, Montale, Pasolini, i poeti crepuscolari, la critica letteraria marxista, la letteratura di massa e di consumo, le dinamiche del best seller, la stagione sessantottesca. Tra le sue ultime pubblicazioni segnaliamo: Il getto tremulo dei violini. Percorsi montaliani (Paravia Scriptorium 1999); Cercando il ’68 (Forum 2012); Come nasce un best seller (Forum 2016); Sequenze. Percorsi, problemi e scorci di storia della letteratura italiana (Marsilio 2019); Intorno al Sessantotto. Voci luoghi parole (Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione 2019).
Angela Felice
Angela Felice è critico teatrale. Dirige, dal 2009, il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa. Per le edizioni Marsilio ha curato: Pasolini e la televisione (2011); Pasolini e il teatro (2012, con Stefano Casi e Gerardo Guccini); Pasolini e l’interrogazione del sacro (2013, con Gian Paolo Gri); Pasolini e la poesia dialettale (2014, con Giampaolo Borghello); Pasolini e la pedagogia (2015, con Roberto Carnero).
Nota biografica-Antonio Lillo (1977) vive e lavora a Locorotondo dove è direttore editoriale di Pietre Vive Editore.
MAHLERIANA
Non siamo responsabili di non essere lui.
(Montale)
Siamo sospesi in una stanza chiusa
ma vicini nella luce che ci scioglie nel suo rosso d’uovo.
Siamo qui arruolati come ad un bivacco
in questo lento fuoco estivo
alimentato dal dolore
dove lui è legato al suo respiratore
ed io impotente ad uno dei miei libri
sonnecchiamo nello sfiato leggero
della pompa artificiale
che ha preso il posto ormai delle cicale.
Lo osservo sbirciarmi commosso
nelle finte da flamengo
in cui mima un sonno dolce e affaticato
col suo occhio spalancato e muto
arreso al suo destino di mortale
e sopraffatto da quello che verrà.
E sfioro incapace di conforto
il polso rinsecchito e il viso scosso
le dita ormai di sale. Per distrarlo
prendo un libro uno dei tanti
che fanno peso ormai fra le coperte
nelle ore in cui lo assisto.
E leggo – ed è la prima volta in cui mi scopro
col pudore di un figlio che ha studiato
al padre di tutt’altro innamorato –
una poesia sui pomodori.
È tale la sorpresa che lo investe al mio vociare
che l’osservo irrigidirsi e poi provare a sollevarsi
nello sforzo di capire le parole.
Vuole coglierle dal cesto e con le dita svelte
agganciarle al fil di ferro in ciuffi
preparati per l’inverno. In quell’arancio aspro
nella mia voce stanca
l’ho visto uscire un’ultima volta dalla stanza…
2.
Chissà se quel che dorme in queste ore mio padre
è ciò che chiamano «il sonno dei giusti», la sua prova generale
o più semplicemente un’impietosa legge naturale
dove il più debole si annulla per fare posto ad altri.
Giusto, allora, è chi dà spazio liberando il posto.
Ma giusto è anche il male, se mi aiuta a distaccarmi
dal dormiente. Lo guardo riposare. Le guance ruvide
scavate, i denti spinti in fuori a rosicchiare innaturali
il labbro tumido, piegato dagli spasmi muscolari,
la gola esclusa al cibo ma pronta sempre a esprimere
i guaiti da bestiola in trappola, gli ansimi serrati
della stretta. Macchie sul pigiama ovunque, le vene
che si spezzano. Soltanto attraverso il suo dolore
mi lascio perdonare alla Natura il suo prossimo finire
il suo morire, il suo svuotarmi nel trasloco ingiusto
da cui non tornerà né in altra forma, né in questa.
3.
Ecco mi commuovo
di fronte allo stupore di mio padre
che si osserva morire
fissandosi per ore gli arti ossuti
estraneo ormai al suo nome.
Li rigira nello sguardo muto
la bocca amareggiata
li studia nel loro assottigliarsi
li vede perdersi di grasso e peso
e poi scavarsi le fosse nella pelle
le bocche senza un grido da cui
riemergeranno le voci
di ogni morto che lo scava.
Poi di volta in volta verso me
si volta pieno di veleno se al confronto
ancora troppo gli assomiglio
troppo a lui compagno, troppo figlio
persino qui in magrezza e malattia
noi due scarnificati
e uniti ai suoi occhi inquisitivi
nei polsi alle caviglie
che non ci lasciano sperare
altro di buono
che una punta secca di coltello
per bucarci il collo.
Di entrambi noi saranno
le giunture a parlare
cigolanti e secche, le
clavicole che spingono sul vuoto.
4.
All’alba mi addormento al posto di mio padre.
Lui è steso in un lettino a fianco.
Ieri ha fatto testamento.
Lui non dorme. Io sono stanco.
Nota biografica-Antonio Lillo (1977) vive e lavora a Locorotondo dove è direttore editoriale di Pietre Vive Editore.
La rivista «Atelier»ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
direzioneatelierpoesiaonline@gmail.com
Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
Breve biografia di Mia Lecomte (Milano, 1966) è una poetessa e scrittrice di nazionalità francese e di lingua italiana che risiede in Svizzera. Tra le sue pubblicazioni più recenti si ricordano: la silloge poetica Lettere da dove (InternoPoesia, 2022) e il libro per bambini Gli spaesati/Les dépaysés (VerbaVolant, 2019). Le sue poesie sono state tradotte in diverse lingue, pubblicate all’estero nelle raccolte For the Maintenance of Landscape (Guernica, 2012), Là où tu as ton corps (Apic, 2020. Prix Vénus Khoury Ghata 2021), e in numerose riviste e antologie. Traduttrice dal francese, svolge attività critica ed editoriale nell’ambito della letteratura transnazionale italofona, a cui ha dedicato alcune antologie e il saggio Di un poetico altrove. Poesia transnazionale italofona. 1960-2016 (Franco Cesati, 2018). È redattrice del semestrale di poesia comparata Semicerchio, del periodico letterario indiano online The Antonym, e della rivista del festival anglo-francese di poesia La Traductière. Collabora all’edizione italiana de Le Monde Diplomatique. Nel 2017, con altri studiosi e scrittori attivi tra Francia e Italia, ha fondato l’agenzia letteraria transnazionale Linguafranca. È ideatrice e membro della Compagnia delle poete. Le fotografie di Mia Lecomte sono tratte da mialecomte-ph.
Dopo tutto il tuo tempo
Le date
Ho trovato la tomba
prima di trovare la casa
il mio cimitero
prima della mia città
Può iniziare l’inverno
in alto il cuneo delle anatre
gli stambecchi sulle lapidi di sale
Ho trovato e mi lascerò
per una scommessa d’esilio:
salutarmi da sola
ogni volta che se ne vanno gli altri
Crepa cuore
L’ippopotamo è un animale enorme
considera una distanza da qui a lì
l’aspetto placido trae in inganno
i canini possono misurare mezzo metro
se lo ostacoli sulla via dell’acqua
verrai dilaniato in maniera atroce
Il leone è possente
ma interviene soltanto all’ultimo
quando ne vale la pena
solo dopo che le sue leonesse
hanno fatto il resto
ti finirà in maniera atroce
L’orso non sa sbranare
non controlla la mascella
un’insolita formazione dentale
unita a un difetto dell’articolazione
puoi correre quanto vuoi
ti strazierà in maniera atroce
L’elefante ti sorprende
perché in realtà è leggerissimo
non lo senti arrivare
se ti fermi per qualche motivo
in un soffio alle tue spalle
ti calpesterà in maniera atroce
Domani ti porterò allo zoo
l’ippopotamo il leone l’orso l’elefante
chiusi nei recinti nelle gabbie
così ti sentirai al sicuro
amore mio atroce
potrai godere della cattività
della senilità
subito ti dimenticherai di me
Ultimo post it
Ora sono io a partire
altrimenti ne morirei
ne moriresti
ne moriremmo
Io declino
perché risulti meno grave
Dopo tutto il tuo tempo
ti lascio la mia fine
in monoporzioni
nel congelatore Penel.
La rivista «Atelier»ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Poesie di Luciano Valentini- Cipressi sulle colline-
– Betti Editrice-
Luciano Valentini- Cipressi sulle colline-
Poesie di Luciani Valentini-Cipressi sulle Colline-Dalla Prefazione di Daniela Pinassi :«Non è facile descrivere in poche righe le sensazioni che suscita questa cospicua raccolta di poesie di Luciano Valentini, perché, anche se si possono intravedere due o tre temi dominanti, in realtà le emozioni che le poesie muovono sono molteplici. I temi prevalenti sono la solitudine, l’inquietudine, che porta spesso il poeta a porsi molti interrogativi, la nostalgia del tempo che passa ed anche la morte, ma solo in qualche testo».
La Betti Editrice nasce nel 1992 con un taglio prevalentemente locale con una particolare attenzione alla storia, cultura e turismo a Siena. Negli anni ha allargato il suo raggio d’azione a generi diversi (narrativa, edizioni per bambini,..) con uno sguardo che spazia all’intero territorio Toscano e a tematiche di interesse nazionale. Una produzione differenziata per argomenti e generi è elemento distintivo della Betti Editrice che opera nel mondo editoriale cercando di far convivere e tenere in equilibrio il rispetto della storia e delle tradizioni con la curiosità per l’innovazione e i linguaggi contemporanei.
Dal 2017 organizza il premio di narrativa dedicato alle storie di viaggio lungo la Via Francigena.
Giulia Bologna (1990) è laureata in Psicologia Clinica. Ha vinto il primo premio di poesia inedita “Pagine Marchigiane” 2023 dell’Associazione Versante. Ha vinto il 3° Premio Assoluto dell’Undicesima edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”, organizzato da Euterpe APS di Jesi, nella sezione Sperimentazioni poetiche e nuovi linguaggi (sotto-sezione: dittico poetico) insieme ad Eugenio Griffoni.
Vita non è vita
se non in transito verso la sua mancanza,
verso la speranza vana
dell’incontro.
Nel fiordo del senso
ancoriamo le nostre parole
e nell’incavo del tempo
gettiamo i nostri germogli
più cari.
Nei nodi dell’Aria
appendiamo le ombre più buie
all’ineffabile
saldiamo tutta la nostra eternità.
Siamo cera restituita dal fuoco,
alfabeti in fuga centripeta dall’abisso
ignifero rigettato dal buio.
*
Teniamo traccia di ogni assenza/
di ogni rosa che manca all’appello/
di ogni pietra che argina il vento/
di ogni giorno
che è solo polvere –
guardiamo nel fondo
rimestiamo
cerchiamo l’irripetibile d’ogni vita/
il caglio dei mondi/
la genitura dell’origine/
– cercando la chiave di qualcosa
che non ha nome.
Trovando soltanto il grido
di questi versi.
*
E dunque non patteggiare il potere,
non tacere il velo
che rivela il dissesto.
Vedo il soffocamento del segreto,
la copertura della ferita inastata a nido del presente.
Chi deborda, chi eccede la parola,
chi resiste oltre la fine, conservando il proprio scalpello del dissanguamento continuo?
Chi scioglie la propria pelle
uscendo dal compasso di Dio?
Stanotte prendi ogni fonema
come ago per scucire gli alfabeti,
fermenta i liquidi
in un nuovo ordine chimico.
Stanotte innestala fotosintesi
nel midollo spinale,
poi sarà altra pigiatura inaugurale,
altro scoppio di stelle.
Allora
svezzando il mondo
tutto avremo dato.
*
Solideo
Cosa portiamo alla vita in dono
se intorno v’è solo
malagrazia e pietra dura?
Se dobbiamo ancora pagare
il nostro fio?
Siamo soltanto soglie
da attraversare, ciechi erratici
ad urlare in ginocchio
avanti ai camini del cielo.
Solamente con la bocca violata
dagli sterpi
– immersa nell’humus –
sapremo cantare
in tutte le lingue di Dio.
*
Il vino ci consola,
ricordi?
Ricordi quei corpi
immacolati per la resa dei conti?
Guardali ora
nel cordoglio
hanno un altro cielo per il perdono-
un luogo dove si possa riposare
dimenticando i passi fatti
su questa terra
e un giorno dove si possa
ricominciare
con nuovi re
nuovi papi
nuove stirpi
nuove strade
nuove parole.
Un mondo di pellegrini
e un nuovo Dio.
(Questo intanto ci urina in testa
mentre protetto c’arride.)
Sarebbe bello
contare i millenni a manciate,
farne storia e polvere.
Ma l’uomo è stanco
e la terra non restituisce pietà.
Sarebbe bello ascoltarti in eterno
mentre parli mesto di tua madre
mentre ometti l’importante
mentre semini vittime
e mieti la tua memoria.
Sarebbe bello non avere paura
quando la mattina ci si sveglia/
conservare il coraggio della notte
anche il giorno.
Ma questa è la risposta:
oggi sono sul letto
e non ho intenzione di uscirne.
Conserverò la speranza
per il prossimo anno.
Conserverò la carne
le parole
i respiri e il sangue.
E conserverò te
in qualche meandro della memoria
che non tace mai.
Forse vedremo altri cieli
altri oltraggi che oscurano altri pianeti-
altre vite che sfrutteremo.
Ho gridato il tuo nome
quando il tuo nome era ancora Adamo,
ma stanotte griderò tutti i nomi
che abbiamo dimenticato
strappati alla sabbia
alla terra
alla lontananza del creato
riemersi dalle dune-
coniugherò ogni verbo
per vederle fiorire.
Ci sarà un diluvio
ricordi?
*
Parlavi rimestando nella ghiacciaia:
“io covo la mia esultanza nel turibolo”.
Hanno immolato lo smarrimento
per ricusare la specie,
incrinato il passo
che ci precede negli inizi,
reso lattescente nebbia
il nostro respiro.
Ecco. Ora siamo ruggine in una carniera, siamo al confine d’un deserto senza oasi e mulattiere.
(Il siero rimesta
nel fondo del Lete
come sangue ramificato
nella sabbia).
Che la terra promessa ci riarda nelle mani.
Biblioteca DEA SABINA- La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
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Poesie di Pasquale Vitagliano dalla raccolta “Apprendistato alla salvezza”
Editore Interno Poesia – Nota di Antonio Fiori.
Breve biografia di Pasquale Vitagliano è nato a Lecce nel 1965, è poeta e critico letterario. Presente nell’Atlante dei poeti italiani contemporanei “Ossigeno nascente”, curato dall’Università di Bologna, è caporedattore della rivista letteraria Menabò, animatore del Litblog Lapoesiaelospirito, e collabora con la Gazzetta del Mezzogiorno. Tra le sue opere ricordiamo, in prosa: “Le voci del pretorio”, David and Matthaus (2017), “Sodoma”, Castelvecchi (2017); in poesia: “Del fare spietato”, Arcipelago Itaca (2019); in veste critica: “Icone e labirinti”, Terra d’ulivi (2020).
C’è stato tolto tutto
Chi si azzarda più
A dipingere madonne
Ci hanno privato delle ninfe
Le nature morte sono morte davvero
Non più scandalo nemmeno
Un barattolo o un volto scomposto
Ci hanno lasciato infine i rifiuti
Al massimo da differenziare
Che arte puoi fare se non un’alchimia
Almeno per chi come a tutti gli umani
Spetta di camminare.
*
In questa poesia non ci sono alberi
Animali o elementi naturali
Neppure parti del corpo e
Neanche oggetti di uso comune
Che pure sono quelli che preferisco usare
In questa poesia ci sono soltanto
settanta parole che senza aspettarsi premi
Cercano di scrivere appena
Ciò che la vita non riesce a dire
Quello che dalla vita avanza
Perché possa smaltirsi il dolore
Per dare un senso alla salvezza.
*
Arride sulla trincea
La scia del tracciante
Irradia l’ultima notizia
La guerra privata è finita
Il bollettino quotidiano
Sulla battaglia continua
Irride la gloria alla buon’ora.
Quello alla salvezza è un apprendistato che dura tutta la vita; ne dà prova e testimonianza Pasquale Vitagliano non solo in questa silloge ma in tutto il suo percorso di scrittura poetica.
Una poesia che qui certo volge all’introspezione ma sempre partendo dallo sguardo sul mondo, dalla sua vocazione etica e civile: Far sì che agendo/ Il dire e il fare/ Guardino dalla stessa sponda/ Smetterla così di fare cose/ Con le parole agire/ In tutto quello che accada.
Chiuso nella sua stanza, il poeta è assediato da dubbi, sospetta congiure, cerca di riordinare i pensieri. In un verso ci rivela chedisteso sul letto mi tiene la mano l’assenza più attesa.
Incontriamo anche molti testi meta-poetici, apparentemente assertivi ma forse solo provocatori, vicini al realismo terminale: Le cose sono parole e gli oggetti parlano/ Senza bisogno di muoversi/ Perché adesso puoi toccare/ Ciò che dici.
L’apprendistato conosce tappe di assestamento, nelle quali si addensano insegnamenti e consigli (La luce non serve la speranza non smuove/ Alzati ascolta prova a spostarti cammina/ La luce non serve per salvarsi) e si chiude con la prima poesia intitolata (“Taranto per noi”).
Segue la sezione “Dopo la battaglia”, nella quale irrompe l’attualità: Non mi aspettavo una guerra/ Per cui non devo combattere/ Eppure sono in trincea/ Con un solo colpo in canna/ Così devo difendere la chiave/ Da passare al prigioniero.
Il libro si chiude con una bella lettera di Lino Angiuli, da poeta a poeta: “Poesia come arte dell’abbandono ed elemosina del senso, dunque; allestimento di una disposizione d’animo (e d’anima) che possa fare da apripista alla scaturigine di un quid che si intuisce esserci da qualche parte, e da cui ci si aspetta di essere visitati, senza ovviamente scansare le preziose istruzioni del buio.”
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
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Poesie di Sandro Angelucci-Poeta e Scrittore di Rieti
Poeta e critico letterario, saggista, Sandro Angelucci vive a Rieti dove è nato nel 1957. Insegnante, collabora a varie riviste culturali con recensioni, note critiche e testi poetici ed è stato premiato in concorsi a livello internazionale. Ha pubblicato le raccolte di poesia “Non siamo nati ancora”, “Il cerchio che circonda l’infinito” e, nei quaderni letterari de “Il Croco”, “Appartenenza”. È in corso di stampa, per Guido Miano Editore, un suo profilo critico nel IV° Volume della “Storia della Letteratura Italiana. Il secondo Novecento”. Del suo lavoro si sono occupati importanti critici, poeti e scrittori.
Verticalità
È come arrampicarmi sulla cima
dell’albero più alto
dove le gazze scrutano la sorte
e il vento
non fatica a ritrovarsi.
Come la luce
dell’attimo vivente
che buca la penombra
e sgretola le rocce.
È il mio bisogno di verticalità
che piange come un bimbo
che si perde
quando la morte vince sulla vita
ma subito sorride
all’apparire delle cose belle.
Sogno di cielo
che vince la gravità dei corpi
che a volte s’inabissa e poi risorge.
Fiamma che sale.
Brace che si accende.
Figlia Poesia
L’ho difesa
e so che dovrò difenderla
per la vita intera
la poesia.
Dovrò proteggerla
dagli artigli insanguinati
dell’uomo-macchina,
dagli insulti della lingua
del suo non essere,
della sua politica.
Dovrò prenderla sulle spalle
come una figlia
quando vorrà giocare
e per lei,
tutto per lei vorrà il mio tempo.
Sarò pronto ad asciugarlo
il suo pianto inconsolabile
quando nessuno
neppure io, nonostante tutto,
saprà capire
che quello è il pianto della Terra.
E quando vagamente
– se accadrà –
la mia somiglierà
alla sua innocenza
potrà dirsi compiuto il mio cammino,
forse a ritroso, forse mai concluso
dalla morte alla nascita
dalla nascita alla morte.
Dove la neve copre le distese
Io non sono qui.
Sono lassù,
dove la neve copre le distese
nell’abbraccio
che avrei desiderato,
dove il silenzio trova le parole
che avrei voluto udire.
C’è troppo chiasso qui
e poca neve:
ogni sguardo contiene mille sguardi
in ogni uomo c’è spesso un altro uomo
e sono stanco
tremendamente stanco di cercare.
Se mi offrirò
– e non ho certo intenzione di mollare –
sarà pensandomi lontano
dove le cose
non hanno più pretese della vita
ed un abbraccio
frantuma il mio rimpianto nelle vene.
Sarà lassù
dove la neve copre le distese.
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