poesia di Natalia Ginzburg–“Gli uomini vanno e vengono”-
Natalia Ginzburg-Era il dicembre del 1944 quando Natalia Ginzburg pubblicò questa poesia scritta in memoria di suo marito Leone Ginzburg morto nelle carceri di Roma il 5 febbraio 1944, ferocemente ucciso dalla Gestapo.
Gli uomini vanno e vengono
per le strade della città
Comprano libri e giornali,
muovono a imprese diverse.
Hanno roseo il viso,
le labbra vivide e piene.
Sollevasti il lenzuolo
per guardare il suo viso,
ti chinasti a baciarlo
con un gesto consueto.
Ma era l’ultima volta.
Era il viso consueto,
solo un poco più stanco.
E il vestito era quello di sempre.
E le scarpe erano quelle di sempre.
E le mani erano quelle che
spezzavano il pane e
versavano il vino.
Oggi ancora nel tempo
che passa sollevi il lenzuolo
a guardare il suo viso
per l’ultima volta.
Se cammini per strada
nessuno ti è accanto
Se hai paura
nessuno ti prende per mano
E non è tua la strada,
non è tua la città.
Non è tua la città
illuminata. La città
illuminata è degli altri,
degli uomini che vanno
e vengono comprando
cibi e giornali.
Puoi affacciarti un poco
alla quieta finestra
a guardare il silenzio,
il giardino nel buio.
Allora quando piangevi
c’era la sua voce serena.
Allora quando ridevi
c’era il suo riso sommesso.
Ma il cancello che a sera
s’apriva, resterà chiuso
per sempre, e deserta
è la tua giovinezza.
Spento il fuoco,
vuota la casa-
Biografia di Natalia Ginzburg
Natalia Ginzburg
Natalia Ginzburg,Scrittrice italiana (Palermo 1916 – Roma 1991); sposò in prime nozze L. Ginzburg, in seconde G. Baldini. Formatasi nell’ambiente degli intellettuali antifascisti torinesi, esordì nel 1942 con un racconto lungo, La strada che va in città, uscito, per ragioni razziali, con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte; pubblicò poi altri racconti lunghi (È stato così, 1947; Valentino, seguito da Sagittario, 1957; Le voci della sera, 1961; poi raccolti, con il precedente, in Cinque romanzi brevi, 1964; Famiglia, 1977), alcuni romanzi (Tutti i nostri ieri, 1952; Caro Michele, 1973; La città e la casa, 1984), due volumi fra il saggio e il racconto autobiografico (Le piccole virtù, 1962; Lessico famigliare, 1963) e uno che si colloca invece tra il saggio e il romanzo (La famiglia Manzoni, 1983). La sua narrativa, che per qualche aspetto risente di quella di C. Pavese, mira a rendere con distacco oggettivo una realtà quotidiana, quasi di cronaca, colta nel suo fluire; ed è venuta approfondendo in senso psicologico il proprio campo d’osservazione etico-sociale, che ha al centro una o più figure di donne “sacrificate”, ma accettanti animosamente il loro destino. La G. scrisse anche per il teatro (Ti ho sposato per allegria, L’inserzione, La segretaria, Paese di mare, ecc., riunite nei voll. Ti ho sposato per allegria e altre commedie, 1966, e Paese di mare, 1973) e pubblicò raccolte di articoli e saggi (Mai devi domandarmi, 1970; Vita immaginaria, 1974). Dopo le Opere (2 voll., 1986-87), sono apparsi la commedia L’intervista (1989) e il breve saggio Serena Cruz e la vera giustizia (1990). Dal 1983 fu deputata della Sinistra indipendente. Nel 2016, nella ricorrenza del centenario della nascita, è stata edita a cura di D. Scarpa la raccolta di testi per lo più inediti Un’assenza. Racconti, memorie, cronache 1933-1988.Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana.
Leone e Natalia Ginzburg
Natalia Levi Ginzburg-Palermo 1916 – Roma 1991Articolo di Laura Balbo
La sua vita ha attraversato eventi storici difficili, pesantissime tragedie personali. Cresce a Torino in un ambiente intellettuale e antifascista: continui controlli della polizia, la prigione che tocca diversi membri della sua famiglia, tra cui il padre e alcuni dei fratelli. Sono anni che sintetizzerà bene, in seguito, nel suo Lessico famigliare (1963). Nel 1938 si sposa con Leone Ginzburg, che nel 1940 viene mandato al confino in un piccolo paese dell’Abruzzo, e con lui vivranno Natalia e i tre figli (Carlo, Andrea, Alessandra) fino al 1943. Ricorderà quel momento in un testo delle Piccole virtù (1962), un tempo vissuto come un passaggio scomodo e che si rivelerà essere invece il più felice.
Tra il 1943 e il 1944, i Ginzburg presero parte a diverse attività di editoria clandestina. Al loro ritorno a Roma, Leone fu arrestato e condotto in prigione, dove morì per tortura, senza poter rivedere la moglie ed i tre figli.
La scrittrice torna a Torino e, al termine della guerra, inizia a collaborare alla casa editrice Einaudi. Traduzioni, romanzi, saggi, opere di teatro: la sua attività di scrittrice riempie i decenni successivi. Si sposerà di nuovo, nel 1950, con Gabriele Baldini, che morirà nel 1969. E sarà anche parlamentare (1983 e 1987), eletta nella Sinistra Indipendente, attiva in iniziative per la difesa dei diritti e contro il razzismo.
È lì che io l’ho conosciuta.
Scrivere queste righe ha significato per me rendermi conto di qualcosa di inaspettato: come una persona che da tanti anni non è più con noi possa, a un tratto, essermi di nuovo vicina. Un’emozione profonda, che non conoscevo.
Natalia, nel ricordo, è proprio lei: affettuosa con le persone che le sono attorno, molto consapevole dei problemi umani e politici del mondo di cui siamo parte. Schiva e discreta. Silenziosa, in molte occasioni. Sempre attenta. La sua presenza non si deforma, non si appanna.
È la persona grazie alla quale ho capito come incontrare generazioni, esperienze, e pezzi di storia differenti da quelli che viviamo, possa costituire un “ponte” molto importante – se lo sappiamo utilizzare – per imparare, in qualche modo, a vivere: consapevoli, anche fiduciosi. Ci sono momenti e aspetti difficili, della vita e della storia; ma magari, andando avanti, di tutto questo capiremo il senso. Quel che succede attorno a noi, cercare di capirlo; e riuscire a fare la nostra parte. Non starne fuori, o ai margini. Un disorientamento estremamente attento, che sta tutto nella misura dell’umano. Questo c’è nei suoi scritti.
Il suo linguaggio è “umile”; lo sono i titoli dei romanzi, Le voci della sera (1961); Lessico famigliare (1963), Ti ho sposato per allegria (1966); La città e la casa (1984). Ci sono le “piccole cose”, la “vita quotidiana” (termini usati in alcuni filoni della sociologia: dunque, anche in questo c’è tra noi un legame).
I personaggi che nella sua scrittura arriviamo a conoscere come se davvero li avessimo incontrati, per quanto ci sono messi vicino, nei gesti semplici, nelle parole e anche in quello che non dicono, vivono negli anni del fascismo, delle leggi contro gli ebrei, di Mussolini e dell’Asse Roma-Berlino, della guerra. Ho chiara in mente (Tutti i nostri ieri, 1952) la descrizione del momento in cui si sparge la notizia della caduta del fascismo, e si parla dell’armistizio, e si spera che sia tutto finito. Ma poi arrivano i tedeschi, e invece «gli inglesi non arrivano mai».
Molti dei suoi libri sono costruiti attraverso lo sguardo di donne. C’è la vita di bambine (Natalia, in Lessico Famigliare), di giovani ragazze incinte, di vecchie (la «signora Maria»), di donne adulte con i loro figli (Lucrezia, La città e la casa) le contadine, le borghesi.
E gli uomini: quelli in guerra, lontani per mesi e per anni; quelli di cui si sapeva solo che erano “in Russia”. Cenzo Rena e Franz che si consegnano ai tedeschi per salvare la vita di dieci ostaggi innocenti, e vengono fucilati: sono le ultime pagine dei “nostri ieri”.
Ho amato moltissimo l’invenzione (appunto nell’ultimo testo che ho citato) di mettere insieme le lettere di persone, familiari, amici, che si tengono in contatto o si ritrovano (e cambiamenti, sofferenze, il passare del tempo). Il tono, le parole sono quelle della vita di ogni giorno e delle “piccole cose”, che però sono parte di vicende storiche complesse, pesanti. Complesse e pesanti anche le sue esperienze, a partire dalla morte terribile di Leone Ginzburg, il marito torturato e ucciso in carcere nel ‘44. Di questo lei non parlava mai.
Ci siamo “viste” per la prima volta (entrambe come neodeputate elette nella Sinistra Indipendente, ed entrambe “nuove” dell’ambiente) nel corso di una affollata riunione, in una stanza di Montecitorio. Mi ero seduta vicino ad alcune altre persone del nostro “gruppo” quando è entrata, un po’ incerta tra tanta gente in quel contesto inconsueto. Sono andata verso di lei e le ho suggerito di venire dove già alcuni di noi erano seduti. Da allora, mi ha definito il suo “angelo custode” nelle prime esperienze parlamentari, quelle burocratiche in particolare: fare il tesserino di deputato, identificare la propria cassetta postale tra le molte centinaia disponibili, trovare l’ascensore giusto per salire ai piani superiori. Allora c’erano queste cose, poi certo molto sarà cambiato nel palazzo.
Abbiamo passato insieme molto tempo: le sedute durante i lunghi dibattiti parlamentari, riunioni di ogni tipo, convegni. Nel 1989 abbiamo costituito, insieme ad altri, l’associazione Italia/Razzismo. E momenti liberi: a casa sua a Roma; una volta a Sperlonga durante le vacanze e anche un’estate, chissà come, in Val d’Aosta, con Vittorio Foa. Voglio ricordare anche lui, che mi è altrettanto caro.
I figli, i nipoti. In un paio di occasioni anche Giulio Einaudi: lui mi sembrava poco contento che io fossi tra i piedi, proprio non c’entravo con il loro mondo. In effetti non ricordo che si sia mai parlato dei suoi romanzi o di letteratura in generale: forse avrei dovuto farlo.
Certe sue brevi frasi comunque mi sono rimaste in mente. Alcune dei suoi libri; altre, di momenti vissuti insieme: quelle dell’ultima volta che ci siamo viste. Abbiamo parlato di cose quotidiane, come sempre. Il giorno dopo mi hanno chiamato, e ho saputo che non c’era più.
Le tengo dentro di me: con gratitudine e un senso di profonda tenerezza.
Natalia Ginzburg
Fonti, risorse bibliografiche, siti su Natalia Levi Ginzburg
(Per la bibliografia si rimanda alla voce, riportiamo qui alcuni testi non citati)
Natalia Ginzburg, La strada che va in città, Einaudi, 1942
Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970
Natalia Ginzburg, Caro Michele, Mondadori 19723
Natalia Ginzburg, La famiglia Manzoni, Einaudi 1983
Referenze iconografiche: Leone and Natalia Ginzburg. Fonte: Biography of Natalia Ginzburg. Immagine in pubblico dominio.
Voce pubblicata nel: 2012-Fonte- Enciclopedia delle donne-
-Poesie di Vladimir Nabokov da “Poems” (Doubleday & Co., 1959)
Traduzione a cura di Sarah Talita Silvestri per la Rivista Atelier
Brevissimi cenni biografici di Vladimir Nabokov (San Pietroburgo, 22 aprile 1899 – Montreux, 2 luglio 1977) è stato un romanziere e poeta russo. Nato in Russia, scrisse i suoi primi nove romanzi in russo mentre viveva a Berlino. Raggiunse fama internazionale dopo essersi trasferito negli Stati Uniti e aver iniziato a scrivere in inglese. Nabokov è diventato cittadino americano nel 1945, ma tornò in Europa nel 1961 per stabilirsi a Montreux, in Svizzera. Il romanzo Lolita (1955) è probabilmente la sua opera più nota. È stato sette volte finalista per il National Book Award.
THE POEM
Not the sunset poem you make when you think aloud,
with its linden tree in India ink
and the telegraph wires across its pink cloud;
not the mirror in you and her delicate bare
shoulder still glimmering there;
not the lyrical click of a pocket rhyme –
the tiny music that tells the time;
and not the pennies and weights on those
evening papers piled up in the rain;
not the cacodemons of carnal pain;
not the things you can say so much better in plain prose –
but the poem that hurtles from heights unknown
– when you wait for the splash of the stone
deep below, and grope for your pen,
and then comes the shiver, and then –
in the tangle of sounds, the leopards of words,
the leaf-like insects, the eye-spotted birds
fuse and form a silent, intense,
mimetic pattern of perfect sense.
La Poesia
Se troppo ragioni non arriverai alla poesia del crepuscolo,
col suo tiglio d’indaco, e i cavi
del telegrafo dentro al suo roseo nembo;
non il riflesso in te e la sua fragile spalla
svelata che ancora qui scintilla;
non il lirico guizzo di una rima banale…
l’inutile ritmo che annuncia il tempo;
né le monete e i tesori ammassati su quei
giornali della sera sotto il diluvio;
né i dolorosi demoni di strazi carnali
e tutto ciò che può esser detto meglio in prosa…
ma la poesia che si precipita da vette ignote
… quando attendi dall’abisso lo zampillo
lapideo, che cieco si muove verso la tua mina,
finché giunge il fremito, e infine…
dentro al groviglio di suoni, i leopardi di parole,
i fillidi, i pennuti dalle iridi chiazzate
confluiscono e creano una tacita, abbacinante
mimetica rete di autentico senso.
*
LINES WRITTEN IN OREGON
Esmeralda! Now we rest
Here, in the bewitched and blest,
Mountain forests of the West.
Here the very air is stranger.
Damzel, anchoret, and ranger
Share the woodland’s dream and danger.
And to think I deemed you dead!
(In a dungeon, it was said;
Tortured, strangled); but instead –
Blue birds from the bluest fable,
Bear and hare in coats of sable,
Peacock moth on picnic table.
Huddled roadsigns softly speak
Of Lake Merlin, Castle Creek,
And (obliterated) Peak.
Do you recognize that clover?
Dandelions, l’or du pauvre?
(Europe, nonetheless, is over).
Up the turf, along the burn,
Latin lilies climb and turn
Into Gothic fir and fern.
Cornfields have befouled the prairies
But these canyons laugh! And there is
Still the forest with its fairies.
And I rest where I awoke
In the sea shade – l’ombre glauque –
Of a legendary oak;
Where the woods get ever dimmer,
Where the Phantom Orchids glimmer –
Esmeralda, immer, immer.
*
Versi scritti nell’Oregon
Esmeralda, adesso sostiamo
qui, nei fatati e benedetti
alpestri boschi dell’Ovest.
Qui persino l’aria è inesplorata.
Fanciulla, anacoreta e sentinella
narrano il sogno e le insidie della foresta.
Pensavo che fossi morta!
(Dicevano in un loculo;
torturata, strangolata), e invece…
dalla favola cobalto pennuti pervinca,
orso e lepre di nero ammantati,
sulla tavola del picnic la Saturnia.
Assiepati segnali stradali sussurrano
del Lago Merlin, di Castle Creek,
e del Picco soppresso.
Riconosci quel trifoglio?
Tarassaco, l’or du pauvre?
(Ciononostante l’Europa è in rovina)
Sulle distese erbose, lungo ciò che è arso
ascendono roteando gigli latini
su gotiche conifere e felci.
Campi di grano hanno corrotto le praterie,
ma queste voragini arridono! E ancora
le fate popolano il bosco.
E resto immobile, lì dove presi coscienza,
dentro l’ombra della marea – l’ombre glauque –
di una quercia memorabile;
dove le foreste svaniscono,
dove baluginano orchidee innevate…
O Esmeralda, sempre, per sempre.
Citazione dal Romanzo Lolita
“Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta”.
Vladimir Nabokov
Sarah Talita Silvestri (Palermo 1982) vive a Bra, in provincia di Cuneo.È laureata in Archeologia e Storia antica presso l’Università degli Studi di Torino, si occupa di numismatica antica e collabora con associazioni culturali e musei; è docente presso la Scuola Secondaria.
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
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Roma-La persistenza del sacro nell’arte contemporanea: la mostra al Museo Carlo Bilotti-
Roma- Al Museo Carlo Bilotti-La persistenza della dimensione del sacro nel nostro presente visivo e simbolico, tra mito, rito e trascendenza. Lungo questo filo si svolge Tra mito e sacro. Opere dalle collezioni capitoline di arte contemporanea, mostra visitabile dal 17 aprile al 14 settembre 2025 al Museo Carlo Bilotti all’Aranciera di Villa Borghese, a Roma, in occasione dell’Anno giubilare. In esposizione, circa 30 opere provenienti dalle raccolte pubbliche romane — Galleria d’Arte Moderna, Museo di Roma a Palazzo Braschi, Museo Bilotti e la Collezione d’arte contemporanea della Sovrintendenza — che, tra medium e poetiche differenti, tracciano un itinerario polifonico in cui il concetto di sacralità si moltiplica, declinandosi tra spiritualità, iconografia, devozione privata, simbolismi laici e inquietudini postmoderne.
Museo Carlo Bilotti_
È un altare laico e plurale quello che si costruisce nelle sale dell’Aranciera: si va dalla videoinstallazione Cattedrale di Alessandra Tesi, vera e propria architettura immersiva che trasforma lo spazio museale in un’esperienza di raccoglimento, al trittico Universal Keyboard di Alessandro Valeri, dove il latte, simbolo ancestrale di nutrimento e spiritualità, viene interrogato come matrice universale di corpi e culture. Ancora il corpo, quello sacro femminile, rivive nella Venere iconica ma anche seriale di Mario Ceroli, raddoppiata e moltiplicata nei tasselli dorati di Goldfinger Miss, mentre la cera delle candele votive sciolte nelle chiese di Roma diventa materia viva nell’opera La cera di Roma di Alessandro Piangiamore, condensando un’intera topografia del gesto devozionale.
Non mancano incursioni nel simbolico più archetipico e doloroso, come nelle sculture di Leoncillo, San Sebastiano e Taglio rosso, che sublimano la sofferenza attraverso l’astrazione materica, o nel Trascendente di Carlo Maria Mariani, un volto angelicato incorniciato da fiamme ardenti che irradia ambiguità tra estetica neoclassica e pathos contemporaneo. A chiudere idealmente il corteo iconografico, lo scheletro orante a grandezza naturale di Marc Quinn: ironico memento mori, statua votiva post-umana, simulacro della fragilità irriducibile della nostra condizione.
Accanto al nucleo delle collezioni pubbliche, un focus speciale è riservato a Sidival Fila, artista e frate minore francescano, la cui opera si articola su un piano al tempo stesso mistico e materico. Fila lavora con materiali di scarto e tessuti dismessi, oggetti che nel loro disuso trovano, nell’opera d’arte, una possibilità di resurrezione: un’estetica della ferita e della ricucitura, che risuona con l’idea cristiana di redenzione ma che può essere letta anche come pratica ecologica e filosofica del ripensare.
La mostra si offre così come un atlante visivo e intellettuale sulla permanenza del sacro nell’arte contemporanea, al di là dei vincoli del sistema iconografico, per una continua riformulazione nei segni, nei materiali, nelle domande che gli artisti pongono a un presente disincantato.
INFORMAZIONI
Il Museo Carlo Bilotti , inaugurato nel 2006, accoglie un prezioso gruppo di opere d’arte donate da Carlo, Edvige e Roberto Bilotti e da Cora Hahn alla città di Roma. La collezione, conservata al primo piano dell’edificio, è composta da un consistente nucleo di dipinti e sculture di Giorgio de Chirico e dai lavori di altri importanti artisti come Gino Severini, Andy Warhol, Larry Rivers, Giacomo Manzù, Mimmo Rotella, Nicola Pucci, Pietro Consagra e Marion Greenstone. La spettacolare Sala del Ninfeo al pianterreno ospita ogni anno una accurata selezione di progetti di arte contemporanea.
The Carlo Bilotti Museum is located in the old Orangery at Villa Borghese, which during the eighteenth century was referred to as the “Casino dei Giuochi d’Acqua” due to the many fountains and nymphs it contained.
The Orangery at Villa Borghese underwent several renovations over time, substantially altering both its structure and function.
After decades of falling into disrepair and improper use, the Orangery was renovated into a Museum to once again become a place for recreation and culture. The Museum currently houses paintings, sculptures and drawing donated to the Municipality of Rome by Carlo Bilotti, an Italian-American businessmen and internationally renowned collector The donation of twenty three artworks, includes a significant component of paintings and sculptures by Giorgio de Chirico, representing some of the more famous themes produced by this artist between the end of the twenties and the seventies. The donation also includes three portraits: one of Carlo Bilotti by the American Larry Rivers, one of Tina and Lisa Bilotti, produced in 1981 by the maestro of Pop Art, Andy Warhol, and one of Tina and Carlo Bilotti by Mimmo Rotella. The collection also showcases the great Cardinal in bronze by Giacomo Manzù. Subsequent to its opening, the Museum has added works by Consagra, Dynys, Greenfield-Sanders and Pucci.
To ensure the Museum remains open to new approaches in the field of contemporary art, there is space available alongside the permanent donation exhibition for temporary events to be staged.
Address
Viale dell’Aranciera , 4
Viale Fiorello La Guardia , 6
Timetables
Tuesday to Friday 10.00 – 16.00Saturday and Sunday 10.00 – 19.0024 and 31 December 10.00 – 14.00Last admission half an hour before closingFor updates and guidelines please check the > official websiteBefore planning the visit, CONSULT THE NOTICES.
Renato Caputo- Antonio Gramsci, il pacifismo e la non violenza
Fonte-Ass. La Città Futura
Fonte-Ass. La Città Futura -Il lemma pacifismo ricorre quattro volte nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, mentre tre volte s’incontra il termine “pacifista”. Solo cinque di questi testi sono degni d’interesse, dal momento che due ricorrenze sono presenti in dei testi A ripresi integralmente nei corrispondenti testi C, cioè nei quaderni tematici. Nel primo testo significativo, Gramsci critica il particolarismo nazionalista che pretende di incarnare “il vero universalista, il vero pacifista”, sulla base di una fraintesa considerazione di André Gide secondo la quale si servirebbe “meglio l’interesse generale quanto più si è particolari” [1]. A parere di Gramsci il fraintendimento è causato dal fatto che si finisce con il confondere l’“essere particolari”, con il “predicare il particolarismo. Qui – aggiunge acutamente Gramsci – è l’equivoco del nazionalismo, che in base a questo equivoco pretende spesso di essere il vero universalista, il vero pacifista” (3, 2: 284). Allo stesso modo, si finisce con il fraintendere il concetto universale di nazionale confondendolo con il particolarismo nazionalista. A tal proposito Gramsci presenta un esempio illuminante: “Goethe era «nazionale» tedesco, Stendhal «nazionale» francese, ma né l’uno né l’altro nazionalista” (ibidem).
Allo stesso modo Gramsci, nel secondo testo in cui ricorre il lemma, critica Curzio Malaparte che sosteneva essere vero pacifista il patriota “rivoluzionario”, cioè il fascista (cfr. 23, 22: 2210). In quest’ultimo caso si confonde o, anche in tal caso, si finge di confondere il rivoluzionario, con il suo esatto contrario, il controrivoluzionario e/o il reazionario, secondo un collaudato schema propagandistico fascista che, con una concezione come di consueto autocontraddittoria amava dipingersi come una rivoluzione conservatrice. D’altro canto questi aspetti contraddittori del fascismo da un lato sono tenuti insieme dal primato assolutistico di una prassi volutamente irrazionalista, sulla base della quale, a seconda del contesto storico si sarebbe stati favorevoli al progresso e addirittura alla rivoluzione o, piuttosto, alla conservazione e finanche alla reazione, in nome del più spudorato opportunismo trasformista. D’altro lato, questo apparentemente assurdo voler tenere insieme due termini palesemente in contraddizione l’uno con l’altro, per cui il primo necessariamente esclude il secondo e viceversa, corrisponde in pieno alla natura di classe del ceto sociale di riferimento del fascismo, cioè alla piccola borghesia in quanto tale socialconfusa in quanto in essa convivono e necessariamente si scontrano, al proprio interno, lo sfruttatore e lo sfruttato. Allo stesso modo nel rappresentante del ceto medio convive il lavoratore subordinato e sfruttato da quello stesso Stato di cui è esponente per antonomasia in quanto non solo cittadino, ma al contempo funzionario, quando non pubblico ufficiale.
Vi è poi un breve accenno, contenuto in un testo A e C, a una “mediocre” letteratura di guerra che si è affermata in Europa “col proposito prevalente di arginare la mentalità pacifista alla Remarque” (23, 25: 2213), prodottasi dopo il successo internazionale di Niente di nuovo sul fronte occidentale. Da ciò si comprende bene il ruolo guerrafondaio dell’industria culturale, anche perché in paesi a capitalismo avanzato la guerra resta uno dei modi più efficaci per aggirare e rinviare la crisi di sovrapproduzione. Come osserva a ragione Gramsci: “questa letteratura è generalmente mediocre, sia come arte, sia come livello culturale, cioè come creazione pratica di «masse di sentimenti e di emozioni» da imporre al popolo. Molta di questa letteratura rientra perfettamente nel tipo «brescianesco»” (ibidem). Dunque, dinanzi agli attacchi guerrafondai di conservatori e reazionari occorre difendere il pacifismo democratico.
Infine vi sono da ricordare due testi nei quali Gramsci prende posizione contro due specifiche concezioni, determinazioni o accezioni del concetto di pacifismo. La prima è sorta con il cristianesimo primitivo, si è sviluppata nel Medio Evo con il francescanesimo e ha conosciuto una significativa ripresa nel mondo moderno da parte di Gandhi, sino a divenire in India una “credenza popolare”. Tale concezione raggiunge la sua massima espressione con la “non resistenza e non cooperazione” di Gandhi. A tale proposito Gramsci osserva acutamente che “il rapporto tra Gandhismo e Impero Inglese è simile a quello tra cristianesimo-ellenismo e impero romano. Paesi di antica civiltà, disarmati e tecnicamente (militarmente) inferiori, dominati da paesi tecnicamente sviluppati (i Romani avevano sviluppato la tecnica governativa e militare) sebbene come numero di abitanti trascurabili. Che molti uomini che si credono civili siano dominati da pochi uomini ritenuti meno civili ma materialmente invincibili, determina il rapporto cristianesimo primitivo – gandhismo” (6, 78: 748). La non violenza di una massa portatrice d’un principio spirituale superiore di fronte a una minoranza che la opprime “porta all’esaltazione dei valori puramente spirituali ecc., alla passività, alla non resistenza, (…) che però di fatto è una resistenza diluita e penosa, il materasso contro la pallottola” (ibidem). Analogo alle moderne lotte non-violente di ispirazione gandhiana era l’atteggiamento dei “movimenti religiosi popolari del Medio Evo, francescanesimo”. In effetti anch’essi, come la resistenza passiva degli indiani di contro al colonialismo imperialista inglese, “rientrano in uno stesso rapporto di impotenza politica delle grandi masse di fronte a oppressori poco numerosi ma agguerriti e centralizzati: gli «umiliati e offesi» si trincerano nel pacifismo evangelico primitivo, nella nuda «esposizione» della loro «natura umana» misconosciuta e calpestata nonostante le affermazioni di fraternità in dio padre e di uguaglianza ecc.” (6, 78: 748-49).
Nel secondo caso il lemma pacifismo ricorre in una nota in cui Gramsci contesta le interpretazioni conservatrici di Georges Sorel. Sebbene Sorel, per l’“incoerenza dei suoi punti di vista”, possa “essere impiegato a giustificare i più disparati atteggiamenti pratici” – dall’estrema destra all’estrema sinistra – “tuttavia è innegabile nel Sorel un punto fondamentale e costante, il suo radicale «liberalismo» (o teoria della spontaneità) che impedisce ogni conseguenza conservatrice delle sue opinioni”. In altri termini, sebbene “bizzarrie, incongruenze, contraddizioni si trovano nel Sorel sempre e ovunque”, “egli non può essere distaccato da una tendenza costante di radicalismo popolare”. Tanto più che il sindacalismo rivoluzionario di Sorel, per Gramsci, non può esser considerato “un indistinto «associazionismo» di «tutti» gli elementi sociali” (17, 20: 1923), avendo un chiarofondamento di classe. Egualmente “la sua «violenza» non è la violenza di «chiunque» ma di un [solo] «elemento» che il pacifismo democratico tendeva a corrompere” (ibidem), cioè il proletario moderno e, in primis, la classe operaia [2].
Note:
[1] Gramsci, Antonio, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Gerratana, Valentino, Einaudi, Torino 1977, volume I, p. 284. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e – dopo i due punti – il numero di pagina di questa edizione.
[2] Gramsci conduce a termine la sua disamina critica della stumentalizzazione da parte degli oppressori, a partire dai fascisti, del pensiero di Sorel, evidenziando il “punto oscuro” di questo pensatore e uomo politico consistente nel suo “antigiacobinismo” e nel “suo economismo puro; e questo, che è, nel terreno [storico] francese, da connettersi col ricordo del Terrore e poi della repressione di Galliffet, oltre che con l’avversione ai Bonaparte, è il solo elemento della sua dottrina che può essere distorto e dar luogo a interpretazioni conservatrici” (17, 20: 1923-924).
Fonte-Ass. La Città Futura | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Resp. Adriana Bernardeschi
Vangelo nei Lager-un prete nella Resistenza- di Roberto Angeli- a cura di Riccardo Bigi e Enrica Talà-
Vangelo nei Lager-un prete nella Resistenza- di Roberto Angeli
Don Roberto Angeli: il Vangelo nell’assurdità del lager
Vangelo nei Lager-un prete nella Resistenza- di Roberto Angeli
A ottant’anni dall’arresto di don Roberto Angeli, avvenuto per mano della Gestapo il 17 maggio 1944, e dal suo ritorno a casa, nel maggio del 1945, dopo aver conosciuto i campi di concentramento di Gusen, Mauthausen, Dachau, Vangelo nei Lager viene riproposto adesso in una veste semplice: non solo come documento storico ma come racconto vivo, vibrante, ancora capace di toccare le corde del cuore a chi ci si avvicina per la prima volta, anche senza conoscere la figura di questo sacerdote livornese o senza sapere niente della realtà del Movimento Cristiano Sociale a cui la sua vicenda si lega. Una storia senza tempo che ci dice come l’umanità abbia trovato in se stessa, e quindi possa sempre trovare, l’antidoto a quel veleno che provoca odio, sopraffazioni, razzismo. Un racconto di come, nei campi di concentramento nazisti, sia nato – in mezzo alle torture e alle uccisioni di massa – il sogno di un’Europa, e di un mondo, senza più guerre né divisioni.
Don Roberto Angeli: il Vangelo nell’assurdità del lager
Roberto Angeli –(Schio 1913 – Livorno 1978), sacerdote cattolico, fu attivo nella Resistenza livornese. Arrestato dalla Gestapo il 17 maggio 1944 fu trasferito nella famigerata Villa Triste di Firenze, poi nel campo di smistamento di Fossoli e infine nei Lager di Gusen, Mauthausen e di Dachau, dove venne liberato dalle truppe americane il 29 aprile 1945. Rappresentò i Cristiano Sociali nel Comitato di Liberazione Nazionale di Livorno e nel dopoguerra si occupò di una vasta opera di assistenza in tutta la Toscana, alternando l’attività pastorale con quella di giornalista e scrittore.
Riccardo Bigi Riccardo Bigi giornalista del settimanale Toscana Oggi, collabora con il quotidiano Avvenire. Ha pubblicato la biografia di Giorgio La Pira Il sindaco santo e i romanzi L’altra metà della medaglia e La ragazza della cupola. È autore di testi per il teatro tra cui Pietà. La notte di Michelangelo letto da Sergio Rubini nella cattedrale di Firenze.
Enrica Talà direttrice del Centro studi don Roberto Angeli di Livorno, consigliere nazionale dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici e formatrice.
Edizioni di Storia e Letteratura
Le Edizioni di Storia e Letteratura, dopo oltre ottant’anni di attività, continuano a rappresentare un marchio di riferimento nell’editoria di cultura italiana e internazionale. Il catalogo si impernia sulle scienze umanistiche, spaziando dalla filologia, classica e umanistica, alla storia medievale, moderna e contemporanea; dalle scienze documentarie alla filosofia; dalla storia religiosa alle letterature europee.
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Vangelo nei Lager-un prete nella Resistenza- di Roberto Angeli
Giorno della Memoria. Don Roberto Angeli: il Vangelo nell’assurdità del lager
Articolo di Alessandro Zaccuri venerdì 24 gennaio 2025 –Fonte-Avvenire giornale della CEI
Una volta gli occhiali scivolano nel fango, un’altra volano via per lo schiaffo di un ufficiale delle SS, sigla che nel peculiare gergo dei prigionieri non sta per Schutzstaffel, maper Societas Satanae. Il proprietario degli occhiali – rimasti abbastanza intatti, a dispetto delle ripetute peripezie – conosce bene il latino, essendo uno dei numerosi sacerdoti cattolici deportati dal regime nazista. Un «reduce», come lo stesso don Roberto Angeli si qualifica nel capitolo conclusivo di Vangelo nei Lager, ora ripubblicato da Storia e Letteratura (pagine 224, euro 16,00) con il sottotitolo Un prete nella Resistenza e per la curatela congiunta di Riccardo Bigi ed Enrica Talà, che del Centro studi intitolato al presbitero livornese è la direttrice. Già molto conosciuto in ambito locale, il libro di don Angeli ha tutte le caratteristiche per essere annoverato tra i classici della letteratura concentrazionaria. Uscì per la prima volta nel 1953 e da allora è stato più volte ristampato, anche per essere diffuso nelle scuole. Nella sua immediatezza, è un racconto che può essere veramente apprezzato da qualsiasi lettore, senza che questo vada a discapito di una testimonianza esemplare e profonda.
Scheda di registrazione di Roberto Angeli come prigioniero nel campo di concentramento nazista di Dachau
A fianco del più evidente elemento di interesse, costituito appunto dal resoconto dell’internamento in diversi campi, da Fossoli a Dachau passando per Mauthausen, ce n’è infatti un altro, che corrisponde alla pluralità di soluzioni politiche vagliate dal cattolicesimo democratico negli anni della guerra. Nato nel 1913 a Schio, in provincia di Vicenza, ma cresciuto a Livorno, dove viene ordinato sacerdote nel 1936, don Angeli focalizza la sua attività sulla formazione dei giovani, organizzando una serie di iniziative che, dottrina della Chiesa alla mano, mettono radicalmente in discussione i princìpi del regime fascista, peraltro sempre più compromesso con il paganesimo anticristiano del Terzo Reich. Matura in questo clima l’adesione del sacerdote al Movimento Cristiano Sociale, che nel pieno del conflitto si propone come alternativa alla nascente Democrazia Cristiana. I primi capitoli di Vangelo nei Lager lasciano intuire la complessità di un dibattito che, pur avviandosi alla convergenza tra i due diversi gruppi, è comunque destinato a lasciare una traccia negli assetti politici e civili del dopoguerra.
Non è l’argomento primario del libro, d’accordo, ma ne rappresenta ugualmente la premessa indispensabile. Come molti altri “ribelli per amore” (è la definizione dei partigiani cattolici), don Angeli si schiera contro la dittatura non per considerazioni ideologiche, ma per istintiva fedeltà al messaggio di Cristo. Il resto viene di conseguenza, ed è una conseguenza che porta a mettere in gioco la propria vita. Da questo punto di vista, è bene non lasciarsi distrarre dal tono scanzonato che la prosa di don Angeli conserva anche nelle situazioni più drammatiche. Escogitare trucchi sempre nuovi per nascondere gli ebrei perseguitati o per racimolare un po’ di provviste da distribuire ai fuggiaschi è una «operazione», come la chiama l’autore, che sembra sconfinare nella zingarata, ma resta sorretta dall’implacabile consapevolezza di chi ha scelto di non arrendersi davanti al male. In questa battaglia silenziosa, don Angeli può vantare su un alleato d’eccezione, conosciuto con il soprannome di «nonnino»: un uomo di una certa età, che fa la spola tra la Toscana e Roma per consegnare messaggi clandestini. Si tratta di suo padre, catturato poco prima che anche il sacerdote venga raggiunto dalla Gestapo nella villa di campagna in cui ha trovato rifugio.
Dal 17 maggio 1944, giorno dell’arresto, inizia la discesa di don Angeli nell’inferno dei Lager. Una discesa che, con la solita ironia, il diretto interessato descrive sotto forma di un paradossale avanzamento di carriera, dato che nel trasferimento da un campo all’altro l’internato si trova a portare un numero di matricola sempre più alto. La prima tappa è a Fossoli, che rispetto alle destinazioni successive appare come una specie di «villeggiatura». Per don Angeli, almeno, non per i tanti compagni di prigionia che transitano dal centro del Modenese per essere avviati alla morte. Tra di loro c’è anche Teresio Olivelli, il giovane alpino al quale si deve la formidabile preghiera («Nella tortura serra le nostre labbra. Spezzaci, non lasciarci piegare. Se cadremo fa’ che il nostro sangue si unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti a crescere al mondo giustizia e carità») che don Angeli trascrive per intero.
La spiritualità ha un peso decisivo in questo resoconto. Se a Mauthausen non sopravvive che un unico sacramento – «l’unico ed il più necessario», annota il sacerdote –, e cioè la Confessione, la ripresa della pratica eucaristica coincide con l’approdo a Dachau, il Lager bavarese nel quale sono stati radunati i ministri del culto appartenenti alle varie confessioni cristiane. In maggioranza cattolici, sottolinea don Angeli, che non trattiene la commozione nel rievocare il momento in cui può finalmente tornare a ricevere la Comunione. È questione di umanità, non di devozione. «Negato un principio spirituale sussistente – argomenta l’autore, ricorrendo a un lessico teologico tanto tradizionale quanto efficace –, negata l’anima, l’uomo cessa di essere una persona con i suoi diritti ed i suoi doveri, per venire declassato al ruolo di semplice individuo, il cui valore si esaurisce in una funzione biologica, come tutti gli altri animali». Non per niente, nel libro è riservata una particolare compassione agli aguzzini, spesso giovanissimi, la cui umanità è stata compromessa dai dettami feroci del totalitarismo.
Il «reduce», alla fine, torna a casa, torna alla sua missione di sacerdote e di educatore. Don Angeli muore nel 1978. Sei anni prima, nel 1972, Paolo VI lo ha ricevuto in udienza privata insieme con altri dodici preti sopravvissuti a Dachau. Avranno parlato di Lager, senz’altro. Più ancora, avranno parlato di Vangelo.
Don Roberto Angeli: il Vangelo nell’assurdità del lager
Nato a Schio da Maria Duranti ed Emilio Angeli, la madre morirà un anno dopo la sua nascita. Nel 1926 entra in seminario livornese. Nel 1936 è ordinato sacerdote, inviato nella parrocchia di Santa Giulia. Insegna in seminario. Nel 1942 è parroco a San Jacopo assistente assieme a don Tintori della FUCI, e fonda il Movimento cristiano sociale livornese.
Il periodo bellico e la deportazione
In seguito allo scoppio della Seconda guerra mondiale e al successivo armistizio si rese attivo nella Resistenzalivornese: negli ultimi anni del Fascismo organizzò pubbliche lezioni (“Lezioni di Santa Giulia”) in cui si oppose apertamente le teorie totalitarie. Rappresentò i “cristiano sociali” all’interno del CLN livornese, si impegno soprattutto nell’attività di assistenza dei partigiani trovando loro rifugi quando si rendeva necessario.
Spinse nel Movimento cristiano sociale e da lì nella Resistenza attiva molti giovani cattolici livornesi e salvò molti ebrei e prigionieri politici, appoggiando le azioni dei partigiani livornesi. Con il padre tenne i contatti con il CLN fiorentino e con il Fronte Militare Clandestino di Roma.
Scheda di registrazione di Roberto Angeli come prigioniero nel campo di concentramento nazista di Dachau
Arrestato il 17 maggio 1944, dalla Gestapo, fu trasferito a Firenze, nella famigerata Villa Triste, dove fu duramente interrogato, senza risultato. Trasferito nel Campo di Fossoli successivamente Bolzano e infine nel lager di Mauthausen. Nel novembre assieme ad altri sacerdoti (tra cui Josef Beran[1]) viene trasferito a Dachau. Viene liberato con l’arrivo delle truppe americane il 29 aprile 1945.
Dopoguerra
Nel dopoguerra si occupò di una vasta opera assistenziale in tutta la provincia, diresse e scrisse articoli per il Fides, il settimanale diocesano.
Scrisse inoltre il libro Vangelo nei Lager che racconta la sua esperienza nella Resistenza e nei lagernazisti.[2]
^ Così scrisse ai giovani: “Vi offro in lettura queste pagine fiduciosi che non le accoglierete come un testo da studiare per gli esami, ma come una esperienza vitale cui partecipare; non cose passate da mandare a memoria, ma stimolo a ripensare il presente e a prepararsi per l’avvenire; contributo alla vostra maturazione“.
Audre Lorde -D’amore e di lotta- Poesie scelte- Testo inglese a fronte
Audre Lorde
Audre Lorde è nata a nord della metropoli come terza e ultima figlia di una famiglia di immigrati da Grenada (Caraibi). È stata una poeta militante che ha riempito i suoi versi della forza libera e denotatrice di Harlem e ha usato la sua poesia come uno stagno in cui far confluire e risuonare la sua lotta verso la piena aderenza di sé stessa in nome dell’uguaglianza.
Nata il 18 febbraio del 1938 nel periodo in cui la povertà per la Grande Depressione agitava le strade di Harlem, cresce in una casa sulla 155ma Strada davanti al fiume Hudson. La famiglia con grandi sacrifici la iscrive in una scuola per studentesse dotate di cui è l’unica ragazza nera. Agli occhi di mamma Linda e papà Frederich, Audre mostra precocemente la sua indole forte e indipendente: decide di troncare una parte del suo nome originale Audrey e recidere la lettera Y e lasciare il nome che le rimarrà appiccicato come segno di distinzione e autoaffermazione. Tra gli scorci di tutto quello che le succede, racconta anche episodi di odio metropolitano: come quando non la fanno sedere sul bus oppure come la osservano mentre attraversa l’incrocio per andare a scuola. Harlem rappresenta in quegli anni il teatro della lotta e protesta degli afroamericani: Malcom X con i suoi comizi riempie l’Apollo Theatre e le vie del quartiere. Lorde per continuare i suoi studi lavora come operaia e infermiera e comincia a frequentare gli ambienti letterari e omosessuali di New York. Negli anni sessanta l’omosessualità era considerata illegale; la comunità gay stanca del deprimente clima di repressione trova nei vecchi edifici industriali, come il Mount Morris di Harlem, un luogo dove esprimersi. In questo composito panorama metropolitano, incontra Edwin Rollins, avvocato bisessuale da cui avrà due figli Elizabeth e Jonathan.
Il matrimonio con Rollins non funziona e Audre si svela a sé stessa attraverso la poesia. Nel 1968 pubblica Two Cities prima delle undici raccolte poetiche. La poesia diventa lo specchio entro cui raccontare la propria diversità e da cui far partire un grido comune, libero, rivolto a tutte le donne. “La pelle nera è come il carbone rinchiuso nelle viscere della terra che si trasforma in diamante”.
Negli anni successvi Lorde viene anche operata per un cancro al seno e racconterà la sua lotta nei Cancer Journals pubblicato nel 1980. In quelle settimane si innamora di una giovane ragazza, Gloria Joseph, che diventerà sua compagna fino alla fine.
La poeta diventerà un punto di riferimento libero e ostinato per la lotta letteraria contro le diversità. Audre Lorde si è battuta perché la poesia diventasse una necessità per ridefinire le libertà e le identità delle persone. Ha costruito un ponte tra mondi diversi in cui affermarsi come donna, nera e omosessuale: il suo messaggio ha abbracciato lentamente tutto il globo, viaggiando assieme a lei dalla Nigeria a Cuba sino alla Nuova Zelanda. Ha saputo portare la sua battaglia femminista ovunque, permeata dalla sua immensa vitalità, documentando anche l’invasione di Grenada, stato insulare nel Mar dei Caraibi in cui è voluta tornare. Nel 1991 è stata nominata Poetessa dello Stato di New York rimanendo per sempre radicata alla sua lotta poetica e al quartiere di Harlem.
Al poeta che si dà il caso sia Nero e al poeta Nero che si dà il caso sia una donna I
Sono nata nel ventre della Nerezza
proprio da in mezzo alle cosce di mia madre
le si ruppero le acque sul linoleum a fiori blu
facendosi come neve sciolta nel freddo di Harlem
le 10 di una notte di luna piena
la mia testa spuntò rotonda come un pendolo
“Eri così scura”, diceva mia madre
“Credevo fossi un maschio”.
II
La prima volta che toccai mia sorella in vita
ero sicura che la terra prendesse nota
ma noi non eravamo intonse
la pelle posticcia si sfaldava come guanti di fuoco
fiamma aggiogata ero io
spogliata fino alla punta delle dita
la sua canzone scritta nei miei palmi le mie narici la mia pancia
benvenuta a casa
in una lingua che ero contenta di reimparare.
III
Nessuno spirito gelido mi ha mai attraversato le ossa
all’angolo di Amsterdam Avenue
nessun cane mi ha mai presa per una panca
o un albero o un osso
nessun’amante ha mai guardato alle mie braccia brune e grassocce
vedendo ali né mi hai mai chiamato condor per sbaglio
ma conosco a memoria
occhi
che mi cancellano
come un appuntamento indesiderato
posta a carico
timbrata in giallo rosso viola
ogni colore
eccetto Nero e scelta
e donna
in vita.
IV
Non so rammentarmi le parole della mia prima poesia
ma ricordo una promessa
fatta alla mia penna
di non lasciarla mai
giacere
nel sangue altrui.
Donna Madre Nera
Non riesco a ricordarti delicata
eppure attraverso il tuo pesante amore
sono diventata
immagine della tua carne un tempo fragile
spaccata da falsi desideri.
Quando sconosciuti si avvicinano per farmi i complimenti
il tuo spirito antico fa un inchino
e risuona d’orgoglio
ma una volta nascondevi quel segreto
al centro delle furie
soffocandomi
con seni profondi e capelli ruvidi
con la tua carne spaccata
e occhi da sempre sofferenti
seppelliti in miti di scarso valore.
Ma ho sbucciato la tua rabbia
fino al nocciolo dell’amore
e guarda madre
Io Sono
un tempio oscuro da cui si innalza il tuo vero spirito
bella
e dura come castagno
puntello al tuo incubo di debolezza
e se i miei occhi nascondono
uno squadrone di ribellioni in conflitto
ho imparato da te
a definire me stessa
attraverso i tuoi rifiuti.
Stazioni
Certe donne amano
aspettare
la vita un anello
nella luce di giugno un abbraccio
del sole che le guarisca di un’altra donna
la voce che le completi
che sleghi le loro mani
metta parole nelle loro bocche
dia forma ai loro percorsi suono
alle loro grida un’altra dormiente
che ricordi il loro futuro il loro passato.
Certe donne aspettano il treno
giusto nella stazione sbagliata
nei vicoli del mattino
il clamore del mezzogiorno
il calare della notte.
Certe donne aspettano che l’amore
faccia sorgere
il figlio della loro promessa
di raccogliere dalla terra
quello che non seminano
di reclamare dolore per travaglio
di diventare
la punta di una freccia per mirare
al cuore di un adesso
ma non sta mai fermo.
Certe donne aspettano visioni
che non si ripetono
dove non erano benvenute
nude
il rinnovarsi di inviti
in luoghi
che avrebbero sempre voluto
visitare.
Certe donne aspettano se stesse
dietro l’angolo
e chiamano pace quello spazio vuoto
ma il contrario di vivere
è solo non vivere
e alle stelle non importa.
Certe donne aspettano che qualcosa
cambi e niente
cambia veramente
perciò cambiano
se stesse.
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Per la prima volta in traduzione italiana, questa antologia dà spazio alle poesie di amore e di lotta di una poetessa, Audre Lorde, che ha saputo intrecciare le storie del proprio vissuto personale con le voci collettive dei movimenti femminista, Lgbt e delle persone di colore. Con il suo potente linguaggio poetico, Lorde ci regala istantanee della realtà filtrate attraverso uno sguardo acuto e mai distaccato. Nei suoi versi erompe il racconto di una donna Nera, lesbica, madre, guerriera, poeta, il cui linguaggio è intriso di ognuna di queste parti e dell’intersezione di tutte. Per questo il canto di Audre Lorde arriva a tutte e tutti noi, abbracciando la realtà da un punto di vista situato e proiettandosi oltre, fino a cambiare il nostro modo di guardare il mondo. Introduzione di Loredana Magazzeni, postfazione di Rita Monticelli.
Poesie di Elena Mearini, “A molti giorni da ieri”, Marco Saya Edizioni –Articolo di Ernesto Jannini-
Articolo di Ernesto Jannini-Nella nuova raccolta di Poesie di Elena Mearini, “A molti giorni da ieri”, edita per i tipi di Marco Saya, la poesia diventa gesto etico e linguistico che unisce l’individuo alla comunità, tra verità e finzione, memoria e desiderio, Si ritorna al tema della Poesia, già affrontato su queste pagine, del suo rapporto con la comunità, su cui esercita la potenza trasformatrice. Si parla non soltanto dei versi scritti, cantati o declamati, ma anche di ciò che si esprime in musica, in pittura, in teatro e finanche nello sport, quando il gesto dell’atleta si fa “arte” attraverso l’unità psico-fisica del linguaggio del corpo. Pertanto il poeta, chiunque artefice esso sia, si trova impegnato a risolvere il gigantesco problema del linguaggio, le cui implicazioni sono strettamente legate al momento storico, al proprio tempo.
E quindi coniugare il proprio personale “sentire”, con ciò che accade ed è accaduto nella storia, richiede un super sforzo che contraddistingue le dinamiche di tutti i veri processi creativi. Di questo si può e si deve parlare; di questo impegno reale che il poeta, con i suoi frutti, offre alla comunità di appartenenza; un impegno che tocca la dimensione morale dell’io.
Così si esprimeva Giuseppe Ungaretti in una prolusione ai Corsi di Cultura per Adulti dell’Unione Coscienza tenuta a Milano nel lontano 1957: «Uno scrittore, il poeta, è sempre, secondo me, impegnato indagando i propri tempi per conoscerli e in rapporto ad essi indagando sé per conoscersi, impegnato a far ritrovare all’uomo le fonti della vita morale che le strutture sociali, di qualsiasi costituzione siano, hanno sempre tendenza a corrompere ed a disseccare».
Ora, qui si accenna al corruttibile, che porta al disseccamento delle fonti, riducendo la coscienza individuale e sociale a un arido cretto argilloso. E dunque si parla di poesia, che porta l’acqua che manca, che salva i semi condannati all’arsura: un frutto che l’artefice pazientemente elabora ed offre a sé stesso e alla comunità. Egli è sempre in ansia di verità, quella che gli è data vedere ed esprimere attraverso la “menzogna” del linguaggio.
«È una bugia per dire la verità». In tal modo rispondeva Pablo Picasso, a coloro che gli chiedevano che cos’è la pittura. Il processo che porta dal subiettivo all’obiettivo, a mettere nero su carta, questo sforzo immane, implica l’accettazione cosciente dei cardini su cui si fonda l’esistenza; una “tensione” esistenziale sempre tesa all’ascolto profondo della parola che vede, che si immerge nei piani profondi della coscienza quando più naviga in superfice, tra le cose del mondo, tra il sorriso e il dolore degli uomini nello scorrere del tempo. Uno sforzo da compiere ogni volta; come se si cominciasse sempre da capo. E questo perché all’origine di ogni poesia c’è un punto origine da sviluppare, nelle coerenze che esso stesso contiene in nuce e che, se maturato, può portare alla realizzazione di un’opera autentica, che diventa “una realtà d’anima” per l’artefice e per chi l’ascolta (Ungaretti, 1957).
E dunque ritornano al pettine i nodi cruciali del destino individuale e delle sorti dell’intero mondo; in quel recinto “sacro” in cui si spendono le nostre esistenze per cercare un senso all’esistenza che, inevitabilmente si intreccia con l’alterità, con quel TU, (fosse anche quel tu che emerge quando l’io interroga se stesso) come emerge con molta chiarezza dalle bellissime poesie di Elena Mearini raccolte nel volume A molti giorni da ieri, uscito per i tipi di Marco Saya Edizioni.
Autrice di poesia e narrativa (vincitore premio Gaia Mancini-vincitore Premio Università di Camerino con Undicesimo comandamento, Perdisa Editore) da diversi anni insegna scrittura creativa. Ha lavorato sui percorsi di scrittura autobiografica nelle carceri e istituti di riabilitazione psichiatrica. Fondatrice della Piccola Accademia di Poesia di Milano, insieme allo stesso editore Marco Saya e a Angelo De Stefano, filosofo e poeta, Elena Mearini con A molti giorni da ieri dà corpo a un florilegio composto da 66 poesie, alcune delle quali volutamente ripetute per sottolineare i gangli nodali tra passato e presente.
È un invito all’ascolto profondo, quello della Mearini; ad aprire i pori della nostra sensibilità verso un mondo che lancia il suo “grido di fondo”; a vedere la perdizione sui volti dei giovani, a sentire che qualcosa di essenziale “ci manca” e per questo la “parola rifiuta di fiorire in voce”; a uscire dall’ombra e dal “chiuso della stanza”; ad aprire i dubbi sulla consapevolezza dell’esserci veramente, quando, al contrario, si ha la certezza della «nostra falcata/quando l’osso/bussava alla carne/ e tu aprivi/ la porta del pane». Insomma, un invito, forse anche una esortazione, a imparare «l’avvio delle cose/ il piccolo punto di partenza/ che fa silenzio/ che fa risveglio/impara l’esordio del tremore/quando la prima luce/nella casa s’accende/la prima foglia/sull’albero oscilla/metti a memoria la nota minore/ripetila quando la voce muore».
La poesia indica, ci accompagna al risveglio, e ciò accade perché l’artefice lavora instancabilmente con le parole perché, come lucidamente scrive Lello Voce nel suo noto Piccola cucina cannibale, «La poesia è fatta di parole e soprattutto delle loro reciproche relazioni. La poesia non inventa solo neologismi, ma neogrammatiche e neosintassi, essa stira la lingua, ne sfrutta tutte le possibilità, fa del fraintendimento, dell’ambiguità del codice, dell’errore, una via per scoprire scampoli di verità, non realizza i sogni, ma dando loro un nome, ci permette di immaginarli, non compie rivoluzioni, ma inventando nuove parole per la rabbia e per il desiderio, ci suggerisce, ogni giorno, che esse sono possibili, immaginabili».
Elena Mearini a questo ci introduce, all’apertura spirituale attraverso il linguaggio poetico. Tutto ciò non è semplice. Come affermava Ugaretti, «Avere luce nel cuore è difficile, soffrire e morire non sono che la sorte di tutti».
Elena Mearini
Elena Mearini
Elena Mearini
Nata nel 1978 e vive a Milano. Si occupa di narrativa e poesia, conduce laboratori di scrittura in comunità e centri di riabilitazione psichiatrica. Nel 2009 esce il suo primo romanzo 360 gradi di rabbia, edito da Excelsior 1881, e nel 2011 pubblica per Perdisa pop il romanzo Undicesimo comandamento. A gennaio 2015 pubblica il romanzo A testa in giù (Morellini editore). Firma due raccolte di poesie: Dilemma di una bottiglia (Forme Libere editore) e Per silenzio e voce (Marco Saya editore). Il suo ultimo romanzo è Bianca da morire (Cairo Publishing 2015).
Nel 2011 nell’ambito della rassegna “Umbria Libri” ha ricevuto il Premio giovani lettori “Gaia di Manici-Proietti” per il romanzo 360 gradi di Rabbia, e lo riceve anche l’anno successivo per Undicesimo Comandamento. Nel 2012 le viene assegnato il Premio UNICAM – Università di Camerino, per il romanzo Undicesimo comandamento, terzo classificato al Concorso Nazionale di Narrativa “Maria Teresa di Lascia”.
Associazione Cornelia Antiqua sulle tracce del dio Mithra-Nella foto la geologa-speologa Dott.ssa Tatiana CONCAS
ROMA MUNICIPIO XIII-L’Associazione Cornelia Antiqua sulle tracce del dio Mithra –
ROMA MUNICIPIO XIII-L’Associazione Cornelia Antiqua sulle tracce del dio Mithra -“Nel dicembre 1987, a circa 300 metri dal Casale della Bottaccia, in seguito a lavori agricoli che hanno provocato lo sprofondamento di una volta, si sono scoperti alcuni ambienti ipogei. L’ispezione, condotta da tale pertugio improvvisato da parte del dottor Sergio Mineo, evidenziava un complesso articolato “in tre ambienti distinti di forma quadrangolare, paralleli e di diversa lunghezza … la cui altezza media è di m. 2,30. I tre vani, dei quali non è stato individuato il piano di calpestio antico, sono coperti da una volta a botte e … raccordati tra loro da passaggi più stretti … L’ambiente C è il più interessante in quanto la sua parete di fondo presenta un bassorilievo scolpito nel tufo … raffigurante, a destra, un serpente, a sinistra un elemento di difficile interpretazione (un albero fortemente stilizzato?) e, in alto, al centro della composizione, una testa, raffigurante probabilmente il volto della divinità, i cui tratti sono del tutto abrasi” (Sergio Mineo, “Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma”, vol. 93, 1989-1990).Il complesso cultuale è stato identificato, con buona probabilità, quale mitraico.
L’AssociazioneCornelia Antiqua ha rinnovato la spedizione nei sotterranei. La visita ha confermato i rilievi del 1987: con qualche novità.
In effetti il volto centrale del bassorilievo è assai poco riconoscibile e purtuttavia il serpente già indica un atmosfera mitraica; e ciò sembra confermata da una nostra umile e personale rilettura dell’elemento a sinistra: non già un albero, benché stilizzato, bensì la raffigurazione d’una pigna, simbolo d’eternità e immortalità, e oggetto ricorrente in sei figurazioni mitraiche (“pomme de pin”) riportate nella celebre compilazione di Franz Cumont Textes et monuments figurés relatifs aux mystères de Mithra, 2 voll. 1896 – oggetto, quindi, non casuale, ma caratterizzante tale divinità.
Altra conferma verrebbe da un gruppo in marmo bianco raffigurante, senza dubbio, proprio il dio nella sua versione tauroctona (ovvero Mithra nell’atto di uccidere il toro). Tale gruppo marmoreo sarebbe stato rinvenuto nel 1825 proprio nel nostro mitreo dagli allora proprietari, i nobili Pamphili, che la tolsero a un sonno millenario aggiungendola alla propria straordinaria collezione (oggi esso è visibile alla Galleria Doria-Pamphili di via del Corso).
Lo stesso Cumont ci informa di tale ritrovamento nel secondo volume dell’opera succitata: “26. Composizione in marmo bianco [lunghezza m. 0,29; altezza m. 0,43] trovato nel 1825 sulla via Aurelia attorno all’undicesimo miglio nella tenuta denominata il Bottaccio, là dov’era situato senza dubbio Lorium, la celebre villa degli Antonini. Oggi è visibile alla galleria Doria … Mithra tauroctono con il cane (in parte nascosto dietro il dadoforo a destra), il serpente, lo scorpione e i due tedofori, uno, a sinistra, con in mano la sua torcia alzata, l’altra, a destra, abbassata. Una cinghia o un’ampia cintura circonda il corpo del toro. Restauri: il mantello fluttuante (dove probabilmente era appollaiato il corvo imperiale) e parte del cappello Frigio di Mitra, la torcia e le due mani del dadoforo sinistro. Mediocre lavoro“.
Nella composizione marmorea rinveniamo tutti gli elementi consueti della drammaturgia mitraica: Mithra che pugnala il toro, il serpente e il cane a lambire la ferita, lo scorpione che si avventa sui testicoli dell’animale morente, i due portatori di fiaccola Cautes e Cautopates (il primo la innalza, il secondo la rivolge a terra) che formano col dio una trinità, il corvo, la fertilità del sangue.
Se davvero, come è altamente probabile, tale gruppo proviene dai nostri vani ipogei, e se è sostenibile l’identificazione dell’elemento del bassorilievo quale pigna, è possibile definire, con ottimo grado di approssimazione, l’ambiente quale mitraico.
Se poi verrà confermata la presenza di una nicchia quale ospite del gruppo marmoreo stesso (dovrebbero risultare compatibili le misure anzidette) allora l’approssimazione si tramuterà in certezza.
Articolo di Gianluca Chiovelli , Vice-Presidente Associazione “Cornelia Antiqua”
Associazione Cornelia Antiqua
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Maurizio Degl’Innocenti-Giacomo Matteotti e il socialismo riformista – Editore Franco Angeli-
Questo saggio propone un’originale rilettura di Giacomo Matteotti (1885-1924) lungo i binari paralleli della biografia individuale e dell’analisi del gruppo politico di afferenza, avvalendosi delle categorie interpretative di socialismo di vicinanza o territoriale e di democrazia orizzontale. Il testo offre inoltre molteplici spunti di riflessione su problemi della società italiana ed europea di lungo periodo, fino all’attualità, a ulteriore testimonianza del lungimirante orizzonte del pensare e dell’agire di un’intera generazione politica in linea con l’evoluzione della socialdemocrazia europea tra le due guerre.
GIACOMO MATTEOTTI E IL SOCIALISMO RIFORMISTA
Giacomo Matteotti e il socialismo riformista – Dalla scheda del volume sul sito dell’editore FrancoAngeli
Il saggio propone un’originale rilettura di Giacomo Matteotti (1885-1924) lungo i binari paralleli della biografia individuale e dell’analisi del gruppo politico di afferenza avvalendosi delle categorie interpretative di socialismo di vicinanza o territoriale e di democrazia orizzontale.
Nel rapporto essenziale con il territorio evidenzia la persistente forza delle periferie, lungo le quali si riscrivono le gerarchie sociali e politiche, tra continuità e rottura dei codici etici e di prestigio. Nel ricostruire il cursus honorum di Matteotti da organizzatore nel Polesine a figura di spessore nazionale fino all’ingresso a Montecitorio e infine a segretario del Partito socialista unitario impegnato nella lotta al fascismo e al bolscevismo, fa emergere una concezione della politica come pedagogia individuale e collettiva per una cittadinanza diffusa e inclusiva; tecnica gestionale in una strategia “costruttiva” della società di lungo periodo; prassi fondata sul ruolo imprescindibile dei partiti nazionali in una democrazia rappresentativa e conflittuale nel rispetto dello Stato di diritto; visione delle problematiche interne in connessione con gli equilibri internazionali in una prospettiva di libera e pacifica convivenza dei popoli e, perfino, già europeista. Il saggio offre molteplici motivi di riflessione su problemi della società italiana ed europea di lungo periodo, fino all’attualità, a ulteriore testimonianza del lungimirante orizzonte del pensare e dell’agire di intera generazione politica in linea con l’evoluzione della socialdemocrazia europea tra le due guerre.
Premessa
La formazione e il “motore dell’energia pratica”
(L’ambiente familiare e il “vaso migliore”; I “tempi lunghi” degli studi e la “fame d’azione”; “Non si gettava, ma andava a passo regolare contro il periglio supremo: il che è infinitamente di più”; La costruzione evolutiva e “il socialismo dentro di noi”; Il “sobillatore”)
La “campagna senza fine”
(Il cursus honorum; La titolarità politica dell’ente locale; Spazio fisico e culturale. Per un sistema di istruzione integrato e permanente; Dalla lega all’azienda cooperativa; “Noi demandiamo di restituire alla nostre terre le libertà”)
“Difendiamo insieme la causa del socialismo, la causa del nostro Paese e quella della civiltà”
(Matteotti a Montecitorio; “La forza operante dei lunghi periodi di tempo”: Matteotti, il “fermo ai contrabbandieri del pubblico bene” e il debito buono; “La forza operante dei lunghi periodi di tempo”: Turati e un programma “serio e concreto” per rifare l’Italia; La crisi dello Stato di diritto e l’Esecutivo Giolitti; Nella tenaglia fascista; “La rielaborazione dei Partiti” e il situazionismo; Il Governo di coalizione e il mancato incontro con il Partito popolare)
“I socialisti con i socialisti, i comunisti con i comunisti”
(“Ricominciamo daccapo, ringiovaniremo nel ricostruire”; Matteotti e il frazionismo socialista; Alla segreteria del PSU; Il blocco per la libertà; La guerra, la “pace senza pace” e la ricostruzione dell’Europa)
Turati, Matteotti e il rinnovamento socialista
(Le vie nuove della socialdemocrazia europea; Le Direttive socialiste (1923) e “il partito di realtà”)
Indice dei nomi.
Maurizio Degl’Innocenti, ordinario di storia contemporanea, è direttore di collane editoriali, condirettore della rivista “Storiaefuturo”, membro di diversi istituti di ricerca. Presiede la Fondazione di studi storici “Filippo Turati”. Annovera tra le ultime pubblicazioni La società volontaria e solidale (2012); Giacomo Matteotti. Eroe socialista (2014); La Patria divisa. Socialismo, nazione e guerra mondiale (2015); Giovanni Pieraccini la politica e l’arte (2016); L’età delle donne. Saggio su Anna Kuliscioff (2017).
Chantal Delsol -La fine della cristianità e il ritorno del paganismo- Edizioni Cantagalli-Siena
Descrizione del libro di Chantal Delsol La fine della cristianità-Il futuro dell’Occidente è pagano. Siamo in un declino da spossatezza, barbarie e cancel culture. Sedici secoli di cristianesimo stanno per finire e oggi siamo testimoni di un’inversione normativa e filosofica che inaugura una nuova era; un’era che non sarà atea o nichilista, come molti credono, ma pagana. La cristianità ha esaurito il suo tempo lasciando spazio a nuove religioni, ad un politeismo che venera gli alberi, la terra, le balene. La transizione è brutale, difficile da accettare per i difensori di un’epoca in via di estinzione.
Dovremmo rimpiangere i tempi passati quando il divorzio era proibito come così l’istruzione superiore delle ragazze? Dobbiamo vivere nella speranza che la cristianità risorga dalle sue ceneri affermando la sua forza morale? Chi vive in questa malinconica nostalgia è già stato cancellato da un mondo che, nel bene o nel male, ormai è cambiato radicalmente.
Il grande Pan è tornato. Il cristianesimo deve inventarsi un altro modo per sopravvivere. Quello del semplice testimone. Dell’agente segreto di Dio.
Breve Biografia di Chantal Delsol
Chantal Delsol (Parigi 1947) filosofa, scrittrice, docente di filosofia politica, autorevole protagonista del mondo intellettuale francese. Editorialista di «Le Figaro», è membro della Académie des Sciences morales et politiques dell’Institut de France. Autrice di importanti opere tradotte in diverse lingue, tra le quali ricordiamo: Le Souci con-temporain (1996, 2004), premio Mousquetaire; L’Étatsubsidiaire (1992), premio della Académie des Sciences morales et politiques, trad. it. Lo Stato e la sussidiarietà; Histoire desidéespolitiques de l’Europe centrale, con Michel Maslowski (1998), premio della Académie des Sciences mo-rales et politiques; Éloge de la singularité, essai sur la modernité tardive (2000), premio Raymond-de-Boyer-de-Sainte-Suzanne dell’Accademia francese, trad. it. Elogio della singolarità. Saggio sulla modernità tardiva.
La fine della cristianità e il ritorno del paganismo è Disponibile in libreria dall’ 11 novembre 2022.
Acquistalo in anteprima con il 5% di sconto sul prezzo di copertina e le spese di spedizione a ns/ carico.
Edizioni Cantagalli srl
Indirizzo: Str. Massetana Romana 12
53100, Siena (SI)
Non abbiamo ancora preso piena coscienza della pro- fonda trasformazione che si sta producendo nel nostro tempo: la fine di una civiltà vecchia di sedici secoli. Dopo molte esitazioni, uso questa agghiacciante parola: “ago- nia”. Infatti la morte della cristianità1 non è affatto una morte improvvisa. D’altronde, salvo poche eccezioni, le civiltà non conoscono una morte improvvisa: si estin- guono a poco a poco, in numerosi sussulti. La cristianità combatte da due secoli per non morire, e in questo con- siste quella commovente ed eroica agonia. È così antica che ha creduto all’inizio di poter beneficiare di una sorta di immortalità: non era forse segnata dal sigillo della tra- scendenza? E poi si è creduta, come certi anziani, troppo vecchia per morire. La Chiesa è eterna per i cattolici: ci sarà sempre un gruppo di fedeli, sia pure sparuto, a costitu- irla. Ma la cristianità è qualcosa di completamente diverso. Si tratta della civiltà ispirata, ordinata, guidata dalla Chie- sa. Sotto questo aspetto possiamo dire che la cristianità è durata sedici secoli, dalla battaglia del fiume Frigido, nel 394, fino alla seconda metà del XX secolo, con il successo dei sostenitori dell’interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Le cosiddette riforme sociali sono essenziali per ca-
1 In francese il termine Chrétienté ha l’iniziale maiuscola, che va usata per distinguere le civiltà (Islam come civiltà e islam come religio- ne, per esempio). In italiano abbiamo optato per l’iniziale minuscola, dato che tale distinzione abitualmente non è così categorica (ndc).
pire l’inizio e la fine. Infatti questa è davvero una civiltà, in altre parole: un certo modo di vivere, una visione dei confini tra il bene e il male.
L’incredibile energia con cui la cultura cristiana lotta da due secoli per non morire dimostra chiaramente che ha davvero formato un mondo, un mondo coerente in tutti gli ambiti della vita, chiamato cristianità. Non sono d’accordo con Emmanuel Mounier quando dice che non c’è stata alcuna civiltà cristiana: «La cristianità è una “spa- ventosa illusione” […]. Il cristianesimo è un’alternativa nel fondo del cuore […], non un consolidamento che si sta- bilisce con il tempo e con il numero»2. Mounier descrive qui il suo desiderio, non certo la realtà. Il cristianesimo ha costruito una civiltà, che è vissuta secondo le sue leggi e i suoi dogmi, tra mille difficoltà, per sedici secoli.
L’eredità controrivoluzionaria
La stagione dei Lumi, che inizia forse molto presto (con Montaigne? con Vico?) e culmina nella grande Rivoluzio- ne, mette in discussione la cristianità, attacca la civiltà cri- stiana, cioè dei modi di essere, una morale, delle convin- zioni profonde.
La Rivoluzione francese non si è potuta compiere se non in opposizione al cristianesimo, che era fin dall’origi- ne e fino a poco tempo fa, ce ne dimentichiamo troppo, il principale nemico della modernità3.
2 e. mounier, Cristianità nella storia, Ecumenica Editrice, Bari 1979, pp. 227-228 (or. fr. Feu la Chrétienté [1950], Desclée de Brouwer, Paris 2013, p. 51).
3 Con l’eccezione, ovviamente, dei protestanti. Il termine cristia- nesimo qui include essenzialmente cattolici e ortodossi.
Gli storici hanno mostrato chiaramente quanto la Ri- voluzione francese del 1789, che è la quarta del suo genere in Occidente, sia stata particolare rispetto alle precedenti. Le rivoluzioni olandese, inglese e americana, per rove- sciare il vecchio ordine sociale, si sono appoggiate su una base religiosa come Archimede sulla sua leva. In questi tre paesi regnava la religione riformata, che opponeva pochi ostacoli alle nuove idee. La Rivoluzione francese invece poggiava sul nulla, perché la religione cattolica dominan- te ne rifiutava tutti i princìpi, a cominciare dalla libertà e dall’uguaglianza. La conseguenza fu che le prime tre rivo- luzioni non degenerarono in utopie vendicative e ridicole, ma instaurarono regimi stabili e crearono società in cui la politica e la religione potevano appoggiarsi l’una sull’altra. La Rivoluzione francese sfociò invece in una guerra perpe- tua tra la Chiesa e lo Stato, con tutte le sue conseguenze: quando si priva completamente della vita spirituale, la po- litica cade inevitabilmente in eccessi sinistri. Quanto alla Chiesa, ridotta allo stato di nemico pubblico e perenne- mente in rivolta contro le leggi e i costumi, andava lenta- mente indebolendosi.
Le prime rivoluzioni moderne fondate sulla libertà fu- rono delle conquiste protestanti. Per questo le democrazie anglosassoni di oggi non hanno rifiutato i riferimenti re- ligiosi all’interno perfino della politica: non si disdegna la propria culla. D’altra parte, come scrive Pascal Ory:
«La Rivoluzione francese, al contrario delle altre tre, non si è potuta appoggiare a una religione che, questa volta, era cattolica, apostolica e romana. I valori che sosteneva si contrapponevano frontal- mente a quelli del Magistero romano, facendo del-
la Chiesa cattolica per più di un secolo il principale organismo antiliberale del mondo occidentale»4.
A partire dall’inizio del XIX secolo, infatti, la Chiesa cat- tolica si erge come baluardo contro la modernità. E poiché la libertà moderna si fa strada come un destino ineluttabile e non può crollare, dal momento che sono i suoi avversari a rendersi ridicoli, la Chiesa nel giro di un secolo e mezzo perderà a poco a poco il suo potere, il suo credito e la sua influenza: «I secoli moderni sono una crociata contro il cri- stianesimo», diceva José Ortega y Gasset5. È la caduta della cristianità come civiltà cristiana.
La cristianità come civiltà è il frutto del cattolicesimo, religione olistica, che sostiene una società organica, rifiuta l’individualismo e la libertà individuale. Era naturale che si scontrasse con la modernità e, una volta arrivata quest’ul- tima al proprio apice, il suo destino era quello di scompa- rire. Quando in occasione del Concilio Vaticano II, negli anni ’60 del XX secolo, la Chiesa riconobbe finalmente la libertà religiosa, «rivoluzione copernicana» (J. Isensee) preparata dall’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII, nel 1963, ciò avvenne nel corso di accesi dibattiti interni6. E infatti si trattava addirittura di proclamare esattamente il contrario di quanto aveva decretato Pio IX nel Sillabo,
4 ory, Qu’est-ce qu’une nation?, Gallimard, Paris 2020, p. 161.
5 J. ortega y gasset, Il tema del nostro tempo. La vita come dialogo
tra l’io e la circostanza, SugarCo, Milano 1985, p. 116 (or. spagn. El tema de nuestro tiempo. El ocaso de las revoluciones. El sentido histórico de la teo- ría de Einstein, Calpe, Madrid 1923).
6 J.-m. mayeur (dir.), Storia del cristianesimo. Religione-Politica-Cul- tura, vol. 13, Crisi e rinnovamento dal 1958 ai giorni nostri, Borla-Città Nuova, Roma 2002, pp. 79 e 107 (or. fr. Histoire du christianisme, t. XIII, Crises et renouveau, de 1958 à nos jours, Desclée, Paris 2000, pp. 69 e 109).
un secolo prima… Che cosa significa questo capovolgi- mento, e qual è il suo scopo? Si può capire che la Chiesa non voglia, di fronte agli assalti della modernità, rimanere una fortezza assediata. Tuttavia essa è la sentinella di una verità più che di una reputazione. È molto difficile com- prendere questo evidente cambiamento di rotta, che rati- fica la fine dell’olismo cattolico e un timido ingresso nella società moderna dell’individualismo – poiché significa che «l’uomo deve essere considerato non come l’“oggetto” della vita sociale o come uno dei suoi elementi passivi, ma come il suo “soggetto”, il suo fondamento e il suo fine»7. Tuttavia, anche se la Chiesa avesse voluto, così facendo, riconciliarsi con i tempi, sarebbe stato troppo tardi. La tar- da modernità, che inizia dopo la seconda guerra mondiale, considera la Chiesa come un’istituzione decisamente ob- soleta, perché poggia su una verità e fa uso dell’autorità per sostenerla. Durante la seconda metà del XX secolo e l’inizio del XXI, le divergenze si accumuleranno. Il liberali- smo/libertarismo imperante rappresenta l’esatto opposto del modo di pensare ecclesiale.
Oggi, la stragrande maggioranza del clero e dei fedeli è legata ai moderni princìpi di libertà di coscienza e di re- ligione – tranne qualche piccolo gruppo che peraltro non oserebbe difendere apertamente le proposizioni del Silla- bo. E più ancora: la maggior parte del clero e dei fedeli nutre rammarico e rimpianto ricordando la radicalità del Sillabo.
A partire dall’inizio del XIX secolo incomincia la lun- ga campagna di difesa cristiana. Antoine Compagnon ha mostrato fino a che punto, nei due secoli che ci hanno pre-
ceduto, abbia sovrabbondato la letteratura antimoderna8. All’interno di questa letteratura, subito dopo la Rivoluzione emerge, e sempre più chiaramente, l’ossessione della fine della cristianità.
Il mio intento non è quello di fare la cronistoria di que- sta presa di coscienza con i suoi drammatici sussulti, ma semplicemente di mostrare, brevemente e a mo’ di in- troduzione, come il pensiero cristiano abbia progressiva- mente rinunciato alla cristianità. Non si può definirlo un tradimento, anche se si tratta di una serie di concessioni, ognuna delle quali vorrebbe essere l’ultima mentre già lascia la porta aperta a quella successiva. Il tradimento in effetti presuppone un’alternativa, ma in questo caso non si vede altra scelta possibile – le soluzioni estreme per salva- re la cristianità sono state tentate nel XX secolo e si sono rivelate peggiori del male. Non si può chiamarlo una ri- nuncia, che presuppone un’indifferenza, una fatica, quan- do si guarda all’estrema combattività, alla fede ardente che anima tutta una genealogia di scrittori cristiani, da Juan Donoso Cortés fino a William Cavanaugh, passando per Jacques Maritain e tanti altri. Questa storia di due secoli segna piuttosto una graduale assuefazione a una situazio- ne inizialmente ritenuta inaccettabile, una lunga catena di compromessi di varia portata e, alla fine, una situazione in cui non resta nulla. È la storia di una sconfitta dove tutto è stato aspramente conteso, ma dove nulla è stato salvato, e come si vedrà, nemmeno l’essenziale: la storia concreta di un’agonia, o se si vuole, di una lotta all’ultimo sangue, persa in anticipo.
8 A. ComPagnon, Gli antimoderni, Neri Pozza, Vicenza 2017 (or. fr. Les antimodernes, Gallimard, Paris 2005).
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Prof. Chantal Delsol doktorem honoris causa Katolickiego Uniwersytetu Lubelskiego
Prof. Chantal Delsol
Prof. Chantal Delsol odebrała w niedzielę w Lublinie doktorat honoris causa KUL. „Nie możemy już być autorytarnymi kaznodziejami, bo już nas nikt nie chce słuchać. Misja musi przestać być podbojem, a stać się zwykłym świadectwem. Chodzi o dokonanie zasadniczego zwrotu” – mówiła filozofka.
Nadanie tytułu doktora honoris causa KUL prof. Chantal Delsol miało miejsce w niedzielę podczas uroczystego rozpoczęcia roku akademickiego, które zakończyło również VII. Kongres Kultury Chrześcijańskiej w Lublinie.
W uchwale Senatu KUL uzasadniono, że to najwyższe wyróżnienie w świecie akademickim jest wyrażeniem szacunku i uznania dla prof. Chantal Delsol „jako wybitnej humanistki upominającej się w swoich pismach filozoficznych i literackich o godność osoby ludzkiej i prawdę w post-ponowoczesnym świecie”.
W swoim wykładzie prof. Chantal Delsol zwróciła uwagę, że chrześcijańskim powołaniem jest misja: „staniecie się rybakami ludzi…”. Ta misja – jak mówiła – to dawanie świadectwa aż po krańce ziemi. „Żyjemy w tej chwili w czasach, kiedy na Zachodzie chrześcijaństwo jest tolerowane pod warunkiem, że nie obiera sobie misji za cel. Stawia nas to w bardzo niekomfortowej sytuacji. Powiedziałabym nawet, żew sytuacji dramatycznie sprzecznej” – podkreśliła francuska filozofka.
Jej zdaniem nie możemy dalej wyobrażać sobie misji jako głosu autorytetu panującego nad ciałami i duszami. „Nie możemy już być autorytarnymi kaznodziejami, bo byliśmy nimi za długo, już nas nikt nie chce słuchać. Misja nasza musi się więc zmienić – przestać być podbojem, a stać się zwykłym świadectwem. Chodzi tutaj o dokonanie zasadniczego zwrotu” – zwróciła uwagę prof. Delsol.
Zaznaczyła, że wielu misjonarzy w przeszłości było prawdziwymi świadkami tego, co sami głosili. „Ogólnie jednak rzecz biorąc, mamy raczej przed sobą kaznodziejów – ani gorszych, ani lepszych od innych – krótko mówiąc ludzi, którzy czasami wydają się gorsi od innych, ponieważ ich autorytet daje im sposobność do wykorzystywania ludzkich słabości, np. spójrzmy na przypadki pedofilii” – wskazała filozof.
W jej opinii, jeśli nadal chcemy żywić szacunek dla powołania misyjnego, to liczy się tutaj jedynie świadek: prosty, pokorny, zwyczajny. Według niej powinien nawracać on jedynie poprzez swoją własną osobę, swoje własne postępowanie.
„Jednak w tej chwili – przez kilka jeszcze dziesięcioleci albo może nawet stuleci – niech chrześcijanie nie otwierają ust, bo za wiele mówiliśmy i zbyt często tylko mówiliśmy. Potrzebujemy bardzo długiego okresu wstrzemięźliwości, mam na myśli wstrzemięźliwość od słów, od kazań. Pozwólmy ujrzeć, ukazać żywą postać dobrej nowiny” – mówiła francuska filozofka.
Prof. Delsol podkreśliła, że jeżeli misja ma oznaczać podbój, to możemy natychmiast odrzucić tę ambicję. „Będziemy jednak kontynuować historię chrześcijaństwa w ten oto sposób – w filozofii, zastępując dogmatykę fenomenologią; w duszpasterstwie, zastępując dogmatykę świadectwem” – stwierdziła.
Podczas swojego przemówienia inauguracyjnego rok akademicki rektor KUL ks. prof. Mirosław Kalinowski zwrócił uwagę, że „we współczesnych czasach nowoczesności, pluralizmu i postmodernizmu” KUL jest powołany do zadań wyjątkowych.
„Chcemy być uczelnią nowoczesną, ale opartą o tradycję; przodującą w rankingach naukowych, ale równocześnie mającą swój wyrazisty charakter, do którego zobowiązuje przydomek +katolicki+. Uczelnią widoczną w życiu społecznym i proponującą nowe, ciekawe rozwiązania w wielu dziedzinach, ostatnio także w zakresie medycyny, a równocześnie wprowadzającą do świata nauki i relacji społeczno-gospodarczych ducha prawdy, uczciwości, moralności, wysokiej kultury” – zaznaczył rektor.
Katolicki Uniwersytet Lubelski jest najstarszą uczelnią w Lublinie. Powstał w 1918 r. Kształci ponad 8 tys. studentów, w tym ok. 3 tys. na pierwszym roku. Wśród ok. 700 cudzoziemców najliczniejszą grupę stanowią Ukraińcy i Białorusini.
Chantal Delsol (ur. 16 kwietnia 1947 r. w Paryżu) jest profesorem filozofii politycznej, francuską myślicielką zajmującą się przemianami świata postnowoczesnego, członkinią Akademii Francuskiej, a także publicystką oraz autorką książek filozoficznych i powieści. Jest założycielką Instytutu Badań im. Hannah Arendt oraz dyrektorką Ośrodka Studiów Europejskich na Uniwersytecie Marne-la-Vallée w Paryżu. Po polsku ukazały się m. in. „Esej o człowieku późnej nowoczesności” (2003), „Nienawiść do świata. Totalitaryzmy i ponowoczesność” (2017), „Koniec świata chrześcijańskiego” (2023).
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