Mompeo (Rieti)- va in scena nella sala Fabrizio Naro la commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi”
Mompeo (Rieti)-Articolo di Giulia Mininni– La commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi” è il nuovo appuntamento per sabato 5 aprile a Mompeo. Nell’ambito della rassegna” A porte aperte” diretta da Renato Giordano va in scena nella sala Fabrizio Naro del castello la commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi”. Dopo molti e importanti concerti torna a Mompeo la prosa con uno spettacolo comico e divertente. E’ risaputo che una donna insoddisfatta prima o poi escogita un piano di evasione. Ma se le donne sono cinque? Si può essere certi che il piano sarà diabolico.
commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi”
commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi”
commedia di Anna Fraioli “Dimmi ciò che vuoi”
E lui avvolto dal velo ingannatore distratto dai piaceri della carne, alimentato dalle lusinghe, incantato da quelle mitiche eroine, ottenebrato dal proprio smisurato ego, forse non ricorda più che il mondo materiale non è altro che…illusione. Questa in sintesi la storia. Dimmi ciò che vuoi affronta i temi della liberazione femminile e della ribellione alle aspettative sociali. Le quattro protagoniste, attraverso il supporto della loro psicologa, trasformano le loro insicurezze in forza, dando vita a un crescendo che sfocia in una rivincita inaspettata. Nel cast tra gli altri Ilaria Pierandrei nel ruolo della terapeuta, Silvia Organtini è la casalinga trascurata, che si trasforma da donna sottomessa a mantide . Il personaggio maschile, intrappolato nel suo ruolo è Marco Tavani. La ripetitività degli approcci del seduttore seriale diventa un tratto distintivo dello spettacolo, con scene musicali e siparietti. Il finale , in cui le donne si liberano dalle catene patriarcali, offre una riflessione leggera ma significativa sul ruolo della donna e della sua emancipazione. Un mix di umorismo e di spunti di riflessione.
“Dimmi ciò che vuoi. Una commedia sentimentale scorretta!” Regia e testo di Anna Fraioli. Con Noemi Antonini, Francesca Grande, Wanda Orlando, Ilaria Pierandrei, Martina Sbarra, Marco Tavani.
Sabato 5 aprile sala Fabrizio Naro del Castello, ore 18,00.Ingresso gratuito.
Un conto è leggere a scuola questi desolati versi di Sergio Corazzini (Roma, 1886-1907), come hanno fatto molti studenti, anche recentemente agli ultimi esami di Stato.
Il mio cuore
Il mio cuore è una rossa macchia di sangue dove io bagno senza possa la penna, a dolci prove
eternamente mossa. E la penna si muove e la carta s’arrossa sempre a passioni nove.
Giorno verrà: lo so che questo sangue ardente a un tratto mancherà,
che la mia penna avrà uno schianto stridente… … e allora morirò.
Imagine
La rondine di mare che ieri, mia dolente, volava sopra il lago, con l’alucce sgomente,
erra sempre e la sorte del suo tenero volo? brutal piombo la colse, e cadde, morta, al suolo?
o pur, libera, dopo lungo palpito d’ale, giunse all’immenso, azzurro Oceano natale,
ove ne l’aria, ondeggiano esalazioni amare?… A me, vedi, la piccola rondinella di mare,
stanca, che sfiorava, con l’aluccia sua lieve, l’onde del lago, troppo, per i suoi voli, breve,
a me sembra il tuo cuore instancabile, ardito, cuore di donna, cuore acceso d’infinito,
cuor nostalgico in preda al doloroso senso di cercar, vanamente, per sé un amore immenso!
Rime del cuore morto
O piccolo cuor mio, tu fosti immenso come il cuore di Cristo, ora sei morto; t’accoglie non so più qual triste orto odorato di mammole e d’incenso.
Uomini, io venni al mondo per amare e tutti ho amato! Ho pianto tutti i pianti vostri e ho cantato tutti i vostri canti! Io fui lo specchio immenso come il mare.
Ma l’amor onde il cuor morto si gela, fu vano e ignoto sempre, ignoto e vano! Come un’antenna fu il mio cuore umano, antenna che non seppe mai la vela.
Fu come un sole immenso, senza cielo e senza terra e senza mare, acceso solo per sé, solo per sé sospeso nello spazio. Bruciava e parve gelo.
Fu come una pupilla aperta e pure velata da una palpebra latente; fu come un’ostia enorme, incandescente, alta nei cieli fra due dita pure,
ostia che si spezzò prima d’avere tocche le labbra del sacrificante, ostia le cui piccole parti infrante non trovarono un cuore ove giacere.
Tutta l’anima, tutte le pure
Tutta l’anima mia, tutte le pure gioie godute nella giovinezza; ogni mia più soave tenerezza, tutte le mie speranze malsecure
nelle loro precoci sepolture, l’eterna immensurabile tristezza che il mio cuore dissangua ma non spezza offerte alle mortali creature.
Anima, come vano, come vano l’amor tuo, come triste il disinganno.
Desolazione del povero poeta sentimentale
I
Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta. Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. Perché tu mi dici: poeta?
II
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni. Le mie gioie furono semplici, semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
Oggi io penso a morire.
III
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco; solamente perché i grandi angioli su le vetrate delle cattedrali mi fanno tremare d’amore e di angoscia; solamente perché, io sono, oramai, rassegnato come uno specchio, come un povero specchio melanconico. Vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
IV
Oh, non maravigliarti della mia tristezza! E non domandarmi; io non saprei dirti che parole così vane, Dio mio, così vane, che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire. Le mie lagrime avrebbero l’aria di sgranare un rosario di tristezza davanti alla mia anima sette volte dolente, ma io non sarei un poeta; sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.
V
Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù. E i sacerdoti del silenzio sono i romori, poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.
VI
Questa notte ho dormito con le mani in croce. Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo dimenticato da tutti gli umani, povera tenera preda del primo venuto; e desiderai di essere venduto, di essere battuto di essere costretto a digiunare per potermi mettere a piangere tutto solo, disperatamente triste, in un angolo oscuro.
VII
Io amo la vita semplice delle cose. Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco, per ogni cosa che se ne andava! Ma tu non mi comprendi e sorridi. E pensi che io sia malato.
VIII
Oh, io sono, veramente malato! E muoio, un poco, ogni giorno. Vedi: come le cose. Non sono, dunque, un poeta: io so che per esser detto: poeta, conviene viver ben altra vita! Io non so, Dio mio, che morire. Amen.
Un bacio
Oh, un bacio, un bacio lieve su la tua bocca rossa, un bacio breve, breve piccolo, senza scossa.
Senza che il core possa tremar… no, non lo deve non vo’ che tu per l’ossa senta un brivido lieve…
che faccia il volto esangue… . . . . . . . . .
Oh, un bacio di morente sulla bocca, permetti?
Su quella bocca ardente che pare un fior di sangue trionfante tra i mughetti!
“Io non sono un peota”: i versi di Corazzini, il bimbo che voleva morire articolo di Eraldo Affinati-31 agosto 2021-Fonte il Riformista
Sergio Corazzini
«Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. / Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. / Perché tu mi dici: poeta?». Un conto è leggere a scuola questi desolati versi di Sergio Corazzini (Roma, 1886-1907), come hanno fatto molti studenti, anche recentemente agli ultimi esami di Stato. Un altro conto è scandirli in un soffio leggero, nella calura stagnante in mezzo alle zanzare, come è capitato a me dentro l’ottavo colombario al cimitero del Verano (ossario 25, fila II), dove sono conservati i suoi poveri resti. Nel lungo corridoio oscuro, illuminato soltanto dai fiochi raggi provenienti dai lucernai, il volto adolescente del ragazzo splendeva ancor più del solito, nell’unica famosa fotografia che ancora oggi lo ritrae, in ogni manuale del crepuscolarismo, quello stato d’animo sconsolato e malinconico, fra organetti, conventi, suore, cortili, ospedali e sagrestie, individuato per la prima volta da Antonio Borgese nel 1910, il colletto inamidato fin sulla gola, col cravattino stretto sotto il gilet, come usava ai primi del Novecento, il ciuffo di capelli ben pettinato sulla fronte alta, lo sguardo fermo, determinato, rivolto verso il baratro del futuro.
Mi ero deciso a rendere questo omaggio al fanciullo più celebre della letteratura italiana, così diverso da Guido Gozzano in quanto, a differenza sua, privo di vezzi e orpelli, dopo averne riletto i testi appena riproposti in una piccola, preziosa, commovente, meritoria edizione di Internopoesia, a cura di Alessandro Melia: Io non sono un poeta (pp. 156, dodici euro). Andare in libreria, comprare il testo, ritrovare subito il vecchio, mai sopito, incanto di Toblach: «Le speranze perdute, le preghiere / vane, l’audacie folli, i sogni infranti, / le inutili parole de gli amanti / illusi, le impossibili chimere, / e tutte le defunte primavere…», prendere lo scooter e, sfidando le temperature più alte dell’anno, puntare deciso verso l’antico Tiburtino scalcinato, nella città dei morti dispersa fra le circonvallazioni vorticanti, era stato per me un tutt’uno.
«Perché, tu che sai tutto di Roma, / lo chiamate così quel vostro cimitero / con quel nome spagnolo che significa estate?», si chiedeva Vittorio Sereni in una delle sue poesie più belle, Verano e solstizio? La stessa domanda tornava a ronzarmi in testa mentre entravo dal portone principale lasciandomi alle spalle il monumento funebre di Goffredo Mameli, morto nel 1849 nella difesa di Roma, anche lui a soli 21 anni. Ormai il suo inno lo cantano tutti, ma chi rammenta più la vita di questo giovane ardimentoso? Eppure è stato proprio il paladino risorgimentale a spingermi idealmente verso Sergio Corazzini, nato in una famiglia benestante, abitavano in via dei Sediari 24, dietro Piazza Navona, falcidiata dalla tubercolosi e presto travolta dalla più cruda indigenza. Il suo talento lirico si rivelò immediatamente.
A soli sedici anni, già collaborava ai giornali dell’epoca: Il Marforio, Il Rugantino, Il Capitan Fracassa. Attorno a lui si formò un cenacolo di amici, che si riunivano al Caffé Aragno, per i quali il più ispirato coetaneo rappresentò un riferimento carismatico, sia in vita che, ancor più, dopo la morte: una stella cometa che, agli albori del ventesimo secolo, brillò solo per poco nel fondo smagato delle loro sontuose adolescenze. Ricordiamo Fausto Maria Martini, Alberto Tarchiani, Remo Mannoni, Giuseppe Caruso, Giorgio Lais, Auro d’Alba, Giuseppe Altomonte e Guido Milelli. Nomi perduti, volati via come foglie, simili a quelli che decifro nei loculi posti intorno a Sergio: Maddalena Antonelli, Renzo Francia, Antonio Gregori, Gustavo Benedetti, Rinaldo Casadei, Maria Macciocchi, scomparsi tutti in giovanissima età, alcuni addirittura bambini.
“Per chi ricorda Sergio Corazzini”, leggo inciso sul marmo. La sua voce era bianca, fosforica. Egli pare sempre che ci voglia raccontare qualcosa d’importante, si capisce dall’adozione della seconda persona, eppure non ha nulla da dire, se non l’assenza, il vuoto, l’esilio qui, non in un altrove, no, proprio sulla nostra terra: «Sono un fanciullo triste che ha voglia di morire». Quando nell’agosto 1905, in una lettera diretta a Aldo Palazzeschi, scrive: «Il letto bianco e triste che mi accoglie da venti giorni è divenuto il mio trono di questo mondo», non sta recitando. Spirerà l’anno dopo, senza aver ricavato alcuna utilità dal ricovero al sanatorio di Nettuno. I luoghi che frequentò restano fra le nostre dita come una manciata di coriandoli fuori stagione: la tabaccheria di famiglia in Via del Corso, nella stessa strada dove lavorò all’ufficio della compagnia di assicurazioni La Prussiana; le chiese sperdute che amava visitare nei pomeriggi ombrosi e solitari: San Saba, Sant’Urbano, Santa Prassede, San Luca, la Ferratella a San Giovanni.
Ma come dimenticare il Dialogo di marionette, fra De Chirico e il Sogno di una notte di mezza estate, in cui vengono messi a confronto una piccola regina dal cuore di legno e il suo grazioso amico, nello scenario offerto dal balcone di cartapesta, mentre il re dorme? Alla richiesta di sciogliere i lunghi capelli d’oro, lei risponde: «Poeta! non vedete che i miei capelli sono di stoppa?». Lui, dopo qualche battuta, sentenzia: «Siete ironica… Addio!».
Forse un solo poeta può essere posto accanto a Sergio Corazzini: San Francesco. Quasi che nel fondo della semplicità giacesse il segreto di un’arte antica, la bottega artigiana da cui è uscito, come un volo di colombe dal cilindro, il verso novecentesco. È bello leggere i bigliettini che qualche spirito puro continua a depositare sotto i fiori della sua tomba: «Sergio mio, come vedi ogni tanto corro da te in cerca di conforto per la mia anima tormentata…» Così, mentre esco dalla necropoli, tornano a risuonare dentro di me gli ultimi memorabili versi della Morte di Tantalo, nel punto in cui il poeta, con piglio eroico, rompe le catene del tempo: «Andremo per la vita errando per sempre».
Il nonno di Sergio, Filippo Corazzini (sposato con Albina Pera), fu avvocato e funzionario della Dataria Pontificia. In qualità di avvocato, difese il Cardinal Lorenzo Nina, Segretario di Stato Pontificio sotto Papa Leone XIII, a seguito di rivalse di alcuni privati su alcuni beni confiscati dallo Stato all’ex collegio Sistino. Secondo il libro biografico su Sergio Corazzini di Filippo Donini, si disse che i Corazzini fossero imparentati (però non si hanno documenti a tal riguardo e il poeta pare non averne fatto mai menzione) con l’eroe carducciano Eduardo Corazzini, originario di Pieve Santo Stefano, morto per le ferite riportate durante la campagna romana nel 1867.
Per questo la famiglia Corazzini, che si dice romana e papalina, in realtà potrebbe avere origini toscane. Sergio, appartenente ad una famiglia minata dalla tubercolosi (la madre, Carolina Calamani, era cremonese), frequentò qualche anno di scuola elementare a Roma e in seguito, dal 1895 al 1898, si trasferì a Spoleto con il fratello Gualtiero e frequentò il Collegio Nazionale. Ma, a causa delle difficoltà finanziarie in cui si ritrovò la famiglia, il padre Enrico, dimessosi da impiegato al Registro della Dataria Pontificia, fu costretto a ritirare i figli dal collegio.
Sergio continuò il ginnasio a Roma, ma non poté frequentare il liceo perché dovette cercare lavoro presso una compagnia di assicurazioni, “La Prussiana”, per aiutare la famiglia. La compagnia di assicurazione aveva sede in una vecchia casa in via del Corso e la stanza di Sergio era buia e triste, con una finestra ad inferriate che dava sul cortile. Si possono trovare numerosi riferimenti a questo luogo nei versi di Soliloqui di un pazzo. Il passare da una vita agiata alla povertà, dovuta alle errate speculazioni in borsa e al libertinaggio del padre, cambiò completamente le condizioni spirituali del poeta che da questo momento non ebbe certo vita felice (la madre era ammalata di tisi, il fratello Gualtiero morirà della stessa malattia, il fratello Erberto perirà in un incidente d’auto in Libia e il padre morirà in un ospizio).
Amante delle lettere, Sergio non rinunciò tuttavia alla lettura dei suoi poeti preferiti, quelli contemporanei, non solo italiani (la triade Carducci, Pascoli e D’Annunzio), ma anche i provinciali francesi e fiamminghi come Francis Jammes, Albert Samain, Charles Guérin, Maurice Maeterlinck, Georges Rodenbach, Jules Laforgue, e quelli dialettali. Le sue intense letture lo aiutarono nel suo esordio poetico e i suoi primi componimenti apparvero su giornali popolareschi.
Il 17 maggio 1902 scriverà il suo primo sonetto, Na bella idea, in romanesco pubblicato in “Pasquino de Roma” al quale seguirà, il 14 settembre 1902, il sonetto di settenari in lingua, Partenza, pubblicato sul “Rugantino” e dai versi liberi, La tipografia abbandonata, usciti su “Marforio”. Si trattava di versi dai temi realistici che rivelavano, nel giovanissimo autore, una precoce predisposizione ad osservare i fatti della vita. Si trovano in essi allusioni alla malattia già latente e in un sonetto del 1906, Vinto, vi sono amare riflessioni sulla perdita della felicità.
Gli ultimi anni di vita
Nella primavera del 1905 la precaria salute del giovane poeta, malato di tubercolosi, lo costrinse a soggiornare in un sanatorio a Nocera Umbra dove conobbe una giovane danese, Sania, per la quale provò un intenso e platonico innamoramento. Nel giugno dello stesso anno il poeta si recò a Cremona, città natale della madre, per cercare un aiuto economico dai parenti materni e conobbe una giovane pasticciera con la quale inizierà una breve corrispondenza epistolare. Tra il 1904 e il 1906 furono pubblicate le sue raccolte poetiche: Dolcezze (1904), L’amaro calice (1905), Le aureole (1906), Piccolo libro inutile (1906), Elegia (1906), Libro per la sera della domenica (1906).
Nel 1906 Corazzini, per l’aggravarsi della malattia, venne ricoverato nella casa dei Fatebenefratelli di Nettuno. Dal sanatorio iniziò la corrispondenza con Aldo Palazzeschi e lavorò alla traduzione della Semiramide di Joséphin Péladan che veniva annunciata su “Vita letteraria” come opera di collaborazione con G. Milelli. Nel maggio del 1907 Corazzini ritornò a Roma ma il suo stato di salute peggiorò e il 17 giugno morì di etisia (tubercolosi) nella sua casa di via dei Sediari. È sepolto presso il Cimitero del Verano di Roma.
Poetica
Il crepuscolarismo di Corazzini, che adotta il verso libero e si mostra sensibile alla lezione simbolista, ha anche un forte valore di proposta esistenziale; il poeta si presenta come un fanciullo malato, fino a negare, paradossalmente, il significato di poesia alla sua povera scrittura dell’anima. La sua poesia è focalizzata su “piccole cose”, dietro le quali non emergono valori segreti, ma si nasconde il vuoto, tipico dei poeti crepuscolari tra i quali Corazzini fu annoverato. I suoi versi esprimono da un lato un malinconico desiderio per quella vita che la malattia gli negava, dall’altro un nostalgico ritrarsi dall’esistenza presente, proprio perché avara di prospettive future.
Nelle poesie di Corazzini si possono cogliere due momenti: quello del povero poeta sentimentale che racconta la propria malinconia con un linguaggio semplice e dimesso e quello del poeta ironico che adotta un linguaggio meno trasparente, più polisemico, a volte addirittura simbolico.
In Desolazione del povero poeta sentimentale si esprime tutta la poetica di Corazzini dove il “piccolo fanciullo che piange” proclama l’impossibilità di essere chiamato “poeta”, affermando così, per la prima volta, la concezione della poetica crepuscolare così in contrasto con il trionfante dannunzianesimo.
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Edipo re (in greco antico: Οἰδίπoυς τύραννoς, Oidípūs týrannos) è una tragedia di Sofocle-
Edipo re (in greco antico: Οἰδίπoυς τύραννoς, Oidípūs týrannos) è una tragedia di Sofocle, ritenuta il suo capolavoro nonché il più paradigmatico esempio dei meccanismi della tragedia greca.La data esatta di rappresentazione è ignota ma si ipotizza che possa collocarsi al centro dell’attività artistica del tragediografo (430–420 a.C. circa).
Edipo re
Trama
L’opera si inserisce nel cosiddetto ciclo tebano, ossia la storia in chiave mitologica della città di Tebe, e narra come Edipo, re carismatico e amato dal suo popolo, nel breve volgere di un solo giorno venga a conoscere l’orrenda verità sul suo passato: senza saperlo ha infatti ucciso il proprio padre per poi generare figli con la propria madre. Sconvolto da queste rivelazioni, che fanno di lui un uomo maledetto dagli dei, Edipo reagisce accecandosi, perde il titolo di re di Tebe e chiede di andare in esilio.
Prologo (vv. 1-150): Edipo è impegnato a debellare una pestilenza che tormenta Tebe, la sua città, mentre una folla supplicante si pone attorno a lui per chiedergli di salvarli dalla fame e dal contagio; Edipo, sovrano illuminato e sollecito verso il proprio popolo, afferma di aver già mandato Creonte, fratello della regina, ad interrogare l’oracolo di Delfi sulle cause dell’epidemia. Al suo ritorno Creonte rivela che la città è contaminata dall’uccisione di Laio, il precedente re di Tebe, che è rimasta impunita: il suo assassino vive ancora in città e finché questi non sarà identificato e esiliato o ucciso, la pace e la prosperità non potranno tornare. Edipo chiede altre informazioni a Creonte, il quale continua dicendo che al tempo in cui la città era sotto l’incubo della Sfinge, Laio stava andando a Delfi quando, lungo la strada, fu assalito da dei briganti dai quali, secondo il racconto di un testimone, fu ucciso.
Parodo (vv. 151-215): entra il coro di anziani tebani cantando una preghiera agli dei perché intervengano a protezione della città.
Primo episodio (vv. 216-462): Edipo proclama un bando che prevede l’esilio per l’uccisore di Laio e per chi lo protegga o lo nasconda; il re convoca inoltre Tiresia, l’indovino cieco, perché sveli l’identità dell’assassino. Egli però rifiuta di rispondere, considerando più saggio tacere per non richiamare altre sventure: Edipo tuttavia si adira e intima a Tiresia di parlare. Il vecchio non si decide e la collera del re aumenta; allora Tiresia risponde accusando Edipo di essere l’autore dell’omicidio. Il re è indignato e comincia a sospettare che Creonte e Tiresia abbiano ordito un piano per detronizzarlo. L’indovino quindi si allontana profetizzando che entro la fine di quel giorno il colpevole sarà scoperto e se ne andrà mendico e cieco in terra straniera.
Primo stasimo (vv. 463-511): il coro dapprima immagina la fuga del colpevole, braccato tanto dagli uomini quanto da Apollo e dalle Keres (dee simbolo del fato avverso), per poi decidere di non dare credito alle parole di Tiresia: nemmeno il grande indovino è infallibile.
Edipo re
L’attore Albert Greiner interpreta Edipo (1896)
Secondo episodio (vv. 512-862): Creonte chiede se sia vero che Edipo lo crede colpevole di cospirazione. Quest’ultimo lo accusa apertamente con toni sempre più accesi: Creonte non si trovava infatti a Tebe, insieme a Tiresia, quando Laio fu ucciso? Creonte gli risponde pacatamente di non avere interesse al trono e nel mentre interviene Giocasta, vedova di Laio e ora moglie di Edipo, per mettere pace tra i due. Ella invita il marito a non dare ascolto a nessun oracolo e a nessun indovino: anche a Laio era stata fatta una profezia secondo la quale sarebbe stato ucciso dal figlio, mentre ad ucciderlo erano stati alcuni banditi sulla strada per Delfi, là dove si incontrano tre strade. A sentire le parole di Giocasta, Edipo resta turbato e chiede di convocare il testimone di quell’omicidio. La regina chiede al marito il motivo del suo turbamento, così Edipo comincia a raccontare: da giovane era principe ereditario di Corinto, figlio del re Polibo, e un giorno l’oracolo di Delfi gli predisse che avrebbe ucciso il proprio padre e sposato la propria madre. Sconvolto da quella profezia, per evitare che essa potesse avverarsi Edipo aveva deciso di fuggire, ma sulla strada tra Delfi e Tebe, in un punto dove si uniscono tre strade, aveva avuto un alterco con un uomo e l’aveva ucciso. Se quell’uomo fosse stato Laio? Il coro tuttavia lo invita a non trarre conclusioni affrettate e a sentire prima il testimone dell’omicidio.
Secondo stasimo (vv. 863-910): il coro è turbato dall’incredulità di Giocasta davanti agli oracoli e lancia un ammonimento contro chi pretende di violare le leggi eterne degli dei: quando gli uomini non riconoscono più la giustizia divina e procedono con superbia (“hybris”), lì si cela la tirannide[2].
Terzo episodio (vv. 911-1085): giunge un messo da Corinto che informa che re Polibo è morto. Edipo è rassicurato da quelle parole perché suo padre non è morto per mano sua. Rimane la parte della profezia riguardante sua madre, così Edipo chiede notizie di lei: il messo, per rassicurarlo pienamente, gli dice che non c’è pericolo che egli possa generare figli con la propria madre poiché i sovrani di Corinto non sono i suoi genitori naturali, in quanto Edipo era stato adottato. Il messo può testimoniarlo con certezza perché un tempo faceva il pastore sul monte Citerone e era stato proprio lui a ricevere un Edipo neonato da un servo della casa di Laio e a portarlo a Corinto. A questo punto Edipo si vede vicino alla scoperta delle proprie origini e ordina che sia convocato il servo di Laio; Giocasta, invece, ha ormai capito tutta la verità e supplica Edipo di non andare avanti con le ricerche, ma non viene ascoltata.
Terzo stasimo (vv. 1086-1109): il coro esulta perché Edipo è ormai vicino a conoscere le proprie origini ed esalta il Citerone come patria e nutrice di Edipo stesso[3].
Quarto episodio (vv. 1110-1185): arriva il servo di Laio, che Edipo attende con tanta impazienza. Tempestato di domande, il servo innanzitutto cerca di dissuadere Edipo dal continuare a interrogarlo, ma quest’ultimo ormai vuole ascoltare tutta la verità. Il servo allora conferma che aveva ricevuto il bambino (che era figlio di Laio) con l’ordine di ucciderlo in quanto, secondo una profezia, il piccolo avrebbe ucciso il padre. Tuttavia, per pietà, il servo non l’aveva ucciso e l’aveva invece consegnato al pastore, che l’aveva portato a Corinto. A questo punto l’intera vicenda è chiarita e, al colmo dell’orrore, Edipo rientra nel suo palazzo gridando: «Luce, che io ti veda ora per l’ultima volta»[4].
Quarto stasimo (vv. 1186-1222): gli anziani tebani che costituiscono il coro compiangono la sorte di Edipo, re stimato da tutti, che in breve si è scoperto autore involontario di atti orribili. I tebani vorrebbero non averlo mai conosciuto tanto è l’orrore e, al tempo stesso, la pietà che la sua vicenda suscita in loro.
Edipo bambino viene nutrito da un pastore (scultura di Antoine-Denis Chaudet, 1810, Museo del Louvre)
Esodo (vv. 1223-1530): un messo esce dal palazzo di Edipo e annuncia disperato che Giocasta si è impiccata e che Edipo, appena l’ha vista, si è accecato con la fibbia della veste di lei. In quel momento appare Edipo accompagnato da un canto pietoso del coro, che afferma di aver compiuto quell’atto perché nulla ormai, a lui che è maledetto, può più essere dolce vedere. In quel momento arriva Creonte, che di fronte alla disperazione di Edipo lo esorta ad avere fiducia in Apollo. Edipo abbraccia quindi le sue figlie Antigone e Ismene compiangendole perché esse, figlie di nozze incestuose, saranno sicuramente emarginate dalla vita sociale. Infine chiede a Creonte di essere esiliato in quanto uomo in odio agli dei.
Roberto Carnero -Pier Paolo Pasolini. Morire per le idee
Descrizione del libro di Roberto Carnero-Le opere di Pier Paolo Pasolini (dalla poesia alla narrativa, dal teatro al cinema, dal giornalismo alla critica letteraria) vanno lette come un tutt’uno, in cui le diverse fasi di un lavoro artistico articolato si intersecano continuamente in un discorso creativo in costante evoluzione. Roberto Carnero indaga questa “opera totale” senza scinderne i vari generi, ma riportando le molteplici esperienze alla coerenza di un percorso artistico unitario. In particolare vengono scanditi in modo lineare i grandi temi pasoliniani: la giovinezza in Friuli, la vocazione poetica e la scoperta dell’omosessualità; il contrastato rapporto con la religione e con la politica; la scoperta del sottoproletariato romano negli anni cinquanta; la nostalgia del passato e la fuga verso un impossibile altrove spazio-temporale; la fase apocalittica degli ultimi anni, prima di una morte tragica ancora avvolta nel mistero.
Roberto Carnero
L’Autore–Roberto Carnero insegna Letteratura italiana all’Università di Bologna, presso il Dipartimento di Interpretazione e Traduzione (Campus di Forlì). Critico letterario ed editorialista per varie testate, tra cui “Avvenire”, “Il Piccolo” e “Famiglia Cristiana”, per Bompiani è autore dei saggi Pasolini. Morire per le idee, Il bel viaggio. Insegnare letteratura alla Generazione Z e Lo scrittore giovane. Pier Vittorio Tondelli e la nuova narrativa italiana. Presso Giunti TVP – Treccani ha pubblicato con Giuseppe Iannaccone una fortunata storia e antologia della letteratura italiana per le scuole superiori, la cui nuova editio maior si intitola Il magnifico viaggio.
Pier Paolo Pasolini– nasce a Bologna il 5 marzo 1922. Poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo, giornalista, è uno dei maggiori artisti e intellettuali italiani. Dotato di un’eccezionale versatilità culturale, si distinse in numerosi campi, lasciando contributi come cineasta, pittore, romanziere, linguista, traduttore e saggista non solo in lingua italiana, ma anche friulana. Attento osservatore dei cambiamenti della società italiana dal secondo dopoguerra sino alla metà degli anni Settanta, suscitò spesso forti polemiche e accesi dibattiti per la radicalità dei suoi giudizi, assai critici nei riguardi delle abitudini borghesi e della nascente società dei consumi, come anche nei confronti del Sessantotto e dei suoi protagonisti. Il suo rapporto con la propria omosessualità è stato al centro del suo personaggio pubblico. Semplicemente un grande classico del Novecento.
Pasolini. Morire per le idee
Pier Paolo Pasolini, poeta della contraddizione
Il critico letterario Guido Davico Bonino racconta il poeta Pasolini e la sua complessità dovuta proprio alle sue molte contraddizioni umane e artistiche. Luciano Virgilio legge un testo giovanile di Pasolini, “En lenga furlana”, e alcune poesie estratte da “La meglio gioventù”, “Mi contenti” (traduzione “Mi accontento”); da “L`usignolo della Chiesa Cattolica”: “Carne e cielo”; da “Poesie inedite”: “Correvo nel crepuscolo fangoso”; da “Le ceneri di Gramsci”: “Il pianto della scavatrice” (parte II); da “Poesia in forma di rosa”: “Frammento epistolare, al ragazzo di Codignola”. Un percorso attraverso lo sfogo commosso e la confessione dolorosa tipici della poetica pasoliniana.La personalità, il pensiero e la creatività di Pasolini, figlio della maestra casarsese Susanna Colussi, animò geniali esperimenti didattici alternativi che gli valsero l’appellativo di “maestro mirabile”. La prima scuola fu aperta con la madre a Versuta, in provincia di Pordenone, nell’ottobre del 1944. Nel villaggio mancava la scuola e i ragazzi dovevano percorrere più di un chilometro per raggiungere la loro sede scolastica, Susanna e Pierpaolo decidono così usare la loro casa come scuola gratuita. Poi arriva l’incarico ufficiale: per due anni, dal 1947 al 1949, a Pasolini è affidato l’incarico di insegnare materie letterarie alla prima media della scuola di Valvasone, che raggiungeva ogni mattina in bicicletta. Denunciato per corruzione di minore e atti osceni in luogo pubblico, perde la cattedra e viene espulso dal PCI di Udine. Nel 1950 è a Roma e riesce a ottenere un posto di insegnante presso una scuola media di Ciampino, dove insegnerà fino al 1953. Il didatta Pasolini rimane sempre in prima linea, nel fuoco di una militanza pedagogica tanto dolcemente affettuosa verso il popolo e i suoi giovani figli, quanto implacabilmente violenta contro la borghesia neocapitalistica, imputata dell’imposizione totalitaria di modelli mercantili e edonistici. Un “pedagogo di massa”, lucido e combattivo anche nel disperato periodo corsaro degli anni Settanta. Dice Vincenzo Cerami: “Anche la sua saggistica aveva un fondo pedagogico, la sua era un’ispirazione filologica, una spinta all’indagine”.
Pasolini uomo contro
Pasolini si è sempre distinto per l’indipendenza del pensiero, caratteristica che lo ha portato ad essere osteggiato continuamente da fronti diversi. Fanno molto scalpore, ad esempio, le sue dichiarazioni a seguito dei fatti di Valle Giulia del 1968, i suoi giudizi sulla televisione e le sue personali letture del Vangelo. Quando nel 1968 presenta il film “Teorema” alla mostra del cinema di Venezia le reazioni sono violente. La Procura di Roma sequestra il film “per oscenità e per le diverse scene di amplessi carnali alcune delle quali particolarmente lascive e libidinose e per i rapporti omosessuali tra un ospite e un membro della famiglia che lo ospitava”. Poco dopo la Procura di Genova mette al bando il film con un analogo provvedimento. Il processo contro Pasolini e il produttore Donato Leoni si apre il 9 novembre 1968 con l’escussione del regista. Il Pubblico Ministero Luigi Weiss chiede la reclusione di sei mesi di entrambi gli imputati e la distruzione integrale dell’opera. Il 23 novembre 1968, dopo un’ora di camera di consiglio, il Tribunale di Venezia assolve Pasolini e Leoni dall’accusa di oscenità annullando il bando del film con la seguente sentenza: “Lo sconvolgimento che Teorema provoca non è affatto di tipo sessuale, è essenzialmente ideologico e mistico. Trattandosi incontestabilmente di un’opera d’arte, Teorema non può essere sospettato di oscenità”.
Pasolini uomo di fede
In primo piano le origini di Pasolini: la religiosità popolare che incontra il comunismo, il fascino esercitato dalla figura di Gesù di Nazareth che lo porta, nel 1963, a un lungo viaggio in Palestina e, poi, al film “Il Vangelo secondo Matteo”. Anche in altri film affronta le tematiche religiose e progetta una pellicola dedicata a san Paolo, rimasta solo sulla carta.
I giudizi su di lui sono contrastanti: da una parte papa Giovanni XXIII “benedice” il Vangelo secondo Matteo, dall’altra Pasolini viene processato, e assolto, per vilipendio alla religione dopo il cortometraggio “La ricotta”. Ma a chi lo accusa di offendere la fede, Pasolini risponde che il vero nemico della religione è un altro: il consumismo. Anche se si rende conto che questa è una battaglia persa. L TEMPO e LA STORIA”
Comunista, ateo, anarchico. Eppure religiosissimo. Una contraddizione apparente, in uno dei più complessi e trasgressivi intellettuali italiani: Pier Paolo Pasolini raccontato dal professor Alberto Melloni.
La morte
Nella notte tra il 1º novembre e il 2 novembre 1975 Pasolini fu ucciso in maniera brutale: percosso e travolto dalla sua stessa auto sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia, vicino Roma. Il cadavere massacrato venne ritrovato da una donna alle 6:30 circa. Sarà l’amico Ninetto Davoli a riconoscerlo. L’omicidio fu commesso da un “ragazzo di vita”, Pino Pelosi di Guidonia, di diciassette anni, già noto alla polizia come ladro di auto, fermato la notte stessa alla guida dell’auto di Pasolini. Pelosi affermò di essere stato avvicinato da Pasolini nelle vicinanze della Stazione Termini, presso il Bar Gambrinus di Piazza dei Cinquecento, e da questi invitato sulla sua vettura, dietro la promessa di un compenso in denaro.
Dopo una cena offerta dallo scrittore, nella trattoria Biondo Tevere nei pressi della Basilica di San Paolo, i due si diressero alla periferia di Ostia. Secondo le carte processuali la tragedia sarebbe scaturita a seguito di una lite per pretese sessuali di Pasolini alle quali Pelosi era riluttante, degenerata in un alterco fuori dalla vettura. Il giovane sarebbe stato minacciato con un bastone del quale si sarebbe impadronito per percuotere Pasolini fino a farlo stramazzare al suolo. Quindi, salito a bordo dell’auto dello scrittore, l’avrebbe travolto più volte con le ruote, sfondandogli la cassa toracica e provocandone la morte.
Pelosi venne condannato in primo grado per omicidio volontario in concorso con ignoti. Il 4 dicembre 1976 la Corte d’Appello, pur confermando la condanna dell’unico imputato, riformava parzialmente la sentenza di primo grado escludendo ogni riferimento al concorso di altre persone nell’omicidio. Dopo aver mantenuto invariata la sua assunzione di colpevolezza per trent’anni, nel corso di un’intervista televisiva nel maggio 2005, Pelosi ha affermato a sorpresa di non essere l’esecutore materiale del delitto e che l’omicidio era stato commesso da altre tre persone, giunte su una autovettura targata Catania, che a suo dire parlavano con accento “calabrese o siciliano”.
Molti intellettuali e amici dello scrittore (da Laura Betti a Oriana Fallaci, da Enzo Siciliano a Sergio Citti) hanno avanzato dubbi sulla ricostruzione del delitto. Il 22 marzo 2010 Walter Veltroni ha scritto all’allora Ministro della Giustizia Angelino Alfano una lettera aperta, pubblicata sul Corriere della sera, chiedendogli la riapertura del caso e sottolineando che Pasolini è morto negli anni ’70, “anni cui si facevano stragi e si ordivano trame”. Il 1º aprile del 2010 l’avvocato Stefano Maccioni e la criminologa Simona Ruffini hanno raccolto la dichiarazione di un nuovo testimone che ha aperto indagini che sono state definitivamente archiviate all’inizio del 2015. Le nuove indagini non hanno portato infatti a nulla di nuovo rispetto alla sentenza, se non ad alcune tracce di Dna sui vestiti dello scrittore. Tracce però di impossibile attribuzione e impossibili da collocare temporalmente.
Tarquinia (VT): nella necropoli etrusca del sito Unesco scoperta nuova tomba dipinta
Tarquinia-Straordinaria scoperta nel sito Unesco di Tarquinia nella necropoli etrusca, dove gli archeologi hanno ritrovato una nuova tomba a camera dipinta: le pitture sulle pareti mostrano scene di danza e di officina. La scoperta risale alla fine del 2022, anche se è stata comunicata dalla Soprintendenza di Viterbo soltanto in queste ore. Tutto comincia nel corso di un’ispezione della Soprintendenza a seguito dell’apertura di alcune cavità nel terreno: l’eccezionale scoperta è avvenuta nella necropoli etrusca dei Monterozzi, vicino a Tarquinia, dove gli archeospeleologi, esplorando quelle cavità, hanno confermato che si trattava di sepolcri già visitati da scavatori clandestini in passato. Tuttavia, una delle tombe celava un segreto ancora intatto: il crollo di una parete aveva rivelato una camera funeraria più profonda, decorata con scene dipinte dai colori straordinariamente vividi.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Questa nuova tomba, catalogata con il numero 6438, è stata dedicata alla memoria di Franco Adamo, rinomato restauratore delle tombe dipinte di Tarquinia, scomparso nel maggio 2022. Il ritrovamento rappresenta un evento di grande rilievo per l’archeologia etrusca, riportando alla luce uno spaccato di vita e cultura di oltre duemila anni fa.
La scoperta è frutto del lavoro della Soprintendenza di Viterbo e dell’Etruria Meridionale, e in particolare degli archeologi Daniele F. Maras e Rossella Zaccagnini del Ministero della Cultura, assieme ai collaboratori esterni Gloria Adinolfi e Rodolfo Carmagnola, mentre lo scavo è stato condotto da Archeomatica s.r.l.s., e il restauro delle superfici da Adele Cecchini e Mariangela Santella. A.S.S.O. si è invece occupata delle operazioni di archeospeologia.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Un delicato lavoro di scavo e messa in sicurezza
Per evitare che il sito venisse compromesso da tombaroli o da visitatori imprudenti, la Soprintendenza ha mantenuto il massimo riserbo sulle operazioni di scavo Grazie a un finanziamento straordinario del Ministero della Cultura, gli archeologi hanno potuto condurre un intervento meticoloso per mettere in sicurezza la tomba e preservarne il delicato equilibrio: per queste ragioni, oltre che per studiare quanto riemerso, la notizia è stata comunicata due anni dopo l’effettivo ritrovamento.
“Dopo aver ripristinato l’accesso alla camera funeraria”, spiega Daniele F. Maras, il funzionario archeologo responsabile della scoperta, oggi direttore del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, “e una volta installata una porta metallica, lo scavo archeologico ha dimostrato che tutto il materiale raccolto non apparteneva al corredo della tomba dipinta, che risale alla metà del V secolo a.C., ma era franato da quella superiore, più antica di oltre un secolo, della fine dell’epoca Orientalizzante”.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Una stratificazione complessa tra storia e natura
L’indagine archeologica ha rivelato una situazione unica e complessa. La tomba dipinta era stata scavata in profondità sotto una sepoltura preesistente. In epoca antica, ladri di tombe erano riusciti a penetrare nel sepolcro forando il lastrone di chiusura, saccheggiando il corredo originario. Successivamente, il crollo della camera superiore ha portato con sé detriti e oggetti, mescolandoli ai resti della tomba inferiore.
Di ciò che un tempo costituiva il corredo funerario della tomba dipinta restano solo pochi frammenti di ceramica attica a figure rosse, testimonianza del pregio degli oggetti deposti con il defunto. Tuttavia, il vero tesoro del ritrovamento è rappresentato dagli affreschi che decorano le pareti della camera funeraria.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Scene di danza e di officina: un’iconografia senza precedenti
Le pitture parietali, ancora in fase di restauro, offrono uno spaccato unico della cultura etrusca. La parete sinistra è animata da una danza frenetica: uomini e donne si muovono in cerchio attorno a un elegante flautista, in una scena che esprime la vitalità e il gusto per la celebrazione tipici del popolo etrusco.
Sulla parete di fondo, invece, emergono le figure di una donna – forse la defunta – e due giovani, ma parte della decorazione è andata irrimediabilmente perduta a causa di un crollo. Ancora più enigmatica è la parete destra, dove affiora un’officina metallurgica in attività. Gli studiosi ipotizzano che possa rappresentare il mitico laboratorio del dio Sethlans (equivalente etrusco di Efesto), oppure un’officina reale appartenente alla famiglia sepolta.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Restauro e tecnologie avanzate per riportare i colori alla luce
Gli interventi di restauro sono ancora in corso e richiedono estrema precisione. “Il livello straordinario delle pitture”, commenta con soddisfazione la soprintendente Margherita Eichberg, “è evidente già nel primo tassello di restauro, operato da Adele Cecchini e Mariangela Santella, che mette in luce la raffinatezza dei dettagli delle figure del flautista e di uno dei danzatori”. E aggiunge Daniele Maras: “Da decenni, questa è la prima nuova tomba dipinta con fregio figurato che viene scoperta a Tarquinia e si preannuncia molto intrigante per la sua storia, per il livello artistico e per alcune delle scene rappresentate, uniche nel loro genere”.
Il progetto di conservazione prevede la costruzione di una struttura protettiva intorno alla tomba, dotata di una porta a taglio termico per garantire condizioni climatiche ottimali. Inoltre, gli archeologi stanno applicando tecnologie avanzate di imaging multispettrale per recuperare i colori scomparsi dei pigmenti antichi. I primi test hanno già dato risultati sorprendenti, restituendo nuova luce a queste straordinarie testimonianze dell’arte funeraria etrusca.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Verso un futuro di studi e accessibilità pubblica
Mentre il restauro procede, gli archeologi continuano a studiare il materiale raccolto per comprendere meglio il contesto storico e sociale della tomba. L’obiettivo a lungo termine è quello di rendere il sito accessibile al pubblico, permettendo di ammirare da vicino questa straordinaria testimonianza dell’arte e della cultura etrusca.
Il ritrovamento della tomba n. 6438 non è solo una grande scoperta per l’archeologia italiana, ma un tassello fondamentale per riscoprire l’identità di un popolo che, attraverso la bellezza delle sue pitture funerarie, continua a raccontare la propria storia a distanza di millenni.
Ancona-L’Anfiteatro romano entra nella rete dei Musei Italiani.- Soprintendenza Archeologia delle Marche-
Ancona-L’Anfiteatro romano
L’Anfiteatro romano di Ancona entra ufficialmente a far parte della rete nazionale dei Musei Italiani, sotto la gestione della Direzione regionale Musei delle Marche, guidata da Luigi Gallo. L’anfiteatro sarà aperto al pubblico a partire dalla metà di aprile, per offrire ai visitatori un’ulteriore opportunità di scoprire il patrimonio storico della città. Grazie alla possibilità di combinare la visita al Museo Archeologico Nazionale delle Marche con l’Anfiteatro, il pubblico potrà così vivere un’esperienza immersiva nel fascino del mondo antico.
La Direzione Musei ha l’obiettivo di garantire un programma di aperture settimanali all’anfiteatro a partire da metà aprile, per rendere accessibile l’area archeologica più significativa del capoluogo marchigiano.
“Nel corso degli ultimi anni”, ha dichiarato Luigi Gallo, “la Direzione Regionale Musei Nazionali Marche ha posto particolare cura nella valorizzazione delle sedi espositive e delle collezioni in esse contenute, intreccio di vicende e opere che contribuiscono in modo rilevante alla storia del patrimonio e dell’identità regionale. L’Anfiteatro romano è un importante tassello di questo percorso e restituisce ai cittadini e ai visitatori di Ancona lo spaccato di un periodo cruciale della storia della città Dorica; un lavoro che proseguirà nel corso dei prossimi mesi con l’elaborazione di un ampio progetto di restauro e valorizzazione del monumento antico, rendendo accessibili tutte le sue particelle, per offrire una visione quanto più completa e stratificata della città resa ulteriormente possibile dalla prossimità con il Museo Archeologico nazionale, dove poco più di un anno fa è tornata visibile una rinnovata sezione museale dedicata all’età romana”.
Anfiteatro romano di Ancona-
L’anfiteatro romano è stato realizzato nel periodo augusteo (fine I sec. a.C. – inizi I sec. d.C.) sulla sella collinare che sovrasta il porto e la città antica di Ancona; la morfologia del pendio ha condizionato la forma dell’ellisse non perfettamente regolare con asse maggiore che misura circa 93 metri (corrispondenti alla misura romana di mezzo stadio), l’asse minore di 74 metri (cento gradus) e l’arena di 52 metri (un actus e mezzo). La cavea, sviluppata su oltre venti gradinate disposte su tre ordini, poggiava in parte sulla roccia marnosa – tagliata per accogliere la struttura – e in parte su volte cementizie costruite in elevato.
Ancona-L’Anfiteatro romano
Si può calcolare che l’anfiteatro potesse accogliere fino a 10.000 spettatori e ciò suggerisce che l’edificio fosse destinato sia all’utenza cittadina sia a quella del contado, se non anche delle cittàromane più vicine. Le tecniche costruttive dell’anfiteatro di Ancona sono molteplici, spesso in mescolanza tra loro, a
testimoniare sia alcuni “ripensamenti” in corso d’opera, sia fasi edilizie successive. Dopo l’abbandono in età tardo antica (IV d.C.), venne utilizzato come cava di materiali e, a partire dal XIII secolo, come base per nuove costruzioni che ne hanno nascosto la struttura. L’arco di ingresso ingloba, probabilmente, la porta monumentale di accesso all’acropoli di epoca greca che, anche per la sua valenza culturale, fu gelosamente conservata dall’architetto di età augustea.
Adiacente all’anfiteatro è stato scavato parte di un complesso termale – un vasto ambiente (frigidario) con vasca rivestita di lastre di marmoree, pavimento a mosaico con iscrizione che menziona i duo viri della colonia augustea, da poco costituita, e pareti affrescate, e altri ambienti con resti del sistema di riscaldamento termale, eretti sopra un precedente lastricato stradale. Il rifugio Birarelli – rifugio antiaereo del carcere di santa Palazia (o “tunnel della morte “), fu costruito nei primi anni Quaranta dai detenuti del carcere. Concepito a protezione degli stessi detenuti, oltre che del personale del carcere, il rifugio fu un realtà aperto anche alla cittadinanza, e in particolare agli abitanti del quartiere Guasco – San Pietro; per questo era diviso in due parti da un piccola porta che separava i detenuti dalla popolazione. Durante il bombardamento della novembre 1943 il rifugio fu colpito da quattro bombe sganciate da bombardieri dell’Aviazione dell’esercito degli Sati Uniti, almeno due delle quali ebbero effetti sulle circa mille persone che in quel momento si trovavano all’interno, inclusi molti bambini e le orfànelle dell’Istituto Birarelli: i morti furono più di settecento (mai nella storia della guerra aerea si sono contate tante vittime civili in seguito a un bombardamento su un rifugio anti aereo). Il tunnel è stato riaperto nel novembre del 2013, a settanta anni da quei fatti, e al suo interno contiene anche preziose testimonianze di età romana.
ORARI: Segreteria Soprintendenza Archeologia delle Marche tel.071 50298202 -dal lunedi al venerdi ore 10.00-12.00 Prenotazioni per Gruppi superiori alle 20 unità
Luigi Ganapini- Giorni di tarda estate.Guerra civile nell’Italia del duce
Descrizione del libro di Luigi Ganapini- BFS Edizioni-L’autore ritorna su uno dei suoi argomenti di ricerca privilegiati: la guerra civile che ha interessato l’Italia tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945. Le seguenti citazioni chiariscono quali sono gli obiettivi della ricerca: «Il nostro compito odierno è quello di distruggere la capacità della tirannide di continuare a tenere in catene vittime e testimoni molto dopo che la prigione è stata smantellata» (Z. Bauman). «Nessuna sindrome può veramente essere strappata alla sua tragica fissità se prima non spingiamo l’immaginazione dentro il suo cuore» (J. Hillman). L’immaginazione di cui si parla non è tuttavia sinonimo di fantasia o invenzione, ma si riferisce all’uso di una narrazione più “umana”, meno arida, capace di far intuire i moti dell’anima. Ampio è il ricorso a testimonianze – scritte o orali, coeve ai fatti o rilasciate a posteriori – capaci di evocare esperienze di vita e stati d’animo illuminanti la realtà di quel conflitto, spesso intrecciato alla vita ordinaria di un popolo. Lo studioso di storia, qual è l’autore, affianca a ciò il riscontro puntuale con le fonti, l’attenzione per ogni sfumatura rivelatrice, il rispetto per il senso di ciò che ha rintracciato.
Poesie di Iya Kiva-poetessa ucraina, “La guerra è sempre seduta su tutte le sedie” -Editrice La Vita Felice-
Iya Kiva è una poetessa ucraina, traduttrice, membro di Pen Ukraine. Nata nel 1984 a Donetsk, si è trasferita a Kyiv nel 2014 a causa della guerra russo-ucraina. Autrice delle raccolte di poesie Подальше от рая (Più lontano dal paradiso, 2018), Перша сторінка зими (La prima pagina dell’inverno, 2019), Сміх згаслої ватри (La risata del falò estinto, 2023), nonché dei libri di interviste con autori bielorussi Ми прокинемось іншими: розмови з сучасними білоруськими письменниками про минуле, теперішнє і майбутнє Білорусі (Ci sveglieremo diversi: Conversazioni con scrittori bielorussi contemporanei su passato, presente e futuro della Bielorussia, 2021), dedicato alle proteste del 2020-2021 in Bielorussia. Le sue poesie sono state tradotte in oltre 30 lingue. Nel 2022, la sua raccolta di poesie Свидетел на безименност (Testimone dell’anonimia) è stata pubblicata in bulgaro (trad. Denis Olegov) e un’altra raccolta di poesie Чорні ружі часу/Czarne róże czasu (Le rose nere del tempo) è stata pubblicata in polacco (trad. Aneta Kaminska). Traduce poesia polacca e bielorussa; come traduttrice e redattrice di libri per l’infanzia dall’inglese collabora con il progetto “PJ Library” in Ucraina. Ha partecipato al programma Gaude Polonia Fellowship del Ministro della Cultura polacco (2021), è stata borsista dell’International Writing Program (2023, Usa) e altri. È entrata nella rosa dei candidati per il premio 2024 “Donne nelle arti: La resistenza” promosso dall’Ente delle Nazioni Unite Donne: Ucraina. Attualmente vive a Leopoli.
Iya Kiva-poetessa ucraina
Poesie diIya Kiva-Traduzione dall’ucraino di Yulia Chernyshova e Pina Piccolo
il mio paese ora somiglia a un ghetto
dal perimetro circondato di sangue di grida di pianto
(storto e di fretta — come al buio si tracciano le labbra con un rossetto unto)
dove tutti i pensieri tutte le parole persino il silenzio sono soffocati dal cuscino della censura:
la guerra della guerra alla guerra dalla guerra nella guerra
(declinare questa unica parola — ancora e ancora e ancora una volta —
ora per gli scrittori ucraini questo è il lavoro del cuore)
la frontiera di questo ghetto è trasparente come il moto dei rondoni:
puoi entrarci uscirne ed entrarci di nuovo
è come infilare le dita nel guanto di un altro
puoi serrare le palpebre e giocare a nascondino con la guerra
sapendo in anticipo che (ti trufferà e) vincerà
ma tutti questi esercizi sono ginnastica per chi ha l’immaginazione invecchiata
il tuo corpo non lascia mai il luogo di residenza —
quel nulla bombardato all’infinito dalla furia —
e il tuo passaporto con quell’uccello dorato di tridente
ti consente di muoverti per il portone mezzo illuminato della storia
ma non ti dispensa dalla guerra nel tuo sangue nella tua urina nella saliva nelle lacrime
come Sisifo gli abitanti di questo ghetto rigirano la morte nella bocca
rompendo i denti e persino le loro radici
ma neppure a quel punto si fermano — muovono con la lingua ciò che è rimasto
anche se che cosa di preciso (e quanto ancora) sia rimasto nessuno lo sa
simile al buco della serratura è il tempo in questo ghetto — stare davanti e guardare
come la luce sfonda le porte del futuro raggricciandoci come un bruco —
un monumento alla stanchezza il diritto ad un lungo protrarsi un’inquietante tenacia
ma la spensieratezza di risate sincere non passa attraverso la toppa —
al massimo penetra come un’ombra come l’umorismo nero della memoria
nel ghetto c’è anche un fiume — non per annegare (anche se può capitare )
ma per guardare il cielo da tutte le rive
*
magari potessi dirti che la terra qui non è cambiata affatto,
ma non sarebbe la verità, sarebbe una menzogna crudele e vana,
raccontata per placare la curiosità di un bambino
qui, gli alberi fanno solo finta di essere alberi, qui gli alberi crescono a stento,
e sollevano i rami, come se si stessero arrendendo
ai propri simili e agli altri e a questa fottuta epoca
dai cui germogli spuntano subito fiammiferi
e il fiume della vita arde così bene, s’inaridisce,
bruciando dalla vergogna di non poter più riempire
l’estate delle risate di bombi e l’inverno del miele della cura
così tanto la terra qui è invecchiata in un anno,
che, dove per secoli scorgevi bei lineamenti lisci dell’acqua
ora solo rughe profonde un palmo,
e talvolta accade anche di peggio, come se il sole
risplendesse capovolto, ma chi, di questi tempi, guarda ancora verso l’alto
tanto silente è il cielo, qui, lanciagli un coltello e vedrai che non si muove,
sopporterà che questo, inghiottendo in silenzio pugnale dopo pugnale,
lacerando a sangue le guance, come brandelli di abiti strappati
quando non proteggono più; sai, il malocchio
ti palpeggia da dentro come mani lascive in mezzo alla folla,
tranquillo, senza vergogna, con quel senso di crimine senza fretta,
arrivando fino al cuore; poi smette e tu continui a vivere;
ma in silenzio, senza cuore; senza speranza; in balia della fortuna
e ora anche la terra qui è senza più cuore, come terriccio in un museo,
stesa davanti a tutti, mezza morta, priva di sensi,
senza nemmeno il tempo di respirare una boccata d’aria che è già avvelenata —
e graffia e ringhia, come un vecchio cane che sta per morire
e tutto questo, sai, è così ingegnoso, che tutti hanno già imparato
a fingere di non sentire l’odore della propria decomposizione,
e ora la puzza è tale che puoi riconoscere i tuoi solo da questo fetore —
così orgogliosi, così avviliti, così spietatamente belli
la morte, sai, accresce sempre la bellezza; fino al riso convulso;
non è forse curioso percorrere la stessa strada per tutta la vita
per poi perdere te stesso al primo incrocio?
è mai possibile che sia così; ma non è stufa questa terra
di condurci bendati in girotondo, come giocando a mosca cieca;
ehi, tu, prova a indovinare dove cadrai e non potrai più rialzarti
tante brave persone qui, sai, ma tutte impantanate nel fango;
stipate; a braccia aperte; senza teste, così come capita
questa terra è come una cicatrice sul volto; tutti la vedono
ma manca il coraggio di chiedere che cosa sia successo;
la vita è troppo breve, sai, per scrutare la terra
specialmente quella altrui; vi è qualcosa di adultero
come se d’improvviso l’amore fosse diventato una lingua artificiale
che studiamo e studiamo e studiamo invano
volevo dirti che questa terra è poesia
e tu sai bene, forse meglio di me, quanti siano i suoi lettori.
Iya Kiva-poetessa ucraina
Biblioteca DEA SABINA- La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
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Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
Descrizione del libri di Mavie Da Ponte- Fine di un matrimonio comincia con la fine del matrimonio tra Berta e Libero. Berta ha una galleria d’arte e Libero ha un’altra. Berta non ascolta cosa le stia dicendo Libero, non capisce perché quest’altra donna di cui non ha mai sospettato nulla, di cui non conosce il nome, appaia e si mangi il suo futuro. Libero, invece, quella sera – in cui tutto finisce e tutto comincia – esce di casa, e scompare. È vero, diceva sempre di essere stanco del suo lavoro e della sua vita, ma che c’entra un’altra donna? Perché ne aveva bisogno? Berta non lo sa, e nel tentativo di capirlo parla d’altro: di sé, del proprio corpo, di cosa può farne adesso che è sola, ha quasi cinquant’anni e non è né giovane né vecchia, adesso che è esattamente com’era prima di sposarsi. Berta racconta la fine del suo matrimonio per iniziare a raccontare se stessa, perché i romanzi – certi romanzi, e di sicuro questo –, proprio come la vita, non sono solo “fatti”: tra una vicenda e un’altra, tra la fine di un matrimonio e l’inizio di qualcosa di diverso, ci sono pensieri, parole, opere e omissioni. Ci sono rimpianti – è tardi per avere un figlio? e per recuperare il rapporto con la propria madre? –, dubbi e paure. C’è il bisogno disperato di dimostrare a se stessi di essere vivi. Innamorarsi, in fondo, è più semplice che tenere in piedi un matrimonio o una relazione, ricominciare è meno faticoso che provare a riparare: questo racconta, a ogni riga, l’esordio di Mavie Da Ponte. O, forse, mostra che definirsi “innamorati” è troppo facile, e per questo non bisognerebbe mai dirlo. Così Berta, quando scegliere non sembra più una possibilità e le difficoltà dei suoi rapporti paiono insormontabili, capisce che frequentare il salone di bellezza di Sara – la chiama così per semplificare, ma quale sarà il suo nome cinese? – ha più a che fare con il pensiero e l’arte che con le unghie: anzi, le unghie e il corpo certe volte possono essere il pensiero e l’arte.
Un romanzo malinconico e buffo, pieno di tenerezza e di sorpresa, la storia di una donna che si piega e si spezza, e non fa niente: essere interi non è il punto, il punto è provare a essere felici.
Mavie Da Ponte
Mavie Da Ponte- è nata nel 1987, vicino al mare e in mezzo alle storie. Dopo studi linguistici e un dottorato in letteratura francese contemporanea, oggi si dedica alla scrittura. Fine di un matrimonio è il suo primo romanzo.
Elisabetta BIEMMI -Lo sguardo di una donna nella Resistenza
Lo sguardo di una donna nella Resistenza: L’Agnese va a morire di Renata Viganò
Un titolo che anticipa l’esito di una vicenda straziante ma al contempo necessaria per cogliere un inedito sguardo sulla Resistenza.
Articolo di Elisabetta BIEMMI
Alcuni nomi di donne partigiane, come Renata Viganò, risuonano nella nostra mente come conosciuti, tra cui Nilde Iotti, la prima donna Presidente della Camera dei deputati, e Lidia Menapace, scomparsa lo scorso anno, oltre alla bresciana Agape Nulli e alla cuneese Margherita Mo. Tuttavia per molto tempo la storiografia ha taciuto il ruolo che molte donne ebbero durante la Resistenza, che è stata considerata per lo più un momento di lotta e di rivendicazione prettamente maschile. L’umiltà di molte donne nel dopoguerra non ha cancellato il ruolo essenziale che spesso molte di loro ebbero all’interno delle bande partigiane, come staffette, vere e proprie combattenti ed anche con ruoli importanti in ambiti istituzionali.
Molti nomi maschili, inoltre, si riscontrano sugli scaffali delle librerie e delle biblioteche rispetto al tema della Resistenza, tra cui Italo Calvino, Beppe Fenoglio, Luigi Meneghello, Carlo Cassola, Cesare Pavese. Voci sicuramente autorevoli e stilisticamente incisive, che con le loro parole hanno saputo trasporre storie reali o fittizie, ma sicuramente importanti per rendere viva la memoria della Resistenza.
Renata Viganò-Romanzo L’Agnese va a morire
Un’altra voce che ha contribuito a quest’intento è sicuramente quella di Renata Viganò, che ha il merito di proporre al lettore la prospettiva di una donna, Agnese, negli anni drammatici tra il ’43 e il ’45. La stessa Viganò fu partigiana e partecipò come infermiera ma anche come staffetta e collaboratrice per la stampa clandestina. Già nel 1949 il romanzo L’Agnese va a morire fu pubblicato per Einaudi, ottenendo grande successo: oltre all’attribuzione del Premio Viareggio nello stesso anno, fu realizzata una trasposizione cinematografica, nel 1976, con la regia di Giuliano Montaldo.
Renata Viganò costruisce un personaggio sfaccettato e duplice, con una narrazione in prima persona che immerge maggiormente il lettore nell’animo di Agnese. È una donna pratica e pragmatica, che nonostante l’apparente durezza esteriore, dimostra inizialmente insicurezza nel rapportarsi con i compagni partigiani. Anche la sua partecipazione alla Resistenza non è immediata: è proprio dalle parole di Agnese che traspare un suo iniziale attutito interesse per le questioni politiche o di partito, che contrariamente riguardavano il marito. Da queste parole si riscontra la precedente distanza ma anche il momento di trasformazione, in particolare a seguito della cattura del marito da parte di un gruppo di soldati tedeschi:
«Vennero a trovarla tre uomini che abitavano a poca distanza dal paese […] – Voi certo sapete che Palita è del nostro partito. […] L’Agnese li guardava, uno dopo l’altro, e la sua grossa faccia esprimeva un timore attento, quasi uno sforzo di stare in ascolto per togliere da quelle parole l’eco della lontana voce di Palita. Rispose: – Mio marito ne parlava, ma erano cose di politica e di partito, cose da uomini. Io non ci badavo. So che ha sempre voluto male ai fascisti, e dopo anche ai tedeschi, e diceva che i comunisti ci avrebbero pensato loro per tutti, anche per i padroni che ci sfruttano, a fare piazza pulita -. Appena l’ombra di un sorriso passò nei suoi occhi: – Diceva proprio così: piazza pulita. I tre annuirono con forza, e il più giovane disse: – Per far questo, bisogna lavorare. Palita è un bravo compagno. Faceva molto per noi –. L’Agnese lo interruppe: – Se c’è qualcosa che posso fare io… – Arrossì, come se si fosse azzardata a dir troppo, e si strinse il fazzoletto sotto il mento: – Chissà se sarò buona, – aggiunse. Allora le spiegarono che cosa avrebbe dovuto fare, e lei diceva di sì, meravigliata che fossero cose tanto facili. Si vedeva che era contenta, che prendeva coraggio. Si attentò anche a suggerire qualche suo parere e i compagni l’approvarono […] – Se “loro” vi pescano, ci rimettete la pelle […] Palita deve ritrovarvi, quando ritornerà – […] – Io non mi farò prendere da “loro”, ma Palita non ritornerà –. […] Le lacrime le segnarono due righe sul viso largo ed immobile; se le asciugò con le punte del fazzoletto, indispettita di farsi vedere piangere»[1].
Elisabetta BIEMMI -Lo sguardo di una donna nella Resistenza
Attraverso lo sguardo di Agnese e la penna dell’autrice, con la sua capacità evocativa e con la scelta di pochi elementi descrittivi, è possibile avere una piccola sensazione dell’atmosfera cupa e straziante di quegli anni. Anche le Valli di Comacchio, in cui è ambientata la vicenda e che l’autrice conosce a fondo, partecipano a quest’atmosfera, diventando anch’esse l’ennesimo ostacolo con cui i partigiani devono confrontarsi:
«Fuori era un freddo terribile. Il sole gelido cadeva sulla neve dura come la pietra. La tramontana precipitava a tratti, scuotendo la nuda immobilità della campagna, il cielo curvo e vuoto. Clinto arrivò al canale, proseguì lungo l’argine. […] Guardava lontano, con i suoi occhi avvezzi ai colori della valle, e, proprio dai colori, a conoscerne i segreti. Presso la riva l’acqua era torbida, grigia, si muoveva col vento, ma al largo appariva lucida e ferma, con un riflesso quasi azzurro: senza nebbia, una trasparenza di vetro spesso, un pauroso senso di continuità, di saldezza, di peso. Clinto sapeva che cosa era, l’aveva visto tante volte: l’acqua di tutta la valle non era più acqua ma ghiaccio»[2].
La durezza della quotidianità è ovviamente determinata dalla presenza dei fascisti, vili e che «spadroneggiavano con prepotenza, cogliendo l’occasione di vendicarsi di vecchi rancori e di umiliazioni recenti»[3], e dei soldati tedeschi, la cui altrettanta meschinità porta la protagonista a compiere un gesto estremo, violento e sulla cui descrizione l’autrice non indugia ma piuttosto rivela come la sua repentinità fosse determinata quasi da uno strazio interiore:
«Era stata un’azione che le somigliava tanto poco, che era venuta dal di fuori, come il comando di un estraneo. Adesso se la trascinava dietro come un peso, un fagotto scuro, e aveva voglia di svolgerla, di rivederla, ma non ne era capace»[4].
Tra le ultime pagine del romanzo, emergono con forza le parole di Agnese, che con la sapienza e la consapevolezza dei partigiani, testimoni di quegli anni fondamentali, enuncia queste parole, che in alcuni punti appaiono innocenti e portatrici di quell’illusione che la fine di un conflitto porta sempre con sé: l’impossibilità che possano accadere nuovamente uguali atrocità
«Io sono vecchia e non ho più nessuno. Ma voialtri tornerete a casa vostra. Potrete dirlo quello che avete patito, e allora tutti ci penseranno prima di farne un’altra, di guerra. E a quelli che hanno avuto paura, e si sono rifugiati, e si sono nascosti, potrete sempre dirla la vostra parola; e sarà bello anche per me»[5].
[1] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 23
[2] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 174.
[3] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 40
[4] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 55
[5] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 229.
Immagine di copertina: Al centro: Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014. Partendo dall’alto, da sinistra a destra: Lidia Menapace, Margherita Mo detta Meghi, Carla Capponi, Nilde Iotti, Irma Bandiera, Gina Galeotti Bianchi, Agape Nulli Quilleri.
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