Chiesa di San Marcello al Corso ospita la mostra “Il Cammino della Speranza. Rembrandt e Burnand a Roma”
Roma-Da martedì 8 aprile 2025 a domenica 25 maggio 2025, la Chiesa di San Marcello al Corso a Roma ospiterà la mostra “Il Cammino della Speranza. Rembrandt e Burnand a Roma”.
L’evento, parte della rassegna «Il Giubileo è Cultura», è curato da Don Alessio Geretti. Due le opere esposte: I discepoli Pietro e Giovanni corrono insieme al sepolcro di Cristo il mattino della Resurrezione di Eugène Burnand (1898) e La Cena in Emmaus di Rembrandt Harmenszoon Van Rijn (1629).
Chiesa di San Marcello al Corso a Roma
L’opera di Eugène Burnand, presentata al Salon di Parigi, è una rappresentazione iconica dei discepoli Pietro e Giovanni che corrono verso il sepolcro al mattino della Risurrezione. La luce solare che illumina la scena simboleggia la speranza e la rinascita trasmettendo un’intensità spirituale unica. L’opera, acquistata dallo Stato francese, è oggi esposta al Musée du Luxembourg, dove continua a emozionare i visitatori con il suo potente messaggio di fede.
Il capolavoro di Rembrandt Harmenszoon Van Rijn, invece, racconta il momento di rivelazione del Cristo risorto catturato in un potente gioco di luci e ombre. La scena, che descrive l’incontro di due discepoli con Gesù, esprime un forte sentimento religioso, mettendo in luce l’invisibilità e il mistero della divinità. Quest’opera di Rembrandt, che può essere ammirata raramente in Italia, è particolarmente significativa nel contesto del Giubileo.
L’evento di inaugurazione dell’8 aprile, previsto per le ore 18.00, sarà ad ingresso libero e gratuito fino ad esaurimento posti. La mostra, dal 9 aprile in poi, sarà visitabile gratuitamente tutti i giorni dalle ore 8.00 alle ore 20.00 presso la chiesa di San Marcello al Corso, in piazza San Marcello 5.
· SAN MARCELLO AL CORSO
STORIA Il primo cenno storico dell’esistenza in Roma di una chiesa detta “di Marcello” si trova nella lettera del 29 dicembre 418, con la quale il Prefetto di Roma Simmaco informava l’imperatore Onorio della contemporanea elezione, avvenuta il giorno prima, di papa Bonifacio I, nella chiesa di Marcello, e di Eulalio (antipapa), nella basilica lateranense. Più tardi la chiesa è spesso ricordata nelle fonti storiche come “titolo” di Marcello e infine chiesa di S. Marcello, Papa e Martire. Più volte, fin dai tempi antichi, fu arricchita di doni da Sommi Pontefici. Nel 1369 venne affidata all’Ordine dei Servi di Maria. L’antico edificio era a pianta basilicale, con orientamento opposto a quello attuale, avendo allora l’ingresso ad oriente e l’abside ad occidente. Nella notte del 22 maggio 1519 l’antica chiesa fu quasi completamente distrutta da un incendio; nel rogo si salvò miracolosamente un grande crocifisso ligneo, che da quel momento divenne, ed è tuttora, oggetto di grande venerazione. La riedificazione, iniziata subito su progetto di Jacopo Sansovino, continuò sotto la direzione di vari architetti, tra i quali Giovanni Mangone, Giovanni da Firenze, detto Nanni di Baccio Bigio, e suo figlio Annibale Lippi, al quale si deve l’armoniosa abside.
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– Riccardo BACCHELLI- Romanzo storico “Mal d’Africa” Editore TREVES di Milano 1935-
Articolo di Raffaele FRANCHI per la Rivista PAN n°4 aprile 1935
– Riccardo BACCHELLI-
Riccardo BACCHELLI–Articolo di Raffaele FRANCHI per la Rivista PAN n°4 aprile 1935-Nacque a Bologna il 19 aprile 1891. Il padre Giuseppe (1849-1914), avvocato, cultore di Ariosto e di Rossini, amico di Enrico Panzacchi, fu figura di rilievo nella Bologna fra i due secoli, ricoprì incarichi nell’amministrazione provinciale (decisivo il suo appoggio per la fondazione dell’Istituto Rizzoli) e fu deputato al Parlamento dal 1909 al 1913 (R. Bacchelli, Ritratto d’un Italiano, in La Ronda, 1919, poi in La ruota del tempo e in Giorno per giorno: dal 1922 al 1966, Milano 1968, p. 215). La madre Anna Bumiller (m. 1911), di origine tedesca, donna colta, pianista, gran lettrice di Goethe, aveva dato lezioni di tedesco a Carducci, il quale «amava sentirle leggere i lirici tedeschi» (Andreoli, in Discorrendo di Riccardo Bacchelli, 1966, p. 5).
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Riccardo BACCHELLI-Nacque a Bologna il 19 aprile 1891. Il padre Giuseppe (1849-1914), avvocato, cultore di Ariosto e di Rossini, amico di Enrico Panzacchi, fu figura di rilievo nella Bologna fra i due secoli, ricoprì incarichi nell’amministrazione provinciale (decisivo il suo appoggio per la fondazione dell’Istituto Rizzoli) e fu deputato al Parlamento dal 1909 al 1913 (R. Bacchelli, Ritratto d’un Italiano, in La Ronda, 1919, poi in La ruota del tempo e in Giorno per giorno: dal 1922 al 1966, Milano 1968, p. 215). La madre Anna Bumiller (m. 1911), di origine tedesca, donna colta, pianista, gran lettrice di Goethe, aveva dato lezioni di tedesco a Carducci, il quale «amava sentirle leggere i lirici tedeschi» (Andreoli, in Discorrendo di Riccardo Bacchelli, 1966, p. 5).
Primo di cinque fratelli (con Mario, Beatrice, Giorgio e Guido), degli anni dell’infanzia lo scrittore ricordò anche la nonna paterna, di origini contadine, in una pagina del Mulino del Po («da lei, negli anni in cui più veramente s’impara, appresi io la vita casalinga d’una massaia all’antica nostrana; e che si sia l’alacre e rigida frugalità campagnola», Milano 1945, p. 62). La loro abitazione, in via Santo Stefano 28, era luogo accogliente e sereno, come ricordano amici e frequentatori. Memorabili le villeggiature estive a Forte dei Marmi.
Gli anni della formazione
Le tradizioni civili e liberali della famiglia, così come figure ed esperienze di una Bologna «antica città dottorale e agricola» (v. La ruota del tempo, Milano 1928, p. 7), furono sempre vive e operanti nello scrittore, che vi compì una formazione nutrita di forti succhi ottocenteschi, ancorata a un classicismo inteso come misura morale prima che formale, nel quale sono decisivi i modelli familiari come Carducci e Goethe (Bacchelli fu «il Goethe bolognese» non solo per gli amici rondisti); ma contano anche gli umori vitali, gli interessi positivi, la sensibilità civile e politica ben radicati nella cultura emiliana e romagnola. Dall’ambiente bolognese ed emiliano restò sempre nell’ispirazione di Bacchelli – secondo Giuseppe Raimondi – qualcosa «che non ha riscontro, a quel tempo di letteratura, se non nell’ordine di ricerche della pittura: di un pittore emiliano: il Morandi» (in Discorrendo di Riccardo Bacchelli, cit., p. 17); in effetti Riccardo e il fratello Mario, pittore, furono amici sin da ragazzi con Giorgio Morandi (di Bacchelli, nel 1918, è il primo studio critico sull’opera morandiana). Altri ha sottolineato le ascendenze emiliane dell’«inesauribile dono verbale, applicato agli effetti del colore e dell’eloquenza» (E. Cecchi, Prosatori e narratori, Milano 1969, p. 332). Compiuti gli studi superiori al liceo Galvani, dove ebbe per insegnante Emilio Lovarini, studioso di Ruzante e già maestro e amico di Renato Serra (si vedano i ricordi in Giorno per giorno: dal 1922 al 1966, Milano 1969), nel 1910 Riccardo si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Bologna, dove seguì un corso di Giovanni Pascoli, ma non concluse gli studi.
Ancora studente liceale, nel 1910 «il figlio dell’onorevole Bacchelli» iniziò il suo primo romanzo, Il filo meraviglioso di Lodovico Clò, pubblicato a dispense tra gennaio e luglio del 1911, in sei numeri venduti direttamente dall’autore, con tanto di indirizzo di casa sulla stampa. L’operazione, in cui agivano modelli transalpini, suggestioni avanguardistiche e la ricerca di un rapporto diretto con il pubblico, non ebbe però buon esito e l’annunciata seconda parte non fu mai scritta, forse anche per la morte della madre avvenuta in quell’anno. Sebbene rimosso poi dallo scrittore e raccolto in volume solo nel 1947, Il filo documenta un’aspirazione originaria alla costruzione narrativa, che non viene meno attraverso le diverse esperienze del decennio seguente. Il titolo sembra suggerire una favola per bambini – in effetti il filo di Lodovico, ventenne come l’autore, è dono magico di un genio e ricorda aquiloni e palloncini – ma la labile vicenda filtra piuttosto le logiche di un autobiografismo divagante, con episodi di sensualità piuttosto esplicita, riferimenti culturali e digressioni critiche sempre più frequenti, che non potevano incontrare il favore degli abbonati (anche se alla fine Lodovico rientra nei valori tradizionali con il matrimonio). Dopo tale esperienza Bacchelli dette inizio a un’intensa attività pubblicistica: le numerose recensioni uscite nella prima metà del 1912 nel settimanale bolognese Patria corrispondono già a scelte consapevoli (Rimbaud, Tolstoj, Soffici, Slataper, Claudel).
Dalla Voce alla Ronda
Con la trasferta a Firenze nell’estate del 1912 e il lavoro di redazione per La Voce di Prezzolini nel corso di quell’anno, Bacchelli entrò in contatto con la più aggiornata e dinamica cultura intellettuale del tempo; e ne uscirono definite, in alcune linee fondamentali, la fisionomia e la collocazione culturale dello scrittore. Esemplare documento di tale stagione furono i Poemi lirici (Bologna 1914), uno dei testi rappresentativi dell’autobiografismo vociano. Ma non vi fu piena sintonia col mondo letterario fiorentino: pur condividendone la tensione a rinnovare la cultura, a vivere intensamente il presente, a partecipare alla vita contemporanea, Bacchelli ne rifiutò invece gli aspetti più radicali o “romantici”, essendo incline – per formazione, gusti e temperamentale moralismo – a riconoscersi nella continuità e non nella rottura coi maestri e coi valori della tradizione. Non a caso, nei pochi e intensi mesi di militanza vociana Bacchelli si legò di amicizia soprattutto con Scipio Slataper, Dino Campana, Emilio Cecchi e con Vincenzo Cardarelli, il quale «dovette, subito, riuscire nella cerchia degli amici, il più affine al bolognese Bacchelli» (Raimondi, in Discorrendo di Riccardo Bacchelli, cit., p. 21).
I Poemi lirici sono il primo importante risultato del giovane, che cerca la voce e la distanza da cui guardare al mondo e a se stesso. Si tratta di una quindicina di poemetti caratterizzati da un’originale prosodia, fondata – spiega la Nota metrica – sulla scansione variata di quattro accenti. Il verso bacchelliano si avvicina così ma anche si distingue dalla tradizione dei metri ‘barbari’ e dalla pratica del ‘verso libero’ in senso stretto, evocando da un lato sperimentalismi e modelli di primo Novecento (Whitman, Claudel), dall’altro una forte propensione alla prosa, all’oggettivazione, al fare racconto di esperienze vitali. Nel complesso i Poemi lirici non incontrarono il favore dei vociani più illustri come Boine, De Robertis e Cecchi, pur godendo in seguito di una discreta fortuna critica (Contini, Solmi, Fubini, Gavazzeni, Maccari). Nell’estate 1916 fu ancora nella Voce di De Robertis che la poesia di Bacchelli ebbe un seguito con le due «prose liriche» Memorie e Riepilogo. Nel successivo percorso dello scrittore, i Poemi lirici furono spesso evocati dallo scrittore come simbolo di un anteguerra lontano, giovanile, per sempre concluso. Fino agli ultimi anni, tuttavia, tornò spesso alla scrittura in versi.
La morte del padre nel 1914 e poi la guerra segnarono la fine della giovinezza e un periodo di ripensamenti. Al conflitto mondiale Bacchelli prese parte da volontario, non interventista, combattendo come ufficiale di artiglieria sul fronte del Carso dall’estate del 1915 fino al 1917 (fu congedato nel 1919), con brevi licenze a Bologna, dove si era trasferito in via Arienti. Dell’esperienza bellica, decisiva e profonda, testimoniano alcune prose che Bacchelli inviò dall’ottobre 1917 a Cardarelli («cose molto forti e belle, e anche nuove», risponde l’amico, «Che ci sia in te la stoffa d’un romanziere?»: L’epistolario Cardarelli – Bacchelli (1910-1925), a cura di S. Morgani, Perugia 2014, p. 48), pubblicate fra 1919 e 1920 in La Raccolta e La Ronda, poi in volume nel 1953 con il titolo Memorie del tempo presente. Il ricordo della Grande Guerra torna continuamente nella riflessione di Bacchelli e ispirò numerosi episodi di opere successive: da La Città degli amanti, a Oggi domani e mai, a Iride, fino al Mulino del Po e oltre.
Fatto ritorno a Bologna dopo la guerra, Bacchelli era però sempre più attratto da Roma, dove si erano trasferiti amici come Cecchi e Cardarelli. Nel 1918 collaborò intensamente a La Raccolta, la rivista bolognese diretta da Giuseppe Raimondi (ma di fatto redatta in casa Bacchelli) che costituì la premessa della Ronda. La riscrittura dell’Amleto shakespeariano, poi pubblicata sul primo numero della Ronda, va intesa anzitutto come espressione di incertezze esistenziali e nobile sentire (l’amletismo è componente essenziale di molti personaggi della narrativa bacchelliana), ma anche come opzione per la scrittura teatrale, e come manifesto di una ricerca letteraria che si misura sui grandi capolavori del passato.
L’esperienza della Ronda (aprile 1919 – marzo 1923), di cui Bacchelli fu con Cardarelli un fondatore e uno dei sette redattori (i cosiddetti sette savi, con Antonio Baldini, Bruno Barilli, Emilio Cecchi, Lorenzo Montano, Aurelio Saffi), è riassuntiva rispetto alle inquiete ricerche degli anni precedenti, che trovano la forma e la sede di una proposta culturale organica, ma è al tempo stesso premessa fondamentale per comprendere il successivo percorso intellettuale e artistico di Bacchelli, anche quando prese strade in apparenza diverse (come quella del romanzo, genere osteggiato dai rondisti). Trasferitosi a Roma, Bacchelli fu il collaboratore più costante e prolifico del gruppo, emancipandosi fra l’altro dalla supervisione – critica, espressiva e redazionale – di Cardarelli, che sin dai Poemi lirici aveva svolto in tal senso un importante ruolo sui testi dell’amico (v. L’epistolario Cardarelli – B. (1910-1925), a cura di S. Morgani, Perugia 2014, pp. 36-43). La vena generosa della scrittura bacchelliana qui per la prima volta assunse quei tratti fluviali che pur con ammirazione le sono stati spesso rimproverati, e sebbene ciò risultasse prezioso in un consesso di castigatissimi letterati come quelli della Ronda, tradisce più facilmente, e magari più ingenuamente, i contenuti ideologici (qualunquisti o conservatori o reazionari) di cui si sostanziò in parte il classicismo umanistico e lo stilismo rigoroso dei rondisti nel confronto con la tumultuosa contemporaneità del dopoguerra. Bacchelli assunse spesso i panni dell’ideologo moralista e conservatore, o del letterato umanista – riflesso di una borghesia colta e paternalista – che si oppone con gli strumenti della satira o della polemica alla piega che sta prendendo la società. Di particolare interesse, da un lato fu la critica al romanzo ‘degenerato’ (in interventi su Giacomo da Verona, su Rubè di Borgese, sulla morte di Verga), dall’altro la riflessione sul Leopardi più ideologicamente impegnato, quello di Ad Arimane e dei Paralipomeni. Molti degli interventi di questi anni, compresi quelli nel Resto del Carlino, furono raccolti nel primo volume di Giorno per giorno dal 1912 al 1922 (Milano 1966).
Gli interessi creativi di Bacchelli, in questi anni, furono rivolti soprattutto al teatro, passione che accompagnò tutta la carriera dello scrittore fino agli anni Sessanta con una vasta produzione di drammi e pièces. Conobbe tra gli altri Eleonora Duse, e strinse amicizia con Renato Simoni. All’Amleto fecero seguito la goldoniana Una mattina a Bologna (1920), Spartaco e gli schiavi (1920), I termini del destino (1922). Nel gusto rondesco di un raffinato allegorismo, delle moralities e della prosa d’arte, ma con un’ampiezza e un impegno ideologico già romanzeschi, esordì anche il Bacchelli narratore con la «favola mondana e filosofica» di Lo sa il tonno, ossia gli esemplari marini (Milano 1923), che concluse gli anni dell’apprendistato letterario (Briganti, 1980, p. 51).
L’approdo al romanzo
Nel 1926 Bacchelli sposò Ada Fochessati (1892-1986), mantovana, già vedova Nuvolari con un figlio (non ne ebbero altri), e all’inizio dell’anno si trasferì a Milano, chiamato a occuparsi di critica teatrale per La Fiera letteraria (come già per Convegno e Comœdia); collaborò inoltre con La Stampa e, dagli anni Trenta, con L’Ambrosiano e il Corriere della sera. Nel 1932 riunì per la prima volta gli scritti di carattere letterario, saggistico o storico in Confessioni letterarie (poi ridistribuiti secondo diversi criteri in Nel fiume della storia, Milano 1959, e in Saggi critici, Milano 1962). Nel frattempo proseguì un’intensa produzione drammaturgica, insieme con esperienze registiche e l’attività di recensore. Del 1925 è la rappresentazione di La notte di un nevrastenico, cui seguirono La smorfia (1926), La famiglia di Figaro (1926) e Bellamonte, sulla scena nel 1928 con la compagnia di Dario Niccodemi. La personalità di Bacchelli era comunque già divenuta proverbiale in questi anni, con la sua passione per le auto e la buona cucina. Insieme a Orio Vergani e altri amici legati alla Fiera letteraria, fondò nel 1927 il premio letterario Bagutta, presso il ristorante toscano da lui ‘scoperto’ nell’omonima via milanese.
È difficile dire come Bacchelli giunga al romanzo e in particolare al tema di questo primo romanzo (di cui un Preludio esce in anteprima a marzo del 1927 nella Fiera): Il diavolo al Pontelungo, il più noto fra i romanzi bacchelliani dopo il Mulino, racconta gli ultimi anni del grande rivoluzionario russo Michail Bakunin, dall’esperienza della Baronata (la villa presso Locarno, che nelle generose intenzioni dei protagonisti avrebbe dovuto realizzare l’utopia del falansterio, ma che fu sede di una sgangherata comunità di anarchici) fino al maldestro tentativo insurrezionale del 1874 a Bologna, che avrebbe dovuto accendere la miccia della rivoluzione anarchica mondiale. Bacchelli rivelò straordinarie capacità di ricostruzione, intuizione e riflessione storica, disegnando con maestria – accanto ai due donchisciotteschi eroi del disastro, Bakunin e Cafiero, la cui specifica «proprietà vitale era di non poter imparare» – figure del rilievo di Anna Kuliscioff e di Andrea Costa, i quali dalla lezione della storia seppero invece trarre una diversa e civile strategia d’azione.
La critica ha parlato talora di «un improvviso felicissimo» – con calzante allusione all’opera buffa rossiniana – «sia che con quel termine vogliamo indicare la gioiosa invenzione di un tema e di un modo narrativo, sia invece, confrontandolo col tanto più complesso e meditato Mulino del Po, un meno totale impegno dell’autore nel suo soggetto e un conseguente più estroso e libero e divertito raccontare» (Fubini, in Discorrendo di Riccardo Bacchelli, cit., p. 226). Si può imputare in parte il ritardo con cui Bacchelli approdò trentaseienne al romanzo (ne scrisse comunque ventitré) all’avverso clima idealistico e rondista di quegli anni, oltre che a pregiudiziali culturali e moralistiche in cui pure si riconosceva. Ma la scoperta delle potenzialità del romanzo rimane legata anche a temi non «adatti» al teatro: figure come Bakunin parvero sempre all’autore «da adattarsi particolarissimamente al romanzo», scrive nella premessa giustificatoria, «e personaggi ed eventi storici adatti al romanzo sono per eccellenza quelli minori, eroi singolari o mezzi eroi o eroi di straforo, di un’ora o di un’illusione» (Il diavolo al Pontelungo, Milano 1981, p. 49). Né è da escludere un rapporto tra l’eroicomica vicenda anarchica del 1874, in apparenza inattuale, e l’attentato anarchico di Anteo Zamboni avvenuto a Bologna nel 1926 (Bacchelli infatti manzonianamente narra «la storia di un errore, e di un errore che produsse in seguito delitti nefasti» e «terribili e detestabili sviluppi e influssi», ibid.). Ma il discorso di Bacchelli si muove sempre in piena autonomia di giudizio su un piano culturale: anche le tangenze con il fascismo (reducismo, critica delle utopie, patriottismo) non significano consenso ideologico e fiancheggiamento politico, ma derivano piuttosto da una visione conservatrice e antimodernista di matrice cattolica, liberale dal punto di vista politico (il giolittismo degli anni della Ronda), alto-borghese da quello sociale e culturale.
Dal punto di vista delle scelte letterarie, l’opzione per i modelli classici del romanzo ottocentesco (Manzoni e Tolstoj) è solo in apparenza ingenua e aproblematica: in realtà, pur senza teorizzazioni o polemiche, sottintende il rifiuto delle esperienze moderniste allora in auge (Joyce, Proust, Woolf, Pirandello, Svevo ecc.). Bacchelli percorre in solitaria una strada sua di romanzo che sente congeniale ai suoi interessi storici e culturali, a una già matura ed esperta coscienza stilistico-letteraria, a un’esigenza di continuità con la tradizione, e in sostanza alla sua ispirazione narrativa. Si tratta in ogni caso di romanzi a forte autorialità, nel senso che l’autore non rinuncia mai al diritto di commentare e giudicare la materia, di presentare scene e personaggi, di concedersi digressioni, intromissioni e discontinuità, lontano dalle ricerche polifoniche e disgreganti del romanzo novecentesco. Il genere romanzo appare la forma più adatta a un autore non soltanto generoso nella scrittura, ma anche mosso da ispirazioni, esigenze e motivazioni molto eterogenee tra loro. Il risultato furono romanzi di aspetto e talora temi ottocenteschi, ma in realtà percorsi da forti tensioni destrutturanti sul piano formale e impegnati con passione civile in una profonda critica della contemporaneità e in un’originale e appassionata riflessione sulla storia.
Negli anni seguenti Bacchelli alternò ricerche storiche e analisi contemporanee. Gli studi storici lo condussero fra l’altro a risultati di valore scientifico, in particolare per la conoscenza critica di autori prediletti come Ippolito Nievo e Lodovico Ariosto. A lui si devono nel 1929 il ritrovamento e la pubblicazione di scritti di Nievo fino allora inediti, come il Frammento sulla rivoluzione nazionale, relativo a un tema politico caro a Bacchelli qual è il rapporto tra intellettuali e popolo nella storia italiana. Sempre dal ’29 datano le ricerche sulla figura politica di Ariosto, incentrate sulla discussa Egloga del 1506 e sul ruolo ambiguo che, secondo De Sanctis e Croce, il poeta avrebbe avuto nella congiura contro il duca Alfonso d’Este: La congiura di Don Giulio d’Este (Milano 1932) è un vero e proprio studio di critica e discussione storica, su materia potenzialmente romanzesca, che ebbe il plauso di recensori illustri come, fra gli altri, Carlo Emilio Gadda.
Negli anni Trenta seguirono alcune importanti edizioni di Manzoni (I Promessi Sposi – Storia della colonna infame, ibid. 1934) e di Leopardi (Opere, ibid. 1935) e ancora le traduzioni della Astrée di D’Urfè (La fontana dell’Amor verace, ibid. 1934) e dei Romanzi e racconti di Voltaire (ibid. 1938).
Dieci anni di romanzi
Al Diavolo al Pontelungo seguì La città degli amanti (Milano 1929), che inaugurò una fitta serie di romanzi di ambientazione contemporanea e di tema amoroso: Una passione coniugale (Milano 1930), Oggi domani e mai (Milano-Roma 1932), fino a Iride (Milano 1937). Si tratta di opere ambiziose e di grande impegno che, nonostante alcune discontinuità e parti decisamente prolisse, presentano pagine assai felici, che lettori autorevoli talora hanno indicato tra le migliori dello scrittore. Notevole per esempio la discussione intorno alla Città degli amanti, tra sostenitori dei due capitoli ‘satirici’, più eccentrici e fantastici, che costituiscono le due ali del romanzo (Contini), e sostenitori invece del capitolo centrale intitolato Cecchina Gritti, di carattere storico e velatamente autobiografico (Pancrazi, Fubini). La Città degli amanti è in effetti un romanzo composito non solo per temi ma anche per ispirazione, toni e struttura, tenuto insieme dall’intenzione dell’autore di contrapporre all’utopia di una ‘città del libero amore’ – realizzata sulle coste texane da un ricco magnate americano, da un artista mancato tedesco e da un abile ingegnere lucchese – il vero amore dell’unica coppia che, amandosi davvero, non può vivere nell’artificiosa Città degli amanti. Il capitolo centrale, quasi un romanzo a sé, narra appunto l’antefatto della storia d’amore tra Enrico De Nada e Cecchina Gritti, sbocciata come un idillio sentimentale e sensuale in Veneto durante la rotta di Caporetto. L’intento satirico degli altri due capitoli, oltre a manifestare la continuità con il Diavolo nella critica dell’utopia, ne fa un’originale summa delle idee, passioni e perversioni erotiche dell’uomo contemporaneo e il primo catalogo bacchelliano sulle follie della scienza e filosofia moderna (Freud, Krafft-Ebing, parità uomo-donna, omosessualità, razzismo, ebraismo).
Una passione coniugale continuò in direzione psicologica la riflessione, sempre centrale nell’opera narrativa di Bacchelli, intorno al rapporto tra sensualità e vita di coppia, tra lussuria e amore: «romanzo straordinariamente riuscito», secondo Giorgio Bassani, «pur se entro i soliti limiti, per me attraenti e repulsivi, di quella classe padronale postdannunziana da cui personalmente ho cercato, fin dall’inizio, di prendere le distanze» (da un intervento del 1975, ora in Opere, 1998, p. 1308).
Con Oggi domani e mai Bacchelli tentò un complesso affresco della società del dopoguerra, e della sua evoluzione nell’arco di un decennio, dietro le vicende sentimentali e imprenditoriali di un ristretto numero di personaggi che tra Milano e Brianza mette su un consorzio di piccoli produttori. Ancora una volta il tema centrale è quello dell’amore, furioso e carnale nei «giorni belli» e via via perduto in incomprensioni e gelosie di coppia. Nel complesso il romanzo, farraginoso e dispersivo, non centra i suoi obiettivi (scandagliare «l’esistenza quotidiana di uomini comuni», «chiarir la nomenclatura dei sentimenti nel vocabolario dell’epoca», svolgere una rassegna tipica della modernità, dalle idee politiche alle sedute psicanalitiche, dalle speculazioni finanziarie al tema ebraico ecc.). Ma la terza e ultima parte ha una sua efficacia rovinosa, nel raccontare la crisi coniugale e la solitudine del personaggio principale, Fabio Anceschi, dai tratti cavallereschi e malinconici di altri personaggi bacchelliani, reduci di guerra e di fondo autobiografico.
Nel 1934 la vena storica, dopo Il diavolo al Pontelungo e La congiura, ebbe un’ulteriore prova significativa con Mal d’Africa (Milano). È il primo dei romanzi che Bacchelli, prima di raccogliere in volume, pubblicò integralmente a puntate nella Nuova Antologia, cui lo scrittore collaborava dal 1931 grazie alla mediazione di Antonio Baldini (e cui tennero dietro poi Il rabdomante nel 1935, L’Ammiraglio dell’Oceano nel 1936, nonché tutto Il Mulino del Po fra il 1938 e il 1940). Sulla base delle memorie di Gaetano Casati, Dieci anni in Equatoria (1891), Bacchelli riscrisse l’avventurosa storia dell’esploratore italiano che, partito nel 1879 per ricerche sul fiume Kibali (affluente del Congo), si trovò coinvolto nelle tumultuose vicende del Sudan meridionale, quando la rivolta islamista del Mahdi, isolandolo dal resto del mondo, lo costrinse a un difficile viaggio attraverso la regione dei laghi, mentre il celebre Henry Morton Stanley organizzava il soccorso internazionale. L’esperienza africana trasformò Casati, che, senz’essere né uno scienziato né un intellettuale né un sognatore, di fronte allo sfruttamento da parte di schiavisti e mercanti d’avorio, abbracciò il modo di vivere dei «negri» e «il sogno di uno stato indipendente, di una repubblica di indigeni: l’Africa rigenerata e riscattata coll’Africa» (cfr. Mal d’Africa, Milano 1962, p. 437). Al successo del libro contribuì senza dubbio, a metà degli anni Trenta, la politica africana del fascismo, che avviava allora la guerra d’Etiopia. In Bacchelli, però – che confermò così la predilezione per figure donchisciottesche di sognatori ai margini della grande storia e la critica moralistica contro la civiltà occidentale nel suo complesso –, urgono interessi e idee non riducibili e forse opposti all’ideologia colonialista del regime, anche nell’idea di un diverso approccio «italiano» alla realtà del ‘Continente Nero’ (l’esploratore Giovanni Miani, il generoso Romolo Gessi, il missionario Daniele Comboni). In ogni caso non è un libro improvvisato: la reinvenzione dell’Africa (ove lo scrittore si recò solo nel 1970) mostra una notevole cognizione geografica, idrografica, storica ed etnologica, con inserti di fiabe africane e pagine paesistiche fortemente evocative. E simile a Casati fu probabilmente il Cristoforo Colombo di cui pure in quegli anni lo scrittore vagheggiò di riscrivere la vita e il sogno avventuroso, fermandosi però all’ampio studio preliminare dal titolo significativo: L’ammiraglio dell’Oceano. Breve storia di una rinuncia a scrivere la vita di Cristoforo Colombo (poi in Nel fiume della storia, Milano 1959, p. 81).
Le eterogenee ispirazioni che, come abbiamo visto, minavano l’unità dei romanzi di tema contemporaneo, caratterizzarono due romanzi brevi pressoché coevi, Il rabdomante (Milano 1936) e il già citato Iride (1937). Il rabdomante è un’operetta di carattere satirico, dichiaratamente ispirata al Gogol delle Anime morte, in cui la polemica antimoderna, condotta con gusto strapaesano, tende a farsi parabola dell’Italia contemporanea, e la promessa di restituire «l’antica prosperità» agli abitanti di Villamagna, sincera nel personaggio ingenuo del ‘rabdomante’, si risolve in una truffa gestita da un abile manipolatore. Iride invece è una storia d’amore, tratta da una vicenda di tradizione popolare e ambientata nella campagna veneta. La prima parte, di carattere idillico come un romance shakespeariano, prende luce da uno dei personaggi femminili più felici di Bacchelli, Iride appunto, immagine di vita e gioventù. La tragica fatalità della sua misteriosa scomparsa alla vigilia delle nozze spezza il romanzo in due parti, gettando un’ombra luttuosa sulla seconda, più patetica, che racconta le rabbie, le malinconie, le disperate gesta – un duello, la guerra – e infine la pacificazione del promesso sposo, Matteo Almeide. Nonostante qualche discontinuità e certo schematismo dei personaggi minori, Bacchelli raggiunge tuttavia quella maturità nel controllo dei mezzi espressivi e quella sicurezza di ispirazione che annunciano la prova maggiore del Mulino.
Gli anni del capolavoro
Nel 1937 Bacchelli era già considerato dal pubblico e dalla critica uno fra i maggiori autori del tempo. Restava però una perplessità, forse un equivoco di origine rondista – osservava Giacomo Debenedetti recensendo Iride – fra il ‘prosatore’ di grandi qualità espressive e stilistiche, capace di dominare ogni tema e ogni linguaggio, anche i più tecnici, e lo ‘scrittore’ dal quale invece si attendeva ancora un tema necessario, personale, culturalmente significativo. Non c’è dubbio che Il Mulino del Po rappresenti una straordinaria risposta a simili perplessità, la prova più convincente di Bacchelli e uno dei romanzi più importanti del Novecento italiano. Avviato già nel 1936, il gran romanzo assorbì tutta l’attività dello scrittore fino al 1940 («son più di tre anni che questo lavoro mi preclude ogni altra fonte di lucro», confessò a Baldini), scandito dalle folte puntate in rivista («mi avrai mandato ad inferos per lo spazio che ho usurpato sulla Nuova Antologia») e dalla ripubblicazione nei tre volumi in cui il romanzo è suddiviso: Dio ti salvi (Milano 1938), La miseria viene in barca (Milano 1939) e Mondo vecchio sempre nuovo (Milano 1940), i primi due pubblicati presso Treves, mentre il terzo con Garzanti. Tutta la complessa e variegata congerie di esperienze, ricerche, tentativi, idee, motivi finora tentati da Bacchelli, nel Mulino del Po sembra distendersi, ordinarsi, inverarsi intorno all’«idea poetica» che il titolo del romanzo riassume e che il prologo Quasi una fantasia così illustra: «Sono gli ultimi mulini natanti, gli ultimi degli ultimi: un tema, in cotesta loro decrepitezza, un’idea poetica, e tanto cara da avermi tenuto molti anni riluttante prima di metterci mano, anch’io rispettoso del lavoro fatto bene, ambizioso di tale onore anch’io, al pari dei valenti calafati» (Il mulino del Po, p. 2). Il mulino sul Po e il Po con il suo mulino, infatti, non sono soltanto la scena principale del romanzo, ma anche la pregnante immagine simbolica di una concezione del mondo e della storia, nonché, al tempo stesso, la struttura narrativa capace di ridurre la varietà a unità, accogliendo e ‘macinando’ senza dispersioni l’infinita quantità di episodi, personaggi, digressioni, riflessioni. Sono anche – possiamo aggiungere – l’inveramento di una scrittura, di una lingua e di uno stilismo che trovano la loro misura in questo congeniale soggetto, capace di assorbire anche le ‘piene’ e le digressioni. È questa, insomma, la forma-romanzo cui la prosa di Bacchelli, giunta a piena maturità e consapevolezza, sembrava attendere sin dall’inizio: un romanzo sostanziato di storia e di commento, fondato certo su Manzoni, ma ancor più sulla diacronia lunga delle generazioni come in Nievo, o in Tolstoj o in Thomas Mann.
Il romanzo racconta le vicende di una famiglia di molinari, gli Scacerni, sullo sfondo di cent’anni di storia italiana, dal 1812 al 1918, o da fiume a fiume: «Il Mulino del Po ha da comprendere un secolo, passato col fiume e come il fiume per la sua ruota laboriosa: dal tempo in cui gli italiani di Napoleone in Russia subivano al passaggio del fiume Vop un disastro particolare simile a quello imminente e generale della Beresina, fino al passaggio vittorioso del Piave, nella battaglia di Vittorio Veneto» (ibid., p. 6). Capostipite e memorabile personaggio è Lazzaro Scacerni, che sul gelido fiume russo riceve da un capitano ferrarese morente un lascito ereditario che, sia pur maledetto in quanto frutto di antiche profanazioni, al ritorno in Italia gli permetterà la costruzione di un mulino, il San Michele, e l’avvio di una difficile ma congeniale attività di mugnaio sulle rive ferraresi del Po. In quest’uomo forte e ostinato, di poche parole e di sano criterio, arguto e autorevole, gran lavoratore, ricco di un suo mondo interiore complesso e persino tormentato, Bacchelli ha certamente inteso disegnare, con successo, un tipo profondo e ideale del popolo italiano. Lazzaro e quelli dei suoi discendenti che più ne ereditano i caratteri – la nuora Cecilia, il giovane Lazzarino che muore a Mentana, la nipote Berta, il violento Princivalle dal pugno proibito, fino all’ultimo Lazzaro che muore nel Piave – costituiscono per così dire l’asse principale del racconto, insieme a coloro che invece – come il figlio Giuseppe detto Coniglio Mannaro – sembrano essere l’opposto del gran vecchio. Con essi però si muove una folla di memorabili personaggi di una storia locale – rurale, quindi ferrarese, poi emiliana e padana – sempre connessa per mille fili alla storia sociale, alle vicende politiche, alle trasformazioni del costume, al dibattito ideologico della nazione.
Sulla microstoria fluviale e locale si osservano quindi – con mirabile realismo e sensibilità sociologica oltre che storica e psicologica – le ripercussioni di quei grandi eventi che il commento del narratore talora illustra in excursus approfonditi e tuttavia non faticosi come nelle opere precedenti. Il mulino del Po riesce così nell’impresa, eccezionale sotto molti aspetti, di raccontare dal punto di vista locale e popolare un secolo di storia italiana in tutti i suoi momenti principali – l’avvicendarsi e lo strutturarsi delle amministrazioni, i rapporti economici e contrattuali, le gerarchie e l’intreccio dei poteri, il contrabbando e la clandestinità, il passaggio o il richiamo delle guerre d’indipendenza, il potere temporale dei papi, la religiosità e la miscredenza popolare, l’industrializzazione incipiente e le nuove mentalità imprenditoriali, le bonifiche e le alluvioni, il colera e la pellagra, la tassa sul macinato e i controlli della finanza, il diffondersi di nuove idee di giustizia ed emancipazione, le prime lotte sociali, i boicottaggi e gli scioperi agrari, la propaganda politica, e via dicendo. Tutto passa come il fiume, con i suoi giorni sereni e le sue piene paurose, le pause idilliche e le alluvioni devastanti, e anche i suoi cadaveri, come quello di Orbino, protagonista con Berta della principale storia d’amore, nell’ultimo libro della trilogia. La storia passa, è un sogno, non va avanti: la mole enorme del Mulino implica un giudizio decisamente negativo sui miti e sugli ideali progressivi, cui oppone la contemplazione della vanità, la pietas di ciò che si perde, la resistenza dei valori umani fondamentali e di una vitalità immediata che sopravvivono nel popolo, contro la follia delle ideologie, i nuovi ceti emergenti, la violenza delle tecnologie (i mulini a vapore…). Opera strutturalmente inattuale, ottocentesca nel tema e nella forma, Il mulino del Po ha il fascino monumentale di un addio a un mondo scomparso o in via di estinzione.
Guerra e dopoguerra
Lo scoppio della guerra segnò una forte cesura anche nel percorso artistico di Bacchelli, proprio quando il successo del Mulino giungeva a sanzionare definitivamente la sua fama con importanti riconoscimenti ufficiali, come la laurea honoris causa dell’Università di Bologna (dicembre 1940), la nomina all’Accademia d’Italia (aprile 1941), cui si possono aggiungere le prime monografie critiche (il Bacchelli di Mario Apollonio nel 1943 preceduto dall’importante saggio di Gianfranco Contini del 1941) e il susseguirsi delle ristampe. Importanti furono, in particolare, le tre raccolte che sistemarono per generi una già vasta produzione novellistica, tutte pubblicate per Garzanti a Milano nel 1942: le «favole lunatiche» di La fine di Atlantide, le «novelle giocose» di L’elmo di Tancredi, i «racconti disperati» di Il brigante di Tacca del Lupo.
Intanto, con il romanzo successivo al grande sforzo del Mulino, Bacchelli ripiegava su una vicenda interiore e vagamente autobiografica, contenente un’interessante riflessione sull’arte moderna. Ambientato in una mascherata Versilia d’inizio secolo a Forte dei Marmi, Il fiore della Mirabilis (Milano 1942) allude nel titolo a un effimero fiore notturno che simboleggia la vita e il fallimento artistico di Ruben, la cui fine sensibilità di malato non basta a far di lui un pittore come i suoi amati Degas, Renoir e Cézanne. Di questi anni è anche un’importante monografia su Rossini (Torino 1941), già commissionata allo scrittore dalla Nuova Antologia.
Nel nuovo conflitto mondiale Bacchelli avvertì sin dall’inizio caratteri nuovi e distruttivi, e in particolare la fine della civiltà europea. Il trauma sofferto per il disastro civile appare con immediatezza nei versi scritti ‘a caldo’ La notte dell’8 settembre 1943, pur nella consapevolezza della loro natura di vano sfogo retorico. Rifugiatosi in Friuli, oltre Tagliamento, Bacchelli vi trascorse molti mesi dell’occupazione tedesca, fra il 1943 e il 1944. Durante i bombardamenti, un incendio devastò nel 1943 la sua abitazione milanese distruggendo fra l’altro molti documenti e scritti. In Russia, sul Don, trovò la morte il fratello Giorgio.
Il passaggio della guerra non fu senza conseguenze sull’ispirazione bacchelliana, che perse certa ottimistica sicurezza facendosi più meditativa ed elegiaca, o viceversa più acre e pessimista nella polemica antimoderna. Quanto a bilanci, Bacchelli dette alle stampe La politica di un impolitico (Milano 1948), il cui saggio centrale Dieci anni di ansie 1935-1945 riflette sul trauma bellico che, mettendo in crisi la fiducia nella razionalità della storia, impone una nuova riflessione sulle responsabilità umane e non assolve neppure chi non si è macchiato di colpe («se mi voglio e mi si voglia concedere di essere stato, negli scritti, del tutto immune dall’insigne e spaventosa inezia delle ideologie nazifasciste, che se n’ha da inferire se non altrettanto insigne e più spaventosa e scorante impotenza e inefficacia di tali scritti, e insomma del mio lavoro e della mia vita?», in Nel fiume della storia, cit., p. 600).
Scrisse in quegli anni il primo dei romanzi ‘cristiani’, Il pianto del figlio di Lais, uscito dopo la Liberazione (Milano 1945), cui fecero seguito Lo sguardo di Gesù (Milano 1948) e, più tardi, I tre schiavi di Giulio Cesare (Milano 1957), Non ti chiamerò più padre (Milano 1959) e Il coccio di terracotta (Milano 1966). Si tratta di opere in forma storica ma di taglio per lo più psicologico, in cui Bacchelli traduce in forme dirette il suo cattolicesimo, di carattere intimista e problematico, prediligendo quelle figure minori che in un momento della loro vita hanno accostato le grandi figure della storia e della fede, restandone segnate con rimorso o tormento; il romanzo storico viene così trasceso in una riflessione sulla natura umana di ogni tempo. Il pianto del figlio di Lais nasce da un versetto del primo Libro di Samuele che ricorda il pianto di Faltiel, lo sconosciuto cui Saul, in odio a David, aveva dato in sposa sua figlia Micol e che poi piange il suo amore perduto e disperato, quando Micol viene infine restituita a David senza alcun riguardo per lui. Lo sguardo di Gesù è «un’operina di questo dopoguerra» che un lettore come Giorgio Bassani disse di preferire «al celeberrimo Mulino del Po», in cui «la religiosità di Bacchelli si è espressa con singolare, sorprendente sincerità». Invenzione mossa da un cenno dei Vangeli è la storia di Itamar, l’indemoniato di Gerasa guarito e tuttavia non voluto tra i suoi dal Salvatore: posseduto dal ricordo di quello sguardo e di quel rifiuto, come una vocazione mancata, Itamar sfiora perciò il destino di Giuda, ritrovando la salvezza solo al termine di un avventuroso percorso, ai piedi del morente sulla croce.
Gli ultimi decenni
Gli anni del dopoguerra furono ricchi di riconoscimenti pubblici: nominato membro dell’Accademia nazionale dei Lincei (1947), dell’Accademia della Crusca (1956), dell’Istituto lombardo di scienze e lettere (1964), Bacchelli ricevette inoltre vari premi e dal 1948 venne più volte candidato al Nobel (su proposta dei Lincei e di Contini). Parallelamente alla produzione creativa e saggistica (si ricordano nuove edizioni e saggi su Manzoni e Leopardi), si profuse in un complesso lavoro di recupero, revisione e riordinamento dei suoi scritti. Fondamentale fu l’avvio, nel 1957, di Tutte le opere di R. B., affidata da Mondadori a Maurizio Vitale (fino al 1975 sono usciti ventotto volumi). Anche il cinema si interessò a Bacchelli e in particolare al Mulino del Po: da Alberto Lattuada che nel 1949 ne ricavò un film di carattere neorealista, al fortunato sceneggiato televisivo diretto da Sandro Bolchi nel 1963.
Furono anni di viaggi: dopo l’Italia (raccontata nelle prose di Italia per terra e per mare, Milano 1952), Bacchelli visitò il Sudamerica, e due volte la Grecia per altrettanti libri (Viaggio in Grecia e Secondo viaggio in Grecia, Milano 1959 e 1963). Particolarmente significativo, nel 1965, il viaggio per mare negli Stati Uniti, dove fece visita alla sorella Beatrice, già sposata e poi religiosa carmelitana a Baltimora (1894-1991), e alla tomba del fratello Mario, morto nel 1951 in un incidente di moto a Memphis, in Tennessee, dove insegnava storia dell’arte.
Anche negli ultimi decenni l’attività letteraria di Bacchelli resta intensa e prolifica. Nei principali quotidiani e periodici pubblicò novelle, corrispondenze di viaggio e articoli di attualità (ordinati e raccolti nel 1968 nel secondo volume di Giorno per giorno: dal 1922 al 1966), e intanto si dedicò a nuovi romanzi: sei negli anni Cinquanta (La cometa, Milano 1951; L’incendio di Milano, Milano 1952; Il figlio di Stalin, Milano 1953; Tre giorni di passione, Milano 1955; I tre schiavi di Giulio Cesare, cit.; Non ti chiamerò più padre, cit.), tre nei Sessanta (Il coccio di terracotta, cit.; Rapporto segreto, Milano 1967; L’«Afrodite», Milano 1969), due nei Settanta (Il progresso è un razzo, Milano 1975; Il sommergibile, Milano 1978), fino a In grotta e in valle (Milano 1980).
Anche l’antico e mai dismesso interesse per il teatro riprese vigore negli anni Cinquanta, in una stagione che va da L’alba dell’ultima sera (rappresentato alla Fenice nel 1949) fino a Il figlio di Ettore e a La famiglia del caffettiere (andati in scena nel 1957). In taluni casi la scrittura teatrale influenzò la narrativa in modo esplicito, come in L’incendio di Milano (1952), che comprende inserti propriamente drammatici, e in Tre giorni di passione (1955), che riscrive la commedia del 1928 Bellamonte; ma più in generale il modello drammatico traspare sia nell’espansione spesso ipertrofica delle parti dialogate, sia nella struttura da dramma serio o da commedia di molti romanzi.
La continuità con la produzione d’anteguerra diviene comunque strutturale, manifestandosi nella ripresa e variazione di temi e motivi, a fronte di un’inventività inesauribile e di una meditazione sul tempo e la storia più complessa e sottile. L’ispirazione satirica, rivolta contro deliri e miti della modernità, riprende per esempio in La cometa (1951) lo schema del Rabdomante, ma è più aggressiva e cupa: la truffa è ordita sulla paura della fine del mondo – il passaggio ravvicinato di una cometa – ai danni di un’umanità immeschinita dalla guerra. Le contraddizioni del progresso, sempre in opposizione ai sentimenti umani assoluti, torna nel contesto anni Sessanta delle esplorazione astronautiche in Rapporto segreto (1967), e nel contesto anni Settanta dei disagi planetari, del traffico d’armi e droga in Il progresso è un razzo (1975).
Alcuni romanzi degli anni Cinquanta svilupparono una sofferta riflessione sulla guerra, partendo da fatti storici che tendono ad assumere valore esemplare e persino allegorico: così L’incendio di Milano (1952), ambientato nel periodo della guerra civile e dell’occupazione tedesca; e soprattutto Il figlio di Stalin (1953), che ricostruì in chiave chiaramente simbolica, ma con notevole capacità di resa, la vicenda misteriosa della morte di Jacob, primogenito di Stalin, nel campo di concentramento tedesco di Sachsenhausen. Su analoghe problematiche poggiano anche romanzi storici di notevole impegno come I tre schiavi di Giulio Cesare (1957) e Non ti chiamerò più padre (1959). Il primo, in chiave di meditazione precristiana, si sviluppa per invenzione a partire da una frase di Svetonio sui tre “servuli” che soli osarono salvaguardare il cadavere di Cesare, nel terrore seguito in Roma alla morte del dittatore. Il secondo ripercorre invece la storia di Francesco d’Assisi a partire da un’intelligente riscrittura di un testo storiografico e documentario, come già era accaduto per Mal d’Africa (il testo-canovaccio è qui la Nova vita di san Francesco d’Assisi di Arnaldo Fortini, Milano 1926), recuperando al tempo stesso ciò che la storia non dice, in particolare la figura del padre, Pietro Bernardone.
Del 1966 è Il coccio di terracotta, di nuovo d’ambientazione mediorientale: storia di un Giobbe sopravvissuto a se stesso che ritrova la forza e il gusto di vivere. In tanta varietà di ambientazioni e personaggi, non è difficile scorgere però alcune costanti della fantasia bacchelliana, sempre sorretta dalla forza di uno stile sicuro e tuttavia capace di gradazioni e dosaggi. Il tema originario della passione amorosa, per esempio, torna con frequenza ed è centrale in Tre giorni di passione, Rapporto segreto e L’«Afrodite».
Con Il sommergibile, che racconta di un viaggio marino attraverso il globo terrestre, Bacchelli prende congedo dalla scrittura narrativa riallacciandosi idealmente alle peripezie di Lo sa il tonno con cui aveva esordito. Opera di rarefatta e luminosa leggerezza, il viaggio attraverso scenari naturali di scarsa o nulla presenza umana – scogli oceanici, villaggi eschimesi, pressioni e correnti marine – è anche una parabola conclusiva su ciò che resta della storia degli uomini, in approdi emblematici come la Guyana dove fu un tempo relegato Dreyfus o la Sant’Elena di Napoleone. Ancor più visionario e leopardiano l’ultimo libro, il breve «romanzo preistorico» In grotta e in valle, immagine di una storia umana che dalle grotte di Lascaux si perde nelle domande ultime («Allora a che serve tutto e ogni cosa?», ibid., p. 96).
Negli ultimi anni le condizioni di salute peggiorano (inabilità e cecità), e con esse le condizioni economiche. Il Comune di Bologna, per soccorrere lo scrittore, ne acquistò nel 1984 le carte e la biblioteca (da allora conservate presso l’Archiginnasio). Proprio il caso Bacchelli contribuì in modo decisivo, com’è noto, all’approvazione della legge n. 440 dell’8 agosto 1985 (ma subito e tuttora nota come «legge Bacchelli») che prevede un assegno straordinario vitalizio a coloro che si sono distinti nel mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo e dello sport, ma che versano in condizioni di indigenza.
Lo scrittore, tuttavia, non poté di fatto usufruirne, poiché morì due mesi dopo, l’8 ottobre 1985, all’età di novantaquattro anni, in una clinica di Monza, assistito come sempre dalla moglie Ada.
Opere
Un ordinamento della vasta e complessa opera bacchelliana è la citata edizione di Tutte le opere di R. B., diretta da Maurizio Vitale per Mondadori, in ventotto volumi pubblicati tra il 1957 (Il mulino del Po) e il 1975 (Novelle). A tale edizione, che riporta le ‘versioni definitive’ di tante opere spesso riscritte dall’autore, vanno aggiunte le opere degli ultimi anni, come i romanzi, citati nel testo, Il progresso è un razzo: un romanzo matto (Milano 1975), Il sommergibile (Milano 1978) e In grotta e in valle: romanzo preistorico (Milano 1980). A eccezione di Il mulino del Po e Il diavolo al Pontelungo, poche opere sono state ripubblicate dopo la morte dello scrittore, e in edizioni non facilmente reperibili.
Fonti e Bibliografia
Strumento indispensabile è Uno scrittore nel tempo. Bibliografia di R. B., a cura di C. Masotti – M. Saccenti – M. Vitale, Firenze 2001, che integra lo storico lavoro di Vitale, iniziato negli anni Cinquanta e condotto fino ai Settanta. Tra gli studi, le monografie e i volumi collettivi dedicati, oltre a quelli citati nel testo, si ricordino almeno: Discorrendo di R. B., Milano-Napoli 1966 (con interventi di: A. Andreoli, G. Raimondi, S. Solmi, F. Gavazzeni, E.F. Palmieri, G. Contini, L. Blasucci, L. Ronga, C. Segre, M. Fubini); P. Pancrazi, Ragguagli di Parnaso, Napoli 1967, ad ind.; A. Dosi Barzizza, Invito alla lettura di B., Milano 1971; G. Contini, «Il Mulino del Po» e la carriera letteraria di R. B., in Id., Esercizi di lettura, Torino 1974, ad ind.; A. Briganti, B., Firenze 1980; R. B.: lo scrittore, lo studioso, Atti del convegno, Milano… 1987, Modena 1990; M. Vitale, Sul fiume reale. Tradizione e modernità nella lingua del «Mulino del Po» di R. B., Firenze 1999; M. Saccenti, B. Memoria e invenzione, Firenze 2000.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Biblioteca DEA SABINASylvia Plath- Lettera d’amore e altre Poesie.
Descrizione-Sylvia Plath, voce tra le più potenti e limpide della letteratura americana, dopo la tragica morte divenne rapidamente e a lungo rimase un simbolo delle rivendicazioni femministe. Educata ai rigidi valori della società statunitense, nella sua breve vita la Plath riuscì a coniugare potenza espressiva e realizzazione estrema di sé, evadendo dalle sbarre imposte dalla condizione di “moglie” e trovando proprio in questo tentativo di superamento la suprema forza creativa. Nei suoi versi il tono è assoluto, ogni parola, e ciò che essa rappresenta, non potrebbe essere altrimenti: «suono e senso» scrive Seamus Heaney nel brano che introduce il volume «si alzano come una marea dalla lingua per trascinare l’espressione individuale su una corrente più forte e profonda di quanto l’individuo potesse prevedere». In tutto il percorso lirico della Plath, e fino alle perfette composizioni di Ariel, istanze psicologiche, biografiche e poetiche si fondono con un tono di libertà e perentorietà unico, un senso di urgenza e spontaneità che emerge dalla disciplina di metro, metafore, rime con la potenza di un fiat, con l’euforia di una mente che crea e supera il dolore personale, per approdare a un sentimento stupefatto, meravigliato dell’esistere.
Breve Biografia
Sylvia Plath (Boston, 27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963) è stata una poetessa e scrittrice statunitense.Assieme ad Anne Sexton, la Plath è stata l’autrice che più ha contribuito allo sviluppo del genere della poesia confessionale,un genere di poesia sviluppatosi negli Stati Uniti negli anni Cinquanta e Sessanta in cui gli scrittori raccontano le proprie esperienze personali e i loro turbamenti interiori. Autrice anche di vari racconti e di un unico dramma teatrale a tre voci, per lunghi periodi della sua vita ha tenuto un diario, di cui sono state pubblicate le numerose parti sopravvissute. Parti del diario sono invece state distrutte dall’ex-marito, il poeta laureato inglese Ted Hughes, da cui ebbe due figli, Frieda Rebecca e Nicholas. Morì suicida all’età di trent’anni. Ecco di seguito una delle sue poesie più belle.
Sylvia Plath- Lettera d’amore e altre Poesie.
Lettera d’amore
Non è facile dire il cambiamento che operasti.
Se adesso sono viva, allora ero morta
anche se, come una pietra, non me ne curavo
e me ne stavo dov’ero per abitudine.
Tu non ti limitasti a spingermi un po’ col piede, no-
e lasciare che rivolgessi il mio piccolo occhio nudo
di nuovo verso il cielo, senza speranza, è ovvio,
di comprendere l’azzurro, o le stelle.
Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente
mascherato da sasso nero tra i sassi neri
nel bianco iato dell’inverno
come i miei vicini, senza trarre alcun piacere
dai milioni di guance perfettamente cesellate
che si posavano a ogni istante per sciogliere
la mia guancia di basalto. Si mutavano in lacrime,
angeli piangenti su nature spente,
Ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano.
Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio.
E io continuavo a dormire come un dito ripiegato.
La prima cosa che vidi fu l’aria, aria trasparente,
e le gocce prigioniere che si levavano in rugiada
limpide come spiriti. Tutt’intorno giacevano molte
pietre stolide e inespressive,
Io guardavo e non capivo.
Con un brillio di scaglie di mica, mi svolsi
per riversarmi fuori come un liquido
tra le zampe d’uccello e gli steli delle piante
Non m’ingannai. Ti riconobbi all’istante.
Albero e pietra scintillavano, senz’ombra.
La mia breve lunghezza diventò lucente come vetro.
Cominciai a germogliare come un rametto di marzo:
un braccio e una gamba, un braccio, una gamba.
Da pietra a nuvola, e così salii in lato.
Ora assomiglio a una specie di dio
e fluttuo per l’aria nella mia veste d’anima
pura come una lastra di ghiaccio. E’ un dono..
Io sono verticale
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
Succhiante minerali e amore materno
Così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
Né sono la beltà di un’aiuola
Ultradipinta che susciti gridi di meraviglia,
Senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
E la cima d’un fiore, non alta, ma più clamorosa:
Dall’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.
Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
Alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo, ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
Forse assomiglio a loro nel modo più perfetto –
Con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo e io siamo in aperto colloquio,
E sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
Finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.
(da “Lady Lazarus e altre poesie”, traduzione di Giovanni Giudici, con postfazione di Teresa Franco, 2023)
Limite (Febbraio 1963, scritta poco prima di morire)
La donna ora è perfetta
Il suo corpo
morto ha il sorriso della compiutezza,
l’illusione di una necessità greca
fluisce nei volumi della sua toga,
i suoi piedi
nudi sembrano dire:
Siamo arrivati fin qui, è finita.
I bambini morti si sono acciambellati,
ciascuno, bianco serpente,
presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
Lei li ha raccolti
di nuovo nel suo corpo come i petali
di una rosa si chiudono quando il giardino
s’irrigidisce e sanguinano i profumi
dalle dolci gole profonde del fiore notturno.
La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,
non ha motivo di essere triste.
E’ abituata a queste cose.
I suoi neri crepitano e tirano.
Sylvia Plath
Monologo delle 3 del mattino
È meglio che ogni fibra si spezzi
e vinca la furia,
e il sangue vivo inzuppi
divano, tappeto, pavimento
e l’almanacco decorato con serpenti
testimone che tu sei
a un milione di verdi contee da qui,
che sedere muti, con questi spasmi
sotto stelle pungenti,
maledicendo, l’occhio sbarrato
annerendo il momento
che gli addii vennero detti, e si lasciarono partire i treni,
ed io, gran magnanimo imbecille, così strappato
dal mio solo regno.
Sylvia Plath
Sylvia Plath e Ted Hughes, l’amore finito in tragedia
Quello tra Sylvia Plath e Ted Hughes non fu un rapporto felice, ma anzi tormentato e ambiguo, terminato definitivamente con il suicidio della poetessa
Sylvia Plath
Papaveri a luglio
Piccoli papaveri, piccole fiamme d’inferno,
Non fate male?
Guizzate qua e là. Non vi posso toccare.
Metto le mani tra le fiamme. Ma non bruciano.
E mi estenua il guardarvi così guizzanti,
Rosso grinzoso e vivo, come la pelle di una bocca.
Una bocca da poco insanguinata.
Piccole maledette gonne!
Ci sono fumi che non posso toccare.
Dove sono le vostre schifose capsule oppiate?
Ah se potessi sanguinare, o dormire! –
Potesse la mia bocca sposarsi a una ferità così!
O a me in questa capsula di vetro filtrasse il vostro liquore,
Stordente e riposante. Ma senza, senza colore.
Sylvia Plath
Ariel
Stasi nel buio. Poi
l’insostanziale azzurro
versarsi di vette e distanze.
Leonessa di Dio,
come in una ci evolviamo,
perno di calcagni e ginocchi! –
La ruga
s’incide e si cancella, sorella
al bruno arco
del collo che non posso serrare,
bacche
occhiodimoro oscuri
lanciano ami –
Boccate di un nero dolce sangue,
ombre.
Qualcos’altro
mi tira su nell’aria –
cosce, capelli;
dai miei calcagni si squama.
Bianca
godiva, mi spoglio –
morte mani, morte stringenze.
E adesso io
spumeggio al grano, scintillio di mari.
Il pianto del bambino
nel muro si liquefà.
E io
sono la freccia,
la rugiada che vola
suicida, in una con la spinta
dentro il rosso
occhio cratere del mattino.
La poesia matura di Kiki Dimoulà (1931-2020) ha aggiunto una dimensione completamente nuova alla poesia greca moderna.
Avendo sperimentato il dramma della dissoluzione esistenziale dell’umanità del dopoguerra e, allo stesso tempo, il vicolo cieco di un mondo che ha perso il dono della fede, la sua poesia ha mappato un mondo che è allo stesso tempo “senza casa” e insicuro; un mondo in cui la poeta, per sopravvivere, ha dovuto immergersi nelle dinamiche fondamentali del processo creativo e interferire in modo decisivo con la loro logica. La sua scrittura rivoltava la grammatica della lingua greca contro il significato delle parole, tentando così di rafforzare la forza emotiva del verso attraverso lo stupore e la sorpresa. Tutti i suoi versi suggeriscono la stabilità di un mondo che gli occhi non possono vedere, ma che diventa intero attraverso la sua ricostruzione immaginaria all’interno della poesia come un tutto organico. Questa dimensione di stupore e sorpresa è diventata un fattore emotivo attivo nella poesia greca contemporanea.
Kiki Dimoulà
La poesia di Dimoulà tratta i temi dell’assenza e dell’oblio come in un caleidoscopio, dove colori e forme si dissolvono e si mescolano per essere ricostruiti in un’armonia e un ordine nascosti. Questa poesia trasforma la fluidità in un processo transustanziante: l’universo ridiventa mondo, l’agonia diventa nostalgia, l’assenza appare come redenzione del tempo. Il linguaggio della poeta rompe le consuetudini e nega le certezze di una tradizione romantica che non vede il tempo perduto come una presenza continua e attiva. Attraverso le sue linee il tempo personale rinasce e si compie per sempre come esperienza collettiva e immagine prismatica. La sua poesia, attraverso le analisi e gli studi di Eraclito, presenta il mondo migliore di un’ontologia personale e lo stabilisce come materiale sensoriale e fenomeno estetico.
Per Dimoulà il silenzio, la migrazione e la minimizzazione entrano nel linguaggio per dissolvere la coerenza di una logica incapace di decifrarne il messaggio. In essi la poeta scopre dimensioni esistenziali che errano nell’esperienza ma che il cervello, ottenebrato com’è dalla vertigine razionalistica, rifiuta di accettarle. È proprio questo lo scopo della poesia di Dimoulà: creare lo spazio per la realizzazione del mondo migliore. Ognuna delle sue poesie individua e registra le dimensioni di questo mondo multidimensionale e ordinato previsto.
La “o” disgiuntiva
Mi ha chiuso in casa la pioggia e ora dipendo dalle gocce.
Ma come sapere se è pioggia o lacrime dal cielo profondo di un ricordo? Sono troppo cresciuta per dare senza riserve un nome ai fenomeni: questa è pioggia e queste sono lacrime.
Rimango asciutta tra due possibilità: pioggia o lacrime, e tra tante ambigue realtà: pioggia o lacrime, amore o modo di crescere, tu o piccola oscillante ombra dell’ultima foglia che saluta. Ogni ultima cosa, la chiamo ultima senza riserve.
Sono troppo cresciuta perché questo sia motivo di lacrime. Lacrime o pioggia, come saperlo? E continuo a dipendere dalle gocce. E sono troppo cresciuta per aspettare una misura quando piove e un’altra quando non piove. Gocce per tutto. Gocce di pioggia o lacrime.
Dagli occhi di un ricordo o dai miei. Io o il ricordo, chi lo sa. Sono troppo cresciuta per distinguere i tempi. Pioggia o lacrime. Tu o piccola oscillante ombra dell’ultima foglia che saluta.
(Traduzione di Maria Paola Minucci)
da “L’adolescenza dell’oblio”, Crocetti Editore.
È per questo che ogni sua poesia mina il dominio del silenzio, ogni parola abolisce il potere dell’oscurità e dell’oscurità. La poeta vuole far luce su quelle forze mobilitanti della psiche – non il subconscio freudiano dei desideri repressi, ma l’area dell’Es, l’oscura Persefone che appartiene a ciascuno dei mortali e regna nel nostro Ade personale: una sorgente personale, una via verso la molteplicità. Ciascuna poesia di Dimoula è quindi un rito funebre omerico, una rievocazione dei morti attraverso la sottomissione del senso assente che hanno lasciato; e ciascuna sottomissione dona essenza alle sue linee, plasma essenza ed energia, corpo, linguaggio e calore umano.
Per Dimoula tutto vive di una simultaneità a più livelli, nel tempo della memoria dove non c’è distinzione tra istanti e tutto è identificato in modo assoluto e viene liberato alla salvezza attraverso lo stupore della memoria. Perché questa emozione iniziale domina nel suo lavoro: stupore per la perdita e la dissoluzione, per il tempo e la distanza, stupore per il potere del linguaggio che resuscita e sostituisce integralmente tutte quelle cose che sono scomparse e sono state dimenticate. Il poetare di Dimoulà illustra il ristabilimento di analogie simmetriche tra memoria e realtà, tra l’uomo e il suo spazio; infine, vede la possibilità della transustanziazione dalla decadenza, la resistenza concessa al caos e alla confusione della storia dalla potenza del linguaggio.
Cravatta nera
Innaffia tu la pianta e lasciami piangere. Scrivi però le ragioni, forse devo altro dolore. Voglio avere la coscienza in pace di avere sofferto per tutto.
Scrivi che piango per uno specchio. Un tempo oggetto ornamentale, oggi oracolo. Per la brusca buonanotte che danno le poche possibilità e si dileguano. Scrivi che piango per la tua finestra, chiusa e senza saluti, melanconica per nascita. Per gli uccelli dell’ultimo decennio. Il loro terrore delle antenne televisive. Per il loro adattarsi e svolazzare tra questi alberi di ferro.
Scrivi. Per questo sabato sera sepolto tra due cipressi nella chiesa di campagna. Per la luna in lutto – indossa una cravatta nera nuvola, scrivi che piange. Piango perché mi hai chiesto se ho visto la luna piena. No, non ho visto niente di pieno, non ho vissuto. Piango perché i ragazzi portano lo zaino come una conoscenza già completa, e non entrano nel tenero rassicurante delle ore ancora acerbe e non giocano.
Scrivi che piango per le madri. Le più antiche madri. Belle ed esili, amanti delle finestre, arpiste della vedetta che la morte ha colto impreparate e sono longeve materne nelle fotografie del salotto e nei ricami.
Piango perché hanno acceso le luci e la domenica gatta raggomitolata sulla mia finestra. Scrivi che piango per le bufere, il poco cibo, per tutto il Poco, per i terremoti senza preavviso. Piango perché va sprecata la notizia che mi hai dato della prima farfalla vista ieri. Piango perché non fa notizia l’effimero.
Scrivi. Piango perché la sorte si è chiusa in casa, la dilazione è arrivata al boia, la borraccia è arrivata nel deserto, la gioventù nella fotografia. Piango perché chissà chi chiuderà dei miei giorni gli occhi.
Innaffia tu la pianta e lasciami piangere perché…
Fotografia 1948
Ho un fiore in mano forse. Strano. Nella mia vita deve esserci stato un giardino un tempo.
Nell’altra mano stringo una pietra. Con fiera grazia. Nessun sospetto per preavvisi di mutamenti, sentore di difese piuttosto. Nella mia vita deve esserci stata ignoranza un tempo.
Sorrido. La curva del sorriso, il cavo del mio umore, somiglia a un arco ben teso, pronto. Nella mia vita deve esserci stato un bersaglio un tempo. E predisposizione a vincere.
Lo sguardo affondato nel peccato originale: assapora il frutto proibito dell’attesa. Nella mia vita deve esserci stata fede un tempo.
La mia ombra, nient’altro che un gioco del sole. Addosso un’uniforme d’incertezza. Non ha ancora fatto in tempo a essermi compagna o delatrice. Nella mia vita deve esserci stata abbondanza un tempo.
Tu non ci sei. Ma se c’è un precipizio nel paesaggio se io sto sull’orlo con un fiore in mano e sorrido, vuol dire che da un momento all’altro arriverai. Nella mia vita deve esserci stata vita un tempo.
(Traduzione di Maria Paola Minucci)
da “L’adolescenza dell’oblio”, CrocettiEditore.
Addio a Kiki Dimoula | L’Altrove
Kiki Dimoulà
25/02/2020 /Addio a Kiki Dimoula | L’Altrove
Ci ha lasciato, ad ottantanove anni, la poetessa greca Kiki Dimoula.
Kiki nacque ad Atene il 6 giugno 1931, nella vita fu impiegata nella Banca Nazionale Grecia, ma ebbe un grande successo con la sua poesia.
Esordì nel 1952 con la raccolta Poesie e successivamente pubblicò una decina di raccolte in versi. Le sue poesie vennero tradotte in molte lingue, in Italia fu la Crocetti Editore a pubblicarla. Con L’adolescenza nell’oblio, del 1994, vinse il prestigioso Premio dell’Accademia di Atene.
La ricordiamo con una sua poesia:
La pietra perifrastica
Parla. Dì qualcosa, qualsiasi cosa. Soltanto non stare come un’assenza d’acciaio. Scegli una parola almeno, che possa legarti più forte con l’indefinito. Dì: “ingiustamente” “albero” “nudo” Dì: “vedremo” “imponderabile”, “peso”. Esistono così tante parole che sognano una veloce, libera, vita con la tua voce. Parla. Abbiamo così tanto mare davanti a noi. Lì dove noi finiamo inizia il mare Dì qualcosa. Dì “onda”, che non arretra Dì “barca”, che affonda se troppo la riempi con periodi. Dì “attimo”, che urla aiuto affogo, non lo salvare, Dì “non ho sentito”. Parla Le parole hanno inimicizie, hanno antagonismi se una ti imprigiona, l’altra ti libera. Tira a sorte una parola dalla notte. La notte intera a sorte. Non dire “intera”, Dì “minima”, che ti permette di fuggire. Minima sensazione, tristezza intera di mia proprietà Notte intera. Parla. Dì “astro”, che si spegne. Non diminuisce il silenzio con una parola. Dì “pietra”, che è parola irriducibile. Così, almeno, che io possa mettere un titolo a questa passeggiata lungomare.
Da Il poco del mondo
Rivista L’Altrove
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Poesie di Eeva Kilpi- poetessa e scrittrice tra le più amate in Finlandia-
Eeva Kilpi -poetessa e scrittrice tra le più amate in Finlandia-Nata in Carelia, regione di confine che oggi appartiene alla Russia, l’autrice finnica si è formata da ragazza ad Helsinki ed ha iniziato a pubblicare romanzi, racconti e liriche all’età di 31 anni. Le sue opere sono state tradotte in sedici lingue. Il libro che le ha dato la fama mondiale è ‘Tamara’, uscito nel 1972, in cui narra il rapporto tra una donna sessualmente attiva e il suo professore universitario paraplegico e impotente.Eeva Kilpi è conosciuta anche come sceneggiatrice ed attrice di alcuni film e documentari molto popolari nel Paese nordico. Femminista ed ambientalista, ha trasferito l’impegno civile nelle sue poesie, spesso caratterizzate da una vena sottile di umorismo ed ironia.
Eeva Kilpi- poetessa e scrittrice fillandese
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LA PRIMAVERA, IL FALCO
(Eeva Karin Salo, coniugata in Kilpi)
La primavera, il falco
e questo posto dove vivevamo,
tutto questo mi emoziona, disse mia sorella
mentre mangiavamo lamponi
sulle fondamenta della nostra vecchia casa.
Eravamo su una collinetta soleggiata, circondati dalla foresta.
Una lepre aveva visitato il soggiorno.
Dalla parte della camera da letto era entrato un alce.
Era una sera calda.
Era passato mezzo secolo.
Quanto amiamo tutto ciò che è simile a noi.
Eeva Kilpi- poetessa e scrittrice fillandese
DIMMI SE DISTURBO
Dimmi se disturbo,
ha detto entrando,
perché me ne vado immediatamente.
Non solo disturbi,
ho replicato,
tu scuoti tutto il mio essere.
Benvenuto!
QUANDO HAI VISTO UNA NUVOLA
Quando hai visto una nuvola
nel grembo di un lago
e la luna
tra le ninfee,
sei inevitabilmente in balia
della tua stessa anima.
Gli innamorati si offrono regni,
nuove patrie, continenti e lingue rare.
Quando si separano, i doni restano con loro,
sono irreversibili
e l’amore rimane in loro,
come la letteratura, le competenze linguistiche,
le poesie e i racconti
che hanno composto insieme
nella lingua di ognuno.
Allora l’amore allarga il mondo
e, anche quando scompare,
suscita pace e comprensione.
Nuovi cuori si stanno aprendo,
c’è ancora qualcosa da condividere
con i prossimi amori.
Eeva Kilpi
da Canto d’amore e altre poesie, 1972
Eeva Kilpi -Nata in Carelia, regione di confine che oggi appartiene alla Russia, l’autrice finnica si è formata da ragazza ad Helsinki ed ha iniziato a pubblicare romanzi, racconti e liriche all’età di 31 anni. Le sue opere sono state tradotte in sedici lingue. Il libro che le ha dato la fama mondiale è ‘Tamara’, uscito nel 1972, in cui narra il rapporto tra una donna sessualmente attiva e il suo professore universitario paraplegico e impotente.Eeva Kilpi è conosciuta anche come sceneggiatrice ed attrice di alcuni film e documentari molto popolari nel Paese nordico. Femminista ed ambientalista, ha trasferito l’impegno civile nelle sue poesie, spesso caratterizzate da una vena sottile di umorismo ed ironia.
Eeva Karin Kilpi (née Salo; 18 February 1928, Hiitola) is a Finnish writer and feminist.[1] Better known abroad than in Finland, her poetry, characterized as feminist humor, was discovered in the 1980s in Europe.[2]
Eeva Kilpi- poetessa e scrittrice fillandese
Biography
Eeva Karin Salo was born on February 18, 1928, to Solmu Aulis Aimo and Helmi Anna Maria (née Saharinen) Salo within the former Karelian municipality of Hiitola, Finnish Karelia, where she lived until the coming of the Winter War of 1939-1940.[3][4]
During the Winter War, Kilpi and her family survived bombings by hiding in an underground cellar. Her father was later called away to the front lines and the family was forced to evacuate from the region. Kilpi ended up attaining an education in Helsinki, the capital and largest city in Finland.[3][4]
Roma-La Fotografa Barbara Dall’Angelo espone le sue fotoal ristorante capitolino Il Margutta Veggy Food & Art –
Roma- Da giovedì 3 aprile a lunedì 16 giugno, la fotografa Barbara Dall’Angelo espone le sue fotoin via Margutta al ristorante capitolino Il Margutta Veggy Food & Art .La nuova mostra fotografica di Barbara Dall’Angelo, “Zefiro, vento di primavera”, curata e organizzata da Tina Vannini. Un’esposizione di venticinque scatti che celebra il risveglio della natura con immagini capaci di trasmettere poesia e armonia attraverso la fotografia. Le opere in esposizione rappresentano un viaggio emozionale che attraversa paesaggi incontaminati e dettagli minuziosi della natura, cogliendo il mutare delle stagioni e la danza della luce sugli elementi.
Roma-la mostra fotografica di mostra fotografica di Barbara Dall’Angelo, “Zefiro, vento di primavera”, “Zefiro, vento di primavera”
Barbara Dall’Angelo-Fotografa
Roma-la mostra fotografica di mostra fotografica di Barbara Dall’Angelo, “Zefiro, vento di primavera”, “Zefiro, vento di primavera”
LA RICERCA ARTISTICA DELLA FOTOGRAFA
Dai “Fiori di campo”, con le loro delicate trasformazioni cromatiche, agli “Alberi danzanti”, iconiche mangrovie indonesiane che le hanno valso il primo premio assoluto ad Asferico 2024 e il coinvolgimento in un prestigioso progetto internazionale in onore di Jane Goodall. La ricerca artistica di Barbara Dall’Angelo si distingue per la sua capacità di trasformare la fotografia in una vera e propria pittura luminosa, rendendo ogni scatto un’opera intrisa di significato estetico ed etico. In mostra troviamo scenari che spaziano dall’Italia (con le sue foreste dolomitiche e la costa tirrenica) fino alle terre della Camargue e dell’Andalusia. Non mancano suggestive ambientazioni naturali dal resto del mondo, come le acque impetuose delle cascate di Iguaçu in Brasile, la foresta di allori, Patrimonio dell’Umanità, a Madera in Portogallo e la magia selvaggia della Louisiana. L’uso attento delle simmetrie e delle ripetizioni di forme crea un ritmo visivo che dona alle immagini un fascino quasi musicale. L’acqua, il vento, la luce diventano elementi narrativi che plasmano ogni scena, restituendo all’osservatore la sensazione di trovarsi immerso nella natura stessa.
Roma-la mostra fotografica di mostra fotografica di Barbara Dall’Angelo, “Zefiro, vento di primavera”, “Zefiro, vento di primavera”
Barbara Dall’Angelo-Fotografa
Roma-la mostra fotografica di mostra fotografica di Barbara Dall’Angelo, “Zefiro, vento di primavera”, “Zefiro, vento di primavera”
ODE ALLA NATURA E FRAMMENTI DI TEMPO
«Questa mostra rappresenta un dialogo profondo tra arte e natura, tra sensibilità estetica e rispetto per l’ambiente – commenta Tina Vannini, curatrice della mostra -, infatti, Barbara Dall’Angelo possiede la straordinaria capacità di restituire il senso del sublime attraverso la fotografia, trasformando paesaggi e dettagli naturali in visioni evocative che parlano all’anima. Ogni suo scatto è un invito a rallentare, a osservare con attenzione e a riscoprire la bellezza autentica che ci circonda, troppo spesso ignorata nella frenesia quotidiana. Con “Zefiro, vento di primavera” vogliamo offrire ai visitatori non solo un percorso visivo, ma un’esperienza di connessione profonda con la natura, un momento di contemplazione e riflessione che può ispirare un nuovo modo di guardare il mondo. A esprimersi è dunque l’artista stessa: «La natura è un racconto senza fine, fatto di luce, vento e silenzi che parlano a chi sa ascoltare Con questa mostra desidero offrire non solo una visione, ma un’esperienza: un invito a immergersi nella bellezza selvaggia del mondo e a riscoprirne l’armonia. La fotografia, per me, è il linguaggio con cui traduco l’emozione di uno sguardo, il battito di un attimo irripetibile».
Roma-la mostra fotografica di mostra fotografica di Barbara Dall’Angelo, “Zefiro, vento di primavera”, “Zefiro, vento di primavera”
Barbara Dall’Angelo-Fotografa
Roma-la mostra fotografica di mostra fotografica di Barbara Dall’Angelo, “Zefiro, vento di primavera”, “Zefiro, vento di primavera”
ODE VISIVA ALLA TERRA
«Il viaggio di Barbara non è solo quello di un’artista che affina il proprio sguardo: è il cammino di una donna che si lancia oltre i confini, senza esitazioni. Con la mente, con il cuore, con il corpo. E ogni volta che parte per un viaggio, con l’incoscienza di chi è guidato dalla necessità interiore, la vedo sfidare il pericolo, la fatica, inseguendo un’immagine che forse esiste già dentro di lei, ancora prima che l’otturatore la fissi nella memoria del mondo». Afferma Tinny Andreatta, vicepresidente Contenuti Italia di Netflix: «Barbara Dall’Angelo celebra la Natura e la sua Meraviglia attraverso una poesia di immagini che arrivano direttamente al cuore», aggiunge la conduttrice Licia Colò. Inoltre, come si legge nel testo critico di Alessandra Clementi, giornalista del “National Geographic”, «L’arte fotografica di Barbara Dall’Angelo si è affinata nel tempo, mantenendo sempre salda la sua filosofia di base. Il suo lavoro si configura come un’ode visiva alla Terra, invito alla contemplazione della Natura attraverso immagini che ne catturano la bellezza in tutte le sue forme. Attimi di incanto e suggestioni visive si trasformano in stimoli positivi, ispirando una maggiore attenzione verso l’ambiente e una riflessione sul rapporto tra l’uomo e il pianeta».
Barbara Dall’Angelo-Fotografa
BARBARA DALL’ANGELO
Barbara Dall’Angelo è una fotografa naturalistica di fama internazionale. Dopo una formazione in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, ha intrapreso un percorso che l’ha portata a collaborare con testate prestigiose come National Geographic Italia. Le sue immagini sono state esposte in gallerie e musei di tutta Europa e hanno ricevuto importanti riconoscimenti nei più prestigiosi concorsi fotografici. Con il volume The Poetry of Earth (Electa, 2016) ha reso omaggio alla bellezza della natura, mentre con la mostra Zefiro, vento di primavera continua a offrire al pubblico uno sguardo profondo e autentico sul mondo che ci circonda.
INFO
Dove: Il Margutta, Roma;
quando: dal 3 aprile al 16 giugno 2024;
opere esposte: 25 fotografie;
ingresso: gratuito durante gli orari di apertura del ristorante.
A711 – ARTE, FOTOGRAFIA: BARBARA DALL’ANGELO IN VIA MARGUTTA A ROMA. La personale della fotografa ha luogo presso Il Margutta Veggy Food & Art: venticinque scatti che celebrano il risveglio della natura attraverso la fotografia poetica di Zefiro, vento di primavera.
Dal 3 aprile al 16 giugno una esposizione unica che esplora la bellezza del mondo naturale con immagini evocative e suggestive. Di seguito gli interventi al vernissage di inaugurazione del 3 aprile 2025, nel corso del quale hanno preso la parola TINA VANNINI (curatrice della mostra), BARBARA DALL’ANGELO (fotografa) e FEDERICO MOLLICONE (parlamentare della Repubblica, presidente VII Commissione Cultura della Camera dei Deputati).
BIO- Barbara Dall’Angelo-Fotografa
Communication through imagery has always attracted me: I was born in close contact with photography, film and television. By way of family legacy and personal passion, I’ve made this world my life.
I did my university studies in Literature and Performing Arts and graduated from the director’s program of the Centro Sperimentale di Cinematografia in Rome.
I founded a film and television distribution company, Dall’Angelo Pictures, of which I am still chief executive.
Photography has been a passion of mine since I was an adolescent, but only after I turned 40 it became something much more important.
It is the way I see the world, and whichendlessly makes me exploring new aspects of it, and refreshing my gaze. By the way of photographing I discover whatever entices my eye the most: the simplicity as the most complex of sophistications. I look for the synergy of lines within the spatial dimension, the light that designs the nuances of a landscape, the perception of time arising from the movement as much as the stillness.
In my photographs, I try to crystallize extremely delicate moments of Nature’s harmony and balance which unveil the fragility and mutability of our world.
In a gentle way I try to awaken the moral responsibility we all have in the protection of our planet, our greatest gift.
La comunicazione attraverso le immagini mi attrae da sempre: sono nata a contatto con la fotografia, il cinema e la televisione. Per eredità familiare e per passione personale, ho fatto di questo mondo la mia vita.
Ho studiato spettacolo all’università e mi sono diplomata in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia. Ho fondato una società di distribuzione televisiva e cinematografica, la Dall’Angelo Pictures, della quale sono a tutt’oggi l’amministratore.
La fotografia è stata una mia passione fin dall’adolescenza, ma solo dai miei 40 anni è diventata qualcosa di molto più importante.
È il mio modo di vedere il mondo, è quello che mi spinge senza sosta ad esplorarne nuovi aspetti, a vedere con nuovi occhi.
Attraverso la fotografia scopro quello che cattura la mia anima: la semplicità, la più complessa delle sofisticazioni. Cerco la sinergia fra le linee nella dimensione dello spazio, la luce che descrive le sfumature del paesaggio, la percezione dello scorrere del tempo sia attraverso il movimento che la staticità.
Marian Drăghici-“Illimitato – De necuprins” Giuliano Ladolfi editore
Nota di Sonia Elvirenau, traduzione di Giuliano Ladolfi-
Rivista Atelier
Descrizione del libro di Marian Drăghici si distingue nella lirica contemporanea per l’audace tentativo di scrivere il “Libro della sua vita”, sempre rivisto, levigato, per cogliere nel poema l’illuminazione, come Brâncuși, il volo dell’uccello nelle sue sculture, seguendo così l’esortazione di Stéphane Mallarmé: «Vincere significherebbe comporre, finalmente, l’Opera, il Libro – l’unico –, trionfare, quindi, sulle fatalità e le leggi del mondo, su tutto ciò che il pensiero non può sottomettere al suo impero, sul Destino». [Lettera a Verlaine (1885), citata da J. Royère nel suo libro Mallarmé]
Nel 2022 è apparsa in Italia la sua raccolta bilingue italo-romena illimitato/ de necuprins, tradotta dal poeta, critico e traduttore Giuliano Ladolfi in un’armoniosa composizione poetica che comprende la maggior parte delle poesie della raccolta leggero, lentamente (2013), un minimo di versi del volume păhăruțul (2019), poesie nuove, pubblicate su riviste e inedite. Eccellente critico letterario, Giuliano Ladolfi intuisce nella creazione di Marian Drăghici una radicale trasformazione della sua coscienza attraverso l’arte e il suo dramma esistenziale, accogliendo il libro come «testimonianza di una graduale “metanoia”».
La struttura del libro rivela il percorso seguito dal poeta, dal sacro estetico al religioso, dall’amore per la poesia all’amore per Dio, dall’intuizione della presenza divina nell’uomo all’attivazione dell’archetipo della divinità nella mente e nel cuore, dalla poesia che salverà il mondo alla fede che salverà l’uomo attraverso la sua rinascita nello spirito, nella divinità, nel cammino ascetico da uomo a santo.
La poesia e l’amore sono per Marian Drăghici forme per sperimentare l’illuminazione, passi verso la “metanoia” annunciata dal titolo stesso della precedente raccolta, luce, lentamente. L’esperienza esicasta, per mezzo della grazia acquisita con la preghiera, sulle orme dei Santi Padri, della tranquillità interiore attraverso la comunione con Cristo, è testimoniata nella poesia Il gatto faustiano, un racconto invernale incompiuto.
La raccolta illimitato/ de necuprins si apre con la poesia, che richiama le parole del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio». Il poeta cerca la parola illuminata attraverso la quale si rivela la divinità, la traccia del “seme degli angeli” nell’uomo, il legame con Dio.
Tutta la sua esistenza poetica è giustificata dalla ricerca incessante dello «sfolgorio di Dio» nell’uomo. Poiché la grazia poetica è di essenza divina, il poeta assume questo dono come una sorta di apostolato, rivelando fin dall’inizio il suo percorso spirituale verso la scoperta della divinità e il legame con il sacro religioso:
Ora, questo libro è il luogo illimitato/indefinito
dove l’angelo entra nell’uomo, per suonare l’armonica rossa,
quando ancora lo stava visitando.
Più precisamente, una fotografia sfocata, una mappa imperfetta di questo luogo.
«Ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro…».
Logicamente, la traccia rimasta in quel luogo battuto dall’uomo,
dopo la partenza intempestiva dell’angelo,
è la poesia.
Il mio lavoro di una vita: fare la fotografia, la grande fotografia –
In realtà, preservare un bagliore di angelità
prima che si cancelli completamente dalla memoria di questo luogo
la traccia del guizzo di Dio nell’uomo.
(All’inizio)
Su questo filo si costruisce la sua nuova raccolta tra l’amore per la poesia e l’amore per Dio, fondendo in essa il dramma di se stesso, dell’essere umano. Il poeta confessa infine la sua conversione, rinunciando alla vanità mondana:
ormai, il solo premio che riceverò con gioia
(ma che possa darlo proprio a me!)
è di essere in vecchiaia pazzo per Cristo
come ero in gioventù pazzo per la poesia».
(prezzo)
Marian Drăghici trasforma la sua poesia in una forma di conoscenza ontica e metafisica, giustificando così la sua esistenza di poeta. Dal rifiuto della parola di posarsi sulla pagina bianca alla vertigine delle sue visioni, le parole scorrono in poesia sulla poesia, l’amore, la sofferenza, la morte, la divinità, la rinascita, nel gioco raffinato dell’immaginario poetico passato attraverso sottili stratificazioni esistenziali e libresche. Si aprono così finestre successive sulle profondità non illuminate della conoscenza, sulle molteplici iniziazioni acquisite dal poeta attraverso la sperimentazione e la lettura.
La lucida confessione conserva l’essenza delle sue esperienze drammatiche: il male terrificante proiettato dal subconscio nell’onirico, la morte della giovane moglie dopo atroci sofferenze, la solitudine, la desolazione dell’anima, l’alcolismo, la messa in discussione della divinità, la scoperta del senso della sofferenza, l’invocazione della divinità, l’aspirazione ad accedere alla Gerusalemme celeste, la conversione.
Il poeta sopravvive alle molteplici forme di morte credendo nell’arte e nella divinità. La memoria affettiva si intreccia con la memoria culturale, substrato leggero della lirica di Marian Drăghici, formata spiritualmente alla fonte della grande letteratura universale e romena. Le sue letture si irradiano nel palinsesto del testo poetico. I riferimenti letterari, mitologici, religiosi, pittorici, psicanalitici sono precisi, diluiti o fusi nel testo. L’autenticità della vita, dell’esperienza personale, prevale nelle sue poesie, la cui espressione si diversifica metaforicamente e visionariamente.
Il lettore è contemporaneamente invitato a scoprire la complessità di una poesia in cui l’orizzonte si estende dall’interiorità del poeta all’esteriorità sociale, dalla realtà fisica a quella metafisica, dall’esperienza individuale a quella collettiva, dal conscio all’inconscio. Un poema elegiaco, mistico, salmico, ermetico, di strana bellezza, con un evidente taglio sarcastico quando si parla di sociale.
Il poeta scrive una vita all’interno delle stesse ossessioni, racchiudendosi nel suo mito personale. La sua poesia gravita a spirale intorno a un nucleo orfico, in variazioni di motivi ricorrenti. Apparentemente, la lirica di Marian Drăghici si chiude sulla sua esperienza, in una ripresa dei nuclei tematici, con un doppio ruolo. Da un lato, crea un modo specifico di lavorare in poesia, assunto con lucidità; dall’altro, permette di sfumare, aprendosi a una sfera più ampia di conoscenza e autoconsapevolezza: dal sé all’altro, dal profano al sacro, dal reale al metafisico.
Le metafore ricorrenti, che rivelano le sue ossessioni, operano all’interno delle poesie come un segno poetico riconoscibile, come la firma di un pittore su un quadro. Si riconosce così il poeta nelle varianti delle sue opere e contemporaneamente si ha la strana sensazione di conoscere la sua poesia ma di non averla decifrata, di essere ancora un enigma, di trovarsi di nuovo, come al primo contatto con la sua poesia, nello stesso stadio iniziatico. I versi non hanno perso la loro freschezza, come se il vecchio si rigenerasse incessantemente assorbito in una nuova forma. È come trovarsi di fronte a una casa con due ingressi, uno ti porta in uno spazio familiare, l’altro ti porta fuori da esso, in una zona crepuscolare in cui non riconosci più le cose.
Il nucleo della creazione di Marian Drăghici è orfico, generato dalla morte della giovane e amata moglie dopo una lunga sofferenza. Sono le poesie d’amore più belle e autentiche, che sublimano il sentimento e possono sempre stare accanto a quelle della lirica universale:
forse esiste
qualcosa di più reale del nulla, signor Beckett,
l’amore di una donna che non esiste più
(la morte non ci ha separati né l’oblio)
e che improvvisamente ti viene voglia di rivedere a tal punto che
vorresti lasciare la terra
vorresti lasciare la terra
ma non è ancora il momento.
basta dire che presto forse rivedrò il tuo volto, mia amata,
come tante volte ho guardato la morte in faccia
o probabilmente di profilo
nei giorni tumultuosi della rivolta vagando per le strade
nella speranza di ritrovarti,
sì, ti troverò
da qualche parte lontano la sera dopo la morte
vicino a un piccolo fuoco di ramoscelli presso la sorgente,
assolutamente al sicuro dagli uomini,
assolutamente al sicuro dalle belve
al solo luccichio delle stelle del cielo e nei tuoi movimenti
con la grazia della nudità originaria
(qualcosa di più reale del nulla).
Il poeta reprime il suo dolore, rivelando il vuoto dell’anima causato dall’assenza dell’amata, rappresentata figurativamente da un albero che continua a crescere dal suo cuore verso il cielo, una scala verso l’Aldilà:
senza amore sono veramente capace
di far crescere in me l’assenza
un lussureggiante albero, soffice, fino al cielo.
– come dal cuore dei morti?
– come dal cuore dei morti! Lassù,
sul ramo dell’apice ti culli nuda
tra le tue braccia l’uovo primordiale appena deposto
dall’uccello di Char, spirituale.
(ramo inclinato sul mare)
Lo shock della morte è così intenso che la voce del poeta tace per un po’, sostituita dalla voce stellare e dalla luminosa evanescenza dell’amata. Quando poi la ritrova, l’ispirazione, il tono lirico, la struttura, il linguaggio e l’atteggiamento cambiano. Da elegiaco, il poeta diventa parodia, ironia, sarcasmo, anche nelle poesie incentrate sull’atto della creazione poetica, sui metapoemi, sulla vera arte poetica.
La poesia autentica, infatti, è di natura sacra, la scrittura non è che una trascrizione imperfetta della poesia nascosta, invisibile, rivelata in sogno, un’arte povera nella concezione del poeta. Da qui lo stato di veglia per cogliere il momento di grazia e l’incapacità di creare la poesia sognata in uno spasmo letale. Ogni poesia scritta è percepita come una morte simbolica per la sopravvivenza della parola che dovrebbe essere illuminazione e salvezza.
L’esperienza della morte nelle sue molteplici forme (malattia, sofferenza, morte, guerra, alcool) è il filone su cui si costruisce la poesia di Marian Drăghici e giustifica la sua solitudine e la sensazione di esilio permanente, il suo vivere “con gli esiliati e i morti”. Ma il brivido tanatologico è superato dalla rinascita in una nuova luce, dalla graduale rivelazione di Dio non solo come ispirazione poetica, amore per l’altro (la moglie), ma soprattutto come esperienza religiosa: ” è tempo di avere un cristallo nel pensiero – / è così che io vedo Cristo – / un’assenza piena di lacrime / che non cadono a terra. // è tempo di avere un cristallo nel cuore – / è così che io sento Gesù – / un’assenza piena di lacrime / che salgono in alto” (luce, dolcemente, ultima variante).
Per Jung, la scoperta di Dio equivale alla riattivazione della funzione religiosa che esiste come archetipo nell’uomo, quindi alla connessione con il divino, alla riscoperta dell’angelo nell’essere umano. Il percorso di sopravvivenza del poeta è quello spirituale invocato nella poesia Gerusalemme, un percorso drammatico, perché passa attraverso la morte, la rivolta, l’incomprensione, l’interrogazione, la decadenza, la ricerca, l’esperienza mistica per la resurrezione nello spirito santo, l’esperienza esicasta, la comunione con la Divinità. Dal bambino affascinato dal cielo riflesso nell’acqua dello stagno, all’adolescente terrorizzato da uno spirito maligno, al fumatore malinconico e solitario, dall’ Harrum solitario e alienato al poeta oltraggiato dal declino della società, dallo scriba mortificato dall’impotenza al mistico illuminato, c’è il cammino dell’ascesa spirituale, del graduale avvicinamento a Dio, della rinascita attraverso la fede autentica. La tragedia dell’esistenza umana viene superata dalla rinascita nello spirito, grazie alla grazia acquisita con la preghiera costante, realizzando così la “metanoia” del poeta. L’edizione bilingue illimitato/ denecumpris rappresenta il risultato più elevato della lirica di Marian Drăghici, la traduzione nella lingua di Dante la impone nel circuito universale. Il testo in lingua rumena è pubblicato sul sito della rivista letteraria «Apostrof» https://www.revista-apostrof.ro/arhiva/an2023/n3/a13/
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
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Alessandro Sacchi-UN PROGETTO GLOBALE DI LIBERAZIONE- Paolo di Tarso interpella la chiesa di Roma-
Descrizione del libro di Alessandro Sacchi-La lettera inviata da Paolo ai cristiani di Roma è forse il documento che più ha influito non solo sull’autocoscienza cristiana ma anche sulla cultura europea. In essa l’Apostolo approfondisce i valori della fede, dell’amore e della speranza, sui quali si basa un progetto di liberazione che coinvolge non solo una comunità religiosa ma tutta la società. Oggi appare più che mai necessario cogliere soprattutto il messaggio di speranza che Paolo ci ha lasciato, perché da esso dipende la possibilità stessa di immagine un futuro migliore per il quale vale la pena impegnarsi.
Alessandro Sacchi Un progetto globale di liberazione Gabrielli editori Verona
PREFAZIONE
Soprattutto però la lettura e la comprensione del testo paoli- no risultano particolarmente difficili in quanto Paolo è vissuto in un tempo per noi remoto e in un contesto storico-culturale molto diverso dal nostro. Egli infatti condivide con il mondo bi- blico e con tutto il mondo antico una visione mitologica secondo cui le sorti di questo mondo si decidono in un ambito superiore, abitato da una o più divinità e/o da esseri appartenenti alla sfe- ra divina. È in questo mondo superiore che si cerca, mediante racconti di carattere mitologico, la spiegazione delle origini di questo mondo e di quanto capita in esso. Oggi invece, in forza della mentalità scientifica ormai invalsa nel mondo moderno, si è portati a ricercare la spiegazione degli eventi di questo mondo risalendo alle loro cause, senza fare riferimento a entità superiori.
Per queste ragioni un semplice lavoro di esegesi difficilmente potrà aiutare il lettore moderno ad apprezzare il contributo che Paolo ha dato al pensiero religioso e anche a rendersi conto dei malintesi di cui è stato occasione. Se si vuole che il suo scritto dica qualcosa all’uomo moderno, è necessario ricostruire il suo ambiente d’origine, l’eredità che Paolo ha ricevuto dalla prima generazione cristiana circa la figura di Gesù, lo scontro che ha sostenuto con i sostenitori di altre interpretazioni del nascente cristianesimo, prima fra tutte quella dei giudaizzanti che faceva capo addirittura alla chiesa di Gerusalemme; inoltre non bisogna dimenticare che la cultura greca, in cui Paolo era immerso, ha esercitato un notevole influsso sul suo pensiero. Infine è necessa- rio tener presente che lo scopo della sua lettera non è dottrinale ma pastorale e quindi tende non tanto a formulare tesi accade- miche quanto piuttosto a risolvere problemi contingenti alla luce della fede comune.
Tenendo conto di queste difficoltà, mi sono proposto di non fare semplicemente un commento esegetico alla lettera e neppu- re entrare nel dibattito su singoli punti dello scritto. Lo scopo che mi sono prefisso è invece quello di situare la lettera all’in- terno del tessuto culturale in cui ha avuto origine e di proporne una rilettura che tenga presente le istanze del mondo moderno. A tal fine, ho ritenuto opportuno abbandonare la forma solita del commento che segue rigidamente la successione dei testi. Mi è sembrato più utile invece raggruppare i brani in cui si affronta
PREFAZIONE – 15
prevalentemente lo stesso tema in modo da esaminarne lo sfon- do culturale e i rapporti con la più antica tradizione riguardante Gesù di Nazaret, al fine di metterne in luce le implicazioni per i credenti di oggi. Quando si tratta di passaggi controversi, scelgo l’interpretazione che mi sembra più probabile, accennando ma- gari a una possibile alternativa o indicando in nota una fonte di ulteriore documentazione.
Nel c. I del volume presento il contesto storico-culturale della lettera. In esso abbozzo anzitutto una sintesi della storia e del- la letteratura biblico-giudaica, presentando poi i vangeli sinotti- ci, nei quali sono riportate le più antiche tradizioni riguardanti Gesù di Nazaret, e i momenti più salienti dell’attività di Paolo prima dell’invio della lettera. Naturalmente in questo primo ca- pitolo darò semplici indicazioni che il lettore potrà approfondire facendo ricorso alle fonti da me indicate e alle informazioni che attualmente si possono recuperare senza difficoltà anche in inter- net. Ciò vale soprattutto per la letteratura giudaica di cui certa- mente molti lettori sono all’oscuro.
Nel c. II affronterò più direttamente l’origine e i contenuti della lettera, tenendo conto delle informazioni che Paolo stesso fornisce nella cornice (prologo ed epilogo) della lettera stessa. Seguono due capitoli (cc. III e IV) nei quali delineo l’immagine di Dio e della legge mosaica a cui rispettivamente Paolo e Gesù si riferiscono sullo sfondo delle concezioni tipiche del mondo biblico-giudaico, con qualche riferimento alla cultura ellenistica. A questo punto affronterò il tema nevralgico del peccato (c. V); successivamente, dopo un capitolo riservato alla figura di Gesù nel cristianesimo primitivo(c. VI), esaminerò il tema della giu- stificazione mediante la fede (c. VII). Negli ultimi tre capitoli metterò a fuoco rispettivamente il pensiero di Paolo circa la vita secondo lo Spirito (c. VIII), la sua riflessione sul mistero di Israe- le (c. IX) e infine le esortazioni riguardanti la vita quotidiana dei credenti (c. X). Come conclusione tenterò una breve sintesi del messaggio della lettera all’interno di una cultura, la nostra, che non è più quella del suo autore (c. XI).
Al termine del volume riporto una bibliografia nella quale sono elencati per esteso i titoli delle opere citate nel testo. Per lo scopo che mi prefiggo, faccio riferimento quasi esclusivamente a
16 – PREFAZIONE
scritti in lingua italiana, nei quali il lettore può trovare la fonte di una particolare interpretazione oppure strumenti che aiutino ad approfondire un tema o un concetto specifico. Nelle note a piè di pagina mi limito a indicare in modo abbreviato i titoli delle ope- re utilizzate. Gli articoli che fanno parte di una raccolta di scritti dello stesso autore saranno segnalati solo in nota con il riferimen- to alla fonte da cui sono ripresi, il cui titolo è citato per esteso nella bibliografia. Alcune opere utilizzate in questo volume sono reperibili anche in internet: mi limito a segnalarle, lasciando al lettore il compito di ritrovarle facendo uso dei normali motori di ricerca. Per il testo della lettera mi servirò della traduzione uffi- ciale della CEI (2008), segnalando eventuali divergenze di inter- pretazione.
Per le sue caratteristiche, questo lavoro è rivolto soprattutto a quanti affrontano per la prima volta lo studio della lettera ai Ro- mani e non hanno ancora una sufficiente conoscenza della cul- tura e della letteratura biblico-giudaica di cui essa fa parte: non solo quindi agli studenti dei seminari e degli Istituti di scienze re- ligiose e ai catechisti, ma anche a tutti coloro che sono interessati a una lettura critica della Bibbia.
CONTESTO STORICO-CULTURALE
La lettera ai Romani è uno scritto che nasce all’interno della religione e della cultura giudaiche, in quanto sia il mittente che i destinatari facevano parte di un movimento che, nel giudaismo, si rifaceva a Gesù di Nazaret, riconosciuto come il Messia (Cri- sto) annunziato dai profeti. Per questo i suoi seguaci sono stati chiamati «cristiani» (cfr. At 11,26), un appellativo che è stato at- tribuito loro per designare non l’appartenenza a una diversa re- ligione ma semplicemente l’adesione a un gruppo giudaico nel quale le Scritture ebraiche erano lette alla luce dell’insegnamento di Gesù, considerato come il Messia (gr. Cristo) di Israele.
Per affrontare in modo fruttuoso lo studio di questo antico documento è necessario perciò anzitutto avere un’adeguata co- noscenza del giudaismo, che ai tempi di Paolo non si presen- tava ancora come una realtà omogenea, ma raccoglieva nel suo seno numerosi movimenti con caratteristiche diverse e a volte contrastanti. Siccome sia Paolo che i destinatari della sua let- tera si rifacevano all’insegnamento di Gesù, è anche necessa- rio conoscere i tratti caratteristici della sua persona come sono stati ricordati e trasmessi dai suoi primi discepoli. Infine è op- portuno indicare qual è stato il percorso che ha portato Paolo, all’interno di un’intensa attività come propagatore del vangelo di Gesù, a elaborare le idee che esprime nella sua lettera ai Ro- mani, l’ultima delle sette che, secondo la critica moderna, sono sicuramente autentiche (1Tessalonicesi, 1-2 Corinzi, Filippesi, Galati, Filemone, Romani).
Le origini del giudaismo
Nella Bibbia l’origine di quella realtà etnica, politica e religiosa chiamata giudaismo viene fatta risalire a un gruppo di pastori se- minomadi che riconoscevano come loro progenitore, Giacobbe, chiamato anche Israele, i cui discendenti si chiamavano perciò
18 – I. CONTESTO STORICO-CULTURALE
«figli d’Israele»1. A essi veniva attribuito anche, specialmente da stranieri, il nome di «ebrei». Il nome «giudei» subentra invece in un periodo successivo, determinato dalle vicende storiche di questo popolo.
Il periodo monarchico
Nella Bibbia ebraica si racconta che Giacobbe era nipote di Abramo, che da Ur dei Caldei, in Mesopotamia, era emigrato con i suoi greggi nella terra di Canaan, una regione attualmente chia- mata Palestina2, che Dio aveva promessa a lui e ai suoi discendenti. Giacobbe, con i suoi dodici figli, era disceso in Egitto a motivo di una carestia; lì i suoi figli si erano moltiplicati e avevano dato ori- gine a dodici tribù. Il loro sviluppo però aveva suscitato i timori degli egiziani, che li avevano ridotti in schiavitù; il loro Dio però era intervenuto in loro aiuto e li aveva liberati per mezzo di Mosè il quale li aveva condotti, attraverso il deserto, fino ai confini della terra promessa3. A Mosè era succeduto Giosuè che li aveva guidati alla conquista di tutto questo territorio. Per un certo periodo essi erano stati governati da capi improvvisati, i giudici, finché si erano organizzati in un regno prima sotto il re Saul e poi sotto Davide e suo figlio Salomone, al quale è attribuita la costruzione di un gran- de tempio a Gerusalemme dedicato al loro Dio. Sotto il figlio di Salomone, Roboamo, il regno si era diviso, dando origine a due re- gni spesso rivali: quello situato nel Nord della regione con capitale Samaria, portava il nome di Israele, mentre l’altro, più a Sud, la cui capitale era Gerusalemme, aveva preso nome da uno dei figli di Giacobbe/Israele, Giuda. Mentre il regno di Israele ha registrato diversi sovrani, quello di Giuda è stato governato senza interruzio- ne dalla dinastia di Davide.
1 Per la storia di Israele così come è narrata nella Bibbia cfr. il mio Israele racconta la sua storia. Per un tentativo di ricostruire la storia reale di questo popolo cfr. per esempio M. LiveRani, Oltre la Bibbia (vedi bibliografia).
2 Il nome Palestina deriva dai filistei, i quali anticamente occupavano la regione costiera. Esso è stato usato solo a partire dal II sec. d.C. dalle auto- rità romane, le quali applicarono a tutta la regione a sud della Mesopotamia il nome di Syria-Palaestina.
3 L’uscita dall’Egitto viene situata dagli studiosi verso il 1200 a.C., sempre che si tratti di un evento storico, cosa spesso negata dagli studiosi.
CONTESTO STORICO-CULTURALE – 19
Nel 722 a.C. il regno di Israele, più esposto alle invasioni pro- venienti dal Nord, cadde sotto i colpi dell’Assiria, che allora era la potenza dominante in Mesopotamia: Samaria venne distrutta e parte della sua popolazione fu deportata. Il regno di Giuda riu- scì invece a sopravvivere ancora per circa un secolo e mezzo; ma nel 587 a.C. i babilonesi, che da poco erano subentrati agli assiri nel controllo della regione, conquistarono e rasero al suolo Ge- rusalemme, distrussero il tempio che vi aveva costruito Salomone e deportarono in Mesopotamia molti dei suoi abitanti. Termina così il periodo monarchico della storia d’Israele.
Il Dio adorato nei due regni era una divinità etnica, chiamata con un nome la cui pronunzia è andata perduta a motivo dell’a- bitudine, invalsa fra i suoi adoratori, di sostituirlo con Adonay (Signore). Di esso sono rimaste quattro consonanti Y H W H (sa- cro tetragramma), pronunziate oggi, in base a una ricostruzione comunemente accettata, Yahweh4. Durante il periodo monarchi- co, non era esclusa l’esistenza delle divinità di altri popoli a cui occasionalmente si ricorreva quando ciò era ritenuto necessario. Particolare attrattiva esercitava Baal, il dio della pioggia e della fertilità, di cui gli israeliti avevano particolare bisogno per la loro attività agricola. Contro questa mentalità sincretistica si scaglia- vano gli antichi profeti i quali minacciavano, come conseguenza, terribili castighi da parte di yhwh5.
continua
ALESSANDRO SACCHI, presbitero del Pontificio Istituto Missioni Estere, ha conseguito il Dottorato in scienze bibliche presso il Pontificio Istituto Biblico con una tesi diretta dal P. Stanislas Lyonnet dal titolo: «Il problema della “legge naturale” nell’esegesi di Rom 2,14-16», pubblicata successivamente presso le Edizioni Paoline con il titolo «Paolo e i non credenti. Lettera ai Romani 2,14-16.26-29» (Paoline Ed. Libri 2008). Ha svolto il suo insegnamento presso lo Studio Teologico-Missionario del suo Istituto, l’Università Cattolica del S. Cuore e il Seminario Regionale di Hyderabad (India). Ha al suo attivo numerose pubblicazioni. Tiene un sito web denominato www.nicodemo.net orientato soprattutto allo studio delle letture della liturgia domenicale.
Poesie di Titos Patrikios- “Tempo assediato – Πoλιορκημένος χρόνος” -Fallone Editore – anteprima dalla rivista «Atelier»-
Titos Patrikios (Atene, 1928) ha coltivato da sempre la poesia, esercitando nel contempo l’attività politica: esperienze intense, anche drammatiche, affrontate con onestà intellettuale e vigile spirito critico. Costantemente impegnato nel sostegno dei diritti civili, ha al suo attivo, oltre a numerosi racconti e traduzioni, diversi saggi letterari, sociologici e giuridici. La sua produzione poetica è raccolta nei volumi Ποιήματα Α’, 1943-1959 (2017), Ποιήματα Β’, 1959-2017 (2018) e Ο δρόμος και πάλι (2020). Fra le traduzioni italiane più recenti della sua opera si ricordano: Poesie scelte, a cura di V. Rotolo; La strada di nuovo, a cura di D. Puliga.
Titos-Patrikios-
Raccolta di 12 poesie curata e tradotta da Maria Caracausi
Non sono nato uomo compiuto,
giorno per giorno cresceva la mia vita
germogliando come un albero.
Non sono nato eroe,
giorno per giorno cresceva la mia vita
dentro paure stravinte.
Sono giunto vicino a voi con timore e speranza
ho cercato di diventare come volevate
per combattere insieme l’ingiustizia.
Tuttavia non mi curo più del vostro parere
fin quando cercheremo responsabili
fin quando metteremo a nudo la menzogna.
Non mi curo più del perdono di nessuno.
VIII
Πολιορκημένος χρόνος
Νομίζαμε πὼς γνωριζόμαστε καλά.
Μὰ ὅταν τὰ κουρασμένα ροῦχα μας ἀρχίσανε νὰ πέφτουν
χωρὶς προσχήματα οὔτε ἀνταλλάξιμη παραφορὰ
καὶ μεῖναν τὰ κορμιά μας ἀπροσποίητα
φάνηκε καθαρὰ πόσο μακρὺς ἦταν ὁ δρόμος
πόσο ἦταν ὁ χρόνος μας πολιορκημένος, κι ἐμεῖς
δυὸ ἄνθρωποι συνηθισμένοι, περίπου ἀπροσπέλαστοι.
Παρίσι, Μάρτης 1962
Tempo assediato
Pensavamo di conoscerci bene.
Ma quando i nostri indumenti stanchi cominciarono a cadere
senza pretesti né scambievole irruenza
e rimasero i nostri corpi senza finzione
apparve chiaramente quanto fosse lunga la strada
quanto il nostro tempo fosse assediato, e noi
due persone comuni, quasi inaccessibili.
Parigi, Marzo 1962
XII
Τὰ παιδικά μας χρόνια
Ἄν, ὅπως λένε, πατρίδα μας
εἶναι τὰ παιδικά μας χρόνια
τότε εἶναι μιὰ πατρίδα
ποὺ συνεχῶς ἀπομακρύνεται
ποὺ μόνο σὰν ἀνάμνηση
ὅλο καὶ πιὸ θαμπὴ μᾶς μένει.
Ἴσως καλύτερα νὰ ψάξουμε
γιὰ μιὰ πιὸ σταθερὴ πατρίδα.
Gli anni della nostra infanzia
Se, come si dice, la nostra patria
sono gli anni della nostra infanzia
allora è una patria
che continuamente si allontana
che solo come ricordo
resta per noi sempre più opaca.
Forse meglio cercare
una patria più stabile.
Nei versi di Patrikios la memoria assorbe in sé il ricordo per farne cosa ulteriore. Il passo ben fermo sulla terra pianeggiante, la Grecia e l’eco della guerra, la giustizia quale punto cardinale di una ricerca lunga quanto la vita, ma anche l’amore declinato al plurale, un’affezione che è duplice nella sfumatura semantica, e l’infanzia, legata alla patria e ai nomi, che determinano e stabiliscono le forme, persino i modi. Qui c’è la storia dell’individuo che non si incastra perfettamente con la storia della collettività, poiché l’uomo col suo vissuto e la sua integrità ha valore superiore a quello delle folle, che per loro natura non hanno volto né identità. Qui c’è l’uomo che attraversa la Storia e ci sono le storie dell’uomo che sovrasignificano il tempo.
Fallone Editore
La Fallone Editore è una casa editrice indipendente fondata nella primavera del 2017, pugliese per tassonomie geografiche, e radicata nella storia e nella cultura millenarie di questa terra, ma proiettata su una linea d’azione nazionale, sia per la distribuzione del prodotto editoriale che per l’eterogeneità degli autori che pubblica.
Tra i segmenti di suo interesse, non solo prosa e poesia, pilastri della Letteratura, ma anche saggistica, letteratura per l’infanzia, scienze ermetiche e pubblicazioni a carattere vario, che spaziano dalla cinotecnica alla musicologia, passando per le arti figurative, la culinaria, la fumettistica e la botanica (per maggiori dettagli si rimanda al progetto editoriale).
Se è vero, come forse è vero, che ‘il talento fa quello che vuole e il genio quello che può’ [C.B.], una casa editrice non può che essere una fucina, luogo in cui si forgia e si è forgiati al fuoco sacro del talento – che è dono di nascita e perciò divino – aristocraticamente elitario e perciò antidemocratico – indimostrabile, se non nell’evidenza di sé, e perciò innegabile.
Se è vero, come certamente è vero, che un libro non è soltanto un oggetto, per quanto bello possa essere, ma ‘è anche un luogo oscuro di sfoghi e di rimozioni, dove si combatte un duello senza pietà, con la sola scelta di guarire o morire’ [G. Bufalino], la scrittura è un attraversamento di sé, un disvelamento delle ombre che richiede coraggio: chiede passi fermi e sguardo alto.
In questi passi, i primi, in questo sguardo alto come il cuore, nasce la Fallone Editore.
di Enrica Fallone
Piazza Marconi n.3 – 74121 Taranto
Per contattare la Fallone Editore è possibile utilizzare l’apposito modulo di contatto ovvero inviare un’email a uno dei seguenti indirizzi, a seconda della richiesta che si desidera inoltrare:
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Andrea Appiani primo pittore di Napoleone in Italia: un maestro da riscoprire-Articolo di Andrea Ciavattone-
Paris-3 avril 2025 Una mostra da vedere dedicata al pittore lombardo Andrea Appiani (1754-1817), aperta dal 16 marzo al 28 luglio 2025, al Museo Nazionale dei Castelli di Malmaison e Bois-Préau, avenue du château de Malmaison, 92500 Rueil Malmaison.
Quante volte abbiamo ammirato le opere di Jacques-Louis David, maestro del neoclassicismo, che celebrano Napoleone Bonaparte come condottiero e imperatore di Francia. Passeggiando tra le sale del Museo del Louvre, possiamo osservare capolavori che esaltano la figura del celebre generale francese, il cui dominio ha ridisegnato la cultura, la politica e la società europea.
Fu proprio con la vittoria nella battaglia di Ponte Lodi, il 10 maggio 1796, che Bonaparte entrò trionfante a Milano, dove conobbe il pittore Andrea Appiani che fu sia affrescatore che pittore di cavalletto. Soprannominato “le peintre des grâces”, Appiani era apprezzato dai suoi contemporanei per i dipinti commemorativi e allegorici, e i ritratti.
Formatosi sotto la guida del maestro Antonio de Giorgi, Appiani si specializzò nella decorazione di teatri, chiese e palazzi, come nel caso della decorazione presso Palazzo Reale di Milano, il cui intervento fu purtroppo distrutto durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
Andrea Appiani, primo pittore di Napoleone
Nel 1805 Appiani fu nominato primo pittore del Regno d’Italia, dando inizio a una prolifica produzione di opere dedicate a Napoleone. Tra queste un meraviglioso ritratto, datato 1805, in cui sono presenti tutti gli elementi iconografici che esaltano la figura di Napoleone, non più come primo console o condottiero militare, ma come Re d’Italia, essendo stato incoronato a Milano il 26 maggio 1805.
Appiani Andrea – Ritratto maschile. Olio su tavola, 20,5 x 14 cm. Il pittore Andrea Appiani riesce a carpire in questo ritratto uno sguardo intenso ed espressivo di un personaggio vestito nobilmente e con tipica capigliatura dell’epoca. Lo sfondo in tono con l’abito
Leggendo questo passaggio si nota la grande abilità di Appiani nel dipingere Napoleone nella sua nuove veste politica e sociale :
“Napoléon, de trois-quarts vers la droite, porte le «petit habillement», semblable à celui porté au sacre à Notre-Dame, mais brodé sur velours vert au lieu du velours pourpre […]. Si le regard est ailleurs et la bouche un peu trop sévère, l’attention portée au traitement des mains est intéressante: la droite serrant le manteau pour lui donner ce pli qui équilibre la composition, la gauche posée ouverte sur la couronne de roi d’Italie livrée par le joaillier Marguerite”.
Andrea Appiani, primo pittore di Napoleone
Per valorizzare la sua abilità artistica, il Museo Nazionale dei Castelli di Malmaison e Bois-Préau ha organizzato la prima grande retrospettiva dedicata a lui. La mostra, intitolata Andrea Appiani (1754-1817). Primo pittore di Napoleone in Italia, è aperta dal 16 marzo al 28 luglio 2025 e ripercorre la sua evoluzione stilistica attraverso cinque sezioni espositive tematiche e cronologiche: dalla carriera prenapoleonica agli splendori di Napoleone, dai ritratti pubblici e privati, fino alle decorazioni ad affresco e alla sua eredità artistica.
L’obiettivo è riscoprire il ruolo che questo artista ha avuto per la cultura italiana e per i legami con la Francia, restituendogli il posto che merita tra i grandi maestri del neoclassicismo. Passeggiando all’interno della mostra, lo spettatore potrà riscoprire un artista dalla grande abilità tecnica, utilizzata per la celebrazione del potere sociale, politico e militare di Napoleone.
Sono Andrea Ciavattone, un neolaureato italiano in Storia e critica dell’arte di 24 anni che ha deciso di intraprendere una nuova avventura in Danimarca. Qui, immerso in una realtà vivace e stimolante, ho trovato un’accoglienza calda e un ambiente che mi ha spinto a esplorare nuove prospettive. Con una formazione accademica in ambito artistico, ho scelto di raccontare la mia cultura e le mie radici, concentrandomi in particolare sull’arte italiana del XX secolo. Il mio obiettivo è condividere con voi la bellezza e la ricchezza di un patrimonio artistico che continua a influenzare il panorama culturale globale. Nei miei articoli, cercherò di coinvolgervi in un viaggio attraverso le opere e i protagonisti che hanno segnato la storia dell’arte, stimolando la vostra curiosità e approfondimento.
Andrea Appiani un maestro da riscoprire-Biblioteca DEA SABINA
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Andrea Appiani
Andrea Appiani Nato a Milano il 31 maggio 1754 da Maria Liverta Jugali e Antonio medico, era destinato a seguire la carriera del padre. Ma verso i quindici anni, nel 1769-70, per manifesta vocazione venne messo alla scuola privata di Carlo Maria Giudici, pittore e scultore di vaglia, che, alla fine del suo insegnamento, lo affidò al famoso frescante Antonio De Giorgi all’Accademia ambrosiana. Frequentò poi lo studio di M. Knoller, approfondendo la tecnica ad olio e studiò anatomia all’Ospedale maggiore con Gaetano Monti, scultore e suo intimo per tutta la vita. Con la morte del padre affrontò un periodo di nera miseria e di attività spuria buona a toutfaire, dai fiori su seta alle decorazioni per carrozze, ai figurini per spettacoli. Pure, nata nel 1776 l’Accademia di Brera, seguì liberamente i corsi di G. Traballesi, col quale rimase in amicizia. In questo periodo strinse amicizia anche con G. Piermarini, con l’Aspari e, soprattutto, coi Parini (ci restano un ritratto a matita del poeta, eseguito dall’A., ora nel Museo Poldi Pezzoli, e un frammento di un’ode del Parini all’amico pittore: frammento 207 in Parini, Tutte le opere, I, Firenze 1925, p. 513), con Giocondo Albertolli; più tardi con Vincenzo Monti e col Foscolo.
La prima opera certa, l’affresco coi Santi Gervasio e Protasio per la chiesa di Caglio, fu iniziato nel settembre 1776 e finito nel gennaio del 1777. Lavori di bozzettista e scenografo alla Scala sotto la direzione del Galliari – ne rimane solo il ricordo – gli permisero di uscire lentamente dalle strette del bisogno e dall’oscurità. Del 1778-79 sono le quattro tempere con il Ratto di Europa per il conte Ercole Silva. Tra il ’78 e l’83 dipinse una Natività per la Collegiata di S. Maria ad Arona (1782) e affrescò nel palazzo Diotti, ora prefettura di Milano, e nella chiesa parrocchiale di Rancate, mentre la sua attività stagionale come scenografo lo portò a Firenze su invito di Domenico Chelli.
Il quinquennio tra l’86 e il ’90 comincia con il progetto architettonico dell’altar maggiore del duomo di Monza (costruito nel 1798) e prosegue con affreschi a Milano in palazzo Busca alle Grazie, in palazzo Litta Arese, in casa Orsini Falcò (via Borgonuovo 11) in collaborazione col Traballesi, in palazzo Greppi (via S. Antonio 12), intervallati da ritratti e quadri sacri tra i quali una Cena in Emmaus, finita solo nel ’96 per la congregazione degli osti (Milano, Galleria Civica di Arte Modema), per culminare con il fondamentale ciclo delle Storie di Psiche nella Rotonda della Villa reale di Monza (1789).
Appiani Andrea – Ritratto maschile. Olio su tavola, 20,5 x 14 cm. Il pittore Andrea Appiani riesce a carpire in questo ritratto uno sguardo intenso ed espressivo di un personaggio vestito nobilmente e con tipica capigliatura dell’epoca. Lo sfondo in tono con l’abito
Nel 1790 l’A. sposò Costanza Bernabei, già sua allieva. Il lustro successivo è sostanzialmente assorbito dalla grossa impresa degli affreschi in Santa Maria presso San Celso a Milano, che il pittore, ormai eminente su tutti, aveva fatto precedere, nel 1791, da un viaggio di nove mesi per studio a Parma, Bologna, Firenze e Roma.
Un periodo di riposo in casa Moriggia a Balsamo – ove dipinse affreschi, le cui parti superstiti sono oggi conservate nella villa Ghirlanda di Balsamo Cinisello – e gli affreschi a Milano in casa Stanga, oggi Radice Fossati (via Cappuccio 12), precedono di pochi mesi l’intensa attività del periodo cisalpino. Entrato di colpo con un ritratto a matita, capolavoro tuttora esistente (AUano, Accademia di Belle Arti), nelle grazie del ventisettenne Bonaparte, venne incaricato di presiedere la commissione delle requisizioni artistiche (eviterà poi l’incarico per sopraggiunta malattia) e di disegnare medaghe, testate, allegorie repubblicane per proclami, brevetti, carte ufficiali; questo non gli impedirà di dipingere numerosi ritratti agli illustri del momento, né di affrescare in casa Castiglioni, Wilcrek, Castelbarco, Silvestri (qui ancora col Traballesi) e nell’attuale collegio di S. Carlo col Chelli.
Massone già da prima della Rivoluzione, durante il periodo napoleonico fece parte della loggia milanese Amalia Augusta, e fu anche guardasigilli del Grande Capitolo generale della massoneria ital
Con l’intero corpo insegnante dell’Accademia di Brera fu chiamato dal Piermarini a collaborare alle decorazioni per la “festa della Federazione” del 21 messidoro dell’anno VI (9 luglio 1797), che con eccezionale magnificenza inaugurò la Repubblica cisalpina. Nello stesso anno Napoleone gli regalò una casa sul Naviglio di S. Marco, già di quei frati, valutata quarantamila lire milanesi. Del 1799 è il capolavoro di questo periodo: gli afrreschi con le Storie di Apollo in casa Sannazzaro poi Prina (conservati in parte a Brera e nella Gall. Civica d’Arte moderna). Fu nominato ai comizi di Lione e nel 1801 si recò a Parigi ad assistere in qualità di membro dell’Istituto all’incoronazione di Napoleone, ricevendo accoglienze trionfali; a Parigi e Versaffles dipinse numerosi ritratti della famiglia dell’imperatore e di personalità della corte. Nel 1802 venne nominato commissario generale delle Belle Arti con 1.500 lire annue, di cui nel 1809 chiederà l’aumento (in qualità di commissario, nel luglio 1802, richiamò l’attenzione delle autorità sulla necessità di restaurare il Cenacolo di Leonardo). Per la festa nazionale della Repubblica italiana, del 26 giugno 1803, l’A. progettò un circo romano, che fu eseguito in legno nel Foro Bonaparte. Sempre nel 1803 eseguì i ritratti per casa Melzi e forse iniziò la vasta creazione dei trentacinque monocromi coi Fasti napoleonici già in Palazzo reale (ora distrutti). Del 1804 è il cartone dell’Apoteosi di Napoleone, che fu molto lodato dalla commissione (Traballesi, Monti e Bossi) che gliene aveva affidato l’incarico; la vasta attività e la grande fama raggiunta lo fecero nominare primo pittore del re d’Italia con 15.000 lire annue, cavaliere della Legion d’Onore e della Corona ferrea e membro dell’Accademia di Brera, preposto alla creazione di quella Pinacoteca.
Andrea Appiani
Nonostante le molte cariche e l’intensa attività nel Palazzo reale di Milano (affreschi nelle sale del Trono, dei Principi, delle Cariatidi e nella sala rotonda, oggi in gran parte perenti), l’A. dipinse in quegli anni quadri per i Litta, per G. B. Sommariva, per casa Galetti, per la chiesa di Oggiono, e ritratti aulici e di privati. Il Parnaso, nella volta di una sala della Villa reale di Milano, del 1812, è la sua ultima opera di grande respiro. Colpito da insulto apoplettico nell’aprile del 1813, vegetò sino all’8 nov. 1817.
Riconoscendone la grandezza, la critica ha concluso per un A. giovanile ancora legato alle grazie del Settecento e successivamente vivo solo quando riesce a mantenerle operanti sotto i castigati ritmi neoclassici con la sincerità dell’impegno decorativo e la dolcezza dei trapassi di colore, per aggiungere subito che, fuori da quell’influsso, egli irrimediabilmente decade. Tale giudizio, profondamente errato e frutto dei paradigmi dellaJeazione romantica, va radicalmente rivisto. L’A. dipende dagli schemi pittorici settecenteschi soltanto perché li rinnova e li trascende profondamente, senza per questo indulgere a quelle forme che teorie e dottrine, dal Mengs al Winckehnann, suggerivano agli artisti del suo tempo. Egli rimane sempre fuori della polemica neoclassica; il suo neoclassicismo non si forma su teorie oltremontane, del resto non ancora giunte a Milano agli inizi della sua attività, o su bianchi calchi di antica statuaria, ma sui meditati esempi del primo Rinascimento padano, risolvendo con essi i propri modemi problemi. Già nelle quattro tempere del Ratto di Europa (Milano, raccolta Biandrà di Reaglie), sobrie e pur cantanti negli sfondi, con le figure di una maniera un poco secca ma viva, dai netti profili, dal colore campito, tenero ma sicuro, è in nuce l’A. migliore e si fanno palesi nel ritmo, nell’atmosfera, nel soggetto stesso quei suggerimenti, specie da Bemardino Luini, accolti e rinnovati da uno spirito originale e moderno. Su questa via nasceranno gli affreschi con le Storie di Psiche e di Giove (Monza, Villa reale), le Storie di Apollo (Milano, già in casa Sannazzaro), il Parnaso (Milano, Villa reale), e le tele dell’Olimpo (Milano, Pinacoteca di Brera) e della Toeletta di Giunone (Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo): le molte mitologie in cui egli persegue un sogno di bellezza che sia insieme nella natura e nella tradizione artistica. Mitologie che non esprimono, né lo vogliono, sentúnento, pensiero, passione alcuna né moto, ma semplicemente manifestano un classico stato di grazia. Su questa linea di depurata armonia e di nitore compositivo, appaiono meno decantate, meno neoclassiche starei per dire, le mitologie ove il vibrare dei sentimenti preme sulla serenità del núto, come l’Ercole e Deianira (Milano, raccolta Albasini Scrosati), e più aperte, più piacevoli e in un certo senso più vive, ma anche più illustrative e meno sublimate altre come il Carro di Apollo (Milano, Brera).
Andrea Appiani
Quest’ultimo ha un’affinità ritmica più che strettamente compositiva con l’Apoteosi di Napoleone già nella volta della sala del trono nel Palazzo reale di Milano. Pittura encomiastica e perciò regolarmente bistrattata, nella quale, viceversa, l’A. fuse in lirica e sincera creazione la sua lunga esperienza e i suggerimenti che la sua arte aveva via via appreso, dopo che dal Luini, da Leonardo e Correggio e Raffaello. Come, del resto, egli sapesse trascendere l’incarico ufficiale era anche palese nelle trentacinque tele a tempera monocroma che tomo tomo il salone delle Cariatidi rievocavano i Fasti napoleonici da Montenotte a Friedland in una specie di fascia continua, ove il ritmo compositivo del finto bassorilievo, l’armonica fusione di antico e modemo, il compenetrarsi della cronaca vissuta, del costume e della vita attuali con la dignità epica, col senso eroico e con le reminiscenze classiche avevano una modulazione alta come in David, ma più armonicamente italiana. Di queste tempere, distrutte come la volta della sala del trono, dalle incursioni aeree del 1943, restano precise e vive incisioni, eseguite intorno al 1810 da Giuseppe Longhi, Francesco e Giuseppe Rosaspina, Michele Bisi e Giuseppe Benaglia.
La celebre tela con l’Incontro di Giacobbe e Rachele (Alzano Maggiore, basilica di S. Martino 1795-1805 ca.) rivela equilibrio trala biblica e solenne monumentalità della storia sacra e la tenerezza rattenuta dell’idillio; gli Evangelisti e i Dottori nei pennacchi e nelle lunette della cupola di Santa Maria presso San Celso, un centinaio di figure solide e grandiose in cui i ricordi del Rinascimento e del manierismo primo sembrano giungere sino alle soglie di una severa eloquenza barocca, costituiscono la più alta pittura sacra del neoclassico italiano.
Sull’eccellenza dei ritratti dell’A. concordarono antichi e moderni per la perfetta aderenza, il disegno preciso e pur morbido e i rari trapassi di colore. Ritrattistica della quale, però, sfuggì il merito maggiore, quello di averci dato per prima e senza enfasi lo specchio di quella società, un modulo di vita nuovo che si traduce in pittura, come appare evidente confrontandola coi notevoli, ma ancora irrimediabilmente settecenteschi ritratti di un Knoller o di un Mengs. P, la luce del nobile volto di G. B. Bodoni sorgente dall’uliva e nero del busto (Parma, Pinacoteca nazionale), è la testa arruffata e viva di P. Landriani (Milano, Museo teatrale alla Scala); sono i ritratti di Napoleone Primo Console, del Melzi, della Belgioioso d’Este (Bellagio, villa Melzi), del Vallardi, (Milano Accademia di Brera) e del Monti (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Modema), che ci danno la misura della potenza espressiva dell’A., della sua capacità di fare di un volto un tipo, di riflettere in un viso un’epoca.
Andrea Appiani
Se, concludendo, l’A. non fu un genio, egli non fu comunque mai un accademico. Per lui il canone è termine vivo di un linguaggio e non pura dottrina, e la mitologia sostanza intima dell’arte, ed egli la porta nella sua opera con straordinaria forza di convinzione e assoluta sincerità. Per questo la conquista del suo linguaggio neoclassico fu personale e autonoma, frutto di una sua visione della bellezza, di un suo concetto delle necessità dì uno stile. Unico pittore italiano dell’epoca di fama europea, dominatore indiscusso della pittura neoclassica, non lasciò né allievi né seguaci, ma solo un’altissima fama, che l’ondata romantica volle sommergere. Innovatore vero dell’arte, ma non per le apparenze che i contemporanei elogiarono, egli ci dà la misura della pittura neoclassica non secondo la dottrina, ma secondo la sua vitale essenza, come solo oggi si può capire. I contemporanei lo dissero riccamente umano, di vasta cultura e musicista finissimo.
Altre opere: Corteo di Bacco fanciullo (bozzetto di sipario), Milano, Museo teatrale alla Scala; Venere e Imeneo, Pavia, Civica Pinacoteca Malaspina; Autoritratto, Firenze, Uffizi; Autoritratto, Wano, Brera; Ritratto della contessa Maria di Castelbarco Visconti Litta (l’inclita Nice), Milano, raccolta Castelbarco Albani; Ritratto di Ugo Foscolo, Milano, Pinacoteca di Brera; Ritratto del generale Desaix, Ritratto della signora Regnault, Versailles, Musée National; Ritratto di Anna Maria Porro Lambertenghi, Milano, Civica Galleria d’Arte Moderna; Ritratto della cantante Catalani, Firenze, raccolta Galletti di S. Ippolito; Ritratto della contessa Margherita Grimaldi Prati, Treviso, Museo Civico; Ritratto della signora Angiolini, Ritratto di una signora Rua, Milano, Ambrosiana; Ritratto di Marianna di Santa Cruz, Roma, Accademia di S. Luca; Ritratto di Sigismondo Ruga e di Paola Ruga detta la Rugabella, Crema, raccolta Vimercati Sanseverino.
Era suo nipote l’omonimo pittore nato nel 1817 dal figlio Costanzo. Allievo dal 1833 al 1837 in Roma del purista Tommaso Minardi e successivamente, a Milano, dello Hayez all’Accademia di Brera, fu mediocre artista e, per di più, schiacciato dall’ombra del grande avo. Stilisticamente oscillò tra un purismo di maniera e un manierato romanticismo. Il suo nome sopravvive in opere povere e in fuggevoli cenni dei contemporanei. Dipinse gli immancabili quadri storici (Corradino di Svevia sul patibolo, il Ritrovamento di Mosè alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna in Roma), freddi ritratti e decorò a fresco palazzi e la chiesa di Bolbeno. Morì a Milano il 18 dic. 1865.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Cartella Pittori: Appiani; Descrizione dell’opera a fresco eseguita nel 1795 nel tempio di S. Maria presso S. Celso in Milano dal pittore A. A., Milano 1803; L. Lamberti, Descrizione dei dipinti a buon fresco eseguiti dal pittore A. A. nella sala del trono del Palazzo Reale di Milano, Milano 1809; A. Brucellini, Carme per gli egregi dipinti a buon fresco nel Palazzo Reale di Milano, Milano 1809; L. Lamberti, Descrizione dei dipinti a buon fresco eseguiti dal pittore A. A. nella sala dei Principi…, Milano 1810; Descrizione del dipinto a buon fresco eseguito nella Villa Reale di Milano dal sig. Cavalier A. A., Parma 1811; G. Berchet, Allocuzione ai funerali di A. A., Milano 1817; G. P. [Giulio Perticari?], Sulla morte del Cavalier A. A., Milano 1818; A. Lissoni, Dialogo di Parini e A. agli Elisi, Milano 1818; D. Anesi, Le glorie pittoresche: Dialogo dei celebri pittori Bossi e A., Milano 1818; I. Fumagalli, Elogio di A. A., Milano 1818; Catalogo delle pitture, dei cartoni e dei disegni più ragguardevoli del defunto cavalier A. A. e di varie altre Pitture, stampe e libri figurati esistenti presso gli eredi, Milano 1818; F. Martini-R. Bonfadini, I fasti del primo Regno Italiano. Dipinti di A. A. incisi da vari, Milano s. d.; G. Longhi, Elogio storico di A.A., Milano 1818; M. Bisi, Incisioni delle opere del Pittore A. A., Milano 1820; B. Parea, Epitome delle vite dei dieci sommi italiani illustri nelle arti e nelle scienze tolti ai viventi nel corrente secolo, Milano 1827; G. Berretta, Le opere di A. A. Commentario, Milano 1848; Id., Battaglie e Fasti di Napoleone, composti e dipinti a chiaroscuro dal celebre cav. A. A., Milano 1848; G. De Castro, Il mondo segreto, VI, Milano 1864, p. 105; F. Martini-R. Bonfadini, Battaglie e fasti di Napoleone dipinti a bassorilievo in tela dal cav. A. A., Milano 1896; L. Auvray, Inventaire de la collection Custodi conservée à la Bibliothèque Nationale, in Bulletin Italien, III(1903), pp. 308 ss.; IV (1904), pp. 152 ss.; C. Ricci, La Pinacoteca di Brera, Bergamo 1907, pp. 13, 14, 30, 34, 36, 55, 75, 92, 162 (per l’opera dell’A. come commissario delle Belle Arti); G. Nicodemi, La pittura milanese dell’età neoclassica, Milano 1915, pp. 88-126; A. Zappa, A. A. e l’arte neoclassica, Milano 1921; G. Nicodemi, Ritratti di Napoleone, in Rass. d’arte, VIII (1921), pp. 145-151; A. Neppi, A. A., Bergamo 1932; R. Soriga, Le società segrete, l’emigrazione politica, i primi moti per l’indipendenza, Modena 1942, pp. 30, 48 s.; G. Nicodemi, A.: trentaquattro disegni, Milano 1944; M. Borghi, I disegni di A. A. nell’Accademia di Brera, Milano 1948; G. Natali, Il Settecento, Milano 1950, p. 89; E. Lavagnino, L’arte moderna, Torino 1956, I, pp. 229-237; A. Ottino Della Chiesa, L’età neoclassica in Lombardia (catalogo della mostra), Como 1959, pp. 33-39, 94-113; G. Allegri Tassoni, Una fraterna amicizia: A. A. e G. Bodoni, in Aurea Parma, XLIII (1959), pp. 22-28; A. Rameri, Una lettera dell’A. e la datazione di un celebre ritratto, in La Martinella di Milano, XIII (1959) (in estratto pp. 3-7); S. Samek Ludovici, La pittura neoclassica, in Storia di Milano, XIII, Milano 1959, pp. 548 ss. e Passim; U.Thieme-F. Becker, Allgem. Lexikon der bildenden Künstler, II, pp.40 s.; Encicl. Ital., III, pp. 757-759. Per A. A. iunior v.: A. Caimi, Arti del disegno in Lombardia, Milano, 1862, p. 60; L. Malvezzi, Le glorie dell’arte lombarda, Milano 1882, p. 284; G. De Sanctis, T. Minardi e il suo tempo, Roma 1900, p. 155; E. Ovidi, Tommaso Minardi e la sua scuola, Roma 1902, pp. 107, 265-67; G. Nicodemi-M. Bezzola, La Galleria d’Arta Moderna di Milano, Milano 1935, I, pp. 16-17; P. Pecchiai, I ritratti dei benefattori dell’Ospedale Maggiore di Milano, Milano 1927, nn. 227, 250; U. Thieme-F.,Becker, Allgem. Lexikon der bildenden Künstler, II, p. 42.
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