Nello ROSSELLI -Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano-
Articolo scritto Antonio Panella per la Rivista PEGASO n°6 del 1933 diretta da Ugo Ojetti
Nello ROSSELLI
Biografia di Nello ROSSELLI-Storico e uomo politico (Firenze 1900 – Bagnoles de l’Orne 1937); fratello di Carlo, sentì al pari di questo l’influsso di G. Salvemini e fu deciso antifascista; svolse attività politica clandestina nel gruppo torinese di Giustizia e Libertà, subendo la prigione e il confino. Fu uno dei primi, in Italia, a indagare storicamente lo sviluppo del movimento operaio: Mazzini e Bakunin (1927); Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932) e varî saggi raccolti nel volume postumo Saggi del Risorgimento ed altri scritti (1946). Un’altra opera di R., interrotta dal suo assassinio in Francia, è apparsa postuma (1954) con il titolo Inghilterra e Regno di Sardegna dal 1815 al 1847.
Biografia Sabatino Enrico Rosselli nacque a Roma il 29 novembre 1900 da un’agiata famiglia ebraica, ultimo dei tre figli del livornese Giuseppe Emanuele “Joe” Rosselli (1867-1911) e della venezianaAmelia Pincherle (1870-1954), sorella di Carlo Pincherle, architetto e pittore, oltreché padre dello scrittore Alberto Moravia. Sia la famiglia paterna che quella materna, fermamente legate agli ideali repubblicani e mazziniani, erano state politicamente attive, avendo partecipato alle vicende del Risorgimento italiano: Pellegrino Rosselli, tra l’altro zio della futura moglie di Ernesto Nathan (Sindaco di Roma dal novembre del 1907 al dicembre del 1913), fu un seguace e stretto collaboratore di Giuseppe Mazzini nei suoi ultimi anni di vita (morì difatti in clandestinità nella sua casa pisana) ed un Pincherle fu nominato ministro durante la breve esperienza della Repubblica di San Marco, instauratasi nel Triveneto a seguito d’una massiccia insurrezione anti-asburgica guidata da Daniele Manin e Niccolò Tommaseo.
Nello sposò Maria Todesco (1905-1998) nel 1926 ed ebbero quattro figli: Silvia, Paola, Aldo e Alberto.
Gli studi
Nel 1917 diresse, con l’amico Gualtiero Cividalli il mensile Noi giovani[1]. Nel 1923 discusse con Gaetano Salvemini la tesi di laurea su Mazzini e il movimento operaio dal 1861 al 1872. Tra il 1923 e il 1927 pubblicò numerosi articoli su riviste storiche italiane e il saggio Mazzini e Bakunin. Nel 1932 pubblicò il saggio Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano. La raccolta dei suoi Saggi sul Risorgimento italiano e altri scritti fu pubblicata postuma da Einaudi nel 1946.
L’attività politica
La tomba a Trespiano
Iniziò giovane a far politica nel 1917 e fu col fratello tra i fondatori del giornale per studenti “Noi giovani”. Nel 1920, col fratello e con Piero Calamandrei, e col patrocinio di Gaetano Salvemini, fondò il Circolo di Cultura, chiuso dai fascisti nel 1925. Fece parte dei fondatori del gruppo fiorentino di Italia libera, fra cui, oltre al fratello, Enrico Bocci, Luigi Rochat, Dino Vannucci, Nello Traquandi. Nel 1924 aderì alla fondazione dell’Unione nazionale delle forze liberali e democratiche promossa da Giovanni Amendola, e nel 1925 partecipò alla fondazione del primo giornale antifascista clandestino Non Mollare. Il 3 giugno 1927 venne arrestato e condannato a 5 anni di confino[2] a Ustica; rilasciato il 31 gennaio 1928[3], venne nuovamente arrestato e condannato a 5 anni di confino a Ustica e Ponza, nell’estate del 1929, dopo la fuga da Lipari del fratello.
Nel maggio 1937 ottenne, su intercessione di Gioacchino Volpe (probabilmente in buona fede)[4] il passaporto, con una sollecitudine che ad alcuni amici, tra cui Piero Calamandrei, parve sospetta e motivata dal fine di arrivare attraverso Nello al rifugio di Carlo[5], insieme al quale, il 9 giugno 1937, venne assassinato a Bagnoles-de-l’Orne da una squadra di “cagoulards”, miliziani della “Cagoule“, formazione eversiva di destra francese, su mandato, forse, dei servizi segreti fascisti e di Galeazzo Ciano; con un pretesto vengono fatti scendere dall’automobile, poi colpiti da raffiche di pistola: Carlo muore sul colpo, Nello (colpito per primo) viene finito con un’arma da taglio.[6][7]. I corpi vengono trovati due giorni dopo, l’11 giugno; i colpevoli, dopo numerosi processi, riusciranno quasi tutti ad essere prosciolti.[7]
Opere
Saggi sul Risorgimento e altri scritti, Prefazione di Gaetano Salvemini, Collana Biblioteca di cultura storica n.21, Torino, Einaudi, 1946. Introduzione di Alessandro Galante Garrone, Collana Piccola Biblioteca n.400, Einaudi, 1980.
Inghilterra e regno di Sardegna dal 1815 al 1847, a cura di Paolo Treves, introduzione di Walter Maturi, Collana Biblioteca di cultura storica n.50, Torino, Einaudi, 1954.
Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), Collana Piccola Biblioteca n.89, Torino, Einaudi, 1967, ISBN978-88-06-04853-2.
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, Con un saggio di Walter Maturi, Collana Piccola Biblioteca n.313, Torino, Einaudi, 1977.
^Commissione di Firenze, ordinanza del 3.6.1927 contro Nello Rosselli (“Attività antifascista”). In: Adriano Dal Pont, Simonetta Carolini, L’Italia al confino 1926-1943. Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, Milano 1983 (ANPPIA/La Pietra), vol. III, p. 1051
Simone Visciola, Nello Rosselli alla Scuola di storia moderna e contemporanea. La prima fase della ricerca di storia diplomatica, in Politica, valori e idealità. Carlo e Nello Rosselli maestri dell’Italia civile, a cura di Lauro Rossi, Roma, Carocci, 2003, pp. 111–122.
Simone Visciola, Nello Rosselli e i suoi “maestri”. Il rinnovamento della storiografia italiana fra le due guerre, in I Rosselli: eresia creativa eredità originale, a cura di Simone Visciola e Giuseppe Limone, Guida, Napoli, 2005, pp. 113–139.
Simone Visciola, Nello Rosselli: uno storico alla ricerca della libertà in tempi difficili. Appunti sparsi per una biografia complessiva ancora da scrivere, in I fratelli Rosselli. L’antifascismo e l’esilio, a cura di A. Giacone ed E. Vial, Prefazione di Oscar Luigi Scalfaro, Roma, Carocci, 2011, pp. 26–42.
Giuseppe Tramarollo, Nello Rosselli tra mazzinianesimo e socialismo, pp. 79–84.
Giovanni Belardelli, Nello Rosselli. Uno storico antifascista, prefazione di Norberto Bobbio, introduzione di Paolo Alatri, con un ricordo di Ezio Tagliacozzo, Passigli, Firenze, 1982, pp. 221 («Il filo rosso»).
Il carteggio di Carlo e Nello Rosselli con Carlo Silvestri (1928-1934), a cura di Gloria Gabrielli, «Storia Contemporanea», a. XXII, n. 5, ottobre 1991, pp. 875–916.
Mimmo Franzinelli, Il delitto Rosselli. 9 giugno 1937. Anatomia di un omicidio politico, Mondadori, Milano 2007.
Nello ROSSELLI -Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano-
Articolo scritto Antonio Panella per la Rivista PEGASO n°6 del 1933
diretta da Ugo Ojetti
Nello ROSSELLI -Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano.Nello ROSSELLI -Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano.Nello ROSSELLI -Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano.Nello ROSSELLI -Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano.Nello ROSSELLI -Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano.Carlo e Nello ROSSELLI
Biografia di Nello ROSSELLI-Storico e uomo politico (Firenze 1900 – Bagnoles de l’Orne 1937); fratello di Carlo, sentì al pari di questo l’influsso di G. Salvemini e fu deciso antifascista; svolse attività politica clandestina nel gruppo torinese di Giustizia e Libertà, subendo la prigione e il confino. Fu uno dei primi, in Italia, a indagare storicamente lo sviluppo del movimento operaio: Mazzini e Bakunin (1927); Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932) e varî saggi raccolti nel volume postumo Saggi del Risorgimento ed altri scritti (1946). Un’altra opera di R., interrotta dal suo assassinio in Francia, è apparsa postuma (1954) con il titolo Inghilterra e Regno di Sardegna dal 1815 al 1847.
Scritti di Nello Rosselli
Mazzini e Bakounine: 12 anni di movimento operaio in Italia (1860-1872)
F.lli Bocca, Torino 1927
Michail Bakounine, a cura di Nello Rosselli, V volume dell’Enciclopedia Italiana diretta da Gioacchino Volpe, 1930.
1930
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano
F.lli Bocca, Torino 1932
Leo Ferrero, Società anonima editrice Dante Alighieri
Milano 1933
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, E. degli Orfini
Genova 1936
Saggi sul Risorgimento e altri scritti, prefazione di Gaetano Salvemini, Einaudi
Torino 1946
Inghilterra e il regno di Sardegna. Dal 1815 al 1847, a cura di Paolo Treves, introduzione di Walter Maturi
Einaudi, Torino 1954
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, [introduzione di Walter Maturi], C.M. Lerici
Milano 1958
Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), prefazione di Leo Valiani
G. Einaudi, Torino 1967
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, con un saggio di Walter Maturi
G. Einaudi, Torino 1977
Saggi sul Risorgimento, prefazione di Gaetano Salvemini, introduzione di Alessandro Galante Garrone
Einaudi, Torino 1980
Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), prefazione di Leo Valiani
Einaudi, Torino 1982
Ebraismo e italianità
Intervento di Nello Rosselli del 1924 al congresso della gioventù ebraica, tratto da “Nello Rosselli. “Uno sotto il fascismo. Lettere e scritti vari (1924-1937)” a cura di Z. Ciuffoletti, La Nuova Italia pp. 1-5.
La Nuova Italia
Informazioni tratte dal sito:
http://www.archiviorosselli.it/User.it/index.php?PAGE=Sito_it/NRosselli
Mojaffor Hossain è un giovane autore di narrativa in lingua bengalese contemporanea che ha iniziato la sua carriera come giornalista e ora lavora come traduttore presso l’Accademia Bangla, Dhaka. Il racconto si è classificato tra i finalisti del Tagore Short Translated Fiction Award indetto dalla rivista The Antonym- Bridge to Global Literature, che ringraziamo per la segnalazione. La traduzione dal bengalese all’inglese è di Noora Shamsi Bahar e dall’inglese all’italiano di Pina Piccolo.
1.
Il ragazzo più ingenuo del villaggio di Dhabaldhola era stato assassinato. Il corpo decapitato giaceva sulla linea di demarcazione tra il campo di Bangari e il campo di Taro. L’ultima persona morta assassinata in questo villaggio era stato il dottor Mukul, e pure quello, circa un decennio prima. Anche lui era stato trovato decapitato per strada. Era un adultero e doveva affrontare il suo spietato destino. Ma nessuno degli abitanti del villaggio sapeva perché Sadeq fosse stato assassinato. Le loro ipotesi si basavano su altri omicidi verificatisi in precedenza. Tale convinzione venne rafforzata quando l’IS rivendicò la responsabilità dell’omicidio sul proprio sito web, dichiarazione poi trasmessa al telegiornale. Ma l’IS non aveva fornito una motivazione specifica, ragion per cui l’omicidio continuava a rimanere un mistero. Alcuni degli amici di Sadeq se ne stavano a parlare commentando i fatti in cima al muro di cinta mezzo sgarrupato del loro liceo, situato di fronte alla scuola femminile, che era il luogo dove si finivano sempre per ritrovarsi durante l’intervallo prima della fine delle lezioni della giornata.
“Ciò che ha fatto l’IS non è giusto. Avrebbero potuto almeno menzionare il motivo! Così invece ci tocca scervellarci”, disse Shafiq.
“Ascolta, se l’IS uccide, il motivo è chiarissimo. Hai mai sentito parlare dell’omicidio dell’IS per dispute meschine, riscatti o litigi dovuti a storie d’amore? C’è un unico motivo per cui uccidono”, affermò Barkat, il più saggio di tutti.
“Sì, ma quelli decapitati erano tutti atei!”
“Non tutti quanti. Sono stati uccisi anche sacerdoti e figure religiose. Saranno pure stati infedeli, ma di sicuro non erano atei”.
“Stessa cosa. Ma che differenza c’è tra infedeli e atei?”
“Non è l’atteggiamento giusto da tenere, vero, Asad?” lo interpellò Barkat.
“Non so cosa sia giusto o sbagliato. Ho sentito dire che gli indù in India stanno bruciando vivi i musulmani!”
“E allora Shah Rukh Khan, Salman Khan, Amir Khan… poi c’è Yusuf Pathan, Zaheer Khan…? Tutti quanti musulmani. Gli indù praticamente li adorano”, ribatté Akbar, l’idiota del gruppo. Come al solito, Barkat e Asad fecero finta di non sentirlo.
“Va bene, siamo d’accordo che stanno uccidendo infedeli e atei. Ma che dire del professore della Rajshahi University che amava la musica? Non era ateo. Perché è stato ucciso?”
“La musica è proibita nell’Islam. Gli studenti andavano lì per farsi istruire, ma invece quell’uomo insegnava loro a fare musica e gli faceva vedere film stranieri. Sai cosa significa ‘film stranieri’? Ricordi quando con un unico biglietto ci vedevamo due film? Sai di che tipo di film parlo”, aggiunse Habel.
“Non so se la musica è buona o cattiva. Ma negli Hadith, devo ancora vedere una parte in cui il nostro Profeta dice ai Sahabiti : ‘Venite, concediamoci un po ‘ di allegria con un la musica.’ Non c’è scritto nulla del genere da nessuna parte”. Il Magro, alias Chiku Mokles con tali parole rese note le proprie argomentazioni a favore della tesi espressa in precedenza.
“Bene. Ma perché Sadeq? Solo una settimana fa, Sadeq ed io eravamo uno accanto all’altro durante le preghiere del venerdì. Poco prima gli avevo sussurrato: “Oggi è un giorno speciale. Chiunque esegua 50 inchini di rakat di fila durante la funzione vedrà l’ombra di Mika’il nei cieli allo scoccare della mezzanotte.” Mi lanciò un’occhiata piena di stupore, ma non pronunciò una sola parola. Il giorno dopo, andando a scuola, mi corse incontro alzando i pugni come se volesse picchiarmi e mi chiese: “Dove? Non ho visto niente nel cielo di mezzanotte!” Allora dimmi, perché mai una persona così meriterebbe di essere uccisa? Non sapeva nemmeno cantare. Una volta, quando gli è stato chiesto di cantare a scuola, è scappato strappandosi la camicia rimasta impigliata in quella porta scassata sul retro. Non ricordate?” chiese Hadisur.
“Dì pure quello che vuoi. L’IS non è certo un’organizzazione che commette errori quando si tratta dei propri bersagli. Ho sentito che sono perfino più potenti dell’America. I loro bersagli li spiano per anni prima di prendere qualsiasi decisione. Hanno installato chissà quale attrezzatura nei cieli”, disse Habel.
“Hmm. Spiavano il ventunenne Sadeq da venticinque anni ormai!”
“Smettila di prendermi in giro, Barkat. L’IS sta sicuramente ascoltando la nostra conversazione. A me che me ne viene? Non è che sto dicendo qualcosa contro di loro! Non ho niente da temere io!” Habel si fece piccolo piccolo non appena ebbe pronunciato queste parole.
“E allora Shah Rukh, Salman, Amir… poi Irfan, Zaheer?… Sono tutti musulmani. Gli indù li mettono su un piedistallo”. Akbar l’idiota ripeté a se stesso. Ripeterà la stessa cosa ancora un paio di volte. Quando gli viene un’idea, la ripete di tanto in tanto. Gli altri ormai si erano abituati e non ne erano più nemmeno infastiditi dalla cosa. Ma dopo aver sentito il nome del famoso attore Shah Rukh Khan, il re di Bollywood, Asad non riuscì a stare fermo.
“Ehi, ragazzi, avete visto il film Fan ? Ho provato a vederlo diverse volte, ma non riuscivo a starmene seduto e guardarlo fino alla fine. Gli manca dinamismo e pepe!” si lamentò Asad.
“Hmm. Avrebbero potuto far cantare una canzone tutta sua, una specie di sigla identificativa. L’ho visto il film, ma è di una noia mortale. Mastizaade di Sunny Leone è molto meglio!”
“Ma il video ‘Pink Lips’ dei Sunny Leone l’avete visto? Ce l’ho qui sul cellulare “, disse Habel, e fu così che l’interesse dell’intero gruppo si spostò e focalizzò su Sunny.
2.
Venerdì. Gofur Mian, – il padre di Sadeq, era andato in moschea un po’ prima. Gofur Mian è quel tipo di persona che non prega regolarmente. Gli capitava di pregare cinque giorni di fila e poi di non pregare per tre. Era il primo venerdì dopo la morte di Sadeq. Si precipitò in moschea per chiedere all’huzoor di dedicare una preghiera a Sadeq dopo quelle rituali del venerdì. Aveva programmato di sedersi in un angolo e pregare con ardore dopo aver recitato le preghiere del venerdì. Nei giorni passati la polizia e i giornalisti lo avevano tormentato con le loro domande e aveva a malapena avuto la possibilità di piangere il figlio.
La richiesta di preghiere per Sadeq colse di sorpresa l’ huzoor . “Ma sarà la cosa giusta da fare?”, si chiese.
“Perché non dovrebbe essere giusto?” Gofur divenne ansioso. “Perché mai huzoor ?”
“Sai… Non ci sono prove che tuo figlio fosse credente o non credente. Se si scopre che è ateo, che senso ha pregare per lui? La situazione attuale del Paese non è sicura e non voglio essere coinvolto in queste faccende”. Il comportamento dell’huzoor era solo razionale. Non aveva senso insistere. Sconvolto, Gofur terminò le preghiere e tornò subito a casa. Andò in camera sua, chiuse la porta e si sedette sul tappeto da preghiera. Infine uscì dopo il tramonto, con gli occhi gonfi. Aveva pianto, pianto, avrebbe continuato a piangere: questo era il voto che aveva fatto. Era andato dal suo sahib, cioè il parlamentare che rappresentava il suo distretto per chiedere giustizia. Il giorno prima, il sahib aveva dichiarato ai giornalisti che, a prescindere da chi fossero .gli assassini sarebbero stati assicurati alla giustizia. Ma poi aveva convocato Gofur per dirgli qualcosa di completamente diverso: non si sarebbe fatto coinvolgere negli affari di nessun ateo.
“Signore, tutti nel villaggio possono testimoniare che mio figlio era un credente. Non sapevamo nemmeno cosa o chi fossero gli atei!” implorò Gofur.
“Quelli del villaggio testimonieranno, dici? Ma nessuno l’ha ancora fatto! Ogni volta che qualcuno chiede del tuo ragazzo, la gente scappa”.
“Ma Signore, pregava sempre. La gente ha troppa paura per dire qualcosa. Ma Allah mi è testimone”.
“È quello che dico anch’io. Allah sa la verità. Non potrai riportare in vita tuo figlio anche se puoi dimostrare che era credente. Ma se per caso vengono presentate prove che dimostrano che era in realtà un ateo, potrai rimanere nel villaggio? Hai due figlie in età da marito. Riuscirai a farle sposare? Oramai chi è andato è andato. Dì ai giornalisti che hai accettato quello che è successo. Se necessario, farò un annuncio e ti darò diecimila taka. Non ho sempre contanti a portata di mano. Prendi anche due capre. Ti torneranno utili in occasione dei matrimoni delle tue figlie”. Il sahib doveva avere sempre l’ultima parola.
Il giorno in cui Gofur tornò dalla capitale del distretto, ricevette la visita di uno degli uomini del parlamentare, a cui si era anche unito il leader locale del villaggio. Era circa mezzanotte e Gofur era finalmente riuscito a dormire un po’. L’irrequietezza e l’ostilità che gli si erano accese dentro dopo aver ascoltato le parole del parlamentare erano svanite. Aveva giurato di non chiedere giustizia a nessuno all’infuori di Dio, nonostante avesse concluso che neppure guardare al cielo avesse alcun senso. Vedendo questi due uomini potenti entrare in casa non sapeva che contegno tenere.
“Ascolta, Gofur, sei fortunato. Anzi, invidio la tua buona sorte.” Alle parole del leader locale Gofur si agitò. Dopo la morte di suo figlio, parole come ‘buona sorte’ gli sembravano sconosciute. Nessuno gli diceva più queste parole. Il leader locale proseguì: “L’onorevole sahib ha una proposta da farti. Ti consegnerà un negozio in città e, con esso, tutte le merci di cui avrai bisogno. Invece di coltivare la terra di qualcun altro come stai facendo ora, gestirai il tuo negozio. Cosa ne pensi?”
“Sì, bene”, rispose spaventato Gofur.
” Ma che bene, benissimo direi!” Questa era la prima volta che l’uomo del sahib parlava. Gofur non era poi così sicuro che fare il negoziante in città fosse una buona idea.
“Ma dovrai fare una cosa”, disse il leader.
“Una piccolissima cosa”, aggiunse l’uomo del parlamentare. Gofur aspettò in silenzio, ancora diffidente dell’offerta.
“Dovrai solo puntare il dito contro Monsur Mullah come colpevole dell’omicidio di tuo figlio. Faremo noi il resto. Domani dovrai solo andare alla stazione di polizia e accusare gli uomini di Monsur Mullah. Ci penseremo noi a fornire i dettagli della storia. Non dovrai fare altro. Te ne potrai stare comodamente seduto nel tuo negozio.”
“E non osare dire a nessuno quel che ti abbiamo chiesto di fare. È possibile che la gente capisca come sono andate le cose, ma non importa, basta che tieni la bocca chiusa”, aggiunse il leader locale.
“Signore, posso prendermi qualche giorno per riflettere?” chiese Gofur.
“Non siamo venuti qui per darti il tempo di pensare! Non siamo venuti qui per chiedere il tuo permesso. Questo è l’ordine del sahib . Siamo venuti qui per dirti cosa fare”. I leader se ne andarono proprio come erano entrati: in silenzio. La moglie di Gofur era rimasta nascosta in un angolo e aveva sentito tutto. Se non fosse stato per questo, Gofur avrebbe potuto far passare l’intero episodio come un incubo e lasciarselo alle spalle.
“Vendiamo la nostra terra e trasferiamoci in un altro villaggio. Mi pare che qui non possiamo più vivere”, disse Nosiron, sua moglie.
“Non è che possiamo lasciare il Paese! Poi, pensi davvero che possiamo vendere la nostra terra se lasciamo il villaggio? Il presidente sta progettando di costruire una fabbrica qui. Non comprerà la terra e non permetterà nemmeno a nessun altro di comprarla”.
3.
Nel frattempo passarono uno o due mesi. La questione della giustizia per l’omicidio di Sadeq era ben lontana dall’occupare la mente degli abitanti del villaggio; infatti essi avevano concluso che Sadeq doveva essere ateo. Gofur in qualche modo riuscì a lasciare il villaggio. Proprio in quel momento, ci fu un altro incidente. Un Sadeq di un villaggio lì vicino era stato trovato morto, ucciso nello stesso modo. Un Sadeq diverso che aveva studiato in città ed era tornato a casa per le vacanze. Quando l’arma lo colpì al collo, qualcuno sentì uno degli assassini dire: “ Shala, stavolta non abbiamo sbagliato!”
Mojaffor Hossain
Breve Biografia di Mojaffor Hossainè un giovane autore di narrativa in lingua bengalese contemporanea che ha iniziato la sua carriera come giornalista e ora lavora come traduttore presso l’Accademia Bangla, Dhaka. Ha pubblicato sei raccolte di racconti che negli ultimi anni, hanno riscosso notevoli consensi sia tra pubblico generale che tra i critici letterari. I suoi racconti si distinguono per la loro ambientazione in realtà locali come come villaggi e città del Bangladesh o del West Bengala aggiungendo però sfumature di realismo magico o surrealismo. È stato premiato quattro volte per i suoi racconti. Il suo romanzo d’esordio Timiryatra è stato molto gradito dal pubblico. È anche conosciuto come traduttore e critico letterario e finora ha pubblicato 14 libri.
Descrizione-Di Louisa May Alcott si sa quel poco che le alette dei suoi romanzi ci concedono: che è l’autrice di Piccole donne e dei suoi seguiti, e che ha conosciuto in vita un successo destinato a durare come autrice di libri per ragazzi, anzi, per ragazze. Ma come è arrivata a scrivere la storia di una famiglia che assomiglia tanto alla sua? E da quale vena narrativa sgorgano le altre sue opere, decine e decine di racconti gotici “di sangue e tuono”, romanzi audaci e romanzi commerciali, qualcuno firmato, altri pubblicati anonimi o sotto pseudonimo?
Louisa May Alcott
Ripercorrere la sua vita è viaggiare in un mondo complicato, ricco di opportunità per le giovani donne ma sempre pronto a richiamarle all’ordine, per scoprire una ragazza fuori moda che sognava di essere se stessa ed è diventata “una sorta di tata letteraria che produce pappetta morale per i piccoli”. Una ragazza forte per forza, cresciuta in una casa povera di oggetti e ricca di ideali, diventata una donna lavoratrice per pagare conti e debiti altrui. In questo la storia di Alcott assomiglia a quella di tante altre scrittrici celebri, sempre in bilico tra necessità e libertà, e qualche volta si intreccia con la loro.
Louisa’s family experienced financial hardship, and while Louisa took on various jobs to help support the family from an early age, she also sought to earn money by writing. In the 1860s she began to achieve critical success for her writing with the publication of Hospital Sketches, a book based on her service as a nurse in the American Civil War. Early in her career, she sometimes used pen names such as A. M. Barnard, under which she wrote lurid short stories and sensation novels for adults. Little Women was one of her first successful novels and has been adapted for film and television. It is loosely based on Louisa’s childhood experiences with her three sisters, Abigail May Alcott Nieriker, Elizabeth Sewall Alcott, and Anna Alcott Pratt.
Louisa was an abolitionist and a feminist and remained unmarried throughout her life. She also spent her life active in reform movements such as temperance and women’s suffrage. During the last eight years of her life she raised the daughter of her deceased sister. She died from a stroke in Boston on March 6, 1888, just two days after her father’s death and was buried in Sleepy Hollow Cemetery. Louisa May Alcott has been the subject of numerous biographies, novels, and a documentary, and has influenced other writers and public figures such as Ursula K. Le Guin and Theodore Roosevelt.
Early life
Birth and early childhood
Louisa May Alcott at age 20
Louisa May Alcott was born on November 29, 1832, in Germantown,[1] now part of Philadelphia, Pennsylvania. Her parents were transcendentalist and educator Amos Bronson Alcott and social worker Abigail May.[2] Louisa was the second of four daughters, with Anna as the eldest and Elizabeth and May as the youngest.[3] Louisa was named after her mother’s sister, Louisa May Greele, who had died four years earlier.[4] After Louisa’s birth, Bronson kept a record of her development, noting her strong will,[5] which she may have inherited from her mother’s May side of the family.[6] He described her as “fit for the scuffle of things”.[7]
The family moved to Boston in 1834,[8] where Louisa’s father established the experimental Temple School[9] and met with other transcendentalists such as Ralph Waldo Emerson and Henry David Thoreau.[10] Bronson participated in child-care but often failed to provide income, creating conflict in the family.[11] At home and in school he taught morals and improvement, while Abigail emphasized imagination and supported Alcott’s writing at home.[12] Writing helped her handle her emotions.[13] Louisa was often tended by her father’s friend Elizabeth Peabody,[14] and later she frequently visited Temple School during the day.[15]
Louisa kept a journal from an early age. Bronson and Abigail often read it and left short messages for her on her pillow.[16] She was a tomboy who preferred boys’ games[17] and preferred to be friends with boys or other tomboys.[18] She wanted to play sports with the boys at school but was not allowed to.[19]
Alcott was primarily educated by her father, who established a strict schedule and believed in “the sweetness of self-denial.”[20] When Louisa was still too young to attend school, Bronson taught her the alphabet by forming the letter shapes with his body and having her repeat their names.[21] For a time she was educated by Sophia Foord,[22] whom she would later eulogize.[23] She was also instructed in biology and Native American history by Thoreau, who was a naturalist,[24] while Emerson mentored her in literature.[25] Louisa had a particular fondness for Thoreau and Emerson; as a young girl, they were both “sources of romantic fantasies for her.”[26] Her favorite authors included Harriet Beecher Stowe, Sir Walter Scott, Fredericka Bremer, Thomas Carlyle, Nathaniel Hawthorne, Goethe, and John Milton, Friedrich Schiller, and Germaine de Staele.[27]
In 1840, after several setbacks with Temple School and a brief stay in Scituate,[28] the Alcotts moved to Hosmer Cottage in Concord.[29] Emerson, who had convinced Bronson to move his family to Concord, paid rent for the family,[30] who were often in need of financial help.[31] While living there, Alcott and her sisters befriended the Hosmer, Goodwin, Emerson, Hawthorne, and Channing children, who lived nearby.[32] The Hosmer and Alcott children put on plays and often included other children.[33] Louisa and Anna also attended school at the Concord Academy, though for a time Louisa attended a school for younger children held at the Emerson house.[34] At eight years-old, Louisa wrote her first poem, “To the First Robin”. When she showed the poem to her mother, Abigail was pleased.[35]
In October 1842 Bronson returned from a visit to schools in England[36] and brought Charles Lane and Henry Wright with him[37] to live at Hosmer Cottage, while Bronson and Lane made plans to establish a “New Eden”.[38] The children’s education was undertaken by Lane, who implemented a strict schedule. Louisa disliked Lane and found the new living arrangements difficult.[39]
In 1843 Bronson and Lane established Fruitlands, a utopian community,[40] in Harvard, Massachusetts, where the family were to live.[41] Louisa later described these early years in a newspaper sketch titled “Transcendental Wild Oats”, reprinted in Silver Pitchers (1876), which relates the family’s experiment in “plain living and high thinking” at Fruitlands.[42] There, Louisa enjoyed running outdoors and found happiness in writing poetry about her family, elves, and spirits. She later reflected with distaste on the amount of work she had to do outside of her lessons.[43] She also enjoyed playing with Lane’s son William and often put on fairy-tale plays or performances of Charles Dickens‘s stories.[44] She read works by Dickens, Plutarch, Lord Byron, Maria Edgeworth, and Oliver Goldsmith.[45]
During the demise of Fruitlands, the Alcotts discussed whether or not the family should separate. Louisa recorded this in her journal and expressed her unhappiness should they separate.[46] After the collapse of Fruitlands in early 1844, the family rented in nearby Still River,[47] where Louisa attended public school and wrote and directed plays that her sisters and friends performed.[48]
In April 1845 the family returned to Concord, where they bought a home they called Hillside with money Abigail inherited from her father.[49] Here, Louisa and her sister Anna attended a school run by John Hosmer after a period of home education.[50] The family again lived near the Emersons, and Louisa was granted open access to the Emerson library, where she read Carlyle, Dante, Shakespeare, and Goethe.[51] In the summer of 1848 sixteen-year-old Louisa opened a school of twenty students in a barn near Hillside. Her students consisted of the Emerson, Channing, and Alcott children.[52]
The two oldest Alcott girls continued acting in plays written by Louisa. While Anna preferred portraying calm characters, Louisa preferred the roles of villains, knights, and sorcerers. These plays later inspired Comic Tragedies (1893).[53] The family struggled without income beyond the girls’ sewing and teaching. Eventually, some friends arranged a job for Abigail[54] and three years after moving into Hillside, the family moved to Boston. Hillside was sold to Nathaniel Hawthorne in 1852.[55] Louisa described the three years she spent at Concord as a child as the “happiest of her life.”[56]
Boston
When the Alcott family moved to South End, Boston in 1848,[57] Louisa had work as a teacher, seamstress, governess, domestic helper, and laundress, to earn money for the family.[58] Together, Louisa and her sister taught a school in Boston,[59] though Louisa disliked teaching.[60] Her sisters also supported the family by working as seamstresses, while their mother took on social work among the Irish immigrants. Elizabeth and May were able to attend public school, though Elizabeth later left school to undertake the housekeeping.[61] Due to financial pressures, writing became a creative and emotional outlet for Louisa.[62] In 1849 she created a family newspaper, the Olive Leaf, named after the local Olive Branch. The family newspaper included stories, poems, articles, and housekeeping advice.[63] It was later renamed to The Portfolio.[64] She also wrote her first novel, The Inheritance, which was published posthumously and based on Jane Eyre.[65] Louisa, who was driven to escape poverty, wrote, “I wish I was rich, I was good, and we were all a happy family this day.”[66]
Early adulthood
Life in Dedham
Abigail ran an intelligence office to help the destitute find employment.[67] When James Richardson came to Abigail in the winter of 1851 seeking a companion for his frail sister and elderly father who would also be willing to do light housekeeping,[68] Louisa volunteered to serve in the house filled with books, music, artwork, and good company on Highland Avenue.[69] Louisa may have imagined the experience as something akin to being a heroine in a Gothic novel, as Richardson described their home in a letter as stately but decrepit.[69]
Louisa May Alcott
Richardson’s sister, Elizabeth, was 40 years old and suffered from neuralgia.[70] She was shy and did not seem to have much use for Louisa.[69] Instead, Richardson spent hours reading her poetry and sharing his philosophical ideas with her.[71] She reminded Richardson that she was hired to be Elizabeth’s companion and expressed that she was tired of listening to his “philosophical, metaphysical, and sentimental rubbish.”[69] Richardson’s response was to assign her more laborious duties, including chopping wood, scrubbing the floors, shoveling snow, drawing water from the well, and blacking his boots.[72]
Louisa quit after seven weeks, when neither of the two girls her mother sent to replace her decided to take the job.[69] As she walked from Richardson’s home to Dedham station, she opened the envelope he handed her with her pay.[69] One account states that she was so unsatisfied with the four dollars she found inside that she mailed the money back to him in contempt.[69] Another account states that Bronson may have returned the money himself and rebuked Richardson.[73] Louisa later wrote a slightly fictionalized account of her time in Dedham titled “How I Went Into Service”, which she submitted to Boston publisher James T. Fields.[74] Fields rejected the piece, telling Louisa that she had no future as a writer.[74]
Autrice Beatrice Masini è nata a Milano, dove lavora nell’editoria.Giornalista al Giornale e poi alla Voce, editor, traduttrice, scrive per bambini e per adulti. I suoi libri per ragazzi (albi, racconti, romanzi) sono tradotti in una ventina di lingue. Bambini nel bosco (Fanucci, 2010) è stato il primo libro per ragazzi ad essere selezionato per il Premio Strega. Con Tentativi di botanica degli affetti (Bompiani, 2013) ha vinto il premio Selezione Campiello, il premio Viadana, il premio Alessandro Manzoni.
Louisa May AlcottLouisa May AlcottLouisa May Alcott
John Ashbery è un poeta statunitense (Rochester, New York, 28 luglio 1927 – Hudson, 3 settembre 2017). Insieme con Kenneth Koch e Frank O’Hara è stato uno dei New York Poets, che perseguivano un rinnovamento della poesia analogo a quello dei Beats e dei Black Mountain Poets. Nella sua opera confluiscono le problematiche più avanzate delle arti contemporanee, la ripresa dell’eredità modernista e la fusione di poesia e arti visive. Tra le sue opere Some Trees (Alberi, 1956); The Tennis Court Oath (Il giuramento del campo da tennis, 1962); Self Portrait in a Convex Mirror ( 1975; Autoritratto in uno specchio convesso, Milano, 1983); April Galleon (Galleone d’aprile, 1987; Can You Hear, Bird: Poems (1995); Chinese Whispers: poems (2002). Nel 2008 per Luca Sossella esce Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007, antologia curata da Damiano Abeni con Moira Egan.
Poesie di John Ashbery
Questa stanza
La stanza in cui entrai era il sogno di questa stanza.
Certo tutti quei piedi sul sofà erano miei.
Il ritratto ovale
di un cane ero io in piú tenera età.
Qualcosa riluce, qualcosa viene azzittito.
A pranzo mangiavamo pastasciutta tutti i giorni
tranne la domenica, quando una quaglia veniva indotta
a esserci servita. Perché ti dico questo?
Nemmeno sei qui.
CARTE
Perdere tempo con questi rompicapo?
Perché su che cosa farei lezione allora?
Il maestro che viene dopo, dopo tutto,
li toglie di mezzo o li brucia.
Io dunque non sono molto forte?
Il mio arco sarà eretto, teso lungo la sabbia
fin dove si vedono gli ulivi? No,
io sono un pezzo di stoffa normale, ma mi colpisce
la sera nel plenilunio.
L’heureuse, la chiamavano.
Giorno dopo giorno guardava lo sguardo azzurro del globo
nel suo giardino soleggiato, senza dire niente.
Notando questo, neanche il vecchio ceppo diceva niente.
Finché è sbottato:
«Non puoi essere qualcosa? Hai le buone maniere che ci vogliono
e la tua veste è un movimento di verde pisello iniettato di spuma marina».
So che un giorno io mi rassegnerò
alle buone maniere e al commercio con gli altri.
Perciò lancio il mio cappello su questo attaccapanni.
Ecco siamo in due. Prendine due.
Continuando a girare nel cielo demente,
la macina dello zucchero versa poesie e più semplici mosse.
E come spiegare le rose nella nostra fornace?
Una scimmia molto materna ci porta
a un tavolo coperto di argenteria e di cristalli,
pentole sporche di cristallo che permettevano al vecchio
di vedere attraverso le lacrime:
lui avresti dovuto invitare.
Paradossi e ossimori
Questa poesia si occupa del linguaggio a un livello alquanto piano.
Guardala che ti parla. Guardi da una finestra
o affetti irrequietezza. La sai ma non la sai.
Ti manca, la manchi, le manchi, ti manca. Vi mancate a vicenda.
La poesia è triste perché vuole essere tua, e non può.
Cos’è un livello piano? È quella cosa e altre,
e ne mette in gioco un sistema. Gioco?
Beh, di fatto, sí, ma io ritengo che il gioco sia
una piú profonda cosa esterna, un modello di ruolo sognato,
come nella ripartizione della grazia queste lunghe giornate agostane
senza dimostrazione. A finale aperto. E prima che te ne accorga
si perde nel vapore e nel cicaleccio della macchina da scrivere.
È stata giocata un’altra volta. Penso tu esista solo
per tormentarmi a farlo, al tuo livello, e poi tu non ci sei
o hai adottato un atteggiamento diverso. E la poesia
mi ha deposto dolcemente accanto a te. La poesia è te.
*
Il brivido di un’avventura d’amore
È diverso quando hai il singhiozzo.
Tutto è – cosí tante mani con secondi fini si contendono
la tua attenzione, una sciarpa, uno sbuffo di fuliggine,
o solo un boato di silenzio da una radio.
Cos’è? È una cosa che saprai
con sconcerto quando, alla fine di una lunga coda
al self-service, vassoio in mano, ti dicono che la porta ha chiuso
dopo la seconda guerra mondiale. Siracusa fu dichiarata capitale
di una nazione malconcia, ma il direttorato
aveva altri, reconditi scopi. Proclamare la logica
vittima della verità era uno di questi.
La solitudine di tutti (e la conseguente promiscuità)
profumava i vicoli di paesi che avevamo pensato civili.
Ti ho visto che aspettavi il tram e sono passato di fretta.
Ahimé eri solo un bimbo con l’armatura. Ora quando brindisi ribaldi
fanno vela attorno a un tavolo troppo bene imbandito, ecco le conseguenze
sono solo polvere, malattia e vecchiaia. I bei ricordi
sono solo ciò che sono. Cosí io convoglio qualsiasi cosa
nella mia eventualità, una vena di mercurio
che continua a disperdersi, piú su, piú puntuale
ogni volta. Dirndl maculati di fiori obsoleti,
indossati di nuovo in città, promuovono un dibattito aperto.
*
John Askbery photo by Lynn Davis
da Houseboat Days [I giorni della casa galleggiante]1977
E lei si chiama Ut pictura poesis
Non puoi dirlo piú cosí.
Preoccupato della bellezza devi
uscire allo scoperto, in una radura,
e riposare. Certo, qualsiasi cosa strana ti succeda
è OK. Chiedere di piú non sarebbe
da te, tu che hai cosí tanti amanti,
gente che ti ammira ed è pronta
a fare cose per te, ma tu pensi
non sia giusto, che se ti conoscessero davvero…
Basta cosí con l’autoanalisi. E adesso,
su cosa mettere nella tua poesia-quadro:
i fiori sono sempre belli, specie i delphinium.
I nomi di bambini conosciuti un tempo e le loro slitte,
i razzetti vanno bene – esistono ancora?
Ci sono un sacco di altre cose con le stesse proprietà
delle sunnominate. Ora si devono
trovare alcune parole importanti e molte di basso profilo,
dal suono fiacco. Lei mi contattò
perché comprassi la sua scrivania. D’improvviso la strada fu
follia pura e clangore di strumenti giapponesi.
Prosaici testamenti vennero sparpagliati tutt’attorno. La sua testa
s’allacciò alla mia. Eravamo una biciancola. Qualcosa
andrebbe scritto su come ciò ti condizioni
l’estrema austerità di una testa pressoché vuota
che si scontra con il rigoglioso fogliame Rousseau-simile del suo desiderio di [comunicare
qualcosa nelle intermittenze del respiro, anche se solo nell’interesse
d’altri e per il loro desiderio di capirti e disertarti
per altri centri di comunicazione, cosí che la comprensione
possa avere inizio, e cosí facendo essere disfatta.
Fonte-Pangea. Rivista avventuriera di cultura&idee è un progetto dell’Associazione Culturale Pangea. Direttore editoriale: Davide Brullo; Presidente: Jonathan Grassi.
Aldo BUSI
“Auden non mi capiva. D’altronde, per me la poesia è un mistero”: torna John Ashbery, finalmente. Il primo a tradurlo fu Aldo Busi…
Il primo fu Aldo Busi, che nel 1983, per Garzanti, traduce Autoritratto in uno specchio convesso di John Ashbery. Su Ashbery s’era laureato, a Firenze; l’anno dopo, nel 1984, Adelphi pubblica Seminario della gioventù. Strabiliando l’evento, Busi ne scrive in Vita standard di un venditore provvisorio di collant, edito in origine nel 1985, poi riscritto nel 2001. “Gli mancavano due esami finali e la sua tesi sulla poesia americana moderna, da Walt Whitman al celebre John Aninny che, ispirandosi al dipinto del Parmigianino, aveva scritto Autoritratto di una checca convessa, era a buon punto”. Pare che i due, Aldo & John, sotto la sottana della tesi e l’intrallazzo della traduzione, abbiano avuto una storia. Probabilmente hanno avuto una lite. “Non ci pensava neanche più a cercarsi una stanza, né tanto meno a far visita al supersponsorizzato e marlborizzato John Aninny per sputargli in un occhio”.
L’evidenza della nostra cupa provincialità. Intendo, la fatica con cui qui attecchiscono i giganti d’altrove. Specifico. In questo Paese in cui fioriscono poeti come margherite – poeti, appunto, primaverili: delicati, deliziosi, sfiziosi, sfinenti – non si traducono i Titani. John Ashbery, per dire (di Saint-John Perse, tra gli scandali, ho già detto). Anche Wikipedia sa che “è considerato come il più influente poeta del suo tempo” (facendo fare la sintesi a Langdom Hammer, pavone della Yale: “nessun poeta americano possiede un vocabolario tanto vasto, tanto specifico, né Whitman né Pound”). Eppure, da noi s’è fatta una fatica matta a leggerlo. Oltre alla fatidica edizione del 1983, griffata Garzanti, ci si sono messi piccoli, ostinati, bravi editori (Il Labirinto, le Edizioni l’Obliquo, le Edizioni del Bradipo), fino a Sossella, nel 2008, con Un mondo che non può essere migliore. Ora. Non dico il ‘Meridiano’, che lo fanno a cani & porci oppure ai cari estinti, ma almeno una pubblicazione sontuosa per un editore presente in libreria… Per questo, l’Autoritratto entro uno specchio convesso edito da Bompiani nella neonata collana di poesia ‘Capoversi’ è un evento, sia lode a Damiano Abeni. Purtroppo, Ashbery, che non è nato l’altro ieri – è del 1927 – è morto due anni fa. Quel libro lì, Self-Portrait in a Convex Mirror, pubblicato nel 1975, consente ad Ashbery il Pulitzer, il National Book Award, il National Book Critic Circle Award. Insomma, è considerato tra i grandi libri di poesia del secolo. Era ora, averlo.
*
“Lo speculum o specchio convesso di Ashbery è l’esatto contrario del suo desiderio e volontà, e in questa inclinazione che lo porta a distanziarsi dai padri, lo Stevens tangibile e lo Whitman spettrale, Ashbery costruisce il suo vero clinamen”, scrive Harold Bloom nell’ermetica introduzione, Frantumare la forma, che sta sulla soglia delle poesie. Ashbery doveva essere un tipo simpatico – o insopportabile, il che è uguale. Nell’intervista che gli fa David Remnick nel 1980, poi pubblicata sulla “Bennington Review” (e da cui ho stralciato passi salienti), il nostro dice che delle opinioni di Bloom gli importa il giusto, quasi nulla. Che non vede somiglianze tra la sua poesia e quella di Stevens e di Whitman. Che gli è più prossimo Auden – il quale, clamorosamente, non lo capì. I poeti, si sa, vivono da cobra, tra mistificazione e fraintendimento.
*
Bisogna avere voglia di giocare, di mettersi in gioco, di far capriolare i significati, per apprezzare Ashbery.
L’ora del giorno o la densità della luce
adesa al volto lo mantiene
vivido e intatto in un’onda reiterata
d’arrivo. L’anima instaura se stessa.
Ma fin dove può fluttuare lontano attraverso gli occhi
e ancora tornare sana e salva al proprio nido? Essendo
la superficie dello specchio convessa, la distanza aumenterà
considerevolmente; vale a dire quanto basta per asserire
che l’anima è un prigioniero, trattato in modo umano, tenuto
sospeso, incapace di incedere molto oltre
il tuo sguardo che intercetta il dipinto.
Guardare l’omonimo Parmigianino al Kunsthistorisches Museum può servire. La mano deformata, magra come un levriero; il viso di strabiliante giovinezza. Lo specchio non rispecchia – è un viaggio nel tempo, una sbavatura del destino.
*
John Ashbery
Ashbery rende tutti degli scolaretti, è vero. Petulanti e impudichi. Però, è pur vero che sepolta una generazione – Ashbery, Heaney, Bonnefoy, Luzi, Sereni, mettete chi vi pare – l’altra, la nostra, arranca, in resa. Torna la poesia ‘sentimentale’, dell’ombelico che non si spalanca in abisso ma resta ciò che è: salotto. Oppure la speciosa sociologia del girotondo perbenista. Non è una questione di altezza verbale, mai, ma di tensione di sguardo, di atrofia della retina, sì. (d.b.)
***
Prime letture. “I miei genitori non erano intellettuali. Ma il nonno, che era professore di fisica all’università, adorava i libri. Andavo a visitarlo per immergermi nella sua biblioteca. Mi piacevano molto i libri sui miti greci di Nathaniel Hawthorne, avevo una bella edizione di Shakespeare, con illustrazioni piuttosto inquietanti. Non capivo molto, preferivo le commedie. Poi… Dickens, Sir Walter Scott, Thackeray”.
La poesia è difficile? “I primi poeti furono Shelley, Byron, Longfellow. Leggevo poca poesia da giovane. Probabilmente perché, come tutti, immaginavo che per capire la poesia fosse necessario un corso o qualcosa del genere. Pensavo che fosse impossibile aprire semplicemente un libro e iniziare a leggere. Poi ho scoperto che non era così”.
Amo Auden, disse, distrattamente, che ero come Rimbaud. “Di solito sono connesso a Wallace Stevens, ma mi sembra che W.H. Auden abbia avuto un ruolo più importante nella mia formazione. Fu il primo poeta moderno che ho letto con vero piacere. Mi selezionò per il premio Yale Younger Poets. Le cose andarono così. Non osavo inviare a Auden le mie poesie, allora mandai il mio manoscritto alla Yale University Press. Mi fu restituito. Anche a Frank O’Hara capitò la stessa cosa. Un amico comune, Chester Kallman, parlò a Auden di noi. Aveva deciso di non assegnare il premio quell’anno perché non gli era piaciuto alcun manoscritto. Allora, si è fatto consegnare i nostri manoscritti. Ha scelto il mio. Ha scritto una prefazione piuttosto anaffettiva in cui mi paragonava a Rimbaud – paragone assai lusinghiero, è ovvio, ma non credo fosse un complimento, visto che Auden era assai anti-francese. Qualcuno mi disse di aver chiesto a Auden cosa pensasse della mia poesia: rispose che non era mai stato in grado di capirne un verso!”.
Il distruttore della poesia. “La mia poesia non è legata a una particolare tradizione – lo è un po’ di più se questo legame lo sostiene qualche critico importante. Molte persone si scocciano, alzano le mani e dicono che le mie poesie non sono affatto poesie. Non mi considero un distruttore della poesia, ma uno che, a modo proprio, come può, perpetua una tradizione”.
Harold Bloom? Non lo capisco. “Harold Bloom si sforza di tracciare un percorso di influenze che mi legherebbe a Whitman e a Stevens. Una volta gli ho detto che non avevo letto i testi di Emerson di cui dice che io sarei l’erede. Rispose che comunque ero stato influenzato da lui. Non voleva sentirsi dire che non lo conoscevo. Questa faccenda delle influenze non la capisco. Penso che siano imputate da un critico per supportare le proprie argomentazioni. Un poeta è influenzato da molte cose, non solo dalla poesia, ma anche dal clima, dalla stanza in cui si trova, da qualsiasi cosa – e ogni cosa è egualmente importante”.
Faccio ciò che mi dicono di non fare. “Ciò che mi rimproverano i critici mi fa agire in direzione esattamente contraria alle loro opinioni. Ho sempre seguito il consiglio di Cocteau secondo cui devi leggere le critiche al tuo lavoro e continuare a fare cose che ottengono disapprovazione”.
Preferisco esplorare i luoghi ignoti. “La poesia confessionale non mi convince. Anch’io ho sofferto come tutti, quindi, perché non dimenticarsene e mettersi al lavoro? La poesia mi pare sia altrove. Piuttosto che affrontare le esperienze del mio passato, che mi sono familiari, preferisco con la poesia esplorare luoghi ignoti. Heidegger dice che scrivere una poesia è una esplorazione. Allo stesso modo, sono interessato alle poesie che scriverò più che a quelle che ho già scritto. Il vecchio, davvero, non mi appartiene”.
Per me la poesia è un mistero. “Non so da dove vengano le poesie. È una faccenda misteriosa. Non voglio dire che scrivo in trance, o cose simili. Al contrario, la poesia riguarda il sentirsi più sveglio del normale”.
Le poesie di oggi? Prodotte in serie. “Le poesie spesso vengono prodotte in serie, in quello stile rilassato, in presa diretta, come Ginsberg, pieno di autostrade, di foglie d’autunno, di problemi di coppia, della vita di tutti i giorni. Tutto è risolto in un pensiero piccolo e pulito, che fluttua. Un tono così lo sento in tanti studenti, e mi domando, ‘Bene, è tutto molto bello, ma perché vuoi scrivere in un modo popolare? Perché non vuoi scoprire chi sei?’. Allora, do loro degli incarichi formali. Amo le forme che occupano la mente cosciente per dare estensione all’inconscio: la sestina, la canzone. Il sonetto è troppo breve, poco funzionale, credo”.
Leggete i contemporanei. Per gli altri ci sarà tempo. “I miei consigli al giovane poeta? Leggere quanta più poesia contemporanea possibile senza scoraggiarsi per la difficoltà. Anche Keats diceva che bisogna iniziare leggendo i poeti del proprio tempo più che quelli del passato. Penso, inoltre, che sia utile imitare, consapevolmente, i poeti che ti piacciono davvero. Leggere poesia contemporanea, inoltre, ti evita di scrivere come uno che non hai ancora letto. Spessi dico a uno studente, ‘Pare che tu sia stato influenzato da…’, e lui non ne ha mai sentito parlare…”.
Il lavoro obbliga alla disciplina. “Che i poeti non possano vivere di poesia è un peccato. Sei costretto a fare qualcos’altro finché questo qualcos’altro non diventa sempre più invadente. Se poi i poeti non guadagnano molto con il loro lavoro, il problema è tremendo. Tuttavia, penso che questa situazione favorisca la disciplina. Se sei determinato a scrivere una cosa, la scrivi. Non importano le condizioni esterne, lo faresti comunque”.
Fonte-Pangea. Rivista avventuriera di cultura&idee è un progetto dell’Associazione Culturale Pangea. Direttore editoriale: Davide Brullo; Presidente: Jonathan Grassi.
John Ashbery è uno dei maggiori poeti statunitensi viventi. È attivo dalla metà degli anni Cinquanta (del 1956 è la sua prima raccolta Some Trees). Personalità estremamente autonoma, difficilmente inquadrabile in correnti e scuole, Ashbery è il poeta metamorfico e sperimentale per eccellenza. La sua scrittura si muove costantemente tra la l’assunzione delle forme ereditate e la pressione verso l’informe. La sua esplorazione dell’identità avviene per itinerari ellittici, enigmatici, ambigui, ponendosi agli antipodi del filone “confessionale” della poesia statunitense e del suo capostipite Robert Lowell.
In Italia apparve nel 1983, per Garzanti, Autoritratto in uno specchio convesso con un’introduzione di Giovanni Giudici e traduzione di Aldo Busi. Oggi è finalmente disponibile in Italia un’antologia curata da Damiano Abeni con Moira Egan, alla cui selezione ha collaborato lo stesso autore. Si tratta di Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007, Luca Sossella, 2008.
Nota biografica di John Ashbery è un poeta statunitense (Rochester, New York, 28 luglio 1927 – Hudson, 3 settembre 2017). Insieme con Kenneth Koch e Frank O’Hara è stato uno dei New York Poets, che perseguivano un rinnovamento della poesia analogo a quello dei Beats e dei Black Mountain Poets. Nella sua opera confluiscono le problematiche più avanzate delle arti contemporanee, la ripresa dell’eredità modernista e la fusione di poesia e arti visive. Tra le sue opere Some Trees (Alberi, 1956); The Tennis Court Oath (Il giuramento del campo da tennis, 1962); Self Portrait in a Convex Mirror ( 1975; Autoritratto in uno specchio convesso, Milano, 1983); April Galleon (Galleone d’aprile, 1987; Can You Hear, Bird: Poems (1995); Chinese Whispers: poems (2002). Nel 2008 per Luca Sossella esce Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007, antologia curata da Damiano Abeni con Moira Egan.
Fonte-Pangea. Rivista avventuriera di cultura&idee
Fjodor Savintsev fotografo: Come in un romanzo, viaggio nelle autentiche dacie russe di campagna.
Fyodor Savintsev, born in 1982, is a documentary photographer. In the early 2000s, Fyodor worked as photo journalist, collaborating with the world’s leading photo agencies. His stories have been published in the worlds media. Fyodor’s work is filled with deep meanings and symbolism. The author has his own language and style. Fyodor Savintsev has been having several solo and group exhibitions and has participated in auctions and fairs. He also published photo albums and books. He is playing an active role in the world of photography.
Fjodor Savintsev
Il fotografo Fjodor Savintsev ci apre le porte delle casette in legno del villaggio di Kratovo, vicino Mosca, per raccontare e immortalare un patrimonio architettonico fragile e bellissimo. I suoi scatti serviranno a promuovere una fondazione per la tutela delle antiche dacie private che caratterizzano la campagna russa. Sembrano uscite da un film di Nikita Mikhalkov. O da un racconto di Anton Chekhov. Sono le dacie russe di campagna. Casette in legno, solitarie e circondate dal bosco, immerse in un silenzio che sembra irreale. Le dacie russe sono ora al centro di un interessante progetto realizzato dal fotografo Fjodor Savintsev, conosciuto per aver pubblicato i propri scatti su importanti riviste internazionali.
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Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
La pandemia come forma di ispirazione
Il progetto è nato durante i difficili momenti della pandemia; quando la gente era costretta a stare chiusa in casa, o a cercare rifugio nelle proprie dacie di campagna, lontano dalle folle delle città. “Il progetto ‘Le dacie di Kratovo’ prende il nome da un villaggio di periferia vicino a Mosca – racconta il fotografo -. Tutto è iniziato quando sono tornato a casa dei miei genitori per aiutarli nel momenti difficili della pandemia. E così ho iniziato a raccogliere immagini documentarie delle vecchie dacie della periferia di Mosca”.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Un viaggio affascinante nel passato. Un passato inciso nelle assi di legno, nelle cornici intagliate delle finestre, nei tetti spioventi che disegnano geometrie fantasiose, spesso frutto del gusto personale degli abitanti che le hanno costruite. Queste casette, infatti, il più delle volte sono state realizzate dalla gente comune, che in passato non si affidava ad architetti e costruttori. Il risultato è un “patchwork” unico di forme e colori.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
“Mi sono visto come un archivista che raccoglie informazioni e documenti – spiega Fjodor Savintsev -. In teoria, questo lavoro dovrebbe essere fatto da professionisti dell’architettura. Ma ho creato una tendenza affascinante che si è diffusa in diverse città. E noto un interesse crescente nello studio delle dacie a livello storico”.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
L’evoluzione dei suoi lavori
Nel corso degli anni l’attenzione di Savintsev si è spostata dai soggetti umani agli oggetti immobili. Un passaggio “fluido”, come lo ha definito lui stesso, mosso dal desiderio di raccontare l’architettura come se fosse un ritratto.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
“In generale nella mia carriera hanno prevalso i soggetti umani sull’architettura, ma adesso guardo anche le case attraverso la forma del ritratto. Faccio ritratti di case”, dice Savintsev, che ha sviluppato il suo progetto con un metodo di ricerca molto preciso, percorrendo strada per strada, viuzza per viuzza, alla ricerca di casette in legno da fotografare. Spesso si è messo sulle orme dei proprietari, per raccogliere testimonianze e informazioni sulla storia delle case, da poter poi condividere insieme alle immagini.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Trovare i proprietari non è sempre stato facile: Savintsev si è rivolto al suo vasto pubblico di Instagram chiedendo se qualcuno conoscesse la storia di una particolare casa o dei suoi proprietari.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
“Instagram è uno strumento mediatico che mi permette non solo di condividere le mie foto con il pubblico, ma anche di costruire legami significativi, dando la possibilità alla gente di contattarmi direttamente. Più di qualche volta infatti sono stato contattato dai proprietari”, spiega.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Per il fotografo documentarista, ottenere l’accesso alle case è di fondamentale importanza; ma spesso la gente si sente in soggezione davanti a obiettivi e macchine fotografiche, perciò Savintsev scatta le sue immagini sempre con lo smartphone.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
“Viviamo in un’epoca in cui le persone sono morbosamente a disagio quando vedono attrezzature professionali e credono che violino i loro confini privati. L’iPhone non provoca una tale reazione”, racconta Savintsev.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Al momento Savintsev sta aiutando a restaurare cinque case e ha in programma di creare una fondazione per aiutare il recupero delle dacie private. “L’obiettivo è preservare il patrimonio dell’architettura in legno – spiega -. Lo Stato non stanzia fondi per mantenere gli immobili privati, e spesso case come queste finiscono in rovina. Ma sono molto interessanti dal punto di vista del nostro patrimonio culturale, anche se sono di proprietà privata. Quindi, l’idea della fondazione è di aiutare a preservare l’aspetto autentico e originale di queste dacie, anche se private”.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Amici e amanti della Sardegna- Maria Carta Cantante-
Breve Biografia-Maria Carta Nacque a Siligo, un piccolo paese della provincia di Sassari, il 24 giugno 1934. Alla nascita le fu dato il nome di Maria Giovanna Agostina: Giovanna perché nacque il giorno della festa di san Giovanni e Maria Agostina per ricordare la nonna materna. All’età di otto anni perse il padre per una grave malattia e fu costretta, come del resto tutti i bambini della sua condizione sociale, ad affrontare le fatiche quotidiane sia in casa sia in campagna[1].
Nel 1957, a 23 anni, vinse il concorso di bellezza Miss Sardegna e partecipò al concorso nazionale di Miss Italia. Prese parte come attrice al fotoromanzo Questo sangue sardo, scritto e realizzato da Abramo Garau a Sardara[2]. Intorno al 1960 si trasferì a Roma, dove conobbe lo sceneggiatore Salvatore Laurani, che poi sposò. Frequentò il Centro Nazionale di Studi di Musica Popolare, diretto da Diego Carpitella, presso l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia[3] e contemporaneamente portò avanti un percorso di ricerca musicale ed etnografica con importanti produzioni e collaborazioni.
Nel 1971 realizzò due album: Sardegna canta e Paradiso in re, e intanto frequentò l’etnomusicologo Gavino Gabriel. Lo stesso anno venne trasmesso dalla Rai il documentario Incontro con Maria Carta (fotografia di Franco Pinna e testi di Velia Magno), nel quale Maria cantò e recitò con Riccardo Cucciolla. Venne registrato anche un altro documentario (con regia di Gianni Amico su soggetto e sceneggiatura di Salvatore Laurani) dal titolo Maria Carta. Sardegna, una voce.
Nel 1972 recitò al Teatro Argentina a Roma nella Medea di Franco Enriquez. Lo stesso anno incontrò Amália Rodrigues, con la quale tenne un concerto al Teatro Sistina[4]. Nel 1973 le due artiste realizzarono una tournée in Sardegna[5]. Nel 1974 partecipò a Canzonissima, interpretando il Deus ti salvet Maria. Arrivò in finale e si classificò seconda nel girone della musica folk con il brano Amore disisperadu. Nel 1975 tenne un importante concerto al Teatro Bol’šoj di Mosca. Nel 1976 venne eletta, per il Partito Comunista Italiano, nel consiglio comunale di Roma e rimase in carica fino al 1981.
Nella sua carriera si ritagliò un ruolo in alcuni film e godette dell’amicizia di registi famosi come Pier Paolo Pasolini, Francis Ford Coppola e Franco Zeffirelli: suoi infatti furono i ruoli della madre di Vito Corleone ne Il padrino – Parte II (1974) di Coppola e di Marta nello sceneggiato Gesù di Nazareth (1977) di Zeffirelli. Nel 1980 partecipò al Festival d’Avignone, nel 1987 si esibì nella cattedrale di San Patrick a New York e nel 1988 nella cattedrale di St. Mary a San Francisco. Nel 1992 realizzò il musical teatrale A piedi verso Dio con brani composti da Franco Simone. Maria Carta tenne il suo ultimo concerto a Tolosa, in Francia, il 30 giugno 1993. Malata da tempo di tumore, morì nella sua casa di Roma all’età di 60 anni.
Poesie di Roberto Carifi (Pistoia, 1948), poeta e scrittore tra i più validi dell’era contemporanea.Esperto di filosofia tedesca e francese, oltre che di buddhismo, l’autore toscano si è formato come psicanalista a Parigi ed a Milano seguendo le lezioni di Jacques Lacan.
Dal 2004 la sua esistenza è stata condizionata dai postumi di un grave ictus. Da allora, si è concentrato nella sua ricerca poetica sulla funzione del dolore nella vita umana.
“Nasco filosofo -spiega egli stesso- con una grande tensione verso la poesia. Una tensione, la mia, che si è poi sviluppata fino a rendermi filosofo, ma soprattutto poeta. La filosofia arriva fino ad un certo punto, da quel punto in poi c’è la poesia. La poesia parla del cielo, delle foreste, degli uomini, fa un salto verso la verità.”
Scrive su di lui il poeta Giuseppe Conte: “Nella sua formazione, mette insieme il rock e Lacan, la filosofia heideggeriana e la militanza nella critica: è a lui che si devono alcuni dei migliori saggi sulla nuova poesia italiana degli ultimi decenni del Novecento. Nel 1995, partecipa alla fondazione del Mitomodernismo. Il suo percorso poetico è però solitario e unico.”
Secondo il critico letterario Andrea Temporelli, “nessun poeta più di Carifi può oggi vantare un universo simbolico e stilistico così identificato e coerente da trasformarsi in vera e propria koiné”.
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito. La mostra a Bologna-
Che Guevara Tú y todos un percorso espositivo per raccontare un personaggio chiave della storia del ‘900, attraverso una ricca e inedita documentazione e con il supporto dell’Università degli Studi di Milano e dell’Università IULM nella ricostruzione del contesto storico. Il progetto è stato ideato e realizzato da Simmetrico Cultura, prodotto da ALMA e dal Centro de Estudios Che Guevara de l’Avana, il cui archivio è stato inserito nel 2013 nel registro UNESCO del programma Memoria del mondo.
La mostra è curata da Daniele Zambelli, Flavio Andreini, Maria del Carmen Ariet Garcia e Camilo Guevara, scomparso nel 2022, a cui la mostra è dedicata, ed è accompagnata da una “colonna sonora” originale composta da Andrea Guerra. Il percorso espositivo si sviluppa filologicamente su tre livelli di racconto, attraverso cui i visitatori rivivranno i giorni e i luoghi, gli stati d’animo e i pensieri, le azioni personali e gli eventi storici che hanno visto protagonista il Che.
Un livello di narrazione di stampo giornalistico ricostruisce il clima geo-politico; un secondo livello sarà dedicato al contesto biografico con i discorsi pubblici, ai pensieri sull’educazione e sulla politica estera, sull’economia e gli accadimenti privati e pubblici di Ernesto Guevara. Il terzo livello, a-temporale e intimistico, rivelerà gli scritti più personali – dai diari alle lettere a familiari e amici, sino alle inedite registrazioni di poesie – dove dubbi, contraddizioni, riflessioni prendono corpo. Da questo livello narrativo emerge l’uomo, l’intensità delle domande che il Che poneva a sé stesso, la difficile scelta fra l’impegno nella lotta contro l’ingiustizia sociale e la dolorosa rinuncia agli affetti e a una vita di certezze.
Un viaggio straordinario nella vita di uno dei personaggi chiave della storia più recente: Ernesto Guevara, il Che, che si racconta in prima persona.
Centinaia di pensieri, di diari, di lettere ci rivelano intimamente una delle personalità che più profondamente hanno segnato un’epoca.
Il percorso espositivo si chiude con l’installazione dell’artista americano Michael Murphy, uno dei pionieri della Perceptual Art, che ha realizzato appositamente per questa mostra un’enorme ricostruzione multidimensionale, una scultura che si trasforma in un passaggio continuo, dall’immagine del volto del Che a quella della sua firma iconica.
La mostra ha impegnato un team di autori, curatori, cattedratici e archivisti. Negli oltre 24 mesi di lavoro, di cui 3 spesi a Cuba presso la sede del Centro de Estudios Che Guevara, sono stati vagliati oltre 2000 documenti tra fotografie, lettere, cartoline, scritti e manoscritti e sono state visionate oltre 97 ore di documentari e 14 di registrazioni dei discorsi ufficiali.
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito
Che Guevara: Tú y todos è realizzata da Simmetrico.
Simmetrico Cultura crea e gestisce mostre in Italia e all’estero, mettendo al centro l’uomo, la storia e l’attualità. I suoi progetti espositivi uniscono rigore scientifico, storytelling e tecnologie immersive per un’esperienza coinvolgente. Grazie a contenuti interattivi e social media, le mostre offrono percorsi di approfondimento e condivisione. Simmetrico collabora con istituzioni e enti per eventi culturali su scala internazionale.
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Info:
Museo Civico Archeologico
CHE GUEVARA tú y todos Museo Civico Archeologico Via dell’Archiginnasio 2, Bologna Fino al 30 giugno 2025 Catalogo Edizioni Pendragon www.mostracheguevara.com
Itzhak Katznelson “Il canto del popolo ebraico massacrato”
Itzhak Katznelson- poeta polacco di origine ebraica, vittima dell’Olocausto
Yitzhak Katzenelson nacque nel 1886 in Bielorussia, ma presto si trasferì con la famiglia a Lodz, in Polonia, dove aprì una scuola e si dedicò alla Letteratura, scrivendo sia in yiddish, sia in ebraico. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si rifugiò a Varsavia, dove assisté all’agonia del ghetto.
Nel 1943 la moglie e i suoi due figli minori furono uccisi. Lui, insieme al figlio maggiore, fu portato a Vittel, in Francia. Qui scrisse Il canto del popolo ebraico massacrato. Il 29 aprile 1944 fu deportato ad Auschwitz, dove fu subito eliminato.
La voce di Yitzhak Katzenelson è la voce di Giobbe, un Giobbe della modernità. Una voce dinnanzi alla quale l’intera umanità si arresta turbata. Si tratta di un’opera che non può essere paragonata a nessun’ altra nella storia della Letteratura mondiale: è la voce di un condannato a morte, fra centinaia di migliaia di condannati a morte, consapevole del suo destino di uomo e del destino del suo popolo.
La voce di Yitzhak esce dal grembo di “cieli nulli e vuoti”, impassibili al compiersi del massacro insensato e ingiustificato della
Itzhak Katznelson (Karėličy, 1º luglio 1886 – campo di concentramento di Auschwitz, 1º maggio 1944) è stato un poeta polacco di origine ebraica, vittima dell’Olocausto.-tradotto da Helena Janeczek
Il canto del popolo ebraico massacrato
I Canta
1
«Canta! Prendi in mano la tua arpa, vuota, svuotata e misera,
sulle sue corde fini getta le dita pesanti
come cuori, come cuori afflitti. Canta l’ultimo canto,
canta degli ultimi ebrei in terra d’Europa».
2
– Come posso cantare? Come posso aprir la bocca,
se sono rimasto io da solo –
mia moglie e i miei due bambini- orrore!
Inorridisco d’orrore…si piange! Sento ovunque un pianto-
3
«Canta, canta! Alza la tua voce afflitta e rotta,
cerca, cerca lassù in alto, se c’è ancora Lui,
e cantagli…cantagli l’ultimo canto degli ultimi ebrei,
vissuti, morti, non sepolti e non più…»
4
– Come posso cantare? Come posso alzar la testa?
Deportata mia moglie e il mio Benzion e il mio Yomele- un bimbo –
Non li ho più qui con me e non mi lasciano più!
O ombre oscure della mia luce, o ombre fredde e cieche.
5
« Canta, canta un’ultima volta qui sulla terra,
getta indietro la testa, fissa gli occhi su di Lui
e cantagli un’ultima volta, suonagli la tua arpa:
qui non ci sono più ebrei! Massacrati, e non più qui!».
6
– Come posso cantare? Come posso fissare gli occhi e alzar la testa?
Una lacrima ghiacciata mi si è appiccicata all’occhio…
vorrebbe staccarsi, strapparsi via dall’occhio
– e non può cadere, Dio mio!
7
«Canta, canta, alza il tuo sguardo cieco al cieli alti,
come ci fosse un Dio lassù nei cieli…salutalo, saluta con la mano-
come se da lassù una grande fortuna ci splendesse e ci illuminasse!
Siedi sulle rovine del tuo popolo massacrato e canta!
8
– Come posso cantare? Se il mondo per me è deserto?
Come posso suonare con le mani rotte?
Dove sono i miei morti? Io cerco i miei morti, Dio, in ogni rifiuto,
in ogni mucchio di cenere…O, ditemi dove siete.
9
Gridate da ogni pezzo di terra, da sotto ogni pietra,
da ogni grano di polvere, da tutte le fiamme, tutto il fumo-
è il vostro sangue e succo, è il midollo delle vostre membra,
è la vostra anima e carne! Gridate, Gridate forte!
10
Gridate dai visceri delle fiere nel bosco, dai pesci nello stagno-
Vi hanno mangiati. Gridate dai forni, gridate grandi e piccoli:
voglio uno strepito, un lamento, una voce, voglio una voce da voi,
gettare uno sguardo muto, ammutolito sul mio popolo massacrato-
e voglio cantare…sì…datemi l’arpa- io suono!
3-5.10.1943.
IX Ai cieli
1
Così ebbe principio, incominciò…Cieli, dite perché, dite per chi?
Perché sulla terra tutt’intera ci tocca essere tanto umiliati ?
La terra, sordomuta, ha come chiuso gli occhi…Ma voi, voi cieli, voi avete visto,
stavate a guardare voi, lassù dall’alto; eppure non vi siete capovolti!
2
Non si è rannuvolato il vostro azzurro, scontato azzurro, splendeva falso come sempre,
il sole rosso come un boia crudele ha continuato a girare in tondo,
la luna, vecchia sgualdrina peccatrice, andava a passeggiare in voi la notte,
e le stelle sconce brillavano, strizzavano gli occhietti come topi.
3
Via! Non voglio alzar lo sguardo, non voglio vedervi, non voglio saper nulla di voi!
O cieli falsi e bugiardi, o lassù nell’alto bassi cieli! Quanto mi addolora:
Io vi credevo un tempo,vi confidavo gioia e tristezza, riso e pianto,
ma voi non siete meglio della schifosa terra, del grande mucchio di letame!
4
Io vi lodavo, cieli, io vi inneggiavo in ogni mia canzone, ogni mio canto-
io vi amavo come si ama una moglie; lei non c’è più, disciolta come schiuma.
io somigliavo sin dalla mia infanzia il sole in voi, il sole fiammeggiante del tramonto
alla mia speranza: “così svanisce la mia speranza, così muore il mio sogno!”
5
Via!Via! Vi siete fatti beffa di noi tutti, beffati il mio popolo, beffata la mia stirpe!
Da sempre voi ci sbeffeggiate: già i miei padri, i miei profeti sbeffeggiavate!
A voi, a voi – alzavano gli occhi, alla vostra fiamma si accendevano,
i più fedeli a voi qui sulla terra che sulla terra si struggevano per voi.
6
A voi anelavano….a voi per primi esclamavano: haazinu!- Ascoltate!
E solo poi la terra. Così il mio Mosè e cosi Isaia, il mio Isaia: shimu!- Udite!
E shomu! gridava Geremia: shomu! A chi, se non a voi? Perché d’un colpo vi siete estraniati?
O aperti e vasti cieli, luminosi e alti cieli! voi siete tali quali alla terra.
7
Non ci conoscete, non ci riconoscete più- perché? Saremo poi
tanto diversi, tanto cambiati? Ma se siamo gli stessi ebrei di sempre-
e anche molto migliori…Io no! Non voglio paragonarmi ai miei profeti, non devo,
ma loro, tutti quegli ebrei portati a morire, i milioni massacrati ora –
8
Loro sì, sono migliori: più provati, purificati dall’esilio! E quanto vale
uno dei grandi ebrei di allora di fronte a un piccolo, semplice, qualsiasi ebreo di oggi
in Polonia, Lituania, Volinia, in ogni terra d’esilio, – in ogni ebreo si lamenta e grida
un Geremia, un Giobbe disperato, un re deluso intona il Qohelet.
9
Non ci conoscete, non ci riconoscete più, nessuno: come fingessimo di essere altri.
Ma noi siamo gli stessi, gli ebrei di sempre, e come sempre pecchiamo contro noi stessi,
e come sempre rinunciamo alla nostra felicità e vogliamo ancora salvare il mondo-
E voi, com’è che siete così azzurri, voi cieli azzurri, mentre ci stanno massacrando, com’è che siete così belli?
10
Come Saul, il mio re, nella mia pena cercherò la maga,
troverò la strada disperata e scura per Endor,
e chiamerò fuori dalle tombe tutti i miei profeti e tutti implorerò: guardate, guardate in alto
ai vostri chiari cieli e sputate loro in faccia: “che siate maledetti, maledetti!”
11
Voi cieli stavate a guardare da lassù quando hanno portato i bambini del mio popolo
– per navi, su treni, a piedi, in pieno giorno e nella notte scura- a morire,
milioni di bambini, mentre li ammazzavano, hanno alzato le mani a voi- non vi siete commossi,
milioni di nobili madri e padre- non si è accapponata la vostra azzurra pelle.
12
Voi avete visto i Yomele di undici anni, semplice gioia! gioia e bontà,
e i Benzion, i piccoli geonim così seri e studiosi…consolazione di tutto il creato!
Avete visto le Hanne che li hanno avuti e consacrati a Dio nella sua casa,
e siete rimasti a guardare…Non avete nessun Dio in voi, cieli! Cieli da niente, cieli smagliati!
13
Non avete nessun Dio in voi! Aprite le vostre porte, cieli, aprite e spalancate
e lasciate entrare tutti i bambini del mio popolo massacrato, del mio popolo torturato,
aprite per la grande ascensione: tutto un popolo crocefisso con gravi sofferenze
deve entrare in voi…Ciascuno dei miei bambini massacrati può essere il loro Dio!
14
O cieli desolati e vuoti, o cieli come un deserto vasti e desolati,
io ho perso in voi il mio unico Dio, e a loro averne tre non basta:
il Dio degli ebrei, il suo spirito e l’ebreo della Galilea che giustiziarono, sono pochi:
ci hanno spediti tutti quanti in cielo, – o schifosa e vigliacca idolatria!
15
Rallegratevi, cieli, rallegratevi!- Eravate poveri, adesso siete ricchi,
che messe benedetta- tutto, tutto un intero popolo, che gran fortuna, vi è stato regalato!
Rallegratevi cieli lassù con i tedeschi, e i tedeschi si rallegrino quaggiù con voi,
e un fuoco dalla terra salga fino a voi e divampi un fuoco da voi fino alla terra.
26.11.1943
Breve Biografia-Yitzhak Katzenelson nacque nel 1886 in Bielorussia, ma presto si trasferì con la famiglia a Lodz, in Polonia, dove aprì una scuola e si dedicò alla Letteratura, scrivendo sia in yiddish, sia in ebraico. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si rifugiò a Varsavia, dove assisté all’agonia del ghetto.
Nel 1943 la moglie e i suoi due figli minori furono uccisi. Lui, insieme al figlio maggiore, fu portato a Vittel, in Francia. Qui scrisse Il canto del popolo ebraico massacrato. Il 29 aprile 1944 fu deportato ad Auschwitz, dove fu subito eliminato.
La voce di Yitzhak Katzenelson è la voce di Giobbe, un Giobbe della modernità. Una voce dinnanzi alla quale l’intera umanità si arresta turbata. Si tratta di un’opera che non può essere paragonata a nessun’ altra nella storia della Letteratura mondiale: è la voce di un condannato a morte, fra centinaia di migliaia di condannati a morte, consapevole del suo destino di uomo e del destino del suo popolo.
La voce di Yitzhak esce dal grembo di “cieli nulli e vuoti”, impassibili al compiersi del massacro insensato e ingiustificato della
Poesie di Tove Ditlevsen – Poetessa e scrittrice danese-
Poesie di Tove Ditlevsen (1917-1976) Poetessa e scrittrice danese, è stata una delle personalità più eminenti della letteratura danese del Novecento. Il suo debutto avvenne nel 1939 con la raccolta Pigesind [Anima di fanciulla]. La crescita nel quartiere operaio di Vesterbro a Copenaghen ha inciso su tutta la sua attività letteraria. Attraverso poesie, romanzi, racconti, saggi e storie per bambini, Tove Ditlevsen ha cercato e ritrovato, per tutta la vita, il mondo della sua infanzia lì collocato. Amore e matrimonio, fragilità e divorzio, scrittura e morte sono stati tutti immortalati nello stile semplice e sobrio, e insieme doloroso e umoristico, che caratterizza la sua scrittura. Amata dai lettori e criticata dai letterati, la sua notorietà in patria fu enorme al pari della sua produzione. Con più di trenta libri pubblicati, Tove Ditlevsen ha dato un’incisiva testimonianza sulla condizione di essere donna e scrittrice nel ventesimo secolo. Di recente è stata tradotta in vari paesi la cosiddetta Trilogia di Copenaghen, romanzi fondamentali in cui Tove Ditlevsen ripercorre la sua vita, dando ai diversi stadi di essa tre titoli esemplari: Infanzia [Barndom], Gioventù [Ungdom] e Dipendenza [Gift]. Questa è la prima edizione italiana che presenta una selezione delle sue poesie.
Tove Ditlevsen
Poesie di Tove Ditlevsen
DOMENICA
*
La domenica non succede mai niente.
La domenica non si trova mai un nuovo amore.
È il giorno degli infelici.
Giorno della pensione o giorno della famiglia.
Le ore più dolorose dell’amante
quando immagina l’amato
con i figli sulle ginocchia
mentre sua moglie, sorridendo,
entra ed esce con vassoi invitanti.
Un giorno maledetto.
Una volta doveva essere diverso.
Perché altrimenti dovremmo tutti
aspettare con ansia la domenica per tutta la settimana?
Forse quando eravamo a scuola?
Ma già allora le campane suonavano
tristi e grigie come la pioggia e la morte.
A quel punto le voci degli adulti
erano deboli e silenziose come se cercassero
invano le parole della domenica.
L’odore di umidità e di pane ammuffito,
del sonno, di stivali di gomma e cicoria
già invadeva le scale allora
e la strada, che era dura, vuota e diversa
in modo desolato.
L’odore della domenica ci riempiva
con lo spesso strato di delusione
che segue un’aspettativa
senza un obiettivo specifico.
E quando, allora? In un luogo prima della memoria
C’era felicità, un’attesa irresistibile
che nessuno era ancora riuscito a deludere.
Allora le campane significavano che papà era a casa,
i baffi, le sopracciglia nere e l’odore del tabacco masticato
erano lì e lì rimanevano, vicino,
e – chissà – la risata della tua giovane madre
sembrava più felice rispetto agli altri giorni.
È domenica. Non troverai mai
un nuovo amore quel giorno.
Siedi in soggiorno
stordita e rigida come un ritaglio di cartone
agli occhi dei bambini.
Scavano con i piedi
e combattono senza energia.
“Dovremmo fare qualcosa”, dici.
«Sì», dice una voce da dietro il giornale.
Allora restate entrambi in silenzio, perché tutto ciò che volete
fare è nascosto e segreto
e sarebbe inaccettabile per l’altro.
Le campane della chiesa suonano. i nasi dei bambini
si riempiono di un odore ereditato.
Sui loro dolci volti scivola
una bruttezza passeggera.
Una luce appassita
sorge dai loro occhi.
Ma tutti aspettiamo con ansia la domenica
tutta la settimana, tutta la vita,
Aspettiamo l’emozione di centinaia
di domeniche lunghe, vuote, estenuanti.
Giornata della famiglia, giornata della pensione,
l’inferno degli amanti segreti.
Quel giorno in cui il grigiore nauseabondo degli adulti
impregna i bambini e stabilisce
l’incomprensibile malinconia domenicale degli anni a venire.
—————————————————–
Tove Ditlevsen
Avvertimento
Mi ami? Allora devi anche conoscere
lo strano gioco del mio cuore esigente
che può sognare, ma non sa struggere
per il desiderio di qualcosa d’esistente.
Ti conduce per strade oscure e insapute
che ti graffiano a sangue in cinte selvagge.
Ha il suono pesante di melodie perdute
e ama di notte i temporali e le piogge –
e se resti con me, si chiude e ti forza
via via più lontano da ogni strada e sentiero;
senza ali solo scioccamente svolazza,
e fa male saperlo come io so che è vero.
* * *
Autoritratto 1
Non so:
fare da mangiare
camminare col cappello
far star bene la gente
indossare gioielli
ordinare fiori
ricordare appuntamenti
ringraziare per i regali
dare vere mance
trattenere un uomo
mostrare interesse
agli incontri coi genitori.
Non so
smettere di:
fumare
bere
mangiare cioccolato
rubare ombrelli
svegliarmi in ritardo
dimenticare di ricordare
compleanni
e pulire le unghie.
Allisciarmi
la gente
svelare segreti
amare
posti strani
e psicopatici.
So:
stare da sola
lavare i piatti
leggere libri
formare frasi
ascoltare
ed essere felice
senza sensi di colpa.
* * *
Gli eterni tre
Ci sono due uomini al mondo, che
costantemente m’incrociano la strada:
uno è colui che io amo,
l’altro colui che mi ama.
Uno è in un sogno notturno
che abita nel mio pensiero più tetro,
l’altro alla porta del cuore sta attorno
ma io lo lascio al chiuso sul retro.
Uno mi ha dato un soffio di primavera
di quella felicità che presto scolora,
l’altro mi ha donato la sua vita intera
e non ne ha riavuta neppure un’ora.
Uno freme nel canto del sangue
dove l’amore è libero e puro,
l’altro è tutt’uno col giorno che langue
in cui i sogni non hanno futuro.
Ogni donna sta tra questi due uomini
innamorata, amata, e pura –
una volta ogni cent’anni può accadere
che essi si fondano in uno.
Tove Ditlevsen
Tove Ditlevsen
The Art Life
The first English-language translation of Tove Ditlevsen’s poetry distills the intensity and mordant humor that make her one of Denmark’s most revered exports.
“Our imaginary home, the home we share.”
— Roberto Bolaño, “Dance Card,” tr. Chris Andrews
How does Art Arrive on Earth?
In the months since filmmaker David Lynch left the planet, under the deep freeze and then the toxic thaw here by the Great Lakes, where they’ve reinforced the disused industrial roads to truck in heavy equipment for the foundation of an inestimably massive black site that locals aren’t supposed to know about, some poets and I huddled in our separate beds, so late in the work day it was almost the work morning, and shared links to interviews with the always-elder Lynch, parables of how Art entered his life, and thereby, our own.
Here’s one. It takes place circa 1961 in Alexandria, Virginia. It’s about ten o’clock at night when fourteen-year-old Lynch opens his eyes in the dark:
Well, I was on the front lawn of my girlfriend’s house in the ninth grade, and I was meeting a fellow named Toby Keeler who didn’t go to my high school, went to—he went to a private school, and he was telling me that his father was a painter. I thought at first his father was a house painter. But he said, no, a fine art painter. And a bomb went off in my head, a bomb that changed my life. In a millisecond completely changed my life. From that moment on, I wanted to be a painter—only that.
In another version, the elder Lynch attests on behalf of the younger: “And I wanted to live the art life.”
Even now, when it’s so late, or even then, in 1961, at the bombsite somewhat closer to the beginning of the end of the world, “the art life” opens up from the slightest aperture: a single word slipped into the adolescent ear on a suburban lawn at night. The word “painter” is excised from its familiar context, both professional and domestic, and inserted into a strange one—”fine art.” Precise as a bomb, it restarts the clock.
Lynch repeats and repurposes the nocturnal lighting and scenography of his initiation into the Art Life in accounting for his transition from painting to film:
I had a painting going, which was of a garden at night. It had a lot of black, with green plants emerging out of the darkness. All of a sudden, these plants started to move, and I heard a wind. I wasn’t taking drugs! I thought, Oh, how fantastic this is!
And I began to wonder if film could be a way to make paintings move.
In this parable, Art enters from elsewhere, and through the ear: I heard a wind. A cosmic soundtrack arrives out of synch but then adheres to the sticky picture track prepared for its arrival. A new phase of the Art Life begins. Art severs the artist from the mundane, but sticks around, like a severed ear in the grass, as its own uncanny aperture.
For the young Lynch, the Art Life begins with the word “painter,” uttered on the lawn at night. For the Korean modernist Kim Haekyŏng, it began with the first two words from the title of the film beloved by his Francomaniac occupiers, Cocteau‘s Le sang d’un poète; Le sang became Yi Sang, the alias under which he undertook a farcical campaign of art-as-crime which ended in his internment and death. For the queer Helsinki poet Gunnar Björling, it was the obnoxious term “dada,” and for the teenaged Kurt Cobain, the adjective “punk.” For the young Kazuo Ohno, a poster of the flamenco dancer La Argentina provided the form, stance, costume, and demeanor for the exacting postwar Japanese dance practice Butoh—the same La Argentina who provided the emblem of the theory and practice of the duende for Lorca.
So Art arrives on Planet Killer, to a species that most needs and mostly doesn’t deserve it, slipping its dubious toxin or glitchy bug into the brain of the waking artist through the slightest of apertures: an advertising poster, a movie title, a chance encounter, a magic word. Yet from that smallest of openings issues the new life, the Art Life.
Tove Ditlevsen
The Art Life of Tove Ditlevsen
Born in 1917 to working-class parents, Tove Ditlevsen was a celebrated voice—and a celebrity—in Danish literature for nearly four decades. She debuted at 21 with the poetry collection Pigsend, variously translated as Girl-soul or A Girl’s Mind. Published during the Nazi occupation and bearing a drawing of a “chaste” naked maiden on its cover, the book became a sensation, as did its author. (According to her translators Sophia Hersi Smith and Jennifer Russell, Ditlevsen claimed to be 20, so as “to seem extra precocious.”) Three decades of publishing in an ever-expanding array of forms and media followed, from novels, poems, and essays to radio plays, lifestyle features, advice columns in women’s magazines, and even wittily composed personal ads planted like bombs in the newspaper edited by her (fourth) ex-husband.
Literature, money, popularity, photography, and circulation in media are all mutually reinforcing elements of Ditlevsen’s singular, and singularly modern, career. In her foreword to a new selection of Ditlevsen’s poems, There Lives a Young Girl in Me Who Will Not Die (Farrar, Straus and Giroux, 2025), translated by Hersi Smith and Russell, the contemporary Danish author Olga Ravn further reckons that “Ditlevsen was one of Denmark’s most photographed writers. Her fame helped keep her financially afloat.” This is emblematized by Ravn’s remark that, after Ditlevsen’s early death by suicide at fifty-eight, “photographs of her funeral procession show a sea of working-class women trailing behind her coffin through the streets of Copenhagen.”
Literature, money, popularity, photography, and circulation in media are all mutually reinforcing elements of Ditlevsen’s singular, and singularly modern,
career.
So how did Ditlevsen arrive at such an exceptionally robust Art Life? By her own account, hers was not a birth starred for Art. Her father, a committed socialist, was a stover in a factory, though frequently unemployed; a habitual reader, he was inconsistent in his support for his daughter, insisting, “Fool, a girl can’t be a poet!” Her favored older brother was waylaid in his attempt to attain the higher economic and social rank of “skilled worker” when the cellulose to which he was exposed at his apprenticeship permanently damaged his lungs. Her mother was a vivacious but frequently vindictive figure whose constant refrain, settling like shrapnel in the flesh of her young daughter, was “Everything written in books is a lie.” As a practical concern, the young Ditlevsen was not permitted to enter high school, but rather left for a series of domestic jobs meant to prepare her for gift, which in Danish translates as both marriage and poison.
How Art came for young Ditlevsen provides both the theme and the plot of her novelistic-memoirs, presented to anglophone readers as the Copenhagen Trilogy but really made up of three separate volumes: Barndom (Childhood, 1967), Ungdom (Youth, 1967) and Gift (Marriage/Poison, 1971, rendered in English as Dependency.) The packaging of these works as a handsome single-volume edition under the export-only title Copenhagen Trilogy in 2021 appears to be an invention of the marketing team at Farrar, Straus and Giroux. Yet such cunning engineering is felicitous, as it has allowed the anglophone reader to meet Ditlevsen as an artist, and literally on her own terms: the early Art Life as she conceived of it toward the end of her own.
Childhood opens with a defining scene of Art’s arrival. Here the not-yet-school-aged Ditlevsen is seated at the kitchen table, looking past her unreliable mother—”Beautiful, untouchable, lonely, and full of secret thoughts I would never know,” the girl sentimentally supposes.
Behind her on the flowered wallpaper, the tatters pasted together by my father with brown tape, hung a picture of a woman staring out the window. On the floor behind her was a cradle with a little child. Below the picture it said, ‘Woman awaiting her husband home from the sea’. Sometimes my mother would suddenly catch sight of me and follow my glance up to the picture I found so tender and sad. But my mother burst out laughing and it sounded like dozens of paper bags filled with air exploding all at once.
The mother unleashes scornful laughter in the attempt to break Art’s spell on the daughter, but somehow is also converted, in this moment, to Art’s uncanny purposes. She begins to sing a saucy ditty “with a clear and defiant little-girl voice that didn’t belong to her.” Next comes a transcription in full of the ditty, in which an unfaithful wife leans out the window to warble at her lover “Can’t I sing / Whatever I wish for my Tulle? / Visselulle, visselulle, visselulle.” Thus the child fulfills Art’s imperative, transcribing the scene in the library of memories; the author, on the page.
Young Ditlevsen’s acolyte-like attendance on Art is rewarded as this opening chapter concludes:
I carried the cups out to the kitchen, and inside of me long, mysterious words began to crawl across my soul like a protective membrane. A song, a poem, something soothing and rhythmic and immensely pensive, but never distressing or sad, as I knew the rest of my day would be distressing and sad. When these light waves of words streamed through me, I knew that my mother couldn’t do anything else to me because she had stopped being important to me. My mother knew it, too, and her eyes would fill with cold hostility.
If the opening scene establishes the sightlines and eerie acoustics of Art’s arrival in Ditlevsen’s life, here Art enforces an even more startling adjustment in circumstance. The “light waves of words” transform the child’s sense of her own place in the world, temporarily neutralizing immediate axes of violence and control—her mother “had stopped being important to me.” The rest of the Trilogy—and the rest of Ditlevsen’s life and work—will be spent devising ways to parry the world’s hostility and step into the power of the Art Life.
As Ditlevsen enters her schoolyears, both “the grownups” and her schoolmates can easily detect her attunement to Art’s presence; she cries, for example, at the unexpected beauty of rote school hymns. Yet the same class, gender, and family pressures which attempt to reform her abnormal connection to Art ultimately offer a thrilling and unexpected solution when the girls in her class begin buying and circulating “Poetry Albums,” something between an autograph album and a yearbook, which girls are expected to tote around, exchange, and inscribe insipid quotes in. Even Ditlevsen’s mother consents to buy her one.
The arrival of the Poetry Album represents a true turning point for Ditlevsen; for the first time, she has a designated place to collect her own poetry. At first, the album provides her with a way to hide her nascent poetry in plain sight, though she conceals the album itself under a pile of folded towels, in her underwear, even taking it to the hospital with her under the pretense of collecting autographs. But it also becomes a means of “publishing” her work—at first unintentionally, when her brother finds the album and both praises Ditlevsen’s facility and jeers her “lies,” and then purposefully, as she begins to show it to other youths and then, finally, to possible editors. In fact, rather than entrust the precious album to a mutual acquaintance so he can approach an editor on her behalf, she heads for an editor’s office herself, poetry album in tow. This heroic self-belief does lead to publication, first of an individual poem, then a book of poetry, then a novel, and finally a fully realized, very public Art Life.
Crucially, the miraculous arrival of the Poetry Album transforms Copenhagen Trilogy itself into a kind of poetry album. Here, amid the alternately grim, drab, and highly thrilling scenes of her childhood, youth, and dependency, Ditlevsen inscribes snippets of poems, whether by herself or others. Considering that these memoirs were written some three decades later, the keenness and delight with which Ditlevsen recalls these early poems amplifies their power; the reader discovers them along with the young poet, whether it be a verse by Baudelaire (“the pitchers are filled with wine, / the twilight-veiled earth”), a lyric passage by the Nobelist Johannes V. Jensen (“And now like the evening star, then like the morning star, shines the little girl who was killed at her mother’s breast”), or a draft of what will become Ditlevsen’s own first publication, in 1939, the poem “To My Dead Child”:
I never heard your little voice,
Your pale lips never smiled at me.
And the kick of your tiny feet
is something I will never see.
These poems hang like amulets amid the velvet-draping of the prose. They mark Art’s path, the path the girl must follow: the dazzling coordinates of the Art Life.
There Lives a Young Girl in Me Who Will Not Die
With the newly selected poems, anglophone readers who came to know Ditlevsen through the Trilogy will feel a strong sense of familiarity, delight, and allegiance. The opening selection from Pigsend (especially “To My Dead Child”) will cause the fangirl’s heart to leap. The decision to title the volume There Lives a Young Girl in Me Who Will Not Die seems to ratify a readerly inclination to imagine the “extra precocious” girl-poet of the Trilogy as the ghostwriter of this entire selection, even though it collects verse written well into middle age. Ravn makes this connection in her foreword and draws out its political implications:
You could say that Ditlevsen’s so-called sentimentality is a poetic anachronism that functions as a subversive tool, an anachronism on a par with a woman’s emotional life. There live girls in us that will not die.
A more ambivalent reading of the title, however, redoubles its power. The girl who will not die haunts and unsettles the poet. The opening poems, written in Ditlevsen’s youth, place the female speaker at the center of the roles Romantic poetry assigns the young girl: that of dying, or dead, or ideal. In “Ritual,” Ditlevsen’s girl-speaker seizes and redecorates this convention: “When I am dead, please lay me / to rest in a jet-black coffin, / and dress me in a crimson gown / with long sleeves made of velvet.” The funeral procession shall be accompanied, improbably enough, with the 1925 Dixieland-pastiche “Dinah” (popularized by one Fanny Rose Shore, who became so identified with the song she made her stage name Dinah!) By the final quatrain, the party is over, and the speaker rests in her desired coffin.
This jet-black coffin with its young, speaking girl—now alive, now dead—forms a persistent, uncanny battery in the book. We encounter the young girl and her dead, alive, dead-alive progeny again and again. In a consistent trope, the adult woman-speaker reflects on the lost dreams of girlhood, yet the thick, conventional nostalgia is pierced by a startling image:
It was on a night like this
I must have been seventeen—
are the red shards of my love
still there in the tall grass?
Here the scene of love becomes the scene of the crime.
In a poem titled “Recognition,” the grave becomes a place where adult women apprehend their shared plight: “Wordlessly we understood— / with dead leaves in our eyes and hair.” The next poem, “The Children’s Eyes,” begins, “I dread the children’s eyes.” The conventionally tender maternal gaze which Ditlevsen’s speakers frequently assume when addressing children, however hypothetical and/or dead, is now reversed; it is the children who gaze at the speaker, and their gazes are piercing, haunted, dreadful, strange.
Translators Hersi Smith and Russell render the persistent intensity, deepening tone, and gradually shifting forms of Ditlevsen’s work with the immersiveness of a ghost story, converting this Selected Poems into a nimble page-turner. The poems lose the rhyme and boxy shape of the early quatrains, assuming an addictive free verse with short lines that refuse to telegraph their intentions; meanwhile, risen from her youthful coffin, that is, from the coffin of youth, the young girl is no longer identical with the speaker but instead haunts her, while the aging speaker’s attitude toward the girl grows more troubled. A poem toward the end of the volume, “Self-Portrait 4,” describes with disgust a former neighbor, an old lady who misremembers the speaker-Tove as a noisy, heedless child:
I don’t remember
the old woman
from my childhood …
She knows something
about me she won’t divulge
a secret I’ve never told.
It fills her up
and keeps death at bay
she tells lies and intends
to outlive me.
I never took the stairs in bounds
I was a quiet child.
I hate her.
Here the speaker wishes to disavow the “old woman” but ends up assigning her a power which seems stored in the pronoun she—a witchy power which the adult speaker also accesses. “She knows something / about me she won’t divulge / a secret I’ve never told.” Facing each other across the mirror of that unpunctuated enjambment, “She” and “I” are disturbingly close; they seem to wear each other’s faces. Moreover, “she tells lies and intends to outlive me,” the speaker complains, but we know from Childhood that lies are what authors write, and in fact young Ditlevsen defends her poems by vowing allegiance to such lies: “I know that sometimes you have to lie in order to bring out the truth.”
So, who lies? Who lives? Who hates? Who dies? By the last line, through the fluid and felicitous ambiguity of the translation, that “her” is so porous, so capacious, it’s as much a yielding grave as a pronoun; like any grave or woman, it can hold all the hate. Does the speaker hate her child-self? Does she hate the old neighbor-lady who lies about her? Maybe the titular girl-who-will-not-die has now uncannily assumed the role of speaker, casting the adult Ditlevsen as a lying old lady, trying to outlive her child-self. Well, this undead girl will not let that happen. There is a young girl who will not die. And she will have the last word, as she had the first.
Ditlevsen, like David Lynch, pursued the Art Life to the end. In the version she relates in the Trilogy, she has children, husbands, and lovers, but she refuses to keep house, exchanges one husband for another, and seems most at peace when a nanny or female friend is nearby to attend to the babies. All the while, poems rise like stars, novels rise in clouds of racket from the typewriter, sorrow rises from illness, and bliss from drugs; all while she fashions and refashions the scenes, props, and personages of early inspiration into an oeuvre as luminous and haunted as a department store mirror in which the young girl studies her possible futures and the aging woman searches the black pools of her pupils for the little doll who used to live there. That girl will not die, though Ditlevsen does.
And, later, twelve-year-old Olga Ravn encounters Ditlevsen’s poems on a shelf in her grandfather’s study and pictures her “wander[ing] through a forest of pop songs, picking shiny, bright-red plastic apples for her poems”—which is to say, she pictures a version of herself, wandering the grove of Art. Her, her, her. Who encounters, who wanders, who picks, who dies? Still later, Ravn edits and publishes I Wanted to Be a Widow, and I Wanted to Be a Poet: Forgotten Texts by Tove Ditlevsen (2015), and the author and translator Michael Favala Goldman spots Gift in an airport gift store and begins it. Still later, the Copenhagen Trilogy is summoned into being, featuring previously published translations of Childhood and Youth by Tiina Nunnally and culminating in Goldman’s translation, Dependency. And later, thousands of anglophone readers will read it, and still later, which is to say now, now we can clutch There Lives a Young Girl in Me Who Will Not Die to our chests, just as young Ditlevsen held to the miracle of her Poetry Album.
Joyelle McSweeney’s collections of poetry include The Red Bird (2002), winner of the 2001 Fence Modern Poetry Series, The Commandrine and Other Poems (2004), Percussion Grenade (2012), Toxicon and Arachne (2020), a finalist for the 2021 Kingsley Tufts Award, and Death Styles (2024). She is also the author of the novels Nyland, the Sarcographer (2007) and Flet (2007); the prose work Salamandrine, 8…
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