Traduzione di Roberta Scarabelli- Neri Pozza Editore
Un bar nella Vienna degli anni Sessanta: i suoi avventori e le loro storie di vita, speranze, amori e illusioni.
Sinossi del libro di Robert Seethaler-Nell’estate del 1966 Robert Simon ha poco piú di trent’anni e un sogno: aprire un bar. Cresciuto in un istituto per orfani di guerra gestito dalle suore della Carità, per qualche tempo ha lavorato come aiuto cameriere e garzone nei locali all’aperto del Prater, e forse è stato proprio lí – mentre girava fra i tavoli alla luce delle lanterne colorate, alla ricerca di bicchieri vuoti e mozziconi di sigaretta – che si è acceso in lui il desiderio di stare, un giorno, dietro il bancone della propria osteria. Quando il bar all’angolo del mercato chiude i battenti, Robert capisce che la sua occasione è arrivata. Il locale, cupo e fatiscente, si trova in uno dei quartieri piú poveri e sporchi di Vienna, ma da qualche tempo spira un vento nuovo e l’aria è pervasa da uno strano fermento: sui giornali con cui i pescivendoli avvolgono i salmerini e le trote del Danubio si legge di grandi cose a venire, di un futuro radioso pronto a sorgere dal pantano del passato. Infiammato da questi cambiamenti, Robert rimette a nuovo il bar, imbiancando le pareti, verniciando i mobili e lucidando le piastre dei fornelli. Non ha molto da offrire, ma i clienti arrivano comunque, portando storie di passioni, amicizie, abbandoni e lutti. Alcuni sono in cerca di compagnia, altri desiderano ardentemente l’amore, o soltanto un luogo dove sentirsi compresi, e mentre la città diventa sempre piú affollata, anche la vita di Robert si trasforma. Combinando l’incanto di una prosa malinconica a una tenera comicità, Robert Seethaler ha scritto un romanzo animato da personaggi indimenticabili, un caleidoscopio di storie che si fa parabola dell’esistenza umana.
Andreas Heimann:«L’autore traccia un quadro non sentimentale dei suoi personaggi, ma con molta empatia. È un’arte che padroneggia alla perfezione: quella di raccontare grandi storie di piccole persone».
Brigitte:«La narrazione di Robert Seethaler è cosí toccante che si ha voglia di sedersi personalmente in questo “bar senza nome”».
Robert Seethaler
Breve biografia di Robert Seethaler – nato a Vienna nel 1966 e vive tra questa città e Berlino. Autore e sceneggiatore, nel 2007 ha ricevuto il prestigioso premio del Buddenbrookhaus per il suo romanzo d’esordio. Ha ottenuto numerose borse di studio, tra cui la Alfred Döblin dalla Akademie der Künste, e il film tratto dalla sua sceneggiatura (Die zweite Frau) ha ricevuto un importante riconoscimento al Festival del Cinema di Monaco di Baviera nel 2009. Una vita intera (Neri Pozza 2016) è stato selezionato per l’International Booker Prize e diventerà un film diretto da Hans Steinbichler, con Stefan Gorski nei panni di Andreas Egger. Presso Neri Pozza sono apparsi anche Il campo (2019) e L’ultimo movimento (2021). I libri di Seethaler sono tradotti in piú di 40 lingue.
Poesie di Elena Mearini, “A molti giorni da ieri”, Marco Saya Edizioni –Articolo di Ernesto Jannini-
Articolo di Ernesto Jannini-Nella nuova raccolta di Poesie di Elena Mearini, “A molti giorni da ieri”, edita per i tipi di Marco Saya, la poesia diventa gesto etico e linguistico che unisce l’individuo alla comunità, tra verità e finzione, memoria e desiderio, Si ritorna al tema della Poesia, già affrontato su queste pagine, del suo rapporto con la comunità, su cui esercita la potenza trasformatrice. Si parla non soltanto dei versi scritti, cantati o declamati, ma anche di ciò che si esprime in musica, in pittura, in teatro e finanche nello sport, quando il gesto dell’atleta si fa “arte” attraverso l’unità psico-fisica del linguaggio del corpo. Pertanto il poeta, chiunque artefice esso sia, si trova impegnato a risolvere il gigantesco problema del linguaggio, le cui implicazioni sono strettamente legate al momento storico, al proprio tempo.
E quindi coniugare il proprio personale “sentire”, con ciò che accade ed è accaduto nella storia, richiede un super sforzo che contraddistingue le dinamiche di tutti i veri processi creativi. Di questo si può e si deve parlare; di questo impegno reale che il poeta, con i suoi frutti, offre alla comunità di appartenenza; un impegno che tocca la dimensione morale dell’io.
Così si esprimeva Giuseppe Ungaretti in una prolusione ai Corsi di Cultura per Adulti dell’Unione Coscienza tenuta a Milano nel lontano 1957: «Uno scrittore, il poeta, è sempre, secondo me, impegnato indagando i propri tempi per conoscerli e in rapporto ad essi indagando sé per conoscersi, impegnato a far ritrovare all’uomo le fonti della vita morale che le strutture sociali, di qualsiasi costituzione siano, hanno sempre tendenza a corrompere ed a disseccare».
Ora, qui si accenna al corruttibile, che porta al disseccamento delle fonti, riducendo la coscienza individuale e sociale a un arido cretto argilloso. E dunque si parla di poesia, che porta l’acqua che manca, che salva i semi condannati all’arsura: un frutto che l’artefice pazientemente elabora ed offre a sé stesso e alla comunità. Egli è sempre in ansia di verità, quella che gli è data vedere ed esprimere attraverso la “menzogna” del linguaggio.
«È una bugia per dire la verità». In tal modo rispondeva Pablo Picasso, a coloro che gli chiedevano che cos’è la pittura. Il processo che porta dal subiettivo all’obiettivo, a mettere nero su carta, questo sforzo immane, implica l’accettazione cosciente dei cardini su cui si fonda l’esistenza; una “tensione” esistenziale sempre tesa all’ascolto profondo della parola che vede, che si immerge nei piani profondi della coscienza quando più naviga in superfice, tra le cose del mondo, tra il sorriso e il dolore degli uomini nello scorrere del tempo. Uno sforzo da compiere ogni volta; come se si cominciasse sempre da capo. E questo perché all’origine di ogni poesia c’è un punto origine da sviluppare, nelle coerenze che esso stesso contiene in nuce e che, se maturato, può portare alla realizzazione di un’opera autentica, che diventa “una realtà d’anima” per l’artefice e per chi l’ascolta (Ungaretti, 1957).
E dunque ritornano al pettine i nodi cruciali del destino individuale e delle sorti dell’intero mondo; in quel recinto “sacro” in cui si spendono le nostre esistenze per cercare un senso all’esistenza che, inevitabilmente si intreccia con l’alterità, con quel TU, (fosse anche quel tu che emerge quando l’io interroga se stesso) come emerge con molta chiarezza dalle bellissime poesie di Elena Mearini raccolte nel volume A molti giorni da ieri, uscito per i tipi di Marco Saya Edizioni.
Autrice di poesia e narrativa (vincitore premio Gaia Mancini-vincitore Premio Università di Camerino con Undicesimo comandamento, Perdisa Editore) da diversi anni insegna scrittura creativa. Ha lavorato sui percorsi di scrittura autobiografica nelle carceri e istituti di riabilitazione psichiatrica. Fondatrice della Piccola Accademia di Poesia di Milano, insieme allo stesso editore Marco Saya e a Angelo De Stefano, filosofo e poeta, Elena Mearini con A molti giorni da ieri dà corpo a un florilegio composto da 66 poesie, alcune delle quali volutamente ripetute per sottolineare i gangli nodali tra passato e presente.
È un invito all’ascolto profondo, quello della Mearini; ad aprire i pori della nostra sensibilità verso un mondo che lancia il suo “grido di fondo”; a vedere la perdizione sui volti dei giovani, a sentire che qualcosa di essenziale “ci manca” e per questo la “parola rifiuta di fiorire in voce”; a uscire dall’ombra e dal “chiuso della stanza”; ad aprire i dubbi sulla consapevolezza dell’esserci veramente, quando, al contrario, si ha la certezza della «nostra falcata/quando l’osso/bussava alla carne/ e tu aprivi/ la porta del pane». Insomma, un invito, forse anche una esortazione, a imparare «l’avvio delle cose/ il piccolo punto di partenza/ che fa silenzio/ che fa risveglio/impara l’esordio del tremore/quando la prima luce/nella casa s’accende/la prima foglia/sull’albero oscilla/metti a memoria la nota minore/ripetila quando la voce muore».
La poesia indica, ci accompagna al risveglio, e ciò accade perché l’artefice lavora instancabilmente con le parole perché, come lucidamente scrive Lello Voce nel suo noto Piccola cucina cannibale, «La poesia è fatta di parole e soprattutto delle loro reciproche relazioni. La poesia non inventa solo neologismi, ma neogrammatiche e neosintassi, essa stira la lingua, ne sfrutta tutte le possibilità, fa del fraintendimento, dell’ambiguità del codice, dell’errore, una via per scoprire scampoli di verità, non realizza i sogni, ma dando loro un nome, ci permette di immaginarli, non compie rivoluzioni, ma inventando nuove parole per la rabbia e per il desiderio, ci suggerisce, ogni giorno, che esse sono possibili, immaginabili».
Elena Mearini a questo ci introduce, all’apertura spirituale attraverso il linguaggio poetico. Tutto ciò non è semplice. Come affermava Ugaretti, «Avere luce nel cuore è difficile, soffrire e morire non sono che la sorte di tutti».
Elena Mearini
Elena Mearini
Elena Mearini
Nata nel 1978 e vive a Milano. Si occupa di narrativa e poesia, conduce laboratori di scrittura in comunità e centri di riabilitazione psichiatrica. Nel 2009 esce il suo primo romanzo 360 gradi di rabbia, edito da Excelsior 1881, e nel 2011 pubblica per Perdisa pop il romanzo Undicesimo comandamento. A gennaio 2015 pubblica il romanzo A testa in giù (Morellini editore). Firma due raccolte di poesie: Dilemma di una bottiglia (Forme Libere editore) e Per silenzio e voce (Marco Saya editore). Il suo ultimo romanzo è Bianca da morire (Cairo Publishing 2015).
Nel 2011 nell’ambito della rassegna “Umbria Libri” ha ricevuto il Premio giovani lettori “Gaia di Manici-Proietti” per il romanzo 360 gradi di Rabbia, e lo riceve anche l’anno successivo per Undicesimo Comandamento. Nel 2012 le viene assegnato il Premio UNICAM – Università di Camerino, per il romanzo Undicesimo comandamento, terzo classificato al Concorso Nazionale di Narrativa “Maria Teresa di Lascia”.
Traduzione di Monica Pareschi- titolo originale: The Mountain Lion
-In copertina-Jean Stafford ritratta allo zoo del Bronx. Fotografia di Jean Speiser apparsa su «Life» nel giugno 1947-
Descrizione del libro di Jean Stafford-Qualcosa di morboso e strisciante, che è del paesaggio, delle presenze che lo animano, degli interni di case occasionalmente trasformate in camere ardenti, accoglie il lettore di questo paradossale romanzo di formazione, in cui all’impossibilità di abbandonare l’infanzia si accompagna quella di rimanere bambini. Ralph e Molly, fratelli malaticci e simbiotici, alleati contro l’universo stereotipato degli adulti – l’ottusa routine scolastica e quotidiana, una madre perbenista e due affettate sorelle maggiori, il fronte compatto delle autorità –, dividono il loro tempo tra la casa di famiglia nei sobborghi di Los Angeles e un ranch in Colorado appartenente al fratellastro della madre. Qui ogni estate i piccoli vengono in contatto con un mondo selvaggio e brutale, che contrasta con l’inautentico ordine della vita suburbana. Ma se dapprima la rudezza e la libertà dell’Ovest affascinano entrambi, poi è solo Ralph a entrare nell’orbita in cui lo attirano lo zio e la sua cerchia, e ad accettare i riti di passaggio necessari a trasformarlo in giovane uomo. E mentre il fratello si sposta sempre più verso un immaginario virile fatto di battute di caccia e di grandi bevute, e vive di pari passo l’inevitabile risveglio della sessualità, Molly, bambina puntuta e sarcastica che anticipa alcuni personaggi di Shirley Jackson, si aggrappa disperatamente al mondo surreale dell’infanzia. L’apparizione nei dintorni del ranch di un puma femmina – animale elusivo e archetipico, nel segno della tradizione letteraria americana – sancirà la scissione definitiva del legame fraterno, precipitando la storia verso un impensabile epilogo.
Jean Stafford ritratta allo zoo del Bronx. Fotografia di Jean Speiser apparsa su «Life» nel giugno 1947-
CAPITOLO PRIMO
Ralph aveva dieci anni e Molly ne aveva otto quando si ammalarono di scarlattina. La malattia aveva lasciato a entrambi una specie di disfunzione ghiandolare che, pur non essendo maligna, provocava in loro uno stato di intossicazione quasi perenne, dando spesso origine a e- pistassi così copiose che dovevano mandarli a casa da scuola. In genere succedeva a tutti e due contemporanea mente. Ralph si precipitava nel corridoio sanguinando a profusione dal naso e trovava Molly che usciva proprio in quel momento dalla terza, con un fazzoletto appallot- tolato e fradicio premuto sulla faccia. La madre non sop- portava la vista del sangue e la sua angoscia, nel vederli arrivare l’uno dopo l’altra sul vialetto d’accesso, non si attenuò mai, nemmeno quando quei ritorni a casa nel bel mezzo della giornata diventarono una consuetudi- ne. Ogni volta li implorava di telefonarle in modo da po- ter mandare Miguel, il factotum, a prenderli con la mac- china. Ma loro non lo facevano mai, perché si divertiva- no a tornare a casa a piedi, e per tutto il tragitto provava- no un piacevole senso di rivalsa nei confronti delle sorel- le, Leah e Rachel, ancora rinchiuse a scuola senz’altro da fare che masticare paraf$na di nascosto.
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Nel settembre successivo alla malattia, il giorno in cui era previsto l’arrivo del nonno Kenyon, il patrigno della madre, per la sua visita annuale, si ritrovarono fuori dal- l’aula di educazione artistica con il sangue che usciva a $otti dal naso, e vedendo oltre la porta socchiusa
la signorina Holihan alle prese con la taglierina e un fascio di carta manila, si misero a camminare in punta di piedi soffocando le risate $nché, giunti alle scale, comincia- rono a correre. Una volta fuori, nel cortile deserto, si congratularono l’uno con l’altra: Molly non sarebbe sta- ta costretta a disegnare una mela sul foglio della signori- na Holihan e Ralph si sarebbe risparmiato non solo cal- ligra$a, ma anche canto. In realtà non ci avrebbero gua- dagnato niente a rientrare qualche ora prima del pul- mino della scuola, visto che il nonno non sarebbe arri- vato alla stazione di Los Angeles prima di metà pome- riggio e Miguel ci avrebbe messo un’altra ora a portarlo a casa con la Willys-Knight. E così cincischiarono più del solito, per nulla sicuri che a casa avrebbero trovato qual- cosa di interessante da fare, ma sicurissimi, d’altra par- te, che la madre, oltre ad agitarsi e a non star zitta un momento come faceva ogni volta che aspettava visite, vedendoli sarebbe montata su tutte le furie.
Era una strada di campagna stretta e tortuosa quella che facevano per tornare. Su entrambi i lati correva un piccolo fosso d’acqua limpida, che biascicava come una bocca. Di tanto in tanto si fermavano a tuffarci i fazzolet- ti e si ripulivano il sangue dalle mani e dalle braccia. Sulla destra c’era un aranceto da cui, in ogni stagione dell’anno, arrivava un profumo opprimente, e dove qualche volta vedevano stormi di uccelli così strani e va- riopinti che dovevano arrivare dai mari del Sud o dal Giappone. Alcuni degli alberelli piramidali erano sem- pre $oriti e altri erano sempre carichi di frutti. Quel giorno nell’aranceto c’era un uomo arrampicato su una scala, che si girò sentendoli arrivare. Si levò il cappello asciugandosi la fronte con la manica della camicia nera e gridò: « Ciao, ragazzi », ma dato che era messicano lo-
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ro non risposero e anzi allungarono il passo, atterriti, $nché non sentirono più la sua risata di scherno.
Poi passarono davanti al grande casei$cio immacola- to del signor Vogelman. Il signor Vogelman era un tede- sco grasso che indossava una tuta bianca e che una volta era stato preso a sassate da un gruppo di scolari di se- conda quando avevano saputo cosa avevano fatto i cruc- chi ai belgi. Le madri, nel timore che potesse vendicarsi esponendo il latte ai bacilli della tubercolosi, gli aveva- no scritto per scusarsi, ma visto che l’episodio era suc- cesso a Halloween, il signor Vogelman aveva frainteso tutto senza capire il senso di quella lettera. Allevava mucche di razza Guernsey col manto che al sole emana- va un luccichio metallico, non proprio giallo banana e nemmeno della sfumatura azzurrina del latte, ma una via di mezzo. Quel giorno vicino alla staccionata c’era un vitello appena nato e, quando vide i piccoli umani che lo $ssavano, il suo muso di cerbiatto prese un’e- spressione di malinconico stupore. La madre muggì stizzita, con le enormi froge nere dilatate, e loro corsero via perché avevano paura delle mucche, anche se non si sarebbero mai sognati di ammetterlo. Conoscevano una barzelletta su un vitello che avevano letto su « The Amer- ican Boy » e, quando furono a distanza di sicurezza dal pascolo, la recitarono come se fosse un dialogo:
ralph: Sono di vitello le tue scarpe| molly: Come no, è pelle conciata. ralph: Lo conciano male|
molly: Per le feste! Col pugnale!
Risero tanto che dovettero sedersi per terra e tenersi la pancia; per via delle risate il sangue usciva molto più in fretta, e allora, torcendosi dal dolore, si tamponavano disperatamente il naso, urlando: «Ahi! Ahi!». In$ne, quando si furono un po’ calmati, Ralph disse: « Mi sa che questa la racconto al nonno» e Molly disse: «Anch’io». Negli ultimi tempi, lei ogni tanto gli dava sui nervi: spes-
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so, quando Ralph aveva $nito di raccontare una barzel- letta o una storia, lei immediatamente la ripeteva pari pari, senza dare agli altri il tempo di scoppiare a ridere o di rimanere sorpresi. Non solo, innumerevoli volte aveva raccontato i sogni del fratello $ngendo che fossero i suoi. Ralph non voleva che la barzelletta sul vitello si rive- lasse un $asco e così, dopo un attimo di tentennamento, accettò di recitarla insieme alla sorella come avevano ap- pena fatto. Non era lunga come una di quelle storielle sui negri che raccontavano Leah e Rachel, ma era molto più divertente, ed erano sicuri che il nonno non avrebbe potuto fare a meno di scoppiare in quella sua risatona fragorosa, dandosi una manata sul ginocchio mentre e- sclamava: « Perbacco, buona questa! ».
Proseguirono pensando al nonno, strascicando alle- gramente i piedi nella polvere della strada $no a im- biancarsi completamente le scarpe, stringhe comprese. Vicino al casei$cio c’era un arroyo profondo e del tutto prosciugato, che da quelle parti chiamavano « Rio ». Era il risultato di un’inondazione che aveva avuto luogo nel- la primavera in cui Leah aveva tre anni, ma Ralph e Mol- ly avevano sentito raccontare così spesso i particolari del- la catastrofe da esser certi che le loro impressioni derivas- sero dal ricordo, e non dai discorsi della madre e dei suoi amici quando non avevano niente di nuovo da dire ed e- rano costretti a rintuzzare le emozioni del passato. Du- rante l’alluvione il signor Fawcett aveva attraversato un torrente in piena su un cavallo di nome Babe, ormai mor- to da tempo, per soccorrere un’anziana la cui casa era stata spazzata via subito dopo. Si era caricato la donna in sella come un sacco di mangime e le aveva fatto la respira- zione arti$ciale sul pavimento della cucina. Dalla pioggia scrosciante erano sbucati migliaia e migliaia di fringuelli, che si erano posati sulla veranda; erano così tanti che sembrava di essere in una riserva, aveva detto il papà; Fus chia stava preparando una crostata di ciliegie e lui le ave- va chiesto se per caso non voleva aggiungerci anche due dozzine di fringuelli. Dal vialetto d’accesso era arrivato
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galleggiando un albero di pompelmo, con le radici e tut- to, e il papà l’aveva piantato in giardino accanto al collet- tore solare. Ogni anno dava un unico frutto, più piccolo di una pallina da golf e quasi altrettanto duro.
Sul letto del Rio Ralph e Molly trovavano sassi colora- ti, rosa, verdi, gialli e azzurri. A volte, nelle pozze che si formavano dopo un acquazzone, si vedeva luccicare l’o- ro degli stolti. Le sponde ripide erano tutte ricoperte di strani $ori ispidi dalle radici poco profonde e da mac- chie di malva che stillava un latte amaro. C’era un punto in cui il fango si seccava sbriciolandosi come pastafrolla e da piccola Molly era convinta che con quello si prepa- rassero i biscotti del gelato. Tutto ciò che di misterioso e malvagio c’era al mondo veniva dal Rio. Quei sassi lisci e colorati erano in realtà gioielli rubati e il ladro era uno Skalawag nero come il carbone che di giorno dormiva nel deposito del mais del signor Vogelman, ma la notte rimaneva sveglio. Ralph e Molly non si azzardavano a scendere nel Rio col naso sanguinante, perché lo Skala- wag sentiva l’odore del sangue a qualunque distanza e di sicuro avrebbe dato loro la caccia. E così passavano veloci, guardando il Rio con la coda dell’occhio. L’au- tunno precedente, quando ci avevano portato il nonno Kenyon, lui aveva detto: « Ah, ecco, così si ragiona. C’è troppo verde in quest’accidente di California, per la mi- seria. Ma quel $umiciattolo secco lì, quello sì che è un posto come Dio comanda ». Aveva fatto correre gli oc- chi neri sul paesaggio respirando appena, come se la fragranza dei $ori d’arancio lo offendesse, e aveva det- to: «Ma pensa tu, neanche l’inverno avete, da queste parti! Diamine, meglio andarsene in carretta all’inferno che perdersi i primi $occhi di neve che cade ». I bambi- ni erano un po’ indignati e un po’ intimiditi; rendendo- sene conto, lui aveva spiegato – anche se loro non ci ave- vano capito niente – che lì la natura non rappresentava nessuna s$da per l’uomo. « Prendete il mio ranch nel Panhandle. Non c’è posto al mondo dove la natura sia bizzosa come da quelle parti, ma ogni volta che si arrab-
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bia è uno schianto di ragazza, eh! ». Quando aveva com- prato il terreno, su ventimila ettari non c’era una sola goccia d’acqua, nemmeno un ruscello, uno stagno. Da- vanti alla sua intenzione di acquistarlo, gli avevano dato tutti del babbeo. Ma lui era andato avanti per la sua stra- da e l’aveva comprato lo stesso, poi aveva preso una ver- ghetta biforcuta di agrifoglio e aveva scelto un punto su un’altura subito a ovest di dove intendeva costruire la casa. Era rimasto fermo lì con la sua bacchetta di agrifo- glio, tenendo la forcella con entrambe le mani. Dopo un po’, la verga si era piegata verso il basso: nella dire- zione indicata c’era una sorgente profonda di acqua po- tabile che non si era mai prosciugata.
Da quel momento il Rio aveva assunto un nuovo signi$cato per Ralph e Molly, e si erano convinti che lo Skalawag fosse così circospetto perché temeva che potes- se arrivare qualcuno con una bacchetta divinatoria, e a quel punto l’acqua avrebbe trascinato via tutti i suoi gio- ielli. Anche adesso, ogni volta che passavano davanti all’arroyo, pensavano al ranch del nonno nel Panhandle e Ralph, sospirando, diceva: « Accipicchia, come mi pia- cerebbe andare nell’Ovest ». Perché credeva al nonno Kenyon quando gli diceva che la California non era l’O- vest ma una cosa a sé, come la Florida o Washington D.C.
Per esempio, nell’Ovest non si trovavano mica tutte quelle carabattole che piacevano tanto alla signorina Runyon. La signorina Runyon abitava vicino al Rio in una casetta bianca con le persiane verdi e begonie a tut- te le $nestre, che a Molly piaceva tanto prima che il non- no la de$nisse « una roba che non sta né in cielo né in terra ». Il giardino arrivava $no alla strada e tra le aiuole di phlox, $ordalisi e acetosella c’erano strane creature d’ogni sorta: una rana verde gigante, tre nanetti, una papera con quattro paperette, due uccellini azzurri grossi come gatti, un’olandesina con la sua cuf$etta e un palo totemico. Sulla porta di casa c’era un’insegna che diceva « Locanda Passapure ». Accanto alla casa c’e- ra la cuccia del cane, costruita esattamente come la lo-
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canda Passapure, e sopra l’apertura c’era scritto « Il rifu- gio del pastorello », perché la signorina Runyon aveva un pastore tedesco di nome Rover. Sotto la grondaia, sulla veranda, c’era una casetta per gli uccelli costruita come le altre due, ma il nome era meno evocativo: si chiamava semplicemente « Casa degli scriccioli ».
La signorina Runyon era la direttrice dell’uf$cio po- stale e a detta di tutti era proprio un personaggio. Gui- dava da sola un’automobile che chiamava «Mac», ab- breviazione di « macchina », anche se lei per ridere l’a- veva soprannominata « Macchiappa ». Non mangiava né carne né spezie, perché era una seguace del dottor Kel- logg. Di tanto in tanto invitava i Fawcett a un picnic sera- le nel suo giardino e serviva hamburger fatti con i cerea- li della colazione tenuti insieme da una $nta gelatina di piedini di vitello. La domenica pomeriggio andava sem- pre a casa loro a leggere il giornale e non faceva mistero del fatto che, come a tutti i bambini, le piacesse la pagi- na dei fumetti. Li leggeva con la stessa serietà e la stessa concentrazione di Ralph, Molly, Leah e Rachel. Una volta aveva detto che era stufa marcia di Elmer Tuggle e del suo eterno guantone da baseball; il suo preferito era Happy Hooligan. A dispetto di quell’aggressiva bono- mia, era molto paurosa e non se la sentiva di dormire in casa da sola, perciò aveva invitato a stare da lei una don- nina giapponese, la signora Haisan. Se per caso la signo- ra Haisan doveva assentarsi, andavano a dormire da lei Leah e Rachel, che tuttavia lo facevano malvolentieri perché, la prima volta che si erano fermate a casa sua, lei nel bel mezzo della serata aveva alzato improvvisa- mente gli occhi dalla rivista femminile che stava leggen- do e aveva detto in tono nervoso: « Avete sentito| Qual- cuno ha inghiottito qualcosa! ». Secondo Ralph e Molly era stato lo Skalawag, e le cose che poteva aver inghiotti- to erano così numerose e terri$canti che bastava la sola parola a farli tremare come foglie.
La signora Follansbee, la moglie del pastore, aveva a- vanzato scherzosamente l’ipotesi che la signorina Run-
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yon avesse messo gli occhi sul signor Kenyon, e in parte la supposizione si basava sul fatto che i loro cognomi fa- cevano rima; è vero che in diverse occasioni, durante le visite del nonno, lei li aveva invitati ad andare a casa sua «accontentandosi di quel che passa il convento», ma loro non ci erano mai andati, perché, come disse la si- gnora Fawcett nel segreto familiare, « non oso pensare a cosa farebbe una buona forchetta come il signor Ken- yon se gli servissero cereali per cena, per quanto abil- mente camuffati ».
Ralph pensò che forse avrebbe potuto raccontare al nonno una storiella sulla signorina Runyon, una storia inventata ma usando il suo nome, e rimase lì a ponzare appoggiato alla palizzata, lasciando gocciolare il naso sulle assi, $nché due non assunsero l’aspetto di lance andate a segno. O forse avrebbe potuto raccontarne una sulla signora Haisan. La signora Haisan aveva due $gli più o meno della stessa età sua e di Molly, e i bambini vivevano con la zia Hana, un donnino minuscolo che la- vorava dalla signora Fawcett come lavandaia. Si chiama- vano Maisol e Maisako e uno era nato il 4 luglio, l’altro il 1° aprile. C’era stato un episodio terribile quando erano venuti a casa loro con Hana e avevano costretto Ralph e Molly a seguirli nel campo di cocomeri, e non solo aveva- no tagliato un cocomero acerbo con una spatola per lo stucco, ma avevano detto e insinuato cose così orribili che Ralph e Molly erano stati costretti a picchiarli. Natu- ralmente avevano vinto in quattro e quattr’otto, perché i musi gialli erano molto meno robusti di loro.
Ralph non riuscì a farsi venire in mente nessun’altra storiella a parte la barzelletta sul vitello. Allora, facendo marameo alla casa della signorina Runyon, cantilenò: « Postina beduina babbuina truffaldina, non mi fai nien- te, faccia di serpente, non mi fai male, faccia di maia- le!». E poi, prendendo per mano la sorella, si mise a correre veloce come il vento perché la signora Haisan e Rover erano comparsi simultaneamente sulla porta dei rispettivi alloggi e, sebbene Rover fosse innocuo come
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una coccinella e con ogni probabilità la signora Haisan volesse solo offrire loro un kumquat candito, era più di- vertente pensare che fossero inferociti come lo Skala- wag. Appena la casa non fu più visibile, Ralph si inginoc- chiò a terra, accostò l’orecchio alla strada e balzò in pie- di esclamando: «Ehi! Arrivano!». A quel punto, non smisero più di correre $nché non ebbero imboccato la via di casa.
Dopo un centinaio di passi videro le palme che deli- mitavano la loro proprietà. In quell’ultimo tratto, per un motivo o per l’altro, Molly pensava sempre a Redon- do Beach, dove avevano trascorso qualche settimana alla $ne dell’estate. Alzando gli occhi verso il cielo az- zurro e vuoto, aveva ancora la sensazione di essere a pie- di nudi nella sabbia rovente, a caccia di stelle marine e ricci, e di sentire le urla terrorizzate delle madri e quel- le petulanti dei $gli che, avanzando nell’acqua, rispon- devano che le onde non erano poi così alte. Pensare al- la spiaggia la rendeva irrequieta e nostalgica, e di tanto in tanto le strappava un gemito sommesso, perché ogni volta le tornava in mente lo strano fremito d’orrore mi- sto a piacere provato quando un gabbiano le aveva striz- zato l’occhio e lei si era accorta che muoveva solo la pal- pebra inferiore, mentre l’altra rimaneva immobile. Quel giorno però non pianse: Ralph era troppo allegro – lo sapeva – per consolarla, e quando Molly piangeva l’uni- co piacere era proprio farsi abbracciare da lui, inalare il suo odore pungente di serge e bretelle di cuoio, e senti- re, rabbrividendo, le sue mani piene di verruche che le s$oravano la faccia. Molly poteva sempre imporsi di pensare con tristezza non al mare bensì a suo padre, che era morto; di lui non aveva ricordi, ma sapeva che era in cielo con Gesù e l’avrebbe miracolosamente rico- nosciuta quando lei lo avesse raggiunto, anche se al mo- mento della sua morte non era ancora nata. Era il pen- siero più elettrizzante che avesse mai avuto in vita sua, e la mandava in visibilio dal giorno in cui lei e Ralph ave- vano concordato di non morire $nché lui non avesse a-
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vuto novantanove anni e lei novantasette: in quel modo al loro arrivo in cielo sarebbero apparsi molto più vec- chi del padre, che invece era morto all’età di trentasei anni.
Appena imboccarono il vialetto d’accesso, Ralph attac- cò con le tabelline: « Sei per tre| ». « Diciotto » rispose Mol- ly. E Ralph: «Asino cotto». Continuarono: «Otto per ot- to|». «Sessantaquattro». «A Sophia è morto il gatto». «Due per dieci|». «Venti». «Ho perso tutti i denti», e a quel punto Molly strillò, sbellicandosi dalle risa: « Mam- maaa! Ralph ha perso tutti i denti! ». Ma la mamma non era seduta sulla veranda come al solito, e Ralph e Molly rimasero a guardarsi come due ebeti, pieni di imbarazzo.
Avrebbero dovuto saperlo che era in cucina, indaffa- rata con i preparativi per l’arrivo del nonno. La sentiro- no accorrere alla porta nelle sue pantofoline col tacco, gridando, in previsione della scena che si sarebbe trova- ta davanti: « Oh, non ditemi che è successo di nuovo! ». Poi si fermò al di là della zanzariera, le mani sui $anchi, il vitino da vespa nella gonna grigio perla, incerta se ar- rabbiarsi o preoccuparsi, per un attimo troppo sconvol- ta anche solo per aprire bocca. I bambini rimasero in attesa sul primo gradino come cani perfettamente adde- strati e la madre, vedendoli così umiliati, decise di angu- stiarsi e corse loro incontro, abbracciandoli ma allo stes- so tempo facendo attenzione a non macchiarsi la cami- cetta bianca. Profumava di giaggiolo e pan di zenzero, e i bambini, annusandola, ebbero la netta sensazione che l’ospite sarebbe arrivato di lì a poco, una sensazione an- cor più netta di quella che avevano provato al mattino, quando avevano visto Miguel uscire in macchina per an- dare alla stazione. Era partito presto per acquistare ogni sorta di prelibatezze ai mercati di Los Angeles: tra le al- tre cose, avrebbero mangiato amarene e lokum.
«Oh, poveri pulcini!» esclamò la signora Fawcett, e gli occhi azzurri le si riempirono prontamente di lacri- me. « Oh, cari, perché non avete telefonato| Perché dovete sempre far arrabbiare la mamma| ».
Maurizio Degl’Innocenti-Giacomo Matteotti e il socialismo riformista – Editore Franco Angeli-
Questo saggio propone un’originale rilettura di Giacomo Matteotti (1885-1924) lungo i binari paralleli della biografia individuale e dell’analisi del gruppo politico di afferenza, avvalendosi delle categorie interpretative di socialismo di vicinanza o territoriale e di democrazia orizzontale. Il testo offre inoltre molteplici spunti di riflessione su problemi della società italiana ed europea di lungo periodo, fino all’attualità, a ulteriore testimonianza del lungimirante orizzonte del pensare e dell’agire di un’intera generazione politica in linea con l’evoluzione della socialdemocrazia europea tra le due guerre.
GIACOMO MATTEOTTI E IL SOCIALISMO RIFORMISTA
Giacomo Matteotti e il socialismo riformista – Dalla scheda del volume sul sito dell’editore FrancoAngeli
Il saggio propone un’originale rilettura di Giacomo Matteotti (1885-1924) lungo i binari paralleli della biografia individuale e dell’analisi del gruppo politico di afferenza avvalendosi delle categorie interpretative di socialismo di vicinanza o territoriale e di democrazia orizzontale.
Nel rapporto essenziale con il territorio evidenzia la persistente forza delle periferie, lungo le quali si riscrivono le gerarchie sociali e politiche, tra continuità e rottura dei codici etici e di prestigio. Nel ricostruire il cursus honorum di Matteotti da organizzatore nel Polesine a figura di spessore nazionale fino all’ingresso a Montecitorio e infine a segretario del Partito socialista unitario impegnato nella lotta al fascismo e al bolscevismo, fa emergere una concezione della politica come pedagogia individuale e collettiva per una cittadinanza diffusa e inclusiva; tecnica gestionale in una strategia “costruttiva” della società di lungo periodo; prassi fondata sul ruolo imprescindibile dei partiti nazionali in una democrazia rappresentativa e conflittuale nel rispetto dello Stato di diritto; visione delle problematiche interne in connessione con gli equilibri internazionali in una prospettiva di libera e pacifica convivenza dei popoli e, perfino, già europeista. Il saggio offre molteplici motivi di riflessione su problemi della società italiana ed europea di lungo periodo, fino all’attualità, a ulteriore testimonianza del lungimirante orizzonte del pensare e dell’agire di intera generazione politica in linea con l’evoluzione della socialdemocrazia europea tra le due guerre.
Premessa
La formazione e il “motore dell’energia pratica”
(L’ambiente familiare e il “vaso migliore”; I “tempi lunghi” degli studi e la “fame d’azione”; “Non si gettava, ma andava a passo regolare contro il periglio supremo: il che è infinitamente di più”; La costruzione evolutiva e “il socialismo dentro di noi”; Il “sobillatore”)
La “campagna senza fine”
(Il cursus honorum; La titolarità politica dell’ente locale; Spazio fisico e culturale. Per un sistema di istruzione integrato e permanente; Dalla lega all’azienda cooperativa; “Noi demandiamo di restituire alla nostre terre le libertà”)
“Difendiamo insieme la causa del socialismo, la causa del nostro Paese e quella della civiltà”
(Matteotti a Montecitorio; “La forza operante dei lunghi periodi di tempo”: Matteotti, il “fermo ai contrabbandieri del pubblico bene” e il debito buono; “La forza operante dei lunghi periodi di tempo”: Turati e un programma “serio e concreto” per rifare l’Italia; La crisi dello Stato di diritto e l’Esecutivo Giolitti; Nella tenaglia fascista; “La rielaborazione dei Partiti” e il situazionismo; Il Governo di coalizione e il mancato incontro con il Partito popolare)
“I socialisti con i socialisti, i comunisti con i comunisti”
(“Ricominciamo daccapo, ringiovaniremo nel ricostruire”; Matteotti e il frazionismo socialista; Alla segreteria del PSU; Il blocco per la libertà; La guerra, la “pace senza pace” e la ricostruzione dell’Europa)
Turati, Matteotti e il rinnovamento socialista
(Le vie nuove della socialdemocrazia europea; Le Direttive socialiste (1923) e “il partito di realtà”)
Indice dei nomi.
Maurizio Degl’Innocenti, ordinario di storia contemporanea, è direttore di collane editoriali, condirettore della rivista “Storiaefuturo”, membro di diversi istituti di ricerca. Presiede la Fondazione di studi storici “Filippo Turati”. Annovera tra le ultime pubblicazioni La società volontaria e solidale (2012); Giacomo Matteotti. Eroe socialista (2014); La Patria divisa. Socialismo, nazione e guerra mondiale (2015); Giovanni Pieraccini la politica e l’arte (2016); L’età delle donne. Saggio su Anna Kuliscioff (2017).
Gad Lerner e Laura Gnocchi-Dimmi cos’è il fascismo ,I ragazzi di ieri lo raccontano a quelli di oggi –
Descrizione del libro di Gad Lerner eLaura Gnocchi-Giangiacomo Feltrinelli Editore-–Che cos’è il fascismo? Siamo sicuri che sia scomparso? I racconti di chi il fascismo lo ha vissuto, e si è ribellato, quando era giovane come voi oggi.
Sono passati ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. L’Italia da allora ha vissuto in pace, ma vi sarà giunta l’eco di nuove guerre scoppiate all’improvviso, epidemie e disastri ambientali. In questi momenti la Storia può diventare per noi una buona consigliera e può aiutarci a capire oggi con quali pretesti l’umanità venne allora divisa in persone di serie A e di serie B, perché i nonni dei nostri genitori abbiano obbedito a dittatori fanatici.
Erano i tempi del fascismo, un’invenzione italiana del 1919, quando Benito Mussolini prese il potere e trasformò rapidamente il Regno d’Italia in una dittatura. Ma la sua ambizione non era solo quella di comandare, voleva cambiare la testa della gente, fargli il lavaggio del cervello. Il suo regime durò oltre vent’anni, seguiti da venti mesi di guerra civile, nel corso dei quali l’antifascismo divenne Resistenza fino ad arrivare nell’aprile 1945 alla resa del nazifascismo. La Liberazione, appunto, celebrata da allora come festa nazionale ogni 25 aprile.
Le partigiane e i partigiani che abbiamo intervistato ci raccontano com’è andata per davvero e le loro storie ci ricordano che la libertà non è un regalo per sempre, dobbiamo guadagnarcela ogni giorno.
Gad Lerner e Laura Gnocchi-Dimmi cos’è il fascismo-Feltrinelli Editore
Gad Lerner è nato a Beirut nel 1954 da una famiglia ebraica e a soli tre anni si è dovuto trasferire a Milano. Come giornalista, ha lavorato nelle principali testate italiane da inviato o con ruoli di direzione. Ha ideato e condotto vari programmi d’informazione televisiva alla Rai, La7 e Laeffe. Ha diretto il Tg1. Ora scrive su “Il Fatto Quotidiano” e “Nigrizia”. Con Feltrinelli ha pubblicato Operai (1988, 2010), Tu sei un bastardo. Contro l’abuso delle identità (2005), Scintille (2009), Concetta. Una storia operaia (2017), L’infedele (2020) e Gaza. Odio e amore per Israele (2024). Ha curato, insieme a Laura Gnocchi, Noi, Partigiani. Memoriale della Resistenza italiana (2020), Noi, ragazzi della libertà (2021) e Dimmi cos’è il fascismo (2025).
Laura Gnocchiè giornalista. Ha diretto varie testate, tra cui “Il Venerdì di Repubblica”. Il suo ultimo programma televisivo è stato La scelta, ideato insieme a Gad Lerner, con il quale ha curato anche Noi, partigiani. Memoriale della Resistenza italiana (Feltrinelli, 2020), Noi, ragazzi della libertà (Feltrinelli, 2021), entrambi nati dalla raccolta di oltre novecento videointerviste realizzate in collaborazione con l’Anpi, Associazione nazionale partigiani d’Italia, e Dimmi cos’è il fascismo. I ragazzi di ieri lo raccontano a quelli di oggi (Feltrinelli, 2025, con le illustrazioni di Piero Macola).
Mojaffor Hossain è un giovane autore di narrativa in lingua bengalese contemporanea che ha iniziato la sua carriera come giornalista e ora lavora come traduttore presso l’Accademia Bangla, Dhaka. Il racconto si è classificato tra i finalisti del Tagore Short Translated Fiction Award indetto dalla rivista The Antonym- Bridge to Global Literature, che ringraziamo per la segnalazione. La traduzione dal bengalese all’inglese è di Noora Shamsi Bahar e dall’inglese all’italiano di Pina Piccolo.
1.
Il ragazzo più ingenuo del villaggio di Dhabaldhola era stato assassinato. Il corpo decapitato giaceva sulla linea di demarcazione tra il campo di Bangari e il campo di Taro. L’ultima persona morta assassinata in questo villaggio era stato il dottor Mukul, e pure quello, circa un decennio prima. Anche lui era stato trovato decapitato per strada. Era un adultero e doveva affrontare il suo spietato destino. Ma nessuno degli abitanti del villaggio sapeva perché Sadeq fosse stato assassinato. Le loro ipotesi si basavano su altri omicidi verificatisi in precedenza. Tale convinzione venne rafforzata quando l’IS rivendicò la responsabilità dell’omicidio sul proprio sito web, dichiarazione poi trasmessa al telegiornale. Ma l’IS non aveva fornito una motivazione specifica, ragion per cui l’omicidio continuava a rimanere un mistero. Alcuni degli amici di Sadeq se ne stavano a parlare commentando i fatti in cima al muro di cinta mezzo sgarrupato del loro liceo, situato di fronte alla scuola femminile, che era il luogo dove si finivano sempre per ritrovarsi durante l’intervallo prima della fine delle lezioni della giornata.
“Ciò che ha fatto l’IS non è giusto. Avrebbero potuto almeno menzionare il motivo! Così invece ci tocca scervellarci”, disse Shafiq.
“Ascolta, se l’IS uccide, il motivo è chiarissimo. Hai mai sentito parlare dell’omicidio dell’IS per dispute meschine, riscatti o litigi dovuti a storie d’amore? C’è un unico motivo per cui uccidono”, affermò Barkat, il più saggio di tutti.
“Sì, ma quelli decapitati erano tutti atei!”
“Non tutti quanti. Sono stati uccisi anche sacerdoti e figure religiose. Saranno pure stati infedeli, ma di sicuro non erano atei”.
“Stessa cosa. Ma che differenza c’è tra infedeli e atei?”
“Non è l’atteggiamento giusto da tenere, vero, Asad?” lo interpellò Barkat.
“Non so cosa sia giusto o sbagliato. Ho sentito dire che gli indù in India stanno bruciando vivi i musulmani!”
“E allora Shah Rukh Khan, Salman Khan, Amir Khan… poi c’è Yusuf Pathan, Zaheer Khan…? Tutti quanti musulmani. Gli indù praticamente li adorano”, ribatté Akbar, l’idiota del gruppo. Come al solito, Barkat e Asad fecero finta di non sentirlo.
“Va bene, siamo d’accordo che stanno uccidendo infedeli e atei. Ma che dire del professore della Rajshahi University che amava la musica? Non era ateo. Perché è stato ucciso?”
“La musica è proibita nell’Islam. Gli studenti andavano lì per farsi istruire, ma invece quell’uomo insegnava loro a fare musica e gli faceva vedere film stranieri. Sai cosa significa ‘film stranieri’? Ricordi quando con un unico biglietto ci vedevamo due film? Sai di che tipo di film parlo”, aggiunse Habel.
“Non so se la musica è buona o cattiva. Ma negli Hadith, devo ancora vedere una parte in cui il nostro Profeta dice ai Sahabiti : ‘Venite, concediamoci un po ‘ di allegria con un la musica.’ Non c’è scritto nulla del genere da nessuna parte”. Il Magro, alias Chiku Mokles con tali parole rese note le proprie argomentazioni a favore della tesi espressa in precedenza.
“Bene. Ma perché Sadeq? Solo una settimana fa, Sadeq ed io eravamo uno accanto all’altro durante le preghiere del venerdì. Poco prima gli avevo sussurrato: “Oggi è un giorno speciale. Chiunque esegua 50 inchini di rakat di fila durante la funzione vedrà l’ombra di Mika’il nei cieli allo scoccare della mezzanotte.” Mi lanciò un’occhiata piena di stupore, ma non pronunciò una sola parola. Il giorno dopo, andando a scuola, mi corse incontro alzando i pugni come se volesse picchiarmi e mi chiese: “Dove? Non ho visto niente nel cielo di mezzanotte!” Allora dimmi, perché mai una persona così meriterebbe di essere uccisa? Non sapeva nemmeno cantare. Una volta, quando gli è stato chiesto di cantare a scuola, è scappato strappandosi la camicia rimasta impigliata in quella porta scassata sul retro. Non ricordate?” chiese Hadisur.
“Dì pure quello che vuoi. L’IS non è certo un’organizzazione che commette errori quando si tratta dei propri bersagli. Ho sentito che sono perfino più potenti dell’America. I loro bersagli li spiano per anni prima di prendere qualsiasi decisione. Hanno installato chissà quale attrezzatura nei cieli”, disse Habel.
“Hmm. Spiavano il ventunenne Sadeq da venticinque anni ormai!”
“Smettila di prendermi in giro, Barkat. L’IS sta sicuramente ascoltando la nostra conversazione. A me che me ne viene? Non è che sto dicendo qualcosa contro di loro! Non ho niente da temere io!” Habel si fece piccolo piccolo non appena ebbe pronunciato queste parole.
“E allora Shah Rukh, Salman, Amir… poi Irfan, Zaheer?… Sono tutti musulmani. Gli indù li mettono su un piedistallo”. Akbar l’idiota ripeté a se stesso. Ripeterà la stessa cosa ancora un paio di volte. Quando gli viene un’idea, la ripete di tanto in tanto. Gli altri ormai si erano abituati e non ne erano più nemmeno infastiditi dalla cosa. Ma dopo aver sentito il nome del famoso attore Shah Rukh Khan, il re di Bollywood, Asad non riuscì a stare fermo.
“Ehi, ragazzi, avete visto il film Fan ? Ho provato a vederlo diverse volte, ma non riuscivo a starmene seduto e guardarlo fino alla fine. Gli manca dinamismo e pepe!” si lamentò Asad.
“Hmm. Avrebbero potuto far cantare una canzone tutta sua, una specie di sigla identificativa. L’ho visto il film, ma è di una noia mortale. Mastizaade di Sunny Leone è molto meglio!”
“Ma il video ‘Pink Lips’ dei Sunny Leone l’avete visto? Ce l’ho qui sul cellulare “, disse Habel, e fu così che l’interesse dell’intero gruppo si spostò e focalizzò su Sunny.
2.
Venerdì. Gofur Mian, – il padre di Sadeq, era andato in moschea un po’ prima. Gofur Mian è quel tipo di persona che non prega regolarmente. Gli capitava di pregare cinque giorni di fila e poi di non pregare per tre. Era il primo venerdì dopo la morte di Sadeq. Si precipitò in moschea per chiedere all’huzoor di dedicare una preghiera a Sadeq dopo quelle rituali del venerdì. Aveva programmato di sedersi in un angolo e pregare con ardore dopo aver recitato le preghiere del venerdì. Nei giorni passati la polizia e i giornalisti lo avevano tormentato con le loro domande e aveva a malapena avuto la possibilità di piangere il figlio.
La richiesta di preghiere per Sadeq colse di sorpresa l’ huzoor . “Ma sarà la cosa giusta da fare?”, si chiese.
“Perché non dovrebbe essere giusto?” Gofur divenne ansioso. “Perché mai huzoor ?”
“Sai… Non ci sono prove che tuo figlio fosse credente o non credente. Se si scopre che è ateo, che senso ha pregare per lui? La situazione attuale del Paese non è sicura e non voglio essere coinvolto in queste faccende”. Il comportamento dell’huzoor era solo razionale. Non aveva senso insistere. Sconvolto, Gofur terminò le preghiere e tornò subito a casa. Andò in camera sua, chiuse la porta e si sedette sul tappeto da preghiera. Infine uscì dopo il tramonto, con gli occhi gonfi. Aveva pianto, pianto, avrebbe continuato a piangere: questo era il voto che aveva fatto. Era andato dal suo sahib, cioè il parlamentare che rappresentava il suo distretto per chiedere giustizia. Il giorno prima, il sahib aveva dichiarato ai giornalisti che, a prescindere da chi fossero .gli assassini sarebbero stati assicurati alla giustizia. Ma poi aveva convocato Gofur per dirgli qualcosa di completamente diverso: non si sarebbe fatto coinvolgere negli affari di nessun ateo.
“Signore, tutti nel villaggio possono testimoniare che mio figlio era un credente. Non sapevamo nemmeno cosa o chi fossero gli atei!” implorò Gofur.
“Quelli del villaggio testimonieranno, dici? Ma nessuno l’ha ancora fatto! Ogni volta che qualcuno chiede del tuo ragazzo, la gente scappa”.
“Ma Signore, pregava sempre. La gente ha troppa paura per dire qualcosa. Ma Allah mi è testimone”.
“È quello che dico anch’io. Allah sa la verità. Non potrai riportare in vita tuo figlio anche se puoi dimostrare che era credente. Ma se per caso vengono presentate prove che dimostrano che era in realtà un ateo, potrai rimanere nel villaggio? Hai due figlie in età da marito. Riuscirai a farle sposare? Oramai chi è andato è andato. Dì ai giornalisti che hai accettato quello che è successo. Se necessario, farò un annuncio e ti darò diecimila taka. Non ho sempre contanti a portata di mano. Prendi anche due capre. Ti torneranno utili in occasione dei matrimoni delle tue figlie”. Il sahib doveva avere sempre l’ultima parola.
Il giorno in cui Gofur tornò dalla capitale del distretto, ricevette la visita di uno degli uomini del parlamentare, a cui si era anche unito il leader locale del villaggio. Era circa mezzanotte e Gofur era finalmente riuscito a dormire un po’. L’irrequietezza e l’ostilità che gli si erano accese dentro dopo aver ascoltato le parole del parlamentare erano svanite. Aveva giurato di non chiedere giustizia a nessuno all’infuori di Dio, nonostante avesse concluso che neppure guardare al cielo avesse alcun senso. Vedendo questi due uomini potenti entrare in casa non sapeva che contegno tenere.
“Ascolta, Gofur, sei fortunato. Anzi, invidio la tua buona sorte.” Alle parole del leader locale Gofur si agitò. Dopo la morte di suo figlio, parole come ‘buona sorte’ gli sembravano sconosciute. Nessuno gli diceva più queste parole. Il leader locale proseguì: “L’onorevole sahib ha una proposta da farti. Ti consegnerà un negozio in città e, con esso, tutte le merci di cui avrai bisogno. Invece di coltivare la terra di qualcun altro come stai facendo ora, gestirai il tuo negozio. Cosa ne pensi?”
“Sì, bene”, rispose spaventato Gofur.
” Ma che bene, benissimo direi!” Questa era la prima volta che l’uomo del sahib parlava. Gofur non era poi così sicuro che fare il negoziante in città fosse una buona idea.
“Ma dovrai fare una cosa”, disse il leader.
“Una piccolissima cosa”, aggiunse l’uomo del parlamentare. Gofur aspettò in silenzio, ancora diffidente dell’offerta.
“Dovrai solo puntare il dito contro Monsur Mullah come colpevole dell’omicidio di tuo figlio. Faremo noi il resto. Domani dovrai solo andare alla stazione di polizia e accusare gli uomini di Monsur Mullah. Ci penseremo noi a fornire i dettagli della storia. Non dovrai fare altro. Te ne potrai stare comodamente seduto nel tuo negozio.”
“E non osare dire a nessuno quel che ti abbiamo chiesto di fare. È possibile che la gente capisca come sono andate le cose, ma non importa, basta che tieni la bocca chiusa”, aggiunse il leader locale.
“Signore, posso prendermi qualche giorno per riflettere?” chiese Gofur.
“Non siamo venuti qui per darti il tempo di pensare! Non siamo venuti qui per chiedere il tuo permesso. Questo è l’ordine del sahib . Siamo venuti qui per dirti cosa fare”. I leader se ne andarono proprio come erano entrati: in silenzio. La moglie di Gofur era rimasta nascosta in un angolo e aveva sentito tutto. Se non fosse stato per questo, Gofur avrebbe potuto far passare l’intero episodio come un incubo e lasciarselo alle spalle.
“Vendiamo la nostra terra e trasferiamoci in un altro villaggio. Mi pare che qui non possiamo più vivere”, disse Nosiron, sua moglie.
“Non è che possiamo lasciare il Paese! Poi, pensi davvero che possiamo vendere la nostra terra se lasciamo il villaggio? Il presidente sta progettando di costruire una fabbrica qui. Non comprerà la terra e non permetterà nemmeno a nessun altro di comprarla”.
3.
Nel frattempo passarono uno o due mesi. La questione della giustizia per l’omicidio di Sadeq era ben lontana dall’occupare la mente degli abitanti del villaggio; infatti essi avevano concluso che Sadeq doveva essere ateo. Gofur in qualche modo riuscì a lasciare il villaggio. Proprio in quel momento, ci fu un altro incidente. Un Sadeq di un villaggio lì vicino era stato trovato morto, ucciso nello stesso modo. Un Sadeq diverso che aveva studiato in città ed era tornato a casa per le vacanze. Quando l’arma lo colpì al collo, qualcuno sentì uno degli assassini dire: “ Shala, stavolta non abbiamo sbagliato!”
Mojaffor Hossain
Breve Biografia di Mojaffor Hossainè un giovane autore di narrativa in lingua bengalese contemporanea che ha iniziato la sua carriera come giornalista e ora lavora come traduttore presso l’Accademia Bangla, Dhaka. Ha pubblicato sei raccolte di racconti che negli ultimi anni, hanno riscosso notevoli consensi sia tra pubblico generale che tra i critici letterari. I suoi racconti si distinguono per la loro ambientazione in realtà locali come come villaggi e città del Bangladesh o del West Bengala aggiungendo però sfumature di realismo magico o surrealismo. È stato premiato quattro volte per i suoi racconti. Il suo romanzo d’esordio Timiryatra è stato molto gradito dal pubblico. È anche conosciuto come traduttore e critico letterario e finora ha pubblicato 14 libri.
Roberto Fiorini- Dietrich Bonhoeffer- Testimone contro il nazismo
GABRIELLI EDITORI – San Pietro in Cariano (Verona)
Descrizione- Questo libro di Roberto Fiorini lo si legge tutto d’un fiato. Per tre motivi. Il primo è che il suo contenuto – la storia di Dietrich Bonhoeffer, qui raccontata nei suoi momenti cruciali – possiede un grande potere di attrazione ed esercita su chi ne viene a conoscenza un fascino unico: non ci si stanca di sentirne parlare e non è facile staccarsi da una figura come la sua. Il secondo motivo è che in questo libro Bonhoeffer è molto più soggetto che oggetto. L’Autore, ovviamente, parla di lui, ma, soprattutto, fa parlare lui; e quando Bonhoeffer parla, è difficile non stare ad ascoltarlo; la sua parola è avvincente tanto quanto la sua vita, anche perché, mentre lo si ascolta, si ha l’impressione che ci parli non dal passato, ma dal futuro, come se quest’uomo fosse oggi più avanti di noi, ci precedesse e anticipasse: il suo discorso sul futuro del cristianesimo dopo la «fine della religione» (che in realtà non sembra finita), resta oggi più ancora di allora di un interesse palpitante. Ma c’è un terzo motivo per cui questo libro lo si legge tutto d’un fiato: è lo speciale punto di vista, inconsueto, ma accattivante, di chi ha imparato a «guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospettati, dei maltrattati, di chi non ha potere, degli oppressi e dei derisi – in una parola dei sofferenti» in un itinerario che lo ha portato sino al “caso limite”, cioè alla sua diretta opposizione alla politica distruttiva del nazismo e alla conseguente salita sul patibolo 75 anni fa, il 9 aprile 1945.
Ora, in diverse parti d’Europa ritornano simboli, messaggi e organizzazioni politiche che evocano quei tempi oscuri nei quali la disumanità raggiunse dei picchi inimmaginabili. La chiarezza, la determinazione e l’intelligenza della fede con le quali Dietrich Bonhoeffer affrontò quell’”ora della tentazione” sono preziosi anche oggi per un discernimento più che mai necessario. Il suo amico e confidente Eberhard Bethge disse: «Bonhoeffer non è alle nostre spalle, ma è ancora davanti a noi». Bonhoeffer è stato e resta un testimone per chiunque si accinga a percorrere la «via stretta» (Matteo 7,14) della fede e della vita cristiana. Questo libro di Roberto Fiorini lo conferma in maniera egregia. (Dalla Prefazione del prof. Paolo Ricca)
Roberto Fiorini-
Biografia di Roberto Fiorini, ordinato prete a Mantova nel 1963.Dal 1966 al 1972 ha svolto l’incarico di assistente provinciale delle Acli e dal ’68 al ’72 insegnante di religione nelle scuole superiori. Nel 1972, dopo un corso di infermiere generico, scelse di entrare nel mondo del lavoro. Fu assunto nel 1973, come dipendente all’Ospedale Psichiatrico di Mantova. Dopo il diploma di infermiere professionale ha operato nei servizi territoriali dell’ASL, in un distretto sanitario e infine come coordinatore infermieristico all’assistenza domiciliare. Negli anni ’80-‘90 ha insegnato etica professionale nei corsi di formazione degli infermieri allora gestiti dalla CRI di Mantova. Dal 1983 al 1989 è stato segretario dei preti operai italiani e dal 1987 è responsabile della rivista Pretioperai. Ha frequentato i corsi di studi ecumenici a Verona e a Venezia con tesi di licenza su “Theologia crucis in Dietrich Bonhoeffer”. Dal 1995, su richiesta dell’associazione, è consulente teologico del Segretariato Attività Ecumeniche (SAE) di Mantova. Dal 2010 ricopre l’incarico di assistente spirituale delle Acli provinciali. Nel 2015 ha pubblicato “Figlio del Concilio. Una vita con i preti operai”. Con altri (G. Miccoli, F. Scalia, R. Virgili, A. Rizzi), “Servizio e potere nella chiesa”, Gabrielli editori 2013.
GABRIELLI EDITORI – Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona)
«una certa dose di meledicenze, un po’ di veleno, alcuni aneddoti e pettegolezzi… Scrivo del mio tempo» Sergej M. Ejzenstejn
«Ma c’è stata la vita?…Si direbbe ci sia stata. Vissuta in modo acuto, allegro, doloroso, addirittura vivida in alcuni momenti,indubbiamente pittoresca, e tale che non la cambierei con nessun’altra» Sergej M. Ejzenstejn
La corazzata Potëmkin
Il bisogno di scrivere prende forma precocemente in Ejzenstejn, che sin dal 1917-1918 annota in quaderni e su foglietti improvvisati ogni sorta di riflessione: da considerazioni sul teatro a impressioni tratte dalle letture fatte, da divagazioni filosofiche a piccoli aneddoti buffi.
Nel 1946, sulla soglia dei cinquant’anni, mentre si accinge a scrivere le proprie memorie, egli nota come per tutta la vita, nel suo lavoro, si sia occupato «di opere à thèse» dimostrando, spiegando, insegnando. Mentre «qui», dichiara, «voglio girovagare per il mio passato, come amavo fare per antiquari e rigattieri del mercato Aleksandrovskij a Piter, per i bouquinistes dei lungosenna a Parigi, per Amburgo o Marsiglia di notte, per le sale dei musei delle cere».
Ecco allora che in queste pagine letture e stralci di vita vissuta s’intrecciano; Dumas e Hugo, Zola e Balzac si profilano nelle sale borghesi della casa paterna, Maeterlinck e Schopenhauer si stagliano sullo sfondo della guerra civile, le città d’Europa e d’America sono evocate ora attraverso incontri fortuiti con artisti di fama, da Pirandello a Cocteau, da Zweig a Joyce, ora tramite associazioni libere con temi ed eventi storici legati ai luoghi visitati: la polizia americana e francese e le tecniche del romanzo giallo, le millenarie piramidi dello Yucatan e la Chiesa ortodossa medievale, gli esordi teatrali e cinematografici a Riga e Pietrogrado, i ricordi d’infanzia sul Baltico, le prime impressioni della Rivoluzione, il fronte e la guerra civile nella Russia bianca, le emozioni per i successi professionali all’estero e in patria, i viaggi… Così la vita del grande regista «sfreccia nella memoria come un film con dei vuoti, dei pezzi spariti, con scene incollate in modo sconnesso, come un film la cui “idoneità alla distribuzione” sia pari al trentacinque per cento».
Eppure, lo scrittore Ejzensˇtejn non ci ha mai parlato in modo così chiaro. Giacché solo qui, e forse nei primi giovanili appunti «per sé», egli scrive senza altra finalità se non quella, appunto, di «scrivere». Nei suoi intenti c’è dunque l’idea di afferrare, tramite la scrittura, episodi, incontri, attimi,
immagini di quella vita che spesso noi tutti «percorriamo al galoppo, senza guardarci intorno, come un trasbordo dopo l’altro», e dalla quale, «come dal finestrino di un treno, sfrecciano via frammenti d’infanzia, pezzi di gioventù, scampoli di maturità».
È lui stesso, in apertura delle Memorie, ad annotare: «Come vorrei esaurire il capitolo riguardante la mia vita con tre parole! “Visse, meditò, si appassionò”. E che queste pagine possano servire a descrivere ciò di cui ha vissuto, su cui ha meditato e a cui si è appassionato l’autore».
Sergey Michajlovic Ejzenstejn
Biografia di Sergey Michajlovic Ejzenstejn (1898-1948), massimo interprete del cinema russo e geniale innovatore della teoria cinematografica, iniziò il suo lavoro creativo come scenografo e regista teatrale (Il messicano, 1920-21; Anche il più saggio sbaglia, 1923; Mosca ascolti?, 1923; Maschere antigas, 1923-24). Il suo primo film è Sciopero (1924). Seguono: La corazzata Potëmkin (1925); Ottobre (1924); Il vecchio e il nuovo (La linea generale) (1926-29); Qué viva Mexico! (1930-31), incompiuto; Il prato di Bezin (1937), incompiuto; Aleksandr Nevskij (1938); Ivan il Terribile (I parte 1944, II parte, nota col titolo La congiura dei Boiardi, 1946). Dal 1928 fu anche insegnante di regia all’Istituto statale di cinematografia. Nel 1940 mise in scena La Valchiria di Wagner al teatro Bol’soj di Mosca. Al lavoro creativo di Ejzenstejn si affianca, fin dall’inizio, una straordinaria produzione di testi teorici nei quali l’indagine sul cinema si svolge, di regola, nel contesto di una penetrante riflessione sull’arte che oggi possiamo considerare senz’altro come uno degli episodi salienti del pensiero estetico moderno.
Articolo di Venceslav Soroczynski-RAI-Cultura-Letteratura
Articolo di Venceslav Soroczynski -Il libro di Albert Camus “Lo straniero” Bompiani Editore-C’è qualcosa che mi dice vai a cercarlo, perché ha cose da dirti. E io, di solito sordo alle chiamate dell’intuizione e cieco a quelle della coscienza, mi avvicino al secondo scaffale, quarto ripiano dall’alto. Lo trovo, subito: sarà uno dei pochi libri che leggo per la seconda volta. Ma devo andare dal medico e, fra malati immaginari e sani bisognosi di una carezza, mi aspetta un’attesa lunga, quindi mi serve un libretto breve, che mi stia nella tasca e nella testa.
Albert Camus
Invece, i doloranti sono pochi e sembrano avere dolori epidermici, quindi sfilano in fretta e non riesco ad arrivare alla fine del romanzo. Eppure già sento il bisogno di aprire la porta e raccontare qualcosa. Sapete, io vivo in campagna: anche se spalanco le finestre e parlo ad alta voce del libro, mi sentono al massimo le monache di clausura della Comunità di Gesù di Nazareth – che poi non mi dispiacerebbe intervistarne una, non dico la badessa, che quella ne parlerebbe bene come il promotore dei fermenti lattici al supermercato. Piuttosto, una monachella, l’ultima arrivata, o la più anziana.
Ma sto divagando (a scuola mi accusavano di andare fuori tema. È il tema che non è in tema, avrei dovuto rispondere, ma da ragazzino non avevo la battuta pronta – mentre adesso non sono pronti quelli che dovrebbero capirla). Lo straniero è uno di quei romanzi che pensi essere uno dei dieci libri che andrebbe assolutamente letto. Poi ti rendi conto che l’hai già detto di altri venti e ti scopri essere un esaltato e perdi credibilità anche di fronte a te stesso (figuriamoci davanti alle monache).
Perché leggerlo? Perché lo straniero del 1942 è un corpo morto senza il certificato di morte che somiglia al corpo sociale del terzo millennio (sovviene immediata la battuta di Kraus: “La condizione in cui viviamo è la vera fine del mondo: quella cronica.”). È un uomo che non vive, si lascia vivere. Non gli si può attribuire il concetto heideggeriano: “Noi non parliamo un linguaggio, ma siamo parlati dal linguaggio” soltanto perché egli, quasi, non parla. “Non aprivo la bocca per non dir nulla”, pensa, infatti, mentre gli chiedono se vuole aggiungere qualcosa durante il suo processo. Vive per inerzia, come un’auto lanciata in folle in una discesa sull’autostrada. E, infatti, la sua vita è una discesa e, proprio perché non si aggrappa a nulla, scivola nel suo destino come un dito in un vasetto di miele.
Albert Camus- “Lo straniero”
Ma è miele di fiori amari, poiché il nostro uomo non pare provare dolore nelle cose brutte (“Mi ha chiesto se avevo sofferto [della morte della madre] e ho risposto che tanto io che la mamma non ci aspettavamo più nulla l’uno dall’altro e del resto neppure dal prossimo e che ci eravamo abituati tutt’e due alle nostre nuove vite”), né felicità nelle cose belle (“La sera Maria è venuta a prendermi e mi ha chiesto se volevo sposarla. Le ho detto che la cosa mi era indifferente, e che avremmo potuto farlo se lei voleva. Allora ha voluto sapere se l’amavo. Le ho risposto, come già avevo fatto un’altra volta, che ciò non voleva dir nulla, ma che ero certo di non amarla.“Perché sposarmi, allora?” mi ha detto. Le ho spiegato che questo non aveva alcuna importanza e che se lei ci teneva potevamo sposarci. Del resto era lei che me lo aveva chiesto e io non avevo fatto che dirle di sì. Allora lei ha osservato che il matrimonio è una cosa seria. Io ho risposto “no”. È rimasta zitta un momento e mi ha guardato in silenzio. Poi ha parlato: voleva soltanto sapere se avrei accettato la stessa proposta da un’altra donna cui fossi stato legato allo stesso modo. Io ho detto: “naturalmente”. Allora si è domandata se lei mi amava, e io, su questo punto, non potevo saperne nulla. Dopo un altro istante di silenzio, ha mormorato che ero molto strambo, che certo lei mi amava a causa di questo, ma che forse un giorno le avrei fatto schifo per la stessa ragione. Siccome io tacevo, non avendo niente da dirle, mi ha preso il braccio sorridendo e ha detto che voleva sposarmi”).
Mersault è del tutto singolare, ma assolutamente credibile. Per amicizia, o solo per non turbare un rapporto, continua a frequentare un uomo che ha picchiato la propria compagna per non essergli stata fedele.E quando gli chiedono com’è Parigi, risponde solo: “È sporco. Ci sono dei piccioni e dei cortili bui. La gente ha la pelle bianca”. Camus stende il suo personaggio su un giaciglio di indifferenza che perfino m’innervosisce come lettore. Ma quella indifferenza è la sua condanna, poiché, in un paio d’ore, il Pubblico Ministero nel processo in cui è imputato la trasforma agli occhi dei giurati in insensibilità e poi, con la retorica dell’accusatore che tanto solletica chi gode della disgrazia altrui, converte quella insensibilità in condotta criminale. Immediatamente, mi ritorna la scena di un bel film in cui l’avvocato dice: “Tutti sono fatti da una certa porzione di fango. Tutti hanno la fogna dentro. Per questo bisogna cercare nella vita delle persone. L’indagine è come un temporale: acqua, acqua, acqua, acqua, acqua finché si intasano i tombini, le fognature scoppiano e esce tutta la merda che c’è sotto.”
Questo fa il tribunale allo Straniero. Processa una vita, non un atto. Un uomo, non un’azione (triangolazione disonesta e violenta, che attraversa il subconscio per titillare le corde dei deboli. E che si vede tutti i giorni – i nostri inclusi). Quanto c’è del nostro mondo del nostro tempo e del nostro io, ne Lo straniero! Straniero sono anche io per il luogo dove sono nato, poiché da esso sono andato via molto tempo fa. E lo sono nel luogo in cui ora vivo, poiché vengo da altrove. E sono straniero anche in casa mia, poiché i miei quattro nonni vengono da quattro posti diversi d’Italia e d’Europa. E sono straniero in me, poiché mi vedo ogni giorno di più come un terzo, un testimone, dall’alto muovermi come un animale da abitudine, o dal basso come un uomo alla ricerca dell’estintore dell’inquietudine. Mi osservo, cerco la distanza ma, per non impazzire e per convenienza, trasporto la mia duplicità in un pezzo unico senza apparenti fessure, che so essere cucito male e rapidamente deperibile.
Straniero è già pirandellianamente l’uomo in quanto, agli occhi degli altri, è diverso da come appare ai propri. Mentre, però, l’uomo di Uno, nessuno e centomila, pensa, decide, reagisce, sovverte, rivoluziona, quello di Camus subisce, come fosse addormentato. Come se aspettasse che qualcuno lo salvi dall’alto. O come se non gli importasse neppure di questo. Che disonore, l’evoluzione, se penso che, più di trecento anni prima, Amleto, a Guildestern, che vorrebbe manovrarlo, aveva risposto: “Qualunque strumento io sia, anche se puoi strimpellarmi, non mi puoi suonare!”). Ma è inutile rimpiangere le età degli imperi: viviamo il nostro esistenzialismo puntando a qualcosa che sta a metà fra il desistenzialismo e l’assistenzialismo: ci guardiamo esistere. La vita fuga dalla vita. Il piano B pensato prima del piano A. Eppure, abbiamo avuto decenni per approfondire il declino. Scuola per tutti, università per tutti, medicina per tutti, reddito di cittadinanza per tutti – ma è scuola, non educazione; è università, non conoscenza; è medicina, non sanità; è reddito, non cittadinanza. Quindi, è un ripiego continuo. Siamo peggiori dell’uomo di Camus, il quale, almeno, esiste fortemente, con distacco e noia, senza finzione, poiché è se stesso dalla prima all’ultima riga del romanzo. Dal bagno in mare alla prigione, non ha mentito una sola volta. Non ha pronunciato, in sua propria difesa, un solo verbo che si discostasse dalla verità. La verità è che ha premuto il grilletto contro un uomo che ha guardato in faccia: lo straniero è un assassino. Ma lui stesso non ha compreso il perché. Quando articola una proposizione per spiegare i fatti, l’aula intera ride, ma egli ha detto esattamente il vero. Non sa spiegare le cose al giudice, né al suo avvocato. Eppure, è proprio vero che la causa è stata il sole troppo forte, il caldo, il fuoco che precipitava dal cielo, lo stordimento di un paese troppo caldo, troppo lontano, troppo straniero anch’esso. Ma Mersault apre la bocca solo per dire cose che abbiano importanza. E forse quelle non ne avrebbero.
Eppure, non si riesce a odiarlo: è come un bambino che ha fatto del male per qualcosa che è un po’ più dell’istinto e un po’ meno della necessità, sotto un sole troppo forte. È limpido come l’acqua di un lago in cui è vietata la balneazione per non inquinarlo, per non svegliarlo. Quindi, nessuno può entrare. E io non sono neanche arrivato alla riva. Sto leggendo, come si dice nel poker, mentre Mersault non ha ancora lasciato l’aula, il processo non è terminato e io, per fortuna, non ricordo com’è andata a finire. Mi sono fermato a queste parole, lette le quali ho chiuso gli occhi: “Dalla strada, attraverso tutte le sale e le aule, mentre il mio avvocato continuava a parlare, ha risuonato fino a me la trombetta di un venditore di panna. Mi hanno assalito i ricordi di una vita che non mi apparteneva più, ma in cui avevo trovato le gioie più povere e più tenaci: odori d’estate, il quartiere che amavo, un certo cielo di sera, il riso e gli abiti di Maria. Allora tutta l’inutilità di ciò che facevo in quel luogo mi è rimontata alla gola e ho avuto una fretta soltanto di farla finita presto e di ritrovare la mia cella e il sonno.”
Descrizione del libro di Sandor Marai–Dopo quarantun anni, due uomini, che da giovani sono stati inseparabili, tornano a incontrarsi in un castello ai piedi dei Carpazi. Uno ha passato quei decenni in Estremo Oriente, l’altro non si è mosso dalla sua proprietà. Ma entrambi hanno vissuto in attesa di quel momento. Null’altro contava per loro. Perché? Perché condividono un segreto che possiede una forza singolare: “una forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione”. Tutto converge verso un “duello senza spade” ma ben più crudele. Tra loro, nell’ombra il fantasma di una donna.
Sandor Marai
Breve biografia di Sándor Márai, il patriota malinconico .
Articolo di Gian Paolo GRATTAROLA
Nel tracciare il profilo biografico di quello è stato indubbiamente uno dei più grandi scrittori del Novecento, ci si trova purtroppo a chiedersi chi era mai Sándor Márai. Perché è vero che, meritoriamente, l’editore Adelphi ha pubblicato in Italia tutte le sue principali opere; ma è altrettanto vero che egli rappresenta l’incarnazione di una concezione della letteratura troppo faticosa e impegnativa per essere digerita senza difficoltà dal lettore di oggi.
Nato nel 1900 a Kassa (oggi Košice), un estremo lembo dell’Impero Austroungarico ormai avviato al tramonto, da una famiglia ricca di passato e priva di avvenire, aveva nel sangue le radici di un’Europa che stava morendo per troppa nobiltà e troppo sapere, come racconterà tra il 1934 e il 1935 nel suo primo romanzo memoriale Le confessioni di un borghese. E ungherese lo resterà per sempre, sia quando si recherà in Germania allo scopo di frequentare la scuola universitaria di giornalismo, sia quando insieme con la moglie Lola sposata nel 1928 si trasferirà a Parigi e Londra in Italia e in Medio oriente come inviato del “Frankfurter Zeitung”. La percezione dolorosa che i cardini morali, che avevano sostenuto la civiltà aristocratica durante la stagione mitteleuropea, stanno per essere spazzati via dall’ansia di affermazione di una società borghese cinica e materialista innervano già le prime opere scritte in patria quali L’isola (1934), Divorzio a Buda (1936), La recita di Bolzano e Sindbad torna a casa (entrambi 1940), La donna giusta (1941) e La sorella (1946).
Quando, dopo essere sopravvissuto agli orrori della guerra e dell’occupazione nazista di cui fu fiero oppositore, assiste alle prime avvisaglie della non meno feroce dittatura sovietica, decide nel 1948 di lasciare l’Ungheria e inizia a girovagare tra Svizzera, Stati Uniti e Italia. Esule di un mondo in cui non riesce tuttavia a riconoscersi, la nuova forma di inquietudine di cui è prigioniero diviene il tratto essenziale e inconfondibile della psicologia dei protagonisti dei suoi più romanzi più importanti. Prima a San Diego, dove prende residenza, e più tardi a Salerno, dove si trasferisce quando il figlio János entra in rotta di collisione con i genitori assumendo la decisione di americanizzare il proprio nome rifiutando la sua discendenza ungherese, Màrai continua a scrivere nella lingua madre. In questo lungo periodo di esilio vedono la luce, tra le molte altre opere i capolavori che usciranno postume e faranno di lui uno dei maggiori romanzieri del secolo scorso: da Liberazione a Le braci, dal secondo romanzo memoriale Terra, Terra!… a L’eredità di Eszter, da Il sangue di San Gennaro a L’ultimo dono.
Romanzi che egli scrive non per comprendere la realtà, ma per fuggire da un presente che detesta e che non ci chiedono di comprendere l’autore, ma di seguirlo attraverso i suoi verbosi e interminabili monologhi, lungo le sue sfavillanti digressioni in cui si sofferma ad analizzare con grande finezza psicologica i personaggi in tutte le loro sfumature, a scrutare ogni increspatura dell’animo umano, a registrare ogni loro parola e ogni loro sospiro. Leggerlo e addirittura non cercar neanche di capirlo. Perché il chiedere risposte è la motivazione meno opportuna per andare a bussare alla porta della sua arte: si correrebbe inutilmente il rischio di non farsi aprire. E allora meglio ricorrere alle cinque dita dei sensi, affidandosi all’odore che si respira nelle abitazioni e per le strade delle sue storie, degustando i sapori delle sue trame, lasciandosi inebriare dalla musica e dall’eleganza di una scrittura sontuosa. Quando al duro fardello sopportato a causa delle sorti avverse della propria patria lontana si aggiunge il dolore della perdita della moglie e del figlio, Sándor Márai decide nel febbraio del 1989 di togliersi la vita. Mancano solo pochi mesi all’agognato crollo dell’impero sovietico e al definitivo affrancamento del popolo ungherese. Ma egli purtroppo non vi potrà assistere.
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