Sopra le coltri elefantine delle aiuole
un cactus gotico fiorisce in teschi regali
e nelle cavità di malinconici organi,
nei metallici grappoli cannosi,
marciscono antiche melodie.
Palle di cannone, semi di guerra
ha disperso il vento.
Sopra ogni cosa svetta la notte,
e nel bosso di cupole sempre verdi
lo sventato imperatore in punta di piedi se ne va
ai giardini magici delle sue stòrte,
e nella bonaccia delle rosee serate
tintinna un fogliame vetroso,
che le dita degli alchimisti toccano
come vento.
Accecano i telescopi per orrore del cosmo;
e i fantastici occhi degli stellonauti
se li è bevuti la morte.
e intanto la luna ha deposto uova nelle nubi,
stelle nuove sono sgusciate a frotte come uccelli
che migrano da terre nericce
canticchiando la canzone dei destini umani,
ma nessuno c’è che li possa intendere.
Ascoltate le fanfare del silenzio,
su tappeti logori come sindoni di secoli
ci incamminiamo verso l’invisibile futuro
e Sua maestà la polvere
si adagia lieve sul trono vuoto.
Da: Vestita di luce, a cura di Sergio Corduas, Einaudi, Torino 1986, p. 23
Vi sono città che sembrano fatte per la poesia. Una di queste certamente è Praga. Fu uno dei centri artistici principali dell’epoca barocca, poi della mitteleuropa (oltre a Franz Kafka vi era nato qui anche Rainer Maria Rilke nel 1875). Nel 1918 divenne capitale della Cecoslovacchia. Allora Jaroslav Seifert aveva diciassette anni (era nato a Žižkov, un sobborgo operaio di Praga). A quel tempo aiutava il padre al suo negozio di quadri, unica fonte di sostentamento della famiglia, che però chiuse i battenti nel corso della guerra per via delle dure condizioni di vita imposte dal conflitto bellico. Si diplomò come privatista nel 1919 e già allora simpatizzava per la Rivoluzione Russa e per la causa del comunismo. Quell’anno cominciò a pubblicare su riviste e nel ’21 pubblicò la sua prima raccolta di poesia, La città in lacrime. Nello stesso anno si iscrisse al Partito comunista e cominciò a lavorare per la stampa di partito (scriveva sul quotidiano «Rude pravo», collaborava con la casa editrice di partito e fece parte della redazione di alcune riviste letterarie). Conobbe in questi anni František Halas, il quale si era da qualche anno trasferito da Brno. Anche quest’ultimo simpatizzava con la causa del comunismo, frequentava gli stessi ambienti di Seifert e pubblicò sulle riviste in cui quest’ultimo lavorava. Tra i due poeti nacque un’amicizia fraterna. Seifert fu tra i fondatori del gruppo di poeti e artisti del movimento Devětsil, fondato a Praga nel 1920 e attorno a cui si erano raccolti critici e poeti di primo piano (in seno a questo gruppo nacque nel 1924 il poetismo, un movimento artistico e poetico di fondamentale importanza nel ‘900 ceco e non solo, che propugnò e attuò un impetuoso rinnovamento nella scena letteraria sotto il segno delle avanguardie letterarie europee). Figura di primo piano di questo raggruppamento fu il critico Karel Teige, col quale nel 1924 Seifert fece un memorabile viaggio in Italia proprio nel momento in cui il fascismo stava prendendo il potere. Nel 1925 fu in Unione Sovietica e l’anno successivo pubblicò la raccolta L’usignolo canta male, nella quale si avverte il passaggio da una prima fase influenzata dalla poesia proletaria a una fase più matura sotto il segno delle avanguardie europee (surrealismo, dadaismo). Notevole e profetica per quanto riguarda i futuri destini dell’Europa è la poesia dal tono espressionista Il vecchio campo di battaglia (“Il sole gira l’ombra alle cose,/ la terra è incinta di morti./ Già si spacca, andiamo e balliamo/ in tondo!// È notte, è mattino e fra le nebbie fa giorno,/ avvolti in brandelli tutti dormono./ È il mantello di Arlecchino, la terra,/ una scacchiera sfondata,/ è l’Europa”). Nel 1929 Seifert firma un manifesto contro l’affermazione della linea stalinista all’interno del Partito Comunista cecoslovacco e per questo ne venne espulso. Proprio in quell’anno pubblicò la raccolta di poesia Il piccione viaggiatore nella quale compare la citata poesia dedicata alla sua città natale. L’allontanamento dal partito fu una svolta importante nella sua biografia intellettuale e artistica. A partire da questo momento guardò l’Unione Sovietica e la causa del comunismo mondiale in modo sempre più scettico e critico. Anche dal punto di vista formale le sue poesie cambiarono: si passò da forme metriche irregolari o assenti a metri più regolari e tradizionali mentre dal punto di vista stilistico il poeta gradualmente passò a un tono più intimista e lirico. Il soggetto della sua poesia a cui rimase fedele per tutta la sua vita, fu proprio Praga, città nella quale i suoi ricordi d’infanzia si intrecciano con i riferimenti al mito di una città nella quale l’arte e la storia avevano lasciato tracce indelebili. Con lo smembramento della Cecoslovacchia del ’39 e l’occupazione di Praga da parte delle truppe naziste prevalsero nella sua poesia gli accenti di indignazione civile. Nel 1948 si espresse chiaramente contro la “sovietizzazione” del suo paese (per questo fino al 1956 fu costretto al silenzio). Nel 1968, a seguito della sua posizione fortemente critica nei confronti dell’invasione sovietica del suo paese, fu di nuovo ridotto al silenzio (anche se le sue poesie circolavano sotto forma di samizdat). Il premio Nobel assegnato nel 1984 (due anni prima della sua morte) non giovò molto alla sua fama a livello mondiale. Forse proprio perché per tutta la sua vita rimase così fedele alla sua amata città.
Mario Vargas LLosa -Avventure della ragazza cattiva-
-Traduttore Glauco Felici-Einaudi Editore-
Mario Vergas LLosa Una vita trasformata in un inferno. Ma un inferno in cui c’è tutto: passione, gioia, amicizia, follia, disperazione, sesso, delirio.Nel 1950 il giovane Ricardo scopre di essere innamorato di una ragazza cattiva, una niña mala che lo fa impazzire con il suo charme ma gli dice sempre di no. Quando le loro strade si separano, Ricardo si trasferisce a Parigi. Ma anche qui la niña mala riappare, in una nuova versione: una militante del Mir in partenza per Cuba, dove verrà addestrata alla guerriglia. Da allora, nella vita di Ricardo, si alternano il lavoro di interprete e i tormenti che la ragazza cattiva gli infligge, in un crescendo che porterà il protagonista ad affrontare il suo vero sogno: scrivere. Un ritratto palpitante del mondo europeo e latinoamericano, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, un’ispirata rievocazione condotta senza nostalgie ma con lucida intensità, sostenuta da una scrittura che si fa sempre piú limpida e rarefatta. Con protagonisti ed eventi reali e altri di fantasia, che insieme congiurano a creare l’affresco illuminante di un’intera stagione.
Dettagli
Autore:Mario Vargas LLosa
Traduttore:Glauco Felici
Editore:Einaudi
Collana:Super ET
Anno edizione e in commercio dal:27 gennaio 2014
Pagine:362 p.
EAN:9788806219390
Opere
Dopo una prima raccolta di racconti, Los jefes (1959), acquistò fama con il già citato La ciudad y los perros, raffigurazione crudamente realistica (in parte autobiografica) della vita nel collegio militare di Lima. Seguirono: La casa verde, romanzo di grande complessità strutturale ambientato in un postribolo della provincia peruviana; Los cachorros (1967; trad. it. 1978); Conversación en la catedral (1969; trad. it. 1971). Registri narrativi più ariosi e meno crudi e una sottesa interrogazione sulla scrittura e i rapporti tra realtà e finzione caratterizzano i successivi romanzi, in cui l’erotismo è spesso uno dei motivi dominanti: oltre a Pantaleón y las visitadoras, La tía Julia y el escribidor e El paraíso en la otra esquina, La guerra del fin del mundo (1981; trad. it. 1983); Historia de Mayta (1984; trad. it. 1985); ¿Quién mató a Palomino Molero? (1986; trad. it. 1987); El hablador (1987; trad. it. 1989); Elogio de la madrasta (1988; trad. it. 1990); Lituma en los Andes (1993; trad. it. 1995); Los cuadernos de don Rigoberto (1997; trad. it. 1997); La fiesta del Chivo (2000; trad. it. 2001); Travesuras de la niña mala (2006; trad. it. 2006), El sueño del celta (2010, trad. it. 2011). Ha scritto, inoltre, Diálogo de damas (2007), raccolta di componimenti poetici ispirati alle sculture di Manolo Valdés nell’aeroporto Barajas di Madrid. Notevole è anche la sua produzione di testi teatrali (La chunga, 1986, trad. it. 1987; El loco de los balcones, 1993; Ojos bonitos, cuadros feos,1996; Odiseo y Penélope, 2007; Al pie del Támesis, 2008) e di saggi (García Márquez: historia de un deicidio, 1971; La orgía perpetua: Flaubert y “Madama Bovary”, 1975, trad. it. 1986; Contra viento y marea, 1983; La utopía arcaica. José María Arguedas y las ficciones del indigenismo, 1996; Cartas a un joven novelista, 1997; El lenguaje de la pasión, 2001; Diario de Irak, 2003; La tentación de lo imposible, 2004; El viaje a la ficción, 2008). Nel 2009 è stata tradotta in italiano la raccolta di articoli Israel/Palestina. Paz o guerra santa (2006), in cui lo scrittore ripercorre non senza dubbi e contraddizioni le fasi cruciali della crisi mediorientale. Nel 2012 è uscito il suo primo testo dopo l’assegnazione del Nobel, il saggio La civilización del espectáculo (trad. it. 2013), in cui lo scrittore affronta il tema della difficoltà di elaborare modelli artistici e letterari creativi in un presente dominato dalla superficialità delle tecnologie di massa; del 2012 è anche la pubblicazione della monumentale opera in tre volumi Piedra de toque, che raccoglie gli articoli apparsi dal 1962 al 2012 su riviste e quotidiani latinoamericani. Tra le opere successive occorre citare i romanzi El héroe discreto (2013; trad. it. 2013) e Cinco esquinas (trad. it. Crocevia, 2016), thriller erotico-politico ambientato nel Perù degli anni di Fujimori. Nel febbraio 2017 è stato pubblicato in Italia a cura di B. Arpaia il volume Romanzi, primo della raccolta integrale della sua opera narrativa, cui hanno fatto seguito il saggio La llamada de la tribu (2018; trad. it. 2019) e il romanzo Tiempos recios (2019; trad. it. 2020), ambientato nel tormentato Guatemala degli anni Cinquanta. Della sua produzione più recente si citano anche: Encuentros con Mario Vargas Llosa (con J. Cruz Ruiz, 2017; trad. it. Davanti allo specchio. Conversazioni con Juan Cruz Ruiz, 2023); Medio siglo con Borges (2020; trad. it. 2022); La mirada quieta (de Pérez Galdós) (2022); Un bárbaro en París. Textos sobre la cultura francesa (2023); Le dedico mi silenzio (2023; trad. it. 2024). Nel 2025 è stato tradotto in Italia il saggio La orgía perpetua. Flaubert y Madame Bovary (1975), dedicato all’opera dello scrittore francese e, più in generale, alla passione per la narrativa.
Mario Vargas LiosaMario Vargas LiosaMario Vargas LiosaMario Vargas Liosa
Bettina Hoffmann-La viola da gamba-Editore Ut Orpheus-
Descrizione del libro di Bettina Hoffmann -La viola da gamba-Un’indagine ampia – su forme, taglie, terminologia, iconografia, repertorio, fonti teoriche e pratiche, implicazioni estetiche e musicali – che delinea il ritratto a tutto tondo di uno dei principali strumenti del Rinascimento e del Barocco.Unico per ricchezza e dettagli documentari, esposti con lievità divulgativa, questo volume si pone come il manuale di riferimento per chi studia, suona, ascolta e ama la viola da gamba.
Bettina Hoffmann è docente di viola da gamba
Bettina Hoffmann è tedesca e vive a Firenze dove svolge una vivace attività come violista da gamba, violoncellista e musicologa. Diplomata in violoncello con Daniel Grosgurin alla Musikhochschule di Mannheim, si è perfezionata in viola da gamba sotto la guida di Wieland Kuijken. Si è laureata al Dipartimento Arte Musica Spettacolo dell’Università di Firenze.
Come solista e con il suo ensemble Modo Antiquo ha dato concerti nei maggiori festival e teatri europei e americani (Theater an der Wien, Concertgebouw Amsterdam, Festival d‘Ambronay, Opera Rara Cracovia, International Music Week Izmir, Holland Festival Oude Muziek Utrecht, Tage Alter Musik Herne, Maggio Musicale Fiorentino, Amici della Musica di Firenze, Società del Quartetto di Milano, Festival van Vlaanderen, Ambraser Schloßkonzerte Innsbruck, Europäische Festwochen Passau, Regensburger Tage Alter Musik, Teatro Municipal Santiago de Chile, Festival di Beaune, Festival Cervantino Messico etc.).
Bettina Hoffmann è docente di viola da gamba
Tra la vasta produzione discografica (più di settanta CD per Deutsche Grammophon, Naïve, CPO, Amadeus, Opus 111, Dynamic, Brilliant Classic, Tactus e altri) sono da ricordare in particolare la silloge «Idées grotesques» dedicata a Marin Marais, pubblicato nel 2010 da Amadeus, l’incisione delle opere di Ortiz e Ganassi, il CD di suites per viola da gamba e basso continuo dagli Scherzi Musicali op. VI di Johann Schenck, e l’incisione completa delle opere per violoncello di Domenico Gabrielli. Ha diretto l’incisione integrale dei madrigali e delle arie di Girolamo Frescobaldi per la Frescobaldi edition di Brilliant classic. Nel 1997 e nel 2000, con due CD di Modo Antiquo, ha avuto la nomination ai Grammy Awards.
È autrice del volume «La viola da gamba» (L’Epos, Palermo, 2010; Ortus Verlag, Berlin, 2014; Routledge, 2018) e del «Catalogo della musica solistica e cameristica per viola da gamba», uscito nel 2001 presso LIM. Ha scoperto ed edito l’unico trattato tedesco per viola da gamba conosciuto, la «Instruction oder eine anweisung auff der Violadigamba». Per il Bärenreiter-Verlag, l’Istituto Italiano Antonio Vivaldi e l’editore S.P.E.S. ha curato edizioni critiche e in facsimile delle opere per violoncello e per viola da gamba di Antonio Vivaldi e di Domenico Gabrielli. Ha edito e tradotto inoltre il trattato «Regulae Concentuum Partiturae» di Georg Muffat e ha pubblicato contributi in Recercare, RIdM, Studi Vivaldiani e altre riviste specializzate. Attualmente sta preprando un volume sugli strumenti ad arco bassi nella musica di Antonio Vivaldi che uscirà presso Olschki.
Bettina Hoffmann è docente di viola da gamba e musica d’insieme antica al Conservatorio «Giovanni Battista Martini» di Bologna e alla Scuola di Musica di Fiesole. Dall’esperienza didattica nasce il suo metodo «L’arte di suonare la viola da gamba», pubblicato nel 2010 da Carisch. Nel 2011 ha ideato la biennale «Giornata Italiana della Viola da Gamba», insignita con una medaglia dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Bettina Hoffmann-La viola da gamba-Editore: Ut Orpheus
I.1 Cos’è la viola da gamba?
La domanda è legittima e, all’apparenza, tanto banale da poter essere liquidata con una rapida risposta: la viola da gamba è un cordofono ad arco, munito di sei corde accordate negli intervalli quarta-quarta-terza-quarta-quarta; il manico è provvisto di tasti. Il suo aspetto esteriore si distingue da quello della famiglia del violino per le spalle spioventi, i fori armonici a forma di C, gli spigoli degli incavi laterali meno acuti, il fondo piatto che termina in alto con una piega a tettuccio; tavola e fondo combaciano con le fasce senza sporgenze. Lo strumento viene suonato in posizione verticale, tenuto sulle gambe. L’arco è impugnato con il palmo della mano rivolto verso l’alto. Ecco soddisfatto chi ama le definizioni concise e nette, le certezze indubitabili.
Raramente però i prodotti dell’ingegno umano si lasciano inquadrare da definizioni semplici e la viola da gamba sembra volersene sottrarre con zelo particolare. E così, non senza rammarico, dobbiamo ammettere che poche delle suelencate affermazioni siano sempre, dovunque e comunque vere. Innanzitutto, osserviamo meglio la forma della cassa. Nel periodo barocco, è vero, si stabilizza un aspetto esteriore tipico e inconfondibile, ma prima d’arrivarci, quante forme diverse, quante bizzarrie, quante sperimentazioni! La pittura rinascimentale ci offre sì immagini con viole dalle spalle spioventi, ma anche ad angolo retto come il violino, o perfino rientranti. Ci sono viole con fasce senza rientri laterali pronunciati ma stondati, a forma di chitarra; talvolta hanno un solo spigolo in basso e sono stondati in alto, oppure viceversa; altre viole seguono linee del tutto fantasiose, oppure, anzi, presentano proprio gli spigoli acuti tipici del violino (fig. 1). Non sempre il fondo è piatto, e non di rado tavola e fondo sporgono sopra le fasce. I fori armonici possono essere a C, rivolti verso l’interno o l’esterno, talvolta con un taglietto a metà che li fa assomigliare ai baffi, ma anche a F o in altre fogge fantasiose, a goccia, fiamma o a forma di delfino; molte viole hanno inoltre una rosa vicino alla tastiera. Le nostre categorie vanno definitivamente in crisi quando vediamo viole che strutturalmente hanno tutte le caratteristiche del violino, e le riscontriamo non solo in quadri del fluttuante periodo rinascimentale (fig. 1) e non solo in opere di pittori avulsi da ogni interesse organologico, ma perfino nell’autorevole metodo di Christopher Simpson del 1659 in un’immagine che analizzeremo nel prossimo capitolo (fig. 5). Dove sta allora il limite tra le due
10 La viola da gamba famiglie? Quali sono i segni particolari che identificano la viola da gamba? La
domanda ci accompagnerà per tutta questa trattazione; per ora resti aperta.
Fig. 1. Aurelio Luini e Carlo Urbino, Assunzione della Vergine, 1576, particolare, Verbania-Pallanza, Chiesa della Madonna di Campagna. Viola da gamba con sei corde, tasti e impugnatura supina dell’arco, ma cassa da violoncello.
Né c’è unanimità neanche sul numero delle corde: abbiamo periodi e paesi in cui erano normali viole a 5 o a 7 corde; seppur rarissimamente leggiamo perfino di quelle a 8 o 9 corde, mentre, viceversa, nella Francia del tardo Settecento un pardessus a 4 corde venne accettato nella famiglia delle viole da gamba. Anche l’accordatura è lungi dall’essere standardizzata. La successione quarta-quarta-terza-quarta-quarta è senza dubbio la norma. Ma non mancano le soluzioni diverse, a sole quarte, a quarte e quinte, o con la terza spostata rispetto al centro. Senza parlare delle innumerevoli scordature in uso in particolare nell’Inghilterra del Seicento.
Sulla posizione esecutiva invece abbiamo almeno una certezza: la viola da gamba viene suonata, lapalissianamente, nella posizione a gamba. Ma la
Per fare conoscenza 11
vediamo appoggiata in terra, su uno sgabello (talvolta col suonatore in piedi), tenuta di traverso sulle gambe, perfino legata a tracolla con una corda che passa dietro le spalle del suonatore. Sono, certo, eccezioni, talvolta dettate più da motivazioni pittoriche che musicali, ma fanno pur parte del percorso della viola. L’arco può essere tenuto da sotto, quindi con la mano supina, ma anche con la mano che impugna il tallone da dietro; rarissimi invece gli esempi dell’impugnatura dall’alto tipica del violino. Però attenzione: né la posizione dello strumento né l’impugnatura dell’arco sono caratteristiche esclusive della viola da gamba ed entrambe vengono talvolta condivise dagli strumenti bassi della famiglia degli strumenti da braccio.
Un elemento piccolo, effimero, spesso trascurato dai pittori, eppure è determinante però imprescindibile in tutte le viole: la presenza dei tasti, o legacci, sul manico. Questa presenza accomuna le viole con gli strumenti a pizzico: in entrambi i tasti servono a facilitare l’esecuzione di accordi e bicordi. Sulle viole i tasti sono ordinariamente limitati a sette, per coprire sette semitoni ovvero una quinta. Su uno strumento ad arco l’esecuzione di accordi ancora più acuti sembrava giustamente un nonsense idiomatico. Eppure ci fu chi volle sfidare anche questo limite: Christopher Simpson, ad esempio, aggiunse un ottavo tasto alla distanza d’ottava per facilitare le sue virtuosistiche improvvisazioni.
Riassumendo, restano poche caratteristiche da cui le viole da gamba di tutti i tempi non derogano mai: oltre alla banale presenza delle corde e dell’arco, la posizione a gamba e i tasti. Per definire uno strumento è poco. Eppure, la viola da gamba non fu per i suoi contemporanei, così sfuggente e imprendibile come appare dal nostro elenco di variabili, anzi fu per musicisti e pubblico una presenza forte e ben definita. Non perdiamoci dunque nella ricerca di una definizione universalmente valida e prendiamo atto che il nostro fu uno strumento in vivace evoluzione, capace di adattarsi con prontezza alle innovazioni musicali di tre secoli. Un elemento è però da aggiungere al quadro, sebbene trascenda il campo del tangibile e strutturale, ossia la sua posizione sociale: la viola da gamba fu, durante tutta la sua esistenza storica, lo strumento nobile per eccellenza. «Noi chiamiamo viole da gamba quelle con cui i gentiluomini, i mercanti e altre persone virtuose passano il loro tempo»:1 questa è per Philibert Jambe de Fer nel 1556 una definizione del tutto sufficiente, cui nient’altro aggiungere. Per Benedetto Varchi è la per- fetta metafora del genere eroico, opposto alla leggerezza del genere lirico: «Io per me vorrei d’essere anzi buono eroico che ottimo lirico. E chi non eleggerebbe di toccare più tosto mezzanamente un violone che perfettamente
1 Jambe de Fer 1556, p. 62: «Nous appellons violes celles desquelles le gentilz hommes, marchant, & autres gens de vertuz passent leur temps».
12 La viola da gamba
scarabillare ?»2 E ancora nel 1789 il musicologo Charles Burney osserva che «nel secolo passato in tutta Europa [la viola da gamba] era un orpello indispensabile nella famiglia di un nobile o di un uomo di rango».3 All’estremo opposto si colloca, nella coscienza collettiva dell’epoca, il «violino, poco dianzi cavato dal concerto ignorante di quei triviali sonatori che per le più vili bettole vanno suonando».4
I.2 Come si chiama la viola da gamba?
Il Novecento, secolo normativo, nel promuovere la rinascita della viola da gamba ha voluto dare, allo strumento, nomi pacificamente biunivoci: oggi usiamo senza timore di fraintendimento «viola da gamba» in italiano, «viola» in inglese, «viole» in francese, «Gambe» in tedesco e via viaggiando di paese in paese. Risalendo invece a ritroso il corso dei secoli le acque si confondono vieppiù e chi ama le certezze e le definizioni di matematica esattezza dovrà constatare che il nostro strumento non possedeva neanche un nome suo proprio. Ancora una volta il periodo di maggiore oscillazione è il Rinascimento, il periodo giovanile e irrequieto della viola da gamba, che le darà nomi sempre diversi e spesso condivisi con altri strumenti. Per districarci tra termini e significati vediamo rapidamente come si coniuga «viola da gamba» nei vari tempi e nelle varie lingue.
In italiano5
Viola da gamba. Il termine appare per la prima volta già nel 1511 nell’inventario di Ippolito d’Este.6 Ma è tutt’altro che un battesimo ufficiale: dopo quella prima apparizione, lo s’incontrerà poi raramente negli anni successivi. Jambe de Fer nel 1556 non ha però dubbi sul fatto che «Gli italiani le chiamano viole da gambe».7 Solo negli ultimi decenni del secolo l’espressione viene impiegata con maggiore frequenza e in sistematica contrapposizione alla viola da braccio da trattatisti e cronisti come Vincenzo Galilei nel Dialogo della
2 Varchi, L’Ercolano, Firenze, Giunti, 1570, p. 846.
3 Burney 1789, vol. IV, p. 679: «during the last century was a necessary appendage to a
nobleman or a gentlemans family throughout Europe».
4 T. Boccalini, Ragguagli di Parnaso, Venezia, Farri, 1612-15. Citato da Lorenzetti 2003, pp. 174-176.
5 Cfr. per maggiori dettagli ed esempi Hoffmann 2007, pp. 10-29.
6 Modena, Archivio di Stato, Registro d’amministrazione del Cardinal Ippolito d’Este, 1511, c. 245r. Citato da Prizer 1982, p. 110.
7 Jambe de Fer 1556, p. 62: «Les Italiens les appel viole da gambe».
Per fare conoscenza 13
musica antica et della moderna, Girolamo Dalla Casa e Lodovico Zacconi.8 Francesco Rognoni attesta l’espressione «violino da gamba» per il soprano della famiglia.9 Anche nel periodo di decadenza in Italia, cioè dopo la metà del Seicento, il termine rimane in auge per le rare volte in cui lo strumento viene ancora nominato. L’espressione è di agevole univocità, turbata però da qualche raro caso in cui viene applicata agli strumenti bassi della famiglia del violino. Nella collezione medicea a palazzo Pitti, nella metà del Seicento si registra ad esempio uno strumento a quattro corde, quindi della famiglia da braccio, col nome «Basso di Viola Grande da Gamba».10 Dobbiamo aver comprensione per chi associa la posizione esecutiva dello strumento con il suo nome e si domanda perché mai chiamare ‘d’abbraccio’ uno strumento che ha visto suonare sopra o tra le gambe.
Viola: È un termine quanto mai vago e multiforme che serve non solo a tutti gli strumenti ad arco – vielle, lire da braccio, viole da braccio, viole da gamba, nonché la ghironda – ma perfino a quelli a pizzico.11 Inoltre viene usato come nome di genere, per indicare l’insieme degli strumenti ad arco: «quattro sonatori di viola (a braccio ò gamba poco rivela)» chiede ad esempio Marco da Gagliano per l’esecuzione di un’aria della sua Dafne del 1608;12 per Lorenzo Allegri nel 1618 gli strumenti si dividono nelle categorie strumenti armonici, strumenti a fiato e «viole», con cui comprende gli strumenti ad arco.13 Coll’avanzar del Seicento il termine si specializza diventando comune per tutti gli strumenti della famiglia da braccio; anche il violoncello può essere allora chiamato ‘viola’. Boni, nel suo Gabinetto Armonico, ce ne fornisce una prova illustrata (fig. 2). Quest’uso era invalso in particolare a Venezia e vi si conservava tenacemente: ancora intorno alla metà del Settecento i liutai veneziani Selle chiamano ‘viola’ il violoncello.14
Viola d’arco o viola ad arco. L’ambivalenza del termine ‘viola’ imponeva una specifica per distinguere la viola suonata coll’arco da quella a pizzico, detta anche ‘viola di mano’. Certamente però una ‘viola d’arco’ poteva essere tanto uno strumento a braccio quanto a gamba. Se Tintori contrappone la «viola sine arco» (usata in Spagna e Italia)
8 9 10 11 12 13
Galilei 1581, p. 147; Dalla Casa 1584, secondo libro, passim; Zacconi 1592, p. 217 e passim. F. Rognoni 1620, parte seconda, p. [2].
Trascritto da Hammond 1975, pp. 210 e 213. Cfr. Lorenzetti 1996, con alcune mie integrazioni in Hoffmann 2004, p. 45, nota 50. M. da Gagliano, prefazione a La Dafne, Firenze, Marescotti, 1608. L. Allegri, Il primo libro delle musiche, Venezia, Gardano, Magni, 1618: «Hò voluto
situare le Sinfonie spartite per commodità dell’Instrumenti perfetti come Liuto, Organo, e in particulare dell’Arpa doppia. Si possono sonare co’l primo Soprano, e con dua Soprani, e’l Basso continuato, immanchanza dell’altre parti; oltre con Viole, e Instrumenti di fiato».
14 Comunicazione personale di M. White.
14 La viola da gamba
Fig. 2. Filippo Bonanni, Gabinetto Armonico, Roma, 1722, tavola LVI Viola. Lo strumento raffigurato è indubbiamente un violoncello.
arculo» (usata in tutto il mondo per accompagnare la recitazione),15 non si riferisce certo alla viola da gamba che intorno al 1487 era lungi dall’essere diffusa in tutto il mondo. Anche Lanfranco conosce le «violette da arco», da suonare a braccio.16 Ganassi deve specificare nel titolo del suo trattato Regola Rubertina che vuole parlare della «viola darcho Tastada», evidentemente per evitare l’equivoco con la viola senza tasti, vale a dire uno strumento da brac-
15 Tinctoris s. d., p. 45.
16 Lanfranco 1533, p. 137.
Per fare conoscenza 15
cio. Altrove il termine ‘viola d’arco’ si riferisce invece pacificamente alla viola da gamba, ad esempio nei trattati di Nicola Vicentino17 e di Scipione Cerreto che scrive «la Viola da gamba, da altri detta Viola d’Arco».18 Per l’ultima volta, a mia conoscenza, il termine viene usato in opposizione al violino nel 1615 da Trabaci: «Canzon Francesa à Quattro per concerto de Violini, ò Viole ad Arco».19 In un’anonima poesia fiorentina del primo Seicento, ‘viola d’arco’ significa ormai solo la viola da braccio.20
VIolone: Punto di riferimento e di partenza della famiglia delle viole da gamba è lo strumento basso; ce lo insegna il suo nome ‘violone’, in uso per tutto il Rinascimento, significativamente anche per le taglie piccole della famiglia. Già allora però era tutt’altro che univoco. Sia Lanfranco che Ganassi sentirono infatti il bisogno di descrivere lo strumento come «violone d’arco da tasti», per distinguerlo sia dagli strumenti a pizzico, sia dagli strumenti ad arco senza tasti, cioè da braccio.21 È bene ricordare, infatti, che anche il violino, fin dalle prime sue apparizioni, aveva formato una famiglia completa di una taglia bassa che con uguale diritto si chiamava ‘violone’.22 Ma il termine sembrava per certo sufficientemente univoco a Ortiz, Zarlino e a molti altri che lo usavano senz’altre specifiche per la sola viola da gamba.23 La trasparenza etimologica di quest’aumentativo comporta però facili slittamenti semantici, tanto che all’inizio del Seicento il termine ‘violone’ intende comunemente lo strumento basso della famiglia del violino, ossia il proto-violoncello.24 Una prima certa prova ci viene da Giovanni Ghizzolo, che in un mottetto del 1624 chiede che il canto sia accompagnato «con due violini et chitarrone o violone da brazzo»;25 più tardi abbiamo una seconda attestazione nella Musurgia di Athanasius Kircher che descrive la «Chelys […] major dicitur vulgo Violone», strumento dalle inequivocabili fattezze e caratteristiche della famiglia da braccio e contrapposto a una viola da gamba a sei corde (fig. 3).26
17 Vicentino 1555, libro quinto, ultima pagina.
18 Cerreto 1601, p. 329.
19 M. Trabaci, Il Secondo libro de Ricercate […], Napoli, Giovanni Giacomo Carlino,
20 Firenze, I-Fn cod.II.I.92, cc. 122r-125v (vecchia numerazione).
21 Lanfranco 1533, parte IV, cap. Dei Violoni da tasti: & da Arco; Ganassi 1543.
22 Baroncini ha rintracciato quest’uso in particolare nelle confraternite veneziane. Baroncini
1994. 23 Ortiz 1553, Zarlino 1588, Prandi s. d. 24 S. Bonta, From Violone to Violoncello: A Question of Strings?, «Journal of the American
Musical Instrument Society», 3, 1977, pp. 64-99; e dello stesso autore, Terminology for the Bass Violin in Seventeenth-Century Italy, «Journal of the American Musical Instrument Society», 4, 1978, pp. 5-42.
25 G. Ghizzolo, Quem terra pontus in Seconda raccolta de’ sacri canti […] fatta da Don Lorenzo Calvi, musico nella cathedrale di Pavia, Venezia, A. Vincenti, 1624.
26 Kircher 1650, pp. 486-487.
16 La viola da gamba
Ovviamente, ‘violone’ sta inoltre per lo strumento contrabbasso ad arco, ed è bene tenere presente che la scelta tra i termini ‘violone’ e ‘contrabbasso’ non connota mai l’appartenenza dello strumento alla famiglia da gamba o da brac- cio, ben diversamente dall’uso invalso oggi. Riassumendo, il versatile termine ‘violone’ designava nel Rinascimento solitamente ma non esclusivamente la viola da gamba; dal Seicento in poi principalmente lo strumento a 8 piedi della famiglia del violino ma anche lo strumento a 16 piedi, indipendentemente dalla sua più o meno stretta parentela con la famiglia da braccio o quella da gamba.
Fig. 3. Athanasius Kircher, Musurgia Universalis, Roma, 1650, da p. 487.
Per fare conoscenza 17
Basso dI vIola. L’espressione affiora verso la fine del Cinquecento e diventa comune nel Seicento. La sua funzione è quella di distinguere lo strumento grande dagli altri membri della famiglia, mai quella di distinguere la viola da gamba dal violoncello. Non bisogna infatti farsi ingannare da un insidioso ‘falso amico’ linguistico: nella Francia barocca basse de viole indica inequivocabilmente lo strumento basso della famiglia delle viole da gamba, e l’espressione ha una netta funzione distintiva rispetto al basse de violon. In italiano non esiste una coppia paragonabile, non c’è traccia di un ‘basso di violino’. Al ‘basso di viola’ manca la sua controparte, cosicché l’espressione può essere usata tranquillamente per il basso tanto della famiglia da braccio che da gamba. Ne troviamo abbondanti prove negli inventari medicei, in cui il termine viene usato indifferentemente per strumenti a 4 come a 6 corde;27 e l’interpretazione è tanto più pacifica se ricordiamo che a Firenze il neologi- smo ‘violoncello’ fa la sua prima apparizione solo nel 1700.
LIra e lIrone. Sono i nomi di due strumenti organologicamente ben definiti, la lira da braccio e la lira da gamba, ma il trascorso mitologico del termine è troppo ingombrante per limitarne il campo semantico. L’italiano aulico se ne adorna volentieri e in contesti in cui si mira non alla precisione organologica ma all’eleganza ed efficacia poetica, anche ‘lira’ può essere un nome per la viola da gamba. Nella poetica descrizione del ritratto di Leonora Baroni leggiamo che ella «s’attiene con la sinistra ad vna Lira, e con la destra sostenta l’arco di essa».28 Fortuna vuole che conosciamo il ritratto (fig. 66) il quale ci rivela che questa metaforica «Lira» altro non è che la nostra viola da gamba. Ma anche i ben più prosaici documenti delle cinquecentesche scuole grandi di Venezia mescolano disinvoltamente termini come ‘violino’, ‘lira’, ‘violone’ e ‘lirone’ senza apparenti distinzioni organologiche.29
VIola bastarda. Nell’Italia degli anni 1580-1630 circa il termine designa sia la pratica virtuosistica di fiorire sulla viola da gamba un madrigale senza attenersi a una singola voce, ma spaziando liberamente fra le parti; sia lo strumento stesso che può essere di taglia più piccola delle viole da gamba usuali. Ma le suggestioni dell’epiteto ‘bastardo’ sono tante, e se a Roma nel 1661 suonò il «S[igno]r Bucalino con la viola bastarda»,30 si trattava con ogni probabilità di un qualche altro strumento difforme dalla norma.
27 passim Fabbri 1983; Hammond 1975; Ferrari 1990.
28 Ronconi, prefazione a AA.VV., Applausi poetici alle glorie della Signora Leonora Baroni
[…], Bracciano, a cura di F. Ronconi, 1639, pp. 11-12.
29 Baroncini 1994, pp. 78-91. Pur accogliendo in toto le sue argomentazioni sull’intercam- biabilità dei termini in quest’ambito, mi preme però ricordare che «violino» e «violone» certamente si riferivano a taglie diverse, padroneggiate dallo stesso gruppo di suonatori.
30 Citato da H. Wesseley-Kropik, Lelio Colista. Un maestro romano prima di Corelli. Con il catalogo tematico delle Sonate a tre a cura di Antonella D’Ovidio, Roma, IBIMUS, 2002, p. 47.
18 La viola da gamba
VIola all’Inglese. Anche questo è uno dei molti nomi della viola da gamba, almeno nella Venezia di Antonio Vivaldi. Se però sia un sinonimo perfetto, o se la viola all’inglese avesse qualche particolarità che la distingueva dall’ordinaria viola da gamba, è questione tutta da indagare; la sviscereremo nel capitolo dedicato all’Italia in età barocca.
Infine una parola sul principale antagonista della viola da gamba, il violon- cello, a cui spesso dovremo fare riferimento. Come la famiglia delle viole da gamba, anche quella delle viole da braccio conosceva durante tutto il Cin- quecento solo nomi generici, validi indistintamente per tutti i suoi membri, e la prassi sopravvive per buona parte del Seicento. Non esistevano termini specializzati per distinguere le taglie tenore e basso dal soprano, niente di paragonabile al termine tardo secentesco ‘violoncello’. Se quindi leggiamo in documenti di quell’epoca di gruppi di «violini» o «viole da braccio» sono sottintese tutte le taglie della famiglia, in italiano come nelle altre lingue. Ancora nella seconda metà del Seicento l’orchestra di Re Sole è chiamata Vingt-quatre Violons du Roy («ventiquattro violini del Re») senza pericolo di fraintendimento e senza suggerire lontanamente che fosse composta di soli strumenti soprani. Lo sviluppo di una terminologia distinta per ogni taglia avviene durante il Seicento; come abbiamo visto, lo strumento basso della famiglia può allora chiamarsi, nei vari luoghi e tempi, ‘viola’, ‘violone’, ‘basso di viola’, nomi che deve condividere con la viola da gamba. Solo nel 1641 leggiamo per la prima volta di un «violoncino»; nel 1665 appare finalmente il «violoncello». Prima però che il termine s’imponga universalmente passerà quasi un secolo; solo nel 1760 anche i liutai veneziani abbandonano la tra- dizionale espressione ‘viola’ per chiamare lo strumento più modernamente ‘violoncello’.
In spagnolo
La vihuela è per noi oggi lo strumento a pizzico d’origine spagnola, a forma di chitarra e accordato come un liuto. Teniamo però presente che nello spagnolo antico significava semplicemente ‘viola’. E come tale segue tutta l’ambiva- lenza del corrispettivo italiano: come ‘viola’ può essere circostanziato con più precisi attributi (vihuela de arco, vihuela grande) e può essere impiegato per le due famiglie di strumenti d’arco.
In francese
Il termine medievale viole già nel 1556 aveva compiuto perfettamente il suo spostamento semantico e significava pacificamente ‘viola da gamba’: Jambe de Fer lo usa senza necessità di ulteriori specifiche e in inequivocabile con- trapposizione al violon, il violino. Per fugare ogni nostro eventuale dubbio, egli, come già sappiamo, fornisce perfino la traduzione coll’italiano «viole
Per fare conoscenza 19
da gambe». Da allora, la mappa dei termini si presenta con una chiarezza davvero eccezionale. Il basse de viole si riferisce nel Sei e Settecento alla viola da gamba bassa, in sicura contrapposizione al basse de violon; gli strumenti acuti sono il dessus de viole e il pardessus de viole.
In tedesco
Anche nella Germania rinascimentale il nuovo strumento deve dividere ini- zialmente il suo nome con tutti gli altri strumenti ad arco. Nelle istruzioni iconografiche dell’imperatore Massimiliano I, intorno al 1510, è chiamato «rybebe», ribeca;31 altrove è detto Geige, termine che verrà poi monopoliz- zato dal violino. La viola da gamba si caratterizza fin dall’inizio per la sua grandezza, guadagnandosi così la specifica Gross Geyge, ‘grande viola’. Con questo attributo Virdung, Agricola, Gerle e Judenkünig la distinguono dalle piccole ribeche e violini. Agricola vi aggiunge l’aggettivo «welsch», che può significare ‘romanzo’, in particolare ‘italiano’ o ‘francese’, o genericamente ‘straniero’.32 Alla fine del Cinquecento si introduce invece l’italianismo ‘viola da gamba’, storpiandolo secondo le imperscrutabili leggi della giungla orto- grafica dell’epoca: gustosa la «phyola de gamba» del 1582,33 mentre «Viol di gamba» diventa perfino la norma nella Germania barocca. Talvolta il termine viene germanizzato in Kniegeige, Beingeige o Beinviole, non senza velata polemica contro ‘l’imbarbarimento’ del tedesco.
Praetorius ci alletta con una chiarezza terminologica secondo cui l’ab- breviazione ‘viola’, fra i professionisti, denota esclusivamente la viola da gamba: «Queste due specie vengono distinti dai pifferi comunali chiamando le viole da gamba Violen, le viole da braccio invece Geigen oppure Geigen polacche».34 Ma la situazione è in realtà ben più complessa e il semplice ‘viola’ sta facilmente anche per gli strumenti da braccio, spesso come controparte della viola da gamba. Solo un’attenta contestualizzazione può allora decidere a quali delle due famiglie si riferisce la parola o se ha funzione generica; e talvolta anche quest’esame non basta. La sempre maggiore diffusione della famiglia del violino inverte anzi la regola di Praetorius: il semplice ‘Violen’ designa il più comune gruppo di vari strumenti da braccio, mentre la viola da
31 Nelle miniature del suo Triumphzug. Vedi H. Myers, The Musical Miniatures of the Triumphzug of Maximilian I, «The Galpin Society Journal», LX, aprile 2007, pp. 3-28: 10.
32 J. e W. Grimm, Deutsches Wörterbuch, Leipzig, Hirzel, 1854-1960, voce «welsch». Le altre ricorrenze del termine raccolte Woodfield 1984, p. 100, potrebbero riferirsi a una provenienza fisica dall’Italia, senza funzione come indicazione di genere.
33 Inventario della Hofkapelle Baden-Baden del 1582; citato da Woodfield 1984, p. 192.
34 Praetorius 1619, cap. XX, II: «Diese beyde Arten werden von den Kunstpfeiffern in Städten also unterschieden / daß sie die Violn de gamba mit dem Namen Violen: Die Violen de bracio aber / Geigen oder Polnische Geigeln nennen».
20 La viola da gamba
gamba richiede la specifica.35 La bizzarra ma univoca abbreviazione Gambe è invece raramente usata nel Seicento, e si impone solo verso la metà del Sette- cento quando la viola da gamba è ormai in via d’estinzione; così, però, viene traghettata fino ai tempi nostri.
Dall’italiano si adotta inoltre la Viol Bastarda o Bastardviol; passando attraverso le Alpi il termine conosce però un forte allargamento semantico e in particolare comprende nel tedesco secentesco anche quel che in Inghilterra si chiama lyra viol, termine del tutto assente in Germania.
In inglese
Che cosa fosse, per un inglese della prima metà del Cinquecento, una viol (con le sue innumerevoli varianti grafiche vyol, vyalle e via dicendo) è molto difficile dire. Non abbiamo fonti letterarie dirette che ci permettano di stabilire quando questo termine passò dagli strumenti medievali e i loro successori a braccio allo strumento a gamba. In un inventario del 1557 leg- giamo però di «vii vyalles & vyolans»;36 è probabilmente la prima volta che si accostano i termini ‘viola’ e ‘violino’, e vi potremmo leggere un’intenzione contrappositrice tra due famiglie di strumenti, o almeno tra due diverse taglie. In simili indicazioni della fine del secolo, ad esempio nelle danze di Holborne per «Viole, Violini o altri strumenti musicali da fiato»,37 il termine ‘Viol’ designa ormai univocamente la viola da gamba. Ciononostante viol nel Seicento può stare ancora genericamente per ogni tipo di strumenti ad arco.38 Solo negli ultimissimi anni del Cinquecento appare l’univoco termine ‘viola da gamba’,39 anglicizzato variamente in «vyoll di gamba», «vyoldegambo», «gambo violl» etc.; lo impiegano poi, ad esempio, William Shakespeare nel 160140 e il trattatista Thomas Robinson nel 1603.41 Al tempo stesso viol si era imposto con vasto consenso come nome comune dello strumento. La famiglia è formata da treble (o descant) viol, tenor viol e bass viol. Non sempre però il
35 Lo stesso Praetorius infatti non si atteneva alla sua definizione: già nel 1611 aveva opposto le «Violen de Gamba» alle «gemeinen Violen oder Geygen» (comuni viole o violini). M. Prae- torius, Megalynodia Sionia, Wolfenbüttel, s. n., 1611, Nota ad Lectorem Musicum.
36 Holman 1993, p. 124.
37 Anthony Holborne, Pavans, Galliards, Almains, and Other Short Æirs both Grave, and
Light, in Five Parts, for Viols, Violins, or Other Musicall Winde Instruments, Londra, Barley, 1599.
38 Holman 1993, pp. 73-74 e 124.
39 Così ad esempio nel 1598-99 nei libri contabili della contessa Eleanor of Rutland; v. Fleming 1999, p. 236.
40 Shakespeare, Twelfth night, or what you will, atto I, scena III. V. Cfr. cap. V-2.
41 Hume, nello stesso titolo della First Part of Ayres […], Londra, Windet, 1605, usa sia il
termine «Viole de Gambo» che «Base Viol».
Per fare conoscenza 21
termine bass viol è nettamente opposto al bass violin,42 e nei primi decenni del Settecento, compiuto il declino del viol consort a cui sopravvive il solo basso, bass viol finisce per ridursi a livello vernacolare e per designare dei bassi a quattro corde non meglio specificati, un uso che negli Stati Uniti si conser- verà fino all’Ottocento.43 Un’enciclopedia inglese del 1728 definisce bass viol come «strumento musicale di forma simile al violino ma più grande. Ha lo stesso numero di corde».44 Per lo strumento solista a sei corde si specializza nel Settecento invece l’italianismo ‘viola da gamba’.
In greco e latino
Maggiore ancora, se possibile, è la confusione lessicale di chi si esprime nelle lingue classiche, perché greci e romani antichi non conoscevano nessuno stru- mento ad arco. Fin dal X secolo, da quando cioè iniziò la diffusione dell’arco in Europa, i dotti si dovettero quindi ingegnare ad adattare termini latini e greci ai nuovi strumenti. Di solito questi neologismi servirono indistintamente sia per tutti gli strumenti ad arco, sia per quelli a pizzico. Si rimette in uso allora lyra («lyrae, & quae vulgò Violae vocantur» scrive Salinas nel 157745) e chelys, accanto ovviamente alla facile latinizzazione del volgare ‘viola’. Severo Bonini vi aggiunge cithara o cethera, forminx e testudo, dichiarando che questi nomi «tutti poi alfine significano il medesimo».46 Giuseppe Antonio Bernabei chiama la viola da gamba «Pentachordo (vulgò Viola da Gamba)»;47 «Chelys hexachordae» abbiamo letto sull’illustrazione di Kircher; Marin Mersenne usa il grecismo barbiton; la viola da gamba è allora la barbiton decumana, la viola maggiore.48
42 B. Neece, The Cello in Britain: A Technical and Social History, «Galpin Society Journal», 56, 2003, pp. 77-89; Sadie 1985, p. 15; L. Lindgren, Italian Violoncellists and some Violoncello Solos Published in Eighteenth-Century Britain, in Music in Eighteenth-Century Britain, a cura di D.W. Jones, Aldershot, 2000, pp. 121-157; Holman 2010, pp. 54-56.
43 Neece, The Cello, cit., pp. 87-88; Holman 2007, p. 22; Holman 2008, pp. 61-62; Holman 2010, pp. 54-56.
44 E. Chambers, Cyclopaedia: or, An Universal Dictionary of Arts and Sciences […], s. n., 1728, vol. I, voce «Bass-Viol»: «Bass-Viol, a Musical Instrument, of the same Form with that of the Violin, except that ’tis much larger».
45 Salinas 1577, liber III, p. 141.
46 Bonini s. d, pp. 27-28.
47 A. Bernabei, Orpheus ecclesiasticus. Symphonias varias commentus […], Augsburg,
Koppmayer, 1698. 48 Mersenne 1648, Liber Primus, Propositiones XXVII-XXX, pp. 44-49.
Indice
Per fare conoscenza ……………………………………………………………………………… 7 I.1 Cos’è la viola da gamba?………………………………………………………………………. 9 I.2 Come si chiama la viola da gamba? …………………………………………………….. 12
In italiano…………………………………………………………………………………………….. 12 In spagnolo ………………………………………………………………………………………….. 18 In francese……………………………………………………………………………………………. 18 In tedesco…………………………………………………………………………………………….. 19 In inglese……………………………………………………………………………………………… 20 In greco e latino …………………………………………………………………………………… 21
3 Come si compone la sua famiglia?………………………………………………………. 22
4 Come è accordata? …………………………………………………………………………….. 24
5 E come suona?…………………………………………………………………………………… 26
AnatomIa dI una vIola da gamba ……………………………………………………….. 35
1 La cassa ……………………………………………………………………………………………. 38
2 Il manico e la tastiera ………………………………………………………………………… 45
3 Il ponticello ……………………………………………………………………………………… 47
4 Decorazioni………………………………………………………………………………………49
5 L’arco……………………………………………………………………………………………….50
6 Le corde …………………………………………………………………………………………… 57
7 Tasti e temperamenti: questioni di compatibilità ………………………………… 64
III. GlI antenatI ………………………………………………………………………………………. 77
6 Contesto musicale e sociale ……………………………………………………………… 88
7 Le novità del tardo Quattrocento …………………………………………………….. 91
Iv. RInascImento ……………………………………………………………………………………… 99 Iv.1 Italia, intorno al 1500 ……………………………………………………………………… 101 Le fonti iconografiche ………………………………………………………………………… 101 Le fonti d’archivio ……………………………………………………………………………… 108 Un disegno tecnico …………………………………………………………………………….. 112 Risultati……………………………………………………………………………………………… 113
4 La viola da gamba
Iv.2 Un nuovo strumento si diffonde in Europa (circa 1510-1550) ………….. 114 Germania …………………………………………………………………………………………… 115 Italia ………………………………………………………………………………………………….. 122 Altri centri europei …………………………………………………………………………….. 127
Iv.3 Repertorio………………………………………………………………………………………133 «Per cantare et sonare d’ogni sorte di stromenti»…………………………………. 133 Che cosa? …………………………………………………………………………………………… 133 Con chi?…………………………………………………………………………………………….. 137 Come? ……………………………………………………………………………………………….. 142 Idiomatizzazione e solismo. La viola bastarda …………………………………….. 146
Iv.4 Accordature……………………………………………………………………………………151 Diapason e trasporti …………………………………………………………………………… 151 Le accordature delle viole da gamba nei trattati cinquecenteschi…………… 153 Risultati……………………………………………………………………………………………… 179 L’accordatura della viola bastarda ……………………………………………………….. 184
Iv.5 Tecnica……………………………………………………………………………………………188 Iv.6 Struttura…………………………………………………………………………………………198 Falsi testimoni? ………………………………………………………………………………….. 198 Dettagli ……………………………………………………………………………………………… 203 Verso la standardizzazione………………………………………………………………….. 211
Barocco e classIcIsmo ………………………………………………………………………. 215 v.1 Italia………………………………………………………………………………………………..217 Il primo Seicento, fino al 1640 circa …………………………………………………….. 217 Dopo il 1640: tracce ……………………………………………………………………………. 226 Strumenti …………………………………………………………………………………………… 226 Musica italiana in Italia……………………………………………………………………….. 234 Alcune pagine trattatistiche ………………………………………………………………… 241 Stranieri in Italia, italiani all’estero………………………………………………………. 243 Risultati……………………………………………………………………………………………… 247 v.2 L’Inghilterra…………………………………………………………………………………….249 L’età dell’oro………………………………………………………………………………………. 249 Gli strumenti ……………………………………………………………………………………… 258 Accordature e scordature ……………………………………………………………………. 263 Le corde di risonanza …………………………………………………………………………. 268 «The Trinitie of Musicke» …………………………………………………………………… 273 La musica per consort viol ……………………………………………………………….. 273 La musica per lyra viol ……………………………………………………………………. 276 La musica per division viol ……………………………………………………………… 279
Indice 5
La tecnica …………………………………………………………………………………………… 281
Nuova linfa nel Settecento …………………………………………………………………. 285 v.3 Francia…………………………………………………………………………………………….291 Da 5 a 6 corde…………………………………………………………………………………….. 291 Da 6 a 7 corde…………………………………………………………………………………….. 296 In famiglia………………………………………………………………………………………….. 299 La querelle …………………………………………………………………………………………. 302 L’apogeo……………………………………………………………………………………………..304 La tecnica …………………………………………………………………………………………… 312 Avec la basse? …………………………………………………………………………………….. 325 In compagnia ……………………………………………………………………………………… 326 La liuteria…………………………………………………………………………………………… 330 Dalla basse al pardessus de viole ………………………………………………………….. 333 v.4 L’Impero e i Paesi Bassi …………………………………………………………………… 338 Germania monstro simile ……………………………………………………………………. 338 Il primo Seicento: «Con viole da gamba, o, in mancanza, da braccio» …… 338 Strumenti, taglie e misure……………………………………………………………………. 343 La seconda metà del Seicento: l’idioma violistico …………………………………. 350 Il Settecento ……………………………………………………………………………………….. 363 Funzioni musicali e repertorio …………………………………………………………… 368 Strumenti e liuteria tra Sei e Settecento………………………………………………… 377 Gli ultimi decenni ………………………………………………………………………………. 382
vI. VIta nuova…………………………………………………………………………………………. 389 Italia, seconda metà del Settecento ……………………………………………………… 391 La prima metà dell’Ottocento …………………………………………………………….. 392 Gli ultimi decenni dell’Ottocento ……………………………………………………….. 396 Il Novecento………………………………………………………………………………………. 404 Oggi ………………………………………………………………………………………………….. 409
vII. GlossarIo ………………………………………………………………………………………… 411
Alessandro Moriconi – MATEMATICA E POESIA – Dalle addizioni all’identità di Eulero
Editore: Gruppo Albatros Il Filo
Descrizione del libro-Matematica e poesia sono due discipline apparentemente molto distanti ma che, a ben guardare, si nutrono delle stesse passioni: la sintesi a cui l’una è costretta e a cui sempre l’altra si appella, le regole alle quali la prima è per definizione sottoposta e a cui la seconda piace costringersi, ma anche le emozioni che generano in chi le frequenta da attore o da spettatore, e l’ambizione di rappresentare la realtà nella consapevolezza che non viene loro richiesto di essere vere. È l’idea di contaminazione tra due discipline dal volto così diverso che ha guidato Alessandro Moriconi nella composizione di questa raccolta di sonetti in romanesco che, celebrando il matrimonio tra matematica e poesia, rivisitano molti concetti della scienza dei numeri con l’efficacia del dialetto della Città Eterna. Un progetto audace quanto naturale, nato dal desiderio di un matematico-poeta di sottolineare quanto sia fantastica la razionalità della matematica e razionale la fantasia della poesia. Un libro da gustare con il cuore e con la mente.
Editore Gruppo Albatros Il Filo
Collana Nuove voci I saggi
Recensione
Alessandro Moriconi – MATEMATICA E POESIA
-Fonte –OnlineNew
Premessa. Odio la matematica, mi annoia la poesia. L’accostamento tra i due elementi? Curioso, un gioco intellettuale. Per carattere e mestiere non rifiuto a priori alcuna esperienza. E apro una parentesi personale. Stavo curiosando tra i libri della libreria che ho scelto di frequentare da anni, quando con la coda dell’occhio colgo l’avvicinarsi di una persona con un libro in mano. Ho la mente allenata, fotografa la copertina e contemporaneamente la rivedo assieme ad altre, tutte uguali, esposte in un corner. E’ tutto chiaro, il signore in questione è l’autore in persona. Mi vuole presentare il suo lavoro. Lo ascolto con educazione, poi lo anticipo e mi presento. L’argomento del libro in questa fase è prematuro, mi interessa l’approccio. E’ un gesto di coraggio, va recepito in modo positivo. Mi è già capitato. Sono già pronto a prescindere a prendere in carico l’opera e a sfidarne l’autore: se mi convince lo recensisco sul mio giornale. Nessuna valutazione preconcetta.E l’ opera “Matematica e Poesia” di Alessandro Moriconi, sicuramente originale, non è di mio interesse. Come ho già detto non mi fanno fremere i due elementi separati, l’accostamento voluto o fortuito mi lascia indifferente. Ma Moriconi non è un aspirante scrittore, è un matematico dell’Istituto di ingegneria del mare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Inm) e divulgatore scientifico. E questo accende il mio interesse. Scopriamo anche di avere conoscenze comuni. Ma non mi chiedete di leggere i sessanta “Sonetti matematici” contenute nel libro. Mi spiega che il libro è una raccolta di 60 sonetti in dialetto romanesco che trattano altrettanti argomenti matematici, ognuno dei quali è anticipato da un disegno e da un’introduzione tecnico-storica, che facilita la comprensione dei versi. Le regole usate sono quelle dettate dalla grammatica stilata dall’Accademia Romanesca, aggiunge (arabo per me), che sostanzialmente si ispira alla poesia del Trilussa. Onore al merito, all’impegno, alla fantasia. Lo scrittore è più interessante del libro. E probabilmente proprio per questo il libro va letto e tenuto su uno scaffale della libreria nello studio. Qualcuno lo noterà e lo sfoglierà incuriosito. Un bel successo. Moriconi è un matematico, dicevo, e da 35 anni svolge l’attività di divulgazione scientifica. Ma la passione per le discipline umanistiche lo porta a contaminazioni con altri mondi, a teatro e poesia. Il passo per approdare ai sonetti in romanesco è breve, ma il tentativo di avvicinare i due elementi di cui si parla resta forzato. Più interessante è quello che si può definire un “retrogusto” culturale. Lo scoprire che matematica e poesia hanno cose in comune, la sintesi, le regole, in qualche modo le emozioni (dal rabbioso rifiuto al piacere intellettuale), una concreta astrazione. Si può raccontare la matematica in versi ( in dialetto per di più)? Secondo l’autore è lecito e possibile Gli argomenti matematici trattati spaziano dalle semplici addizioni a concetti più complessi di geometria, di analisi matematica, di insiemistica o di statistica, senza dimenticare temi imprescindibili come ad esempio la filosofia che ha accompagnato per secoli i cosiddetti solidi Platonici. E non mancano alcuni elementi di logica matematica che avvicinano il lettore al concetto di paradosso, uno dei princìpi cardine del lavoro svolto dal più grande logico del Novecento Kurt Gödel. Scoprire la razionalità della matematica attraverso la comunicatività della poesia, è possibile. Provare per credere
Descrizione del romanzo di Karen Coles-Anno 1906: Maud Lovell è rinchiusa nel Manicomio di Angelton da cinque anni. Nella sua memoria ci sono solo quelli; dei ventidue anni che li hanno preceduti non ricorda nulla, non un volto, non un luogo familiare. Non sa come è arrivata in quell’inferno in terra, non sa nulla di ciò che accade fuori di quelle mura fatiscenti. La sua mente è cosí instabile che non può fare a meno di ricorrere a gesti violenti; ha persino tentato di strangolare il dottor Womack. O almeno è quello che le hanno detto. Le sue giornate si susseguono avvolte in un torpore totale, che è pur sempre meglio degli incubi che bussano alla porta della notte. Un giorno compare a Angelton il dottor Dimmond. Ha gli occhi buoni, diversi da quelli di Womack. Le giura che lei non è stata sempre cosí, sempre con la mente malata, lo sguardo offuscato. Le regala un quaderno e, addirittura, una matita con la punta. Le dice che vorrebbe inaugurare una tecnica rivoluzionaria che prende il nome di ipnosi medica e che lei, una donna senza passato, è la candidata ideale per l’esperimento. Maud si chiede perché non abbia scelto la disgraziata che ride tutto il tempo, o quell’altra che si crede l’amante del re. Ma accetta di sottoporsi alle sedute. Dimmond è l’unica luce in quel luogo di tenebra, dove la solitudine è la regola e i suoi unici compagni sono solo pensieri confusi e disperati. Armato di un piccolo pendolo, il dottore va all’assalto dei muri che il cervello di Maud ha innalzato davanti al trauma, ed ecco che una vita che pare vissuta da un’altra persona emerge a frammenti, ondate di ricordi taglienti come schegge di vetro: il tragico incidente che ha causato la morte dei tre fratelli di Maud lasciandola senza un tetto né i mezzi per sostentarsi; la famiglia dell’eccentrico Mr Banville, che le ha offerto un lavoro e un rifugio, ma certo non la sicurezza… Sono ricordi reali o il frutto di una mente alterata? O, addirittura, circostanze indotte da chi vuole mantenerla in silenzio? Un giorno, però, Maud ricorda finalmente ciò che le è stato fatto e nella sua mente affiora un unico, chiaro pensiero: il pensiero della vendetta.
L’Autrice-Karen Colesè nata nel Berkshire. Ha studiato belle arti ed estetica a Cardiff ed è pittrice e scultrice. Appassionata di letteratura gotica, oggi vive in una cittadina del Galles che, in epoca vittoriana, ospitava tre manicomi, la cui storia le ha ispirato Hypnosis.
RECENSIONI
«Ipnotico, vi perseguiterà». Essie Fox
«Mi sono disperata per Maud, ho lottato per la sua salvezza, ho agognato la sua vendetta». Kerry Fisher
«Un romanzo gotico che ribolle di claustrofobia, traumi e pensieri di vendetta. Sofisticato e ammaliante». Fiona Mitchell
«Evocativo, minaccioso e oscuramente sinistro. Un thriller gotico a regola d’arte, che vi lascerà senza fiato». Jane Isaac
«Vivido, disturbante e viscerale. Hypnosis è la lettura dell’anno». Ruby Speechley
Jorge Luis Borges-Storia della notte-A cura di Francesco Fava-ADELPHI EDIZIONI
Risvolto del libro di Jorge Luis Borges-Storia della notte-L’enigma del tempo che ci plasma, di un presente «fugace particella del passato», della memoria custodita dalla «vasta Biblioteca», dei nostri gesti ligi alle regole di un gioco oscuro diretto da un dio indecifrabile sono motivi familiari a chi ama Borges. Mai come in Storia della notte, tuttavia, hanno trovato un’espressione più vivida, diretta e, soprattutto, intima, tanto che l’infinita, imperscrutabile catena delle cause e degli effetti può ora tendere verso un luminoso punto di fuga, incarnato dalla donna amata: «La Torre di Babele e la superbia. / La luna contemplata dai Caldei. / Le sabbie innumerevoli del Gange. / Chuang Tzu e la farfalla che lo sogna. / … / Sono servite tutte queste cose / perché le nostre mani si incontrassero». Ma c’è di più: oltre che l’oscurità della morte e della cecità, la «notte» del titolo evoca la capacità dell’uomo di forgiare parole e miti («Lungo il corso delle generazioni / gli uomini eressero la notte. / … / La resero madre delle tranquille Parche / che tessono il destino»), sicché questa raccolta poetica del 1977, inframmezzata da brevi prose, andrà letta anche come un emozionante (e autobiografico) riepilogo dell’ininterrotto sforzo di «significar per verba» – di dare senso alla vita attraverso le parole.
A cura di Francesco Fava.
Jorge Luis Borges
Jorge Luis Borges -Lo scrittore che rese possibile l’assurdo e assurde le certezze
Jorge Luis Borges -Scrittore argentino del Novecento dalla vastissima cultura, era dotato di una prodigiosa memoria che neppure la cecità poté attenuare. Nelle sue poesie e soprattutto nei racconti trasporta il lettore, grazie a fantastiche invenzioni, in un mondo di inquietanti e sorprendenti illusioni, dove ogni certezza si trasforma in dubbio.
Jorge Luis Borges (1899–1986)
Una lunga vita
Jorge Luis Borges nasce in Argentina, a Buenos Aires, nel 1899 e da adolescente si trasferisce con la famiglia in Europa, dove subisce il fascino della cultura del vecchio continente. Ritornato in patria, dal 1923 scrive poesie ispirate comunque alla sua città, alle storie fatali e tragiche dei compadritos, teppisti di periferia dal coltello facile, e dei gauchos, cavalieri della pampa, innalzati al ruolo di eroi mitici (Fervore di Buenos Aires, Luna di fronte, Quaderno San Martín). Nel 1930 conosce Adolfo Bioy Casares con cui scriverà molte opere, tra le quali antologie di racconti fantastici e polizieschi. Nel 1938 inizia ad avere problemi di vista che diciotto anni dopo lo porteranno a diventare completamente cieco. Nel corso degli anni, lavora in una biblioteca municipale, dirige la Biblioteca nazionale, diviene professore di Letteratura inglese all’università di Buenos Aires. Muore nel 1986 a Ginevra.
La biblioteca infinita
Borges sin da giovanissimo fu un lettore curioso e appassionato: i libri, la scrittura, la lettura sono anche temi della sua opera. Per Borges la realtà è ciò che è scritto nei libri; di conseguenza la biblioteca, luogo dove questi sono raccolti e conservati, è immagine dell’Universo. Con il suo spazio ordinato geometricamente in lunghe serie di scaffali e corridoi tutti uguali, la biblioteca è simile a un labirinto dove è facile perdersi; i suoi angoli sempre identici ricordano una galleria di specchi dove le immagini si moltiplicano e creano effetti illusori.
Nel racconto intitolato La biblioteca di Babele un anziano bibliotecario descrive questo luogo dove ha trascorso l’intera vita alla ricerca del libro che desse senso alla sua esistenza: ma nella biblioteca, come nella biblica torre di Babele, si mescolano tutte le lingue, vi sono libri indecifrabili scritti in codici misteriosi e libri che a ogni diverso lettore svelano differenti significati. Essa contiene tutti i libri possibili, tutto il sapere e quindi tutta la realtà, ma è impossibile poter conoscere tutti i libri o trovare nell’illimitata biblioteca il libro che contenga il senso di tutti gli altri; dunque la conoscenza della realtà non è che un’illusione.
Le ambiguità della realtà
Anche la condizione umana può rivelarsi ingannevole: per esempio, nel racconto Le rovine circolari un asceta crea in sogno un essere che ha l’aspetto di un uomo ma che rivela la sua natura fantastica perché è capace di resistere al fuoco. Un giorno, l’asceta sognatore è minacciato da un incendio e scopre, con sollievo e terrore, di sopravvivere alle fiamme: capisce allora di essere nato dal sogno di qualcun altro che, a sua volta, potrebbe essere un’illusoria creazione, e così via all’infinito.
Non solo l’esistenza dell’uomo è messa in dubbio dalla fantasia di Borges, ma anche la natura dello spazio e del tempo: in un altro suo racconto, Il giardino dei sentieri che si biforcano, ogni volta che si è davanti a un bivio ‒ cioè a una possibile alternativa ‒ non si sceglie una strada a esclusione dell’altra, ma è possibile percorrerle entrambe simultaneamente. Da una storia nascono così molti sviluppi, contemporanei nello spazio e nel tempo, che a loro volta, a ogni nuova biforcazione, si moltiplicano e offrono infinite soluzioni possibili, persino in contraddizione tra loro.
La veglia e il sogno, la verità e la finzione, la vita e la letteratura si confondono in un inestricabile intreccio. Le storie ingegnose di Borges rendono plausibile ciò che crediamo assurdo, mentre le certezze della nostra civiltà si sgretolano sotto i colpi della sua fantasia.
I grandi fotografi. Ediz. illustrata di Juliet Hacking
C. Spinoglio (Traduttore)- Editore Einaudi
I grandi fotografi. Ediz. illustrata di Juliet Hacking
Descrizione del libro di Juliet Hacking- “Ridurre circa 180 anni di produzione fotografica (si pensi che il solo Cartier-Bresson produsse di più di mezzo milione di negativi in un’unica vita) a meno di quaranta nomi, significa che le biografie presentate qui appartengono a coloro che sono passati alla posterità. I trentotto artisti rappresentati in queste pagine hanno tutti creato immagini straordinarie servendosi della fotografia. Ma non sono assolutamente i soli grandi fotografi esistenti. Lo scopo di raccontare queste vite è quello di rammentare al lettore alcuni dei piaceri e dei valori della biografia nel suo rapporto con la storia dell’arte: non solo la sua accessibilità e il suo interesse, ma anche il suo ruolo di correttivo alla moda attuale delle cronologie (con la loro natura sedicente fattuale). Spero che questi brevi saggi aiutino a controbilanciare l’idea dominante secondo cui la biografia è anti intellettuale. Anche se l’aforisma classico ars longa, vita brevis continua a essere attuale, ora siamo meno inclini a concepire la vita e l’opera di un artista in opposizione tra loro, e le vediamo entrambe come l’arena in cui si modellano, si forgiano e si creano forme nuove con il loro irresistibile slancio vitale”.
Juliet Hacking Faculty London Sotheby’s Institute of Art
L’Autrice. Juliet Hacking, dopo aver diretto per tre anni il Dipartimento di fotografia di Sotheby’s di Londra, dal 2006 dirige il Master in fotografia (storica e contemporanea) del Sotheby’s Institute of Art. Ha curato e scritto il catalogo per la mostra «David Wilkie Wynfield: Princes of Victorian Bohemia» per la National Portrait Gallery. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo il volume, da lei curato, Photography. The Whole Story (Thames & Hudson 2012) e, in italiano, I grandi fotografi (Einaudi, 2015).
Juliet Hacking
Program Director, MA Contemporary Art, London
PhD, MA and BA (Hons), Courtauld Institute of Art, London.
Juliet Hacking began her academic career as a Visiting Lecturer (at the Universities of Derby and Reading, and the Courtauld Institute). In 1999 she took on a year-long research post at the National Portrait Gallery, London, where she also curated the exhibition and wrote the book ‘Princes of Victorian Bohemia: Photographs by David Wilkie Wynfield’ (Prestel, 2000). From 2000 to 2003 she was a junior specialist in the Photographs Department at Sotheby’s auction house in London; becoming, in 2003, Head of the department. She joined Sotheby’s Institute of Art, London, in 2006, and was the Programme Director of the MA in Photography for 10 years. In 2016 she became a member of the MA in Contemporary Art faculty, and was recently appointed its Programme Director. She is the author of ‘Lives of the Great Photographers’ (2015), general editor of ‘Photography: The Whole Story’ (2012) [both Thames & Hudson], author of ‘Photography and the Art Market’ (Lund Humphries, 2018) and the co-editor of ‘Photography & the Arts: Essays on 19th-Century Practices and Debates’ (forthcoming, Bloomsbury). She is also co-series editor of ‘Hot Topics in the Art World’ with Lund Humphries.
Descrizione del libro di Simona Colarizi per “Le smanie per la villeggiatura”Il caldo dell’estate del 1968 riusciva laddove aveva fallito la forza pubblica: alla spicciolata gli studenti lasciavano le aule dell’università dove si erano barricati dopo la prova di forza in difesa della facoltà di architettura a Roma. Sgomberata dalla polizia per ordine del rettore D’Avack e di nuovo rioccupata, per gli studenti era diventata un simbolo della contestazione che ormai da due anni aveva messo a soqquadro gli atenei di tutta Italia. Così nel marzo un corteo di 4000 giovani si avviava in due direzioni: una parte raggiungeva la Facoltà di Architettura a Valle Giulia, un’altra forzava i cancelli dell’Università centrale. Era però tra Villa Borghese e le vie adiacenti dei Parioli, il quartiere privilegiato dalla borghesia benestante della capitale, l’epicentro degli scontri con i “celerini”, i reparti della PS dalla mano pesante, i più odiati dagli studenti.
Nell’immaginario dell’epoca era stata una vera battaglia, la “battaglia di Valle Giulia”, con lanci di sassi e manganellate, cariche della polizia e fughe dei dimostranti. D’altra parte della città si scatenava la rissa nella sede centrale sotto le finestre di Giurisprudenza, occupata dagli studenti dell’estrema destra, e sulla scalinata della Facoltà di Lettere, quartier generale degli studenti di sinistra; gli uni e gli altri decisi a difendere i propri spazi che la fazione opposta voleva conquistare. Queste giornate della primavera 1968 avevano suscitato clamore in tutto il paese anche per la condanna contro gli studenti “figli di papà”, lanciata da Pier Paolo Pasolini nella famosa poesia “Il Pci ai giovani”. E tra quei giovani della sinistra c’erano ragazzi destinati a diventare intellettuali ed editorialisti di peso nella vita politica italiana nei decenni successivi.
Da mesi non c’era stato un giorno di tregua negli atenei di tutta Italia dove si sperimentavano lezioni alternative ai vecchi corsi, si sospendevano le sedute di laurea e gli esami, si mettevano al bando i professori che resistevano alle innovazioni didattiche imposte dagli studenti. Si chiedeva in sostanza un rinnovamento profondo nei saperi, un ricambio dei docenti, una trasformazione delle vecchie strutture insufficienti a contenere la crescita della massa studentesca, soprattutto si voleva abbattere il vecchio Gotha accademico che esercitava un potere assoluto, autoritario e opaco. Insomma, gli studenti chiedevano la riforma delle università rimaste quelle dell’epoca fascista, con le stesse regole e con gli stessi professori; università elitarie dove accedevano solo i figli della borghesia, mentre restava ferma al 3% la percentuale degli studenti provenienti dai ceti sociali più bassi.
Riforme non rivoluzione dunque: il cuore della contestazione sessantottina era ancora democratico, ottimista, dissacrante e allegro, una fase speciale nella vita delle giovani generazioni – e persino delle studentesse – che sperimentavano nuove libertà e trasgressioni, violando codici familiari e accademici consolidati nei secoli. Così sarebbe stata anche la lunga estate del 1968, “l’ultima estate dell’innocenza”, prima che prendessero la direzione del movimento i nuclei politici di estremisti votati alla rivoluzione e nell’estrema destra si cominciasse a teorizzare la strategia della tensione. In pochi si erano resi conto che i primi semi della violenza avevano già cominciato a mettere radici quanto più gli obiettivi della riforma universitaria si sommavano alla critica dell’intero sistema politico italiano e internazionale occidentale, quelle democrazie nate dopo il secondo conflitto mondiale ma rimaste prigioniere della guerra fredda; fredda in Europa, ma calda in altre parti del mondo, e le dimostrazioni contro l’intervento americano in Vietnam erano state l’incubatrice dell’aggregazione studentesca già negli anni precedenti il Sessantotto.
Al salto di qualità nella politica aveva concorso un evento chiave per capire l’evoluzione della contestazione. Nel 1968, due mesi dopo gli scontri a Valle Giulia, era esploso il “maggio francese” che aveva fatto del quartiere latino parigino la meta prediletta dei più avventurosi contestatori italiani ed europei. Un vero e proprio “pellegrinaggio”, in realtà l’anticipo di vacanze all’estero mai sperimentate fino a quel momento dai tanti giovani che si raccoglievano davanti a “Sciences Po” scandendo in una confusione di lingue gli stessi slogan: “L’immaginazione al potere”, “Tutto e subito”, “Joussiez sans entraves” e tanti altri dipinti a grandi lettere sulle pareti delle università, come la scritta “Il est interdit d’interdire” che campeggiava sulla facciata della Sorbonne.
Per quasi un mese agli occhi dei giovani, Parigi era apparsa l’epicentro di una vera e propria rivoluzione che aveva allarmato anche le autorità francesi già in allarme per le continue manifestazioni delle masse operaie alle quali si univano adesso i cortei degli studenti. Da tempo in Francia il mondo del lavoro era percorso da agitazioni sempre più incontenibili, culminate appunto nel maggio in uno sciopero generale di tale portata da riportare alla memoria i moti del ’34. Barricate per le strade, banlieue in rivolta, fabbriche chiuse da Calais a Marsiglia. Studenti e operai avevano sfidato insieme il potere del generale De Gaulle, il quale non sarebbe però arretrato di un passo, soffocando rapidamente le scintille incendiarie.
Col passare dei giorni l’ondata di protesta rifluiva ovunque pacificamente, complice l’arrivo dell’estate. I giovani partivano per i luoghi canonici di villeggiatura al mare, in montagna, in collina; ma questa volta in tanti sceglievano mete oltre frontiera, ancora largamente sconosciute dagli studenti italiani rimasti alquanto provinciali, come il resto della popolazione. Adesso però partivano in gruppo, quasi non volessero spezzare il filo di continuità con la vita collettiva sperimentata nelle occupazioni; una vita intensa e gioiosa, la stessa che avrebbe caratterizzato tutti i mesi estivi. Giugno, luglio, agosto e settembre – quella calda estate che sembrava non avesse mai fine – passavano così, all’insegna delle nuove amicizie strette nel corso delle lotte nelle università. Sarebbe stata per tutti una tappa importante nell’esistenza privata e nella crescita civile e culturale dei sessantottini che rompevano i rituali delle tradizionali vacanze trascorse con le famiglie nelle case al mare o in montagna. La parola d’ordine diventava il viaggio in Europa dove in tutto l’Occidente e persino a Praga nell’impenetrabile mondo sovietico, i loro coetanei stavano anch’essi ribellandosi contro il vecchio mondo accademico e più in generale contro l’intera struttura di società classiste, rimaste ancorate a poteri autoritari nel pubblico e nel privato.
Certo, il sogno sarebbe stato quello di varcare l’oceano e arrivare fino alla West Coast degli Stati Uniti, dove tutto aveva avuto inizio. Ma con un sacco a pelo sulle spalle si poteva arrivare ovunque nelle capitali europee e nei luoghi più ameni ancora sconosciuti, sentendosi un po’ hippies e un po’ i motociclisti di “Easy rider” – un film cult per la generazione del ‘68. In assenza della moto, c’erano i treni o le automobili dei compagni prestate dai papà dei più ricchi, che venivano caricate fino all’inverosimile: cinque sei persone, pigiate una sull’altra, insieme a poche magliette di ricambio e tanti viveri, in genere una quantità di pacchi di pasta che i compagni degli altri paesi imparavano adesso a gustare usando il cucchiaio, incapaci di arrotolare sulla forchetta i famosi spaghetti.
L’intero mondo della contestazione europea si incontrava in queste vacanze con gli stessi rituali già messi in atto nelle università occupate: discussioni interminabili in tutte le lingue alla ricerca di un idioma comune – in genere il francese, rimasta ancora la lingua più conosciuta in Europa come all’epoca delle generazioni precedenti; tante letture da condividere, ma soprattutto i testi marxisti diventati la nuova Bibbia, e i saggi dei sociologi di Francoforte e di Marcuse, eletto a vate dell’anti consumismo. Non tutti ne comprendevano il significato, ma nessuno voleva confessare di non averlo letto. Tutti invece conoscevano le canzoni intonate a sera negli accampamenti in riva al mare, nei boschi e nelle valli dove si alzavano le tende, si accendevano i fuochi e risuonavano alti i cori partigiani – su tutti “Bella ciao” – che davano l’illusione ai giovani di rinverdire la missione dei resistenti in lotta contro il nazi-fascismo.
Gli “spinelli” enfatizzavano l’allegria contagiosa e i tanti amori sbocciati nel clima gioioso e irresponsabile della nuova libertà sessuale. Le ragazze italiane misuravano la repressione subita da sempre guardando le coetanee dei paesi del Nord, così disinibite nei rapporti con i maschi. Le imitavano indossando jeans – da allora una divisa d’ordinanza – ma anche tuniche folcloristiche orientaleggianti dai mille colori; si mostravano senza reggiseno sulle spiagge in un estremo gesto di sfida al pudore che le voleva sottomesse alle regole dettate dai padri, dalle madri, dalla Chiesa. La rivoluzione femminista, anche se non ancora ufficialmente dichiarata, in Italia cominciava in questa estate del ’68 che nessuno avrebbe voluto finisse mai. In questi mesi i giovani avevano costruito in miniatura un mondo senza confini geografici, né barriere culturali dove regnava una nuova fratellanza e c’erano sempre sole e caldo, dove si viveva con poco, ci si divertiva un sacco e sembrava scomparso l’universo dei doveri, degli obblighi, delle responsabilità.
Eppure l’autunno si avvicinava inesorabile. Il 1969 non sarebbe stato identico all’anno precedente: il ricambio nelle file degli studenti è sempre rapido. La permanenza all’università per chi intendeva concludere i suoi studi, durava meno di cinque anni e i più maturi che da tempo guidavano la contestazione, si avviavano sulla strada del lavoro dove avrebbero portato il vento del cambiamento e della modernizzazione. Alcuni però restavano in campo, decisi a continuare una battaglia i cui connotati politici acquistavano una valenza ideologica sempre più estrema. Il mito della classe operaia rivoluzionaria che dopo il maggio francese si era diffuso oltre i circoli intellettuali marxisti-leninisti e operaisti, avrebbe alimentato nei gruppuscoli extra parlamentari l’illusione di una rivoluzione sociale possibile. Una sfida immediatamente raccolta dall’estrema destra che da tempo si preparava a una contro-rivoluzione preventiva, come già era affiorato nel ‘64 con la vicenda del SIFAR. Con il nuovo anno si sarebbe aperta un’altra stagione di cortei e di occupazioni nelle Università; ma qualcosa era cambiato: c’era più rabbia, meno allegria, meno improvvisazione. Il sole dell’estate si era oscurato, il freddo aveva cominciato a mordere, e, nel dicembre del ‘69, con la strage di Piazza Fontana a Milano iniziava la notte della Repubblica.
Simona Colarizi
Simona Colarizi è ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma La Sapienza. Tra le sue ultime pubblicazioni, Storia del Novecento italiano (Milano 2000). Per i nostri tipi, tra l’altro, L’Italia antifascista dal 1922 al 1940 (a cura di, 1977), Dopoguerra e fascismo in Puglia. 1919-1926 (19772), Biografia della prima Repubblica (19982), L’opinione degli italiani sotto il regime. 1929-1943 (20002) e, con M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi , il partito socialista e la crisi della Repubblica (20062).
Max Ernst-Una settimana di bontà-Tre romanzi per immagini
A cura di Giuseppe Montesano-ADELPHI EDIZIONI
Risvolto del libro di Max Ernst-Una settimana di bontà-Tre romanzi per immagini -Con il romanzo, com’è noto, i surrealisti non ebbero fortuna. Sicché, alla distanza, i più rapinosi potrebbero rivelarsi proprio quei romanzi per immagini che Max Ernst elaborò fra il 1929 e il 1934 ritagliando illustrazioni di feuilleton dell’Ottocento e dei primi del Novecento, e assemblandole poi in collage a cui aggiungeva didascalie di sua mano, destinate a essere, scrive Giuseppe Montesano, «segnali devianti e pervertimenti del senso comune». Sono immagini folte di fanciulle sensuali e innocenti insidiate da tenebrosi allievi di Sade, e di messieurs in abito nero e ghette che nascondono manie vergognose, mentre sullo sfondo freme «la città piena di sogni» di Baudelaire e ancora «lo spettro adesca il passante in pieno giorno». Un allestimento onirico ereditato dai romanzi d’appendice, dunque, ma che Ernst ha saputo trasformare, non senza un tocco di germanico unheimlich, in vessillo della sommossa perenne del desiderio. Si installa così in queste pagine perturbanti il più cupo e luminoso erotismo mai evocato dai surrealisti, dove un seno è un giocattolo e una capigliatura un sesso palpitante, dove i fantasmi del piacere hanno scollature abissali e le ossessioni si mutano in animali da preda, dove un lenzuolo su un corpo nudo è una cascata letterale e i rivoltosi dell’amore volano dalle finestre degli abbaini.
In copertina-Immagine tratta da Una settimana di bontà (1934).
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Max Ernst-Una settimana di bontà
Biografia di Max Ernst-Pittore e scultore tedesco (Brühl, Colonia, 1891 – Parigi 1976). Importante esponente del movimento surrealista: dalla commistione di immagine e parola poetica negli esperimenti di ‘scrittura automatica’ nacquero i suoi collages e i romanzi-collage (La femme 100 têtes, 1929; Une semaine de bonté, 1934), tra le opere più rappresentative delle teorie dell’arte surrealista. Produsse anche sculture (Capricorne, 1948) e objects trouvés e realizzò composizioni e paesaggi fantastici. Primo premio per la pittura della Biennale di Venezia (1954).
Vita e opere
Studiò filosofia a Bonn (1909-14) e si formò alla pittura nell’ambito dei movimenti tedeschi d’avanguardia; nel 1913 partecipò alla esposizione del gruppo “Der Sturm”, nel 1918 fondò a Colonia, con J. Th. Baargeld e H. Arp, un gruppo dadaista; dal 1922, a Parigi, ebbe una parte rilevante nel movimento surrealista. Illustrò i poemi di P. Éluard, collaborò a Littérature, compì, con Breton, Crevel, Éluard, Picabia e altri, i primi esperimenti di “scrittura automatica”. Oltre ai molti collages, ai frottages (Histoire naturelle, 1926; Rêveries surréalistes, 1927), ai romanzi-collages (La femme 100 têtes, 1929; Rêve d’une petite fille qui voulut entrer au Carmel, 1930; Une semaine de bonté, 1934), alle sculture e agli objects trouvés, spesso pieni di allusioni ironiche, dipinse paesaggi fantastici e composizioni, un mondo di immagini che riflettono la sua ansia per la degenerazione della civiltà moderna, (serie sul tema della Forêt, della Ville, del Jardin gobe-avions, dei Barbares marchant vers l’ouest, ecc.). Nel 1938-39 eseguì sculture e affreschi per la sua casa a Saint-Martin d’Ardèche (Avignone). Nel 1939 fu internato in campo di concentramento; raggiunse gli Stati Uniti nel 1941 e vi restò fino al 1949, mantenendo contatti con i surrealisti ivi rifugiati (curò con M. Duchamp e A. Breton la rivista VVV), dipingendo opere come Europe after the rain II (1940-42, Wadsworth Atheneum, Hartford), Napoleon in the wilderness (1941, New York, Museum of modern art), Euclid (1945, Houston, Menil Foundation) e realizzando, nella sua casa di Sedona (Arizona) una delle sue sculture più significative, il gruppo monumentale Capricorne (1948; esemplare in bronzo, 1964, Parigi, Centre Pompidou). Stabilitosi di nuovo a Parigi, continuò a elaborare con sensibilità assai ricca verso la materia, composizioni in cui gli elementi intellettualistici del surrealismo si sciolgono in associazioni e dissociazioni dettate da un acuto sentimento poetico. Nel 1954 ottenne il primo premio per la pittura della Biennale di Venezia. Fonte Istituto della Enciclopedia Italiana
Daria Menicanti è stata una Poetessa, insegnante e traduttrice italiana. In lei si mescolano il registro sarcastico e ironico e quello più sottile della malinconia. Per Lalla Romano la sua era “una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace”.
Daria Menicanti Poetessa, insegnante e traduttrice italiana
ESTIVA
*
Ogni sera le madri dai balconi
chiamano i figli con urli soavi.
Cadono i nomi gridati nel buio
come stelle filanti. Ad uno ad uno
tornano con le bluse a quadrettini
le gonnellette alte una spanna i teneri
re,le regine.
Daria Menicanti, il “grillo” che ha cantato Milano
“Io mi sento il palloncino fuggito dal suo grappolo”
Da bambina la chiamavano grillo, un soprannome che ha conservato per tutta la vita e che a volte disegnava accanto alla sua firma. Un nomignolo profetico per chi del canto ha fatto la sua voce. Daria Menicanti è una delle poetesse italiane dimenticate da riscoprire.
A Piacenza c’è nata “per caso” in quel 6 aprile del 1914 perché sentiva di avere un destino legato al mare viste le origini livornesi e fiumane dei genitori. Il padre aveva studiato con Pascoli che nutriva speranze nel promettente poeta. Lui scelse però di studiare legge e lavorare prima come assicuratore a Trieste e poi come bancario in diverse città del Nord. In seguito fu costretto a cambiare molti lavori per le difficoltà dovute al suo antifascismo e la famiglia si spostò spesso seguendolo.
Daria era la sesta figlia, l’ultima, la più vezzeggiata, la più capricciosa, mingherlina ma con un carattere molto risoluto. I rapporti con la famiglia furono sempre burrascosi, specie col padre spesso assente. Non disse a nessuno che si laureava e nessuno invitò al suo matrimonio, pochi mesi dopo. Dopo le nozze in Comune tornò semplicemente a casa, riempì una borsa e se ne andò dicendo “stasera non vengo a casa perché mi sono sposata”, ricorda la nipote Lucia.
A mano a mano quale ero ritorno:
una che va vestita come càpita,
contenta del poco, di rari
amici scontrosi,
una dispari
felice di bere alla brocca
della sua solitudine.
Daria è una persona schiva e solitaria e i primi anni li vive nella stessa “campana di vetro” di cui parla Sylvia Plath, che avrebbe poi tradotto nel 1968. È di salute cagionevole perciò non va a scuola e studia a casa seguita dalla sorella maggiore Trieste. Inizia a frequentare la scuola pubblica solo alle superiori iscrivendosi al Liceo Ginnasio Berchet di Milano. Continua gli studi alla Facoltà di Lettere e Filosofia e ha come compagni di corso Antonia Pozzi, Luciano Anceschi, Vittorio Sereni, Enzo Paci. Si laurea in estetica con Antonio Banfi e una tesi sulla poetica di Keats. Proprio quel Banfi che creerà intorno a sé la “scuola di Milano”.
Lo sbocco naturale della sua formazione è l’insegnamento e per tutta la vita Daria Menicanti insegna nella scuola media, diventando in seguito anche preside. Ma il suo lavoro culturale è più ampio. Dagli Anni 30 in poi compone poesie, scrive sulle riviste letterarie e traduce, traduce moltissimo, specialmente dall’inglese e dal francese: John Henry Muirhead, Paul Nizan, Betty Smith, Noel Coward, Nelly Sachs, Paul Geraldy, Sylvia Plath. Le traduzioni servono da laboratorio per la definizione della lingua poetica anche se Daria ha tradotto soprattutto prosa, e specialmente filosofia. “La vita dello scriba è una manciata / di sillabe e vocali e consonanti / e di allitterazioni”.
Daria Menicanti Poetessa, insegnante e traduttrice italiana
Dopo tanto silenzio
mi arriva di lontano
festante, fragorosa
una banda di rime,
di assonanze.
Le corro incontro
felice
fino sull’angolo.
L’impronta filosofica resta sempre forte nella sua scrittura. La sua poesia non si lascia andare mai al sentimentalismo ma è sempre frutto della lucida riflessione propria della filosofia. Eppure non è mai fredda, distante, anzi si interessa alla più piccola realtà, inclusi animali e piante, tanto cari alla poetessa.
È ancora capace di infanzia
il tronco ficcato sul cuore
della città. Una luce d’alba gli esce
dai rami, ai piedi gli si affolla
un subbuglio di verde.
A un vento improvviso lo zampillo
della fontana gira verso il tronco
assentendo approvando: – D’accordo,
sussurra, la vita
può essere ancora bella
“Il razionalismo per me è sempre stata una vocazione. Pensa che tempo fa mi dicevo che ero una illuminista” dice in una intervista parlando della sua poesia come dell’“irrazionale espresso razionalmente”. A radicare la sua opera creativa nel razionalismo filosofico ha contribuito l’amore per Giulio Preti, anche lui filosofo della scuola banfiana. Si sposano nel 1937 ma il matrimonio è burrascoso. Finisce nel 1954 ma restano legati da una profonda amicizia.
Poeta
In giro me ne vado come un cirro
silenzioso color ombra. Mi piace
stare alto sui tetti a galleggiare
guardando. Io mi sento il palloncino
fuggito dal suo grappolo: una cosa
ironica leggera e all’apparenza
felice
Le amicizie di Daria si contano sulle dita di una mano ma sono per sempre. Lalla Romano, collega a scuola, diventa la sua più cara amica e di lei dice che “aveva maturato una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace”. Anche Vittorio Sereni è un punto di riferimento importante, sia personale che professionale. Ogni domenica la poetessa va a pranzo dai Sereni e dà alle loro figlie lezioni private di greco e latino.
Alla poesia si avvicina già negli anni dell’Università ma è ancora qualcosa che tiene per sé. È negli Anni 50, e soprattutto dopo il definitivo trasferimento a Milano, che si dedica alla poesia innestandola a fondo nella sua città.
Daria Menicanti Poetessa, insegnante e traduttrice italiana
Con la tazzina stretta tra le dita,
ben calda tra le dita,
sola, in pace,
in un tiepido alone
di vapori,
di aroma di caffè,
indugio presso il banco
insaziata di calore
tra gli urti continui
e i pardons.
Nel 1964 esce per Mondadori la prima raccolta, Città come, che vince il premio Carducci. Nella prestigiosa collana Lo Specchio saranno pubblicate anche Un nero d’ombra nel 1969 e Poesie per un passante nel 1978. Il direttore della collana era Sereni e nel 1982 aveva già approvato un volume in attesa di pubblicazione, Ferragosto. Ma nel 1983 l’amico muore improvvisamente e Mondadori fa un passo indietro comunicandole per lettera che non sarà più pubblicata. Uno sgarbo che Daria non digerirà mai. Da allora in avanti la poetessa affida le sue raccolte a editori più piccoli: Altri amici, un bestiario poetico dedicato agli animali da Daria tanto amati, esce nel 1986; Ferragosto, considerata dall’autrice la sua opera migliore, vede le stampe nello stesso anno; Ultimo Quarto nel 1990.
Daria Menicanti Poetessa, insegnante e traduttrice italiana
Lucciola
Fu per come esitava che l’amai
subito
e colsi quel seme di luce
stringendo le due palme.
Ma come ci guardai gelosa, buio
era tornato il bel fuoco,
ombra con ombra
pace
Dopo l’ultima raccolta continua a scrivere anche se le sue condizioni fisiche e psichiche vanno peggiorando rapidamente, fino alla morte appena 5 anni dopo. Sulle poesie inedite ha lavorato febbrilmente, correggendo e limando continuamente i versi come testimoniano i taccuini scritti a matita. Un lavorio continuo che passa al setaccio della ragione tutti i moti dell’animo e li distilla.
Di qua la vita e da quell’altra parte
la morte e in mezzo l’uomo
in stato di assedio
La sua poesia si è nutrita di minime situazioni quotidiane, di silenzi e inquietudini, piccole epifanie, di vissuto cittadino popolato da personaggi che qualche volta Daria sembra orchestrare sulla scena come una abile regista. Quando parla di se stessa si definisce un “camaleont poet” come il suo amato Keats.
Ma sono – oltre che me – sono sul guscio
d’un fiore il mite grillo
dell’estate inquilino –
o l’urlo abbandonato dell’ossesso
sul marciapiede riverso –
Nella sua opera si passa dal tratto nostalgico e struggente a quello ironico e tagliente, dalla riflessione filosofica sulla vita al ritratto dei reietti metropolitani. La città è sempre presente, se non da protagonista come sfondo attivo.
Me ne vo con un gran coltello infisso
nel petto, il manico fuori.
Me ne vado tranquilla e bianca. Un vigile
col fischio mi richiama: – Il coltello,
mi grida, il coltello! –
Par proprio che la lama
superi le misure della legge.
Così mi fermo e pago
l’ennesima contravvenzione
E spesso presente è il cuore, anche se non viene quasi mai nominato direttamente ed è sempre mediato dall’intelletto. Non c’è sentimentalismo fine a se stesso ma riflessione lucida e acuta sulle ragioni del cuore.
Se il cuore è innamorato
il fracasso che fa.
L’hanno paragonata a Umberto Saba e Sandro Penna ma a lei piaceva di più far riferimento ai poeti classici, specialmente a Orazio e Marziale, a cui si ispirano anche i suoi fulminanti epigrammi.
Dopo tanto odio ti ricordo infine
con animo fraterno
e ti perdono
il bene che mi hai fatto
(Le poesie e le citazioni sono tratte da Il concerto del grillo: l’opera poetica completa con tutte le poesie inedite, Mimesis)
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