Françoise Hardy è morta l’11 giugno, a 80 anni. Soffriva dal 2004 di una lunga e dolorosa malattia. Thomas Dutronc, suo figlio, ha confermato il decesso con un post instagram verso le ore 23 di ieri sera: “Mamma è partita”.
Françoise Hardy
Françoise Hardy era ammalata da tanto tempo, e la sua situazione si era recentemente aggravata. La cantante resta nella memoria collettiva come una delle icone degli anni ’60. I suoi successi e il suo gusto per la moda ne avevano fatto un idolo dei giovani. L’interprete della canzone “Comment te dire adieu”, viveva da tanti anni lontano dalle telecamere e dalla vita pubblica. Numerose volte, si era espressa per il diritto a morire con dignità, e desiderava che le sue sofferenze finissero.
L’infanzia di Françoise Hardy resterà sempre un periodo doloroso per la cantante, cresciuta in un ambiente modesto, in un piccolo appartamento nella nona circoscrizione di Parigi con sua madre e sua sorella. Figlia illegittima di un uomo già sposato, soffre di un’assenza paterna, e dello sguardo dei suoi compagni di classe della scuola cattolica. Ma i momenti che teme di più sono i weekend, a casa di una nonna descritta come terribile, particolarmente con la ragazza, travolta di critiche, che per tanti anni saranno i suoi complessi, soprattutto sul suo fisico.
Solitaria, Françoise si rifugia nella musica grazie alla radio e la collezione di dischi di sua madre, prima di farsi regalare una chitarra per aver passato l’esame di maturità. Essendo alla ricerca di giovani talentuosi da lanciare nell’avventura dello yeye, la casa discografica Vogue l’assume nel 1961. Lontana dalla furia di un Johnny Hallyday, Françoise Hardy canta, dolce e melanconica, le paure dell’adolescenza.
Françoise Hardy esordisce in televisione nel 1962 con la celebre Tous les garçons et les filles, che interpreta il 21 settembre nel programma Le Petit Conservatoire de la chanson e che viene ritrasmessa domenica 28 ottobre alla radio in uno degli intermezzi musicali nel corso di una diretta elettorale di grandissimo ascolto.
La sua carriera è lanciata in pochi minuti. Già dall’indomani mattina, la sua canzone “Tous les garçons et les filles” avrà un successo enorme. Paris Match la mette in copertina e la pone come “idolo di una generazione”. Fa concerti attraverso la Francia, passa dall’Olympia, viaggia in tutta Europa, e comincia pure a fare cinema. Diventa un’icona di moda, popolare nel mezzo dei grandi “couturiers” come Courrèges o Saint Laurent, e la sua bellezza rappresenterà l’innocenza degli anni 1960. Le sue canzoni diventano sempre più famose, come “L’amour s’en va”, poi “Mon amie la rose”, in 1964, oppure “Comment te dire adieu”, prodotta da Serge Gainsbourg nel 1968.
Negli anni 2000 le viene diagnosticato un linfoma, i cui sintomi si aggraveranno lungo gli anni. Ritornando all’astrologia, (una grande passione a partire dagli anni ’60), ma anche alla scrittura, combatte ferocemente contro la malattia per circa 20 anni, ma lotta anche per il diritto all’eutanasia. “Non ho paura di morire, dice a Match nel 2021, ma ho molta paura di soffrire, anche se sta già succedendo, ma anche paura della sofferenza di dovermi separare degli esseri che amo più al mondo: mio figlio Thomas e suo padre”.
Traduzione di Héloïse Badiane Dorléans, giovane studentessa del Liceo Francese di Torino, in redazione per due settimane di stage di osservazione in ambito professionale
Fonte-Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Poesie di Ana María Del Re -Poetessa e traduttrice venezuelana
La poesia della venezuelana Ana María Del Re-(Caracas, 1941 – Caracas, 2019)-raccolta finora in tre splendidi libri (Trazos, Nocturnos e La noche todavía) è un magnifico esempio di concisione espressiva. La brevità, che in alcuni dei suoi cultori non ha smesso di essere una semplice forma, acquista in lei la difficile profondità di una poetica.
Ana María Del RE
Quell’apparenza dei suoi testi, più che una retorica, è un dialogo con l’istante. A partire dalle poesie di Trazos la sua opera esplora una luminosa concentrazione della parola. Lo fa perché le interessa di più l’emozione vissuta in essa (“la sua nostalgia/la sua intima penuria”) che lo sfoggio verbale che potrebbe riprodurla. Più vicino alla trasparenza che alla maschera – per dirlo con parole a lei molto care – Ana María Del Re vive e indaga anche di notte: una notte in cui il sole resta alle finestre, con la sua rosa bianca, sola, “fino all’arrivo dell’alba”.
Traduttrice e studiosa della poesia in diverse lingue, Ana María Del Re ha lasciato, per le sue poesie, lo spazio della limpidezza, sebbene ci sia cultura – e ce n’è – nella sua vita. E di ciò i lettori le sono grati.
E questi nella presente selezione apprezzeranno, oltre al paesaggio della notte, alcune pagine che sono corpo. Per essere più preciso, poesie che sono un palpito. Come si sa, i palpiti non durano a lungo. Hanno, nel dire di San Tommaso, “l’abbondanza giusta”. Io stesso ora, leggendo Ana María Del Re, sento che nel silenzio “canta un uccello” sulla pagina, e io rispondo. Si riempie la notte e qui rimango.Nota di Freddy Castillo Castellanos
Poesie di Ana María Del RE
Non scrivi la poesia
ma la sua nostalgia
la sua intima penuria
*
Parola scissa
il tuo nome
segno appena
*
Una nuvola dorata
piccolissima
illumina il cielo
Dura solo un instante
il prolungato
istante
in cui la guardo
*
Un trifoglio di sette foglie
cresce nel giardino contiguo
Nessuno ha osato guardarlo
*
E’ aprile
sulle rive del Gran Lago
e vediamo fiorire i tulipani
Di nuovo il tuo volto
attraversato dal raggio
la mano che accarezza
la rotondità perfetta dell’istante
Arrivano sussurri
arrivano raffiche
Tutta la notte il sole
alle finestre
Il non ancora detto
l’imminente
il suo fermo splendore
*
Come parlare di tramonti
e di alte maree?
Arsero tanti soli
quell’estate
Forse il mare
è l’indizio
di un mormorio
più profondo
Tra desideri
e nostalgie
la vita passa
come la poesia
(dal libro Trazos)
No escribes el poema
sino su nostalgia
su íntima penuria
*
Palabra escindida
tu nombre
trazo apenas
*
Una nube dorada
pequeñísima
alumbra el cielo
Dura sólo un instante
el prolongado
instante
en que la miro
*
Un trébol de siete hojas
crece en el jardín contiguo
Nadie ha osado mirarlo
*
Es abril
a orillas del Gran Lago
y vemos florecer los tulipanes
Es de nuevo tu rostro
cruzado
por el rayo
la mano que acaricia
la redondez perfecta del instante
Llegan susurros
llegan ráfagas
Toda la noche el sol
en las ventanas
Lo todavía no dicho
lo inminente
su firme resplandor
*
¿Cómo hablar de atardeceres
y pleamares?
Ardieron tantos soles
aquel verano
Quizás el mar
sea el indicio
de un murmullo
más hondo
Entre deseos
y nostalgias
se nos pasa la vida
como el poema
(del libro Trazos)
***
Imperversa un vento gelido
sul ramo della quercia
Un uomo solitario
attraversa il bosco
con una bussola rotta
Sento il crepitare
di cristalli
un grido che dice il mio nome
*
Riposa
anima mia
Lasciati sedurre dal silenzio
Non è ancora finita
la notte
*
La rosa bianca
è sola
in mezzo alla notte
Non ha paura
conosce il suo destino:
essere rosa bianca
fino all’arrivo dell’alba
*
La dama balla nuda
illuminata
nella gran sala
dai tendaggi rossi
Le sue mani lunghe
e ondulanti
tracciano segni incrociati
in aria
Spunta il giorno nella città di bronzo
un orologio di sabbia si ferma
un candelabro cade
Il cavaliere dalla spada
scruta in un angolo
e impugna l’arma
(dal libro Nocturnos)
Arrecia un viento helado
en la rama
del roble
Un hombre solitario
cruza el bosque
con una brújula rota
Escucho un crujir
de cristales
Un grito que me nombra
*
Descansa
alma mía
Déjate seducir por el silencio
Aún no ha cesado
la noche
*
La rosa blanca
está sola
en medio de la noche
No siente miedo
conoce su destino:
ser rosa blanca
hasta que llegue el alba
*
La dama baila desnuda
iluminada
en la gran sala
de cortinajes rojos
Sus manos largas
y ondulantes
trazan signos cruzados
en el aire
Amanece en la ciudad de bronce
Un reloj de arena se detiene
Un candelabro cae
El caballero de la espada
acecha en un rincón
y empuña el arma
(del libro Nocturnos)
***
La mansuetudine
dell’acqua
nel canale oscuro
Un airone bianco
immobile
sulla pietra
Filiera di alte luci
che ancora non illuminano
Case addormentate vicino al canale
tutte uguali
a esse stesse
Dove conduce
questa quiete?
*
I soli bianchi
del deserto
il tatto delle dune
La tua mano scivolando
sulla tiepida pelle
della pagina
Il poema
una palpitazione
nel buio
*
Bisogno
di averti accanto a me
nella penombra
di una stanza
intatta
L’uno nell’altro
L’uno sognandosi
nell’altro
mentre scorre
la notte
*
La notte ancora
e tu così lontano
Forse ti sveglieranno
altre albe
altre voci
Qui le acque
han portato via tutto
tranne il tuo nome
*
Canta un uccello
un altro gli risponde
Bastano due voci
per riempire la notte
*
Coloro che camminano
di notte
a volte
non sono passeggianti
sono quelli
che ritornano
alla ricerca
della loro ombra
*
Il canto
degli uccelli
nella mattina
limpida
Noi ascoltandolo
*
Il poeta
recita antichi versi
che solo ascolta
il vento
*
In tempi di oscurità
concedici Signore
la parola accesa
(dal libro La noche todavía)
La mansedumbre
del agua
en el canal oscuro
Una garza blanca
inmóvil
sobre la piedra
Hilera de altas luces
que aún
no alumbran
Casas dormidas junto al canal
todas iguales
a sí mismas
¿Hacia dónde conduce
esta quietud?
*
Los soles blancos
del desierto
el tacto
de las dunas
Tu mano deslizándose
por la piel tibia
de la página
El poema
un latido
en lo oscuro
*
Necesidad
de tenerte a mi lado
en la penumbra
de una habitación
intacta
Uno en el otro
uno soñándose
en el otro
mientras sigue
la noche
*
La noche todavía
y tú tan lejos
Acaso te despierten
otros amaneceres
otras voces
Aquí las aguas
se lo han llevado todo
menos tu nombre
*
Canta un pájaro
otro le responde
Bastan dos voces
para llenar la noche
*
Los que caminan
de noche
a veces
no son paseantes
Son aquellos
que regresan
en busca
de su sombra
*
El canto
de los pájaros
en la mañana
limpia
Nosotros escuchándolo
*
El poeta
recita antiguos versos
que sólo escucha
el viento
*
En tiempos de oscuridad
concédenos Señor
la palabra encendida
(del libro La noche todavía)
***
Cresce una rosa
Tra i vecchi muri
Qualcuno la guarda
*
Cade la notte
Sulle torri bianche
Tutto è silenzio
*
Giunge l’inverno
il cipresso è solo
sulla collina
*
In autunno
la solitaria notte
custodisce un segreto
(da un libro inedito di haiku)
Crece una rosa
Entre los viejos muros
Alguien la mira.
*
Cae la noche
Sobre las torres blancas
Todo es silencio.
*
Llega el invierno
el ciprés está solo
en la colina.
*
En el otoño
la solitaria noche
guarda un secreto.
(de un libro inédito de haikús)
***
Mi rendi
quel sapore di ciliegie
il sentiero sulla collina
la cappella solitaria
Mi rendi
il tempo
sul filo
di una spada
(Inedito)
Me devuelves
aquel sabor a cerezas
el sendero en la colina
la capilla solitaria
Me devuelves
el tiempo
en el filo
de una espada.
(Inédito)
Ana María Del RE
Ana María Del Re (Caracas 1944-2019) . Poeta e traduttrice. Laureata in lettere e in francese presso l’Università Centrale del Venezuela. Ha conseguito un Master in Letteratura ispanoamericana presso l’Università Simón Bolívar dove è stata docente dal 1975 fino al 2000 ed è stata una delle coordinatrici dell’Atelier Letterario “Anagrama”. Ha fequentato corsi di specializzazione per il dottorato in letteratura presso l’Università La Sorbonne (Parigi).
Ha tradotto i poeti italiani Umberto Saba, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Mario Luzi, Roberto Mussapi; J. R. Wilcock; il poeta francese Eugene Guillevic. Ha tradotto in italiano il libro Amante del poeta Rafael Cadenas.
Ha pubblicato i libri di poesia Trazos (Barcellona, Spagna, 1990), Nocturnos, Nocturnes(Soumagne, Belgio, 1998, edizione bilingue) e La noche todavía (Caracas, Bid & Co. Editore, 2007), La nuit encore (Agneaux, France, Eds. du Frisson Esthétique, 2014. Edizione bilingue).
E ‘stata responsabile della selezione, prologo, cronologia e bibliografia dell’opera poetica del cileno Humberto Díaz-Casanueva (Biblioteca Ayacucho, Caracas, 1988).
<In tempi di oscurità, concedici Signore la parola accesa.>>
*Brevissima lirica della poetessa Ana María Del Re (Caracas, 1941 – Caracas, 2019).
Laureata in Francese presso l’Università Centrale di Caracas e specializzata all’Università della Sorbona di Parigi, l’autrice venezuelana ha svolto anche un’intensa attività di traduttrice, curando tra l’altro la versione in lingua spagnola del celebre romanzo di Carlo Collodi, ‘Le avventure di Pinocchio’.
Ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti grazie alla sua opera poetica, caratterizzata da una scrittura epigrafica che evoca la grazia degli haiku giapponesi.
“Nei suoi versi la poesia irrompe come un fulmine di chiaroveggenza”, afferma con ammirazione il famoso scrittore Armando Rojas Guardia.
Secondo il poeta Humberto Díaz Casanueva, “il linguaggio di Ana María del Re si adatta a ritmi meravigliosamente sensibili e attenuati, e fonde così la parola con allusioni e qualità di forme spirituali, piuttosto che con immagini enfatiche”.
Ribadisce il saggista Freddy Castillo Castellanos: “La poesia di Ana María Del Re è un magnifico esempio di concisione espressiva. La sua opera esplora una luminosa concentrazione della parola. La brevità, che in alcuni dei suoi cultori non ha smesso di essere una semplice forma, acquista in lei la difficile profondità di una poetica. Quell’apparenza dei suoi testi, più che una retorica, è un dialogo con l’istante.”
ArchaeoReporter-La morte di Papa Francesco Il suo pensiero sui beni artistici e culturali da salvare-Articolo di Angelo Cimarosti-
Articolo di Angelo Cimarosti-ArchaeoReporter–Con la morte di papa Francesco scompare una figura centrale non solo per la Chiesa ma anche per il mondo della cultura. .”il patrimonio storico, artistico e culturale, insieme al patrimonio naturale, è ugualmente minacciato…”, ricordava il pontefice”
La scomparsa del Santo Padre Francesco è un momento di preghiera per i fedeli e di raccoglimento per chi ha apprezzato il suo impegno e la sua voce anche al di fuori della Chiesa. ArchaeoReporter si unisce al ricordo per la sua figura di Pontefice e per la sua persona.
Il vero ruolo partecipativo dell’arte, dei beni culturali e dei musei
Nel 2019 il Papa scrisse un discorso, che poi diffuse invece per iscritto, in occasione dell’incontro con l’Associazione dei Musei Ecclesiastici Italiani, che riportiamo quasi integralmente, in particolare sottolineandone l’aspetto dei beni culturali visti come mezzo partecipativo e sulla necessità di comunicarli con un linguaggio adeguato.
“...Nell’Enciclica Laudato si’ ho ricordato che il patrimonio storico, artistico e culturale, insieme al patrimonio naturale, è ugualmente minacciato. Esso è parte dell’identità comune di un luogo e base per costruire una città abitabile. Bisogna integrare la storia, la cultura, l’architettura di un determinato luogo, salvaguardandone l’identità originale, facendo dialogare il linguaggio tecnico con il linguaggio popolare. È la cultura intesa non solo come i monumenti del passato, ma specialmente nel suo senso vivo, dinamico e partecipativo (cfr n. 143). Per questo è fondamentale che il museo intrattenga buone relazioni con il territorio in cui è inserito, collaborando con le altre istituzioni analoghe. Si tratta di aiutare le persone a vivere insieme, a vivere bene insieme, a collaborare insieme. I musei ecclesiastici, per loro natura, sono chiamati a favorire l’incontro e il dialogo nella comunità territoriale. In questa prospettiva è normale collaborare con musei di altre comunità religiose. Le opere d’arte e la memoria di diverse tradizioni e stili di vita parlano di quella umanità che ci rende fratelli e sorelle.
Il museo concorre alla buona qualità della vita della gente, creando spazi aperti di relazione tra le persone, luoghi di vicinanza e occasioni per creare comunità. Nei grandi centri si propone come offerta culturale e di rappresentazione della storia di quel luogo. Nelle piccole città sostiene la consapevolezza di una identità che “fa sentire a casa”. Sempre e per tutti aiuta ad alzare lo sguardo sul bello. Gli spazi urbani e la vita delle persone hanno bisogno di musei che permettano di gustare questa bellezza come espressione della vita delle persone, la loro armonia con l’ambiente, l’incontro e l’aiuto reciproco (cfr Laudato si’, 150).
So bene che per voi questo lavoro è una passione: passione per la cultura, la storia, l’arte, da conoscere e da salvaguardare; passione per la gente delle vostre terre, al cui servizio ponete la vostra professionalità. E anche passione per la Chiesa e la sua missione. I musei in cui operate rappresentano il volto della Chiesa, la sua fecondità artistica e artigianale, la sua vocazione a comunicare un messaggio che è Buona Notizia. Un messaggio non per pochi eletti, ma per tutti. Tutti hanno diritto alla cultura bella! Specie i più poveri e gli ultimi, che ne debbono godere come dono di Dio. I vostri musei sono luoghi ecclesiali e voi partecipate alla pastorale delle vostre comunità presentando la bellezza dei processi creativi umani intesi ad esprimere la Gloria di Dio. Per questo cooperate con i vari uffici diocesani, e anche con le parrocchie e con le scuole.
Mi congratulo con voi perché curate la vostra formazione, per garantire una preparazione generale aggiornata anche presso i centri di studio ecclesiastici, oltre alla preparazione specifica nei diversi settori di competenza. Penso ad esempio al corso svolto quest’anno nella Pontificia Università Gregoriana. Ma anche al lavoro capillare di informazione e di comunicazione dei musei attraverso i media, le giornate di formazione e i contributi a riviste specializzate. Incoraggio anche le iniziative che portate avanti insieme con gli archivi e le biblioteche, mettendo in sinergia le vostre professionalità e la vostra passione. Insieme a volte si va più adagio, ma sicuramente si va più lontano!
Molti di voi si dedicano al dialogo con gli artisti contemporanei, promuovendo incontri, realizzando mostre, formando le persone a linguaggi di oggi. È un lavoro di sapienza e di apertura, non sempre apprezzato; è un lavoro “di frontiera”, indispensabile per continuare il dialogo che la Chiesa sempre ha avuto con gli artisti. L’arte contemporanea recepisce i linguaggi a cui specialmente i giovani sono abituati. Non può mancare questa espressione e sensibilità nei nostri musei, attraverso la sapiente ricerca delle motivazioni, dei contenuti e delle relazioni. Nuove persone si possono avvicinare anche all’arte contemporanea sacra, che può essere luogo importante di confronto e di dialogo con la cultura di oggi…”.
Rivista Collettivo R-Poesie pubblicate nel n° 29/30 Gennaio del 1983 –
Biblioteca DEA SABINA-Rivista Collettivo R-Poesie pubblicate n° 29/30 Gennaio del 1983 –
Rivista Collettivo R-La casa editrice venne fondata nel dicembre 1970 su inizativa di Luca Rosi, Ubaldo Bardi e Franco Manescalchi all’interno del movimento dell’underground culturale ed editoriale fiorentino in stretto collegamento con l’associazionismo politico culturale e ricreativo (Arci, Circoli culturali, Case del popolo, partiti della sinistra storica, sindacati e movimento studentesco). Lo scopo era di collegare la contestazione politica con orizzonti culturali più ampi attraverso la proposta della riflessione di scrittori e poeti, in particolare italiani e latinoamericani, poco noti al grande pubblico. L’iniziativa si concretizzò nella pubblicazione della rivista «Collettivo R», un nome derivato dalle unioni spontanee di quegli anni e una lettera simbolica R ad indicare un triplice richiamo: Resistenza, Ricerca, Rivoluzione.
La rivista mosse i suoi primi passi come “rivista al ciclostile” e visse nei luoghi di cui si volle fare icona e portavoce. Si interessò e propose accanto alla poesia anche lavori grafici, critiche letterarie, racconti. A fianco della rivista uscirono le serie dei “Quaderni” con raccolte poetiche contemporanee. Nel 1980 fu pubblicata L’utopia consumata: Antologia 1970-1980 che riassume le iniziative e le proposte del primo decennio di esperienza di “poesia militante”. Nel 1981 con la Casa della Cultura e il Consiglio di Quartiere 7 diede vita al Centro Due Arti di documentazione poetica e grafica e affiancò all’attività editoriale la produzione di spettacoli culturali, recital poetici e incontri di divulgazione nelle scuole. Tradusse, pubblicò e introdusse in Italia numerosi poeti latinoamericani in collaborazione con le cattedre di ispanistica delle università di Firenze, Siena e Venezia, tra questi ricordiamo Ernesto Cardenal padre trappista e ministro della cultura del Nicaragua rivoluzionario. Il primo maggio del 1994 Luca Rosi, Franco Varano e Paolo Tassi diedero vita all’attuale configurazione societaria l’Associazione culturale Athaualpa finalizzata al perseguimento di soli obiettivi culturali con il sostegno e l’impegno pratico di numerosi soci che dedicano gratuitamente la loro attività professionale alla realizzazione delle edizioni.
La Rivista Collettivo R mosse i suoi primi passi come “rivista al ciclostile” e visse nei luoghi di cui si volle fare icona e portavoce. Si interessò e propose accanto alla poesia anche lavori grafici, critiche letterarie, racconti. A fianco della rivista uscirono le serie dei “Quaderni” con raccolte poetiche contemporanee. Nel 1980 fu pubblicata L’utopia consumata: Antologia 1970-1980 che riassume le iniziative e le proposte del primo decennio di esperienza di “poesia militante”. Nel 1981 con la Casa della Cultura e il Consiglio di Quartiere 7 diede vita al Centro Due Arti di documentazione poetica e grafica e affiancò all’attività editoriale la produzione di spettacoli culturali, recital poetici e incontri di divulgazione nelle scuole. Tradusse, pubblicò e introdusse in Italia numerosi poeti latinoamericani in collaborazione con le cattedre di ispanistica delle università di Firenze, Siena e Venezia, tra questi ricordiamo Ernesto Cardenal padre trappista e ministro della cultura del Nicaragua rivoluzionario. Il primo maggio del 1994 Luca Rosi, Franco Varano e Paolo Tassi diedero vita all’attuale configurazione societaria l’Associazione culturale Athaualpa finalizzata al perseguimento di soli obiettivi culturali con il sostegno e l’impegno pratico di numerosi soci che dedicano gratuitamente la loro attività professionale alla realizzazione delle edizioni.
Rivista Collettivo R-Poesie pubblicate n° 29/30 Gennaio
IN RICORDO DI LUCA ROSI direttore della rivista di poesia “COLLETTIVO R- ATAHUALPA”
Sabato 21 settembre u.s. è morto Luca Rosi. Quanti l’abbiamo conosciuto abbiamo perso non solo il poeta, ma l’amico leale e sensibile, sempre vicino nei problemi di vita quotidiana; tutti noi dopo la sua morte siamo orfani di qualcosa,sentiamo la sua assenza come un vuoto e siamo affranti, questo vuoto era la sua dolcezza nei rapporti con tutti e il suo impegno tenace, di una persona forte e resistente moralmente, con la sua orientazione a portare a termine impegni di traduzione dei testi della rivista, di redazione dei “quaderni” di poesia o della preparazione dei diversi numeri della rivista. In questo impegno in cui si riconosceva pienamente e attraverso esso comunicava con tutti noi ed era felice quando inviava la rivista e spesso aggiungeva in un foglio allegato un caro saluto. Luca, con me, che abito a Roma, spesso era presente con una telefonata o con una lettera. Qualche volta veniva a Roma per i suoi impegni nel sindacato dell’editoria,ed era un’occasione di incontro e di riflessione, ugualmente avveniva nei miei ritorni a Firenze, anche dopo la conclusione del periodo universitario.
Luca era nato settanta quattro anni fa. L’ho incontrato la prima volta a Firenze, nella sua abitazione, per una riunione della redazione della rivista “Collettivo R”, fondata da Franco Manescalchi insieme allo stesso Luca. Quella sera, ricordo ci fossero Silvano Guarducci, Ubaldo Bardi e Paolo Tassi. Ero stato invitato, dopo aver scritto una lettera alla redazione in seguito alla presa visione di uno dei primi numeri che era arrivato alla redazione dei “Quaderni Calabresi” di Vibo Valentia. Siamo nei primi anni ’70, molto ricchi di fermenti culturali, e io ero alla ricerca di un percorso personale, che coniugasse politica e poesia. Allora mi sembrò – e fu poi così – di averlo trovato nella rivista fiorentina e nel gruppo di persone che l’animava.
Quando i rapporti redazionali divennero più frequenti con Luca, si andava formando anche una sincera amicizia, che col tempo si è consolidata, diventando molto preziosa. Io lo apprezzavo molto e gli volevo bene, e lui non mancava di farmi sentire il suo affetto e la sua stima, giudicando positivamente non solo i miei primi testi poetici per la rivista, ma spesso mi incoraggiava tantissimo a continuare a scrivere durante i miei periodi di dubbi e di insicurezza nel trovare un mio percorso. Io intanto scorgevo in lui (anche in Franco e Silvano e Paolo) l’unione tra intelligenza e sforzo morale: cioè l’attenzione che riversava verso la storia coniugata con la poesia. Lui , figlio di emigranti italiani in Venezuela, ritornato in Italia per studiare all’Università, aveva cominciato con l’interesse per i problemi degli studenti stranieri in Italia, con la redazione di un giornale degli studenti immigrati. Nel frattempo aveva avviato con la scrittura di testi poetici una comprensione del mondo e della sua storia. Penso alle prime due raccolte: “TERRA CALCINATA” E “AMORE SENZA TEMPO”. Per la prima volta ho cominciato a sentire da lui ( e da Franco) l’espressione caratterizzante: la poesia comepoesia della tensione. Essa era il risultato di riflessioni sul giusto rapporto morale con il mondo di quella storia che allora era divisa tra oppressione e movimenti di rivolta e rivoluzione. In quella concezione della poesia mi sembrava abitasse qualcosa di spirituale unito al politico. Luca era così, racchiudeva l’uno e l’altro. Lo spirituale mi sembrava basato su ciò che chiamiamo scelta, responsabilità, disponibilità all’apertura al mondo della storia. Così era fatto il suo mondo di poeta e di intellettuale, di poeta-intellettuale. Lui proponeva una poesia fatta con la passione della politica e con una tensione spirituale verso le singole persone oltre che per i fatti storico-collettivi. In Luca era molto presente anche l’orizzonte esistenziale, credo per dare un senso maggiore alla storia e alla vita stessa. Luca, già nei primi numeri della rivista “Collettivo R” individuava il ruolo del poeta come politico, con una sensibilità e una “tensione” verso le classi sfruttate e oppresse. Lui pensava possibile una <<lunga marcia>> in cui i poeti avrebbero lasciato da parte le ambizioni piccolo-borghesi, ogni prestigio personale per identificarsi con i problemi storici dell’oppressione. Luca è stato un innovatore : attraverso i testi classici del marxismo, denunciava nei primi scritti l’alienazione del lavoro intellettuale nell’industria, tra cui quello del poeta, che avrebbe perso l’aureola, eproponeva l’uscita dall’editoria tradizionale, con l’esoeditoria e il ciclostile e la diffusione a braccio della poesia tra gli strati popolari (case del popolo, scuole, ecc), collegandosi con le forze sociali che agivano a livello di massa. Così individuava il ruolo del poeta come ruolo politico in senso lato, con una tensione verso le classi oppresse. La Sua presenza alle feste dell’Unità, in alcune scuole, presso le Case del Popolo, e altri luoghi pubblici era determinante e necessaria: lui non riservava le sue energie che a questa attività di pedagogo, di amante della poesia, per far altresì innamorare gli altri. Una sua grande gioia era quella di poter invitare in questi incontri il poeta Cardenal o Rafael Alberti, o di tradurre dallo spagnolo moltissimi poeti latino-americani, per poterli far conoscere ai lettori italiani, cominciando dall’ antologia collettivamente tradotta: “Poeti a Cuba”. Il suo amore intenso per la poesia lo portava spesso a organizzare cene di sottoscrizione per continuare la pubblicazione della rivista, o a passare giorni interi a correggere le bozze di più di 50 libri di poesia di altrettanti autori, o a interessarsi alla redazione dell’antologia “L’Utopia Consumata” (o Anti-Antologia),o a curare periodicamente e con assiduità la corrispondenza con i poeti della rivista , o a tener testa ai diversi progetti culturali, relativi alla fondazione del Centro Eielson per la conoscenza della poesia latino-americana, o alla fondazione dell’Associazione culturale “ATAHUALPA, o alla edizione della nuova serie della rivista a cominciare dal 2006, o a preparare presso la biblioteca Marucelliana di Firenze la mostra di tutti i materiali di “COLLETTIVO R” e i diversi incontri di presentazione di libri per il quarantesimo anniversario della rivista.In questo suo impegno tenace era sempre sostenuto da una famiglia molto generose e a lui vicina: dalla moglie Felis, dalle figlie e dai nipoti, a cui ha saputo trasmettere con molto affetto il valore della poesia. Ecco, quando prendiamo in mano o pensiamo un numero della rivista o uno dei libri editati da Colletttivo R, pensiamo a Luca, al suo grande amore perché la poesia giungesse a tantissimi, perciò pensiamo a Lui come poeta, intellettuale e pedagogo. Oraquesto suo mondo apparentemente trascorso vivrà nel futuro, nella misura in cui noi lo ricordiamo riproponendolo. (Luca un grazie infinito da parte mia e a nome anche di coloro che ti hanno conosciuto attraverso la Rivista).
Franco Leggeri Fotoreportage “Il Giardino Antico” VILLA ROMANA delle COLONNACCE-
ROMA MUNICIPIO XIII- Castel di Guido-Franco Leggeri Fotoreportage “Il Giardino Antico” VILLA ROMANA delle COLONNACCE-I visitatori , anche a seguito delle varie manifestazioni organizzate dalla LIPU, ospiti del GAR nella Villa Romana delle Colonnacce, sono stati guidati dal mitico Archeologo Luca nel tour tra gli scavi archeologici. Durante la visita alla Villa Romana, molti partecipanti sono stati incuriositi dalla presenza di alcuni alberi con alla base un cartello con la descrizione dell’essenza tratta dalle Opere di Plinio. Gli alberi costituiscono una riproduzione di un”GIARDINO ANTICO” e si trovano in un angolo in fondo all’area archeologica. Ne elenco alcuni esemplari : CIPRESSO,LECCIO,FRASSINO e NOCCIOLO.
Questi alberi sono qui nella antica Villa Romana delle Colonnacce a testimoniare che, tra fine dell’età repubblicana e primi decenni dell’epoca imperiale, come si può anche leggere nelle Opere di Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone e Columella , il giardinaggio non è più considerato un’occupazione produttiva, ma anche attività svolta per piacere e diletto. Celebre il brano di Plinio il Vecchio: “I decoratori di giardini distinguono, nell’ambito del mirto coltivato, quello tarantino a foglia piccola, il nostrano a foglia larga, l’esastico a fogliame densissimo, con le foglie disposte a file di sei” ed ancora: “Esistono anche dei platani nani, che sono costretti artificialmente a rimanere di piccola altezza”.
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”
ROMA MUNICIPIO XIII- Castel di Guido-I visitatori , anche a seguito delle varie manifestazioni organizzate dalla LIPU, ospiti del GAR nella Villa Romana delle Colonnacce, sono stati guidati dal mitico Archeologo Luca nel tour tra gli scavi archeologici. Durante la visita alla Villa Romana, molti partecipanti sono stati incuriositi dalla presenza di alcuni alberi con alla base un cartello con la descrizione dell’essenza tratta dalle Opere di Plinio. Gli alberi costituiscono una riproduzione di un”GIARDINO ANTICO” e si trovano in un angolo in fondo all’area archeologica. Ne elenco alcuni esemplari : CIPRESSO,LECCIO,FRASSINO e NOCCIOLO.
Questi alberi sono qui nella antica Villa Romana delle Colonnacce a testimoniare che, tra fine dell’età repubblicana e primi decenni dell’epoca imperiale, come si può anche leggere nelle Opere di Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone e Columella , il giardinaggio non è più considerato un’occupazione produttiva, ma anche attività svolta per piacere e diletto. Celebre il brano di Plinio il Vecchio: “I decoratori di giardini distinguono, nell’ambito del mirto coltivato, quello tarantino a foglia piccola, il nostrano a foglia larga, l’esastico a fogliame densissimo, con le foglie disposte a file di sei” ed ancora: “Esistono anche dei platani nani, che sono costretti artificialmente a rimanere di piccola altezza”.
Articolo e foto sono di Franco Leggeri per l’Associazione CORNELIA ANTIQUA-
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”Associazione CORNELIA ANTIQUA- Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali. Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo ! Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com- Cell-3930705272-CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”Associazione CORNELIA ANTIQUA- Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali. Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo ! Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com- Cell-3930705272-CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico” IL Mitico LUCA-Archeologo e storico della Villa Romana delle ColonnacceCASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”Castel di Guido- – 22 aprile 2017-GAR- Sessione di scavo Villa Romana delle Colonnacce .Castel di Guido- – 22 aprile 2017-GAR- Sessione di scavo Villa Romana delle Colonnacce .Castel di Guido- – 22 aprile 2017-GAR- Sessione di scavo Villa Romana delle Colonnacce .
L’esordio poetico di Francesco Gallina: Medicinalia-Par Cinzia Demi-Marco Saya Edizioni
Francesco Gallina, classe 1992, laureato in Filologia moderna, docente di Lettere nelle scuole secondarie di secondo grado, è dottore di ricerca in Scienze filologico-letterarie, storico-filosofiche e artistiche presso l’Università degli Studi di Parma, dove si occupa prevalentemente della storia del genere novellistico e della fortuna dantesca in ambito letterario e figurativo. È autore di saggi di letteratura italiana, curatele e contributi su riviste scientifiche tra le quali: Studi e Problemi di Critica Testuale, Parole Rubate, Italianistica, Studi Pasoliniani, Griseldaonline, Campi Immaginabili, Oblio, Ricerche di S/Confine. Della sua produzione scientifica si menziona il recente «Speculando per sapienza». Vita, opere e poetica di Giovanni Gherardi da Prato (Rubbettino, 2022), volume monografico interamente dedicato all’intellettuale toscano. In ambito narrativo ha pubblicato racconti su quotidiani come la «Gazzetta di Parma» e antologie fra le quali Parma. I nuovi narratori raccontano la loro città (Diabasis, 2021).
Medicinalia, edito da Marco Saya Edizioni nel 2022, segna il suo esordio poetico: con questo lavoro Francesco Gallina ha vinto nello stesso anno il Premio Siae Under 35 nell’ambito del XXXIV Premio Letterario Camaiore – Francesco Belluomini, su giudizio della giuria composta dalla Presidente del Premio Rosanna Lupi e dal Presidente della Società italiana degli autori ed editori Giulio Rapetti Mogol.
Conosco Francesco Gallina per aver letto questa sua prima opera ed esserne rimasta colpita, come penso molti, per la particolarità del tema e l’assoluta scioltezza, ma anche complessità, con la quale lo tratta. Ho pensato di invitarlo alla rassegna Un thè con la poesia a Bologna, per l’appuntamento di giugno, per conoscerlo personalmente, per approfondire con lui le intenzioni del libro e per comprendere appieno questa sua esperienza, a mezza via tra la medicina e la poesia, che ci riporta indietro nel tempo, ricollegandosi ampiamente alla tradizione della Commedia dantesca.
Medicinalia
Francesco Gallina
Medicinalia è un titolo non proprio consueto per un libro di poesia, così come potrebbe far pensare il suo stesso contenuto. Eppure, a ben guardare, il nostro passato letterario è pieno di riferimenti a una tradizione che, su argomenti medici in poesia, affonda le sue radici addirittura nell’opera di Dante. E, certo, viene da chiedersi se Francesco Gallina, che per altro è anche dedito agli studi sul Poeta, non si sia ispirato in prima battuta proprio a lui per scrivere il suo lavoro. Dante, certamente, non era un medico ma sappiamo che a Firenze egli aveva scelto di iscriversi, tra le corporazioni, a quella dell’Arte dei medici e degli speziali, iscrizione che non è improbabile possa aver comportato il superamento di un esame non solo formale per verificare la capacità di esercitare il mestiere; sappiamo che ha avuto molti contatti con alcuni medici all’Università di Bologna, frequentando le lezioni di Taddeo Alderotti, professore di medicina, il quale a sua volta aveva legami con altri medici quali Fiduccio de’ Milotti e Mondino de’ Liuzzi; sappiamo che tra il 1304 e il 1306 Dante fu a Padova, dove frequentò Pietro D’Abano e, sicuramente, assistette alle dissezioni nel Teatro anatomico, le prime autorizzate dalla Chiesa… insomma molti indizi ci portano a credere che nella Commedia, in particolare nella cantica infernale, i riferimenti che confermano come Dante avesse una conoscenza di autori medici, e una grande capacità di descrivere le questioni inerenti agli argomenti da loro trattati, era considerevole, tanto da saperci restituire nella loro intensità e veridicità le pene inflitte ai dannati, le ambientazioni ospedaliere del tempo, il dolore fisico e psichico, le malattie dell’epoca come uno che ha davvero molta familiarità con la medicina.
Oltre a Dante, ovviamente, la schiera dei poeti che si sono cimentati in una scrittura che avesse come fondamento la medicina, e in specie la malattia, è lunga e se ne ritrovano tracce nella poesia classica e nella poesia contemporanea e ancora, come qualcuno sottolinea, in quella ipercontemporanea… Lo stesso Gallina apre il primo capitolo del libro o introduce alcune poesie con versi che ne dimostrano la frequentazione. Questi sono alcuni esempi: Ecco il bianco drappello che semina la pace/in punta di siringa (Margherita Guidacci, Iniezione serale); Splendido, certo, s’annuncia il continente profondo del cancro (Tiziano Rossi, Sotto cancro); Con non altri che te/è il colloquio (Vittorio Sereni, Via Scarlatti); Da che fatto fu poi il sangue brino,/ricominciò a dir: «Perché mi scerpi ?/non hai tu spirto di pietade alcuno ?» (Dante, Inferno)… e molti altri, non riportati, se ne potrebbero citare.
Resta da capire come sia stato sviluppato il tema e quale stile abbia scelto l’autore per i testi di questo libro che forse non ci sorprendono ma, di certo, non ci lasciano neanche indifferenti perché la malattia, la sofferenza, la partecipazione al dolore fanno parte della vita di tutti noi, rientrano nella nostra esperienza del quotidiano e non possiamo ignorarle. Tuttavia, l’approccio proposto da Gallina, di primo acchito, appare distaccato, e con il piglio quasi didascalico di chi descrive una realtà che, in fondo, sembra non appartenergli, egli si appresta a introdurci in stanze ben igienizzate, in sale operatorie illuminate da una luce neutrale, in resoconti clinici di mali, in elencazioni di organi più o meno vitali sottoposti a terapie, in sentimenti che non contemplano la compassione: tutto sembra non commuoverlo, come ci aspetteremo, tutto sembra raccontato con lucida perfezione come se visto in prima persona, ma attraverso un vetro, o uno specchio che ne riflette da lontano le immagini, le azioni, i volti, financo i pensieri: nessun coinvolgimento da parte del poeta, quasi nessun segno di quell’empatia che risulterebbe necessaria per affrontare l’argomento. Questo è quello che sembra. Ma noi non ci crediamo, e scandagliando bene le parole tra i versi dell’autore, ricominciamo a leggere per trovare quello che cerchiamo, quello che ci rende umani, quello che da sempre ci separa dal nulla, dal vuoto: il sentimento. Infatti, a ben guardare, ci imbattiamo – già dalle prime pagine – in alcuni versi che lasciano trapelare qualcosa di diverso da quella che è stata la prima impressione e che, se pure mimetizzata da un filo lieve d’ironia, soprattutto come vedremo più avanti, si apre nella prima sezione del libro alla presentazione di quella che è – o che vogliamo pensare sia -, in fondo, la dichiarazione di poetica di Francesco Gallina. Così scopriamo che la creazione dell’uomo nasce da un gesto d’amore: se qualcuno – il nome è un mistero -/non ci avesse messo l’impegno, la cura, un preistorico/storicissismo atto d’amore; che il pensiero sull’uomo porta alla considerazione che c’è qualcosa di più nel corpo umano, oltre agli organi che lo compongono: non è una macchina, l’Uomo/non è calcolo o matematica/non è certezza algoritmo equazione […] ma un magnetico puntino su tela/di Fénéon; che la razionalità sulla nostra esistenza dev’essere filtrata dalla bellezza e dell’arte, dimensione con cui convivere a pieno titolo: ché la vita è una questione di grafite,/roba fragile, fragile detrito//ma passata al filtro dell’arte/pulsa di nuovo colore.
Da qui il passaggio, quasi obbligatorio e di considerevole efficacia, ci conduce ai successivi capitoli, nei quali, come detto, attraverso una cifra stilistica forgiata da una lieve ironia che cattura al suo interno le figure retoriche tipiche della poesia, il ché ne denota l’ottima conoscenza, quali la metafora, l’allitterazione, l’iperbole, se pure rivisitate in chiave moderna, da qui, dicevamo, vengono poste al lettore – quasi inconsciamente – alcune domande basilari sulla funzionalità e intenzionalità delle scienze mediche, vengono rivisitate le storie degli esperimenti esperiti spesso senza alcuna etica professionale o umana, il tutto filtrato attraverso un percorso su alcune tipologie di malattie e la reazione ad esse da chi ne viene colpito (secondo capitolo: dal sentimento al sintomo), o addentrandosi nella dimensione ospedaliera vera e propria, con elencazione di mezzi e strumenti utilizzati, di patologie più gravi, di cure specifiche (terzo capitolo: minimo abbecedario ospedaliero).
E infine, arriviamo all’epilogo, ovvero all’ultima sezione del libro dove ci imbattiamo nella dimensione delle tematiche bioetiche anch’esse, in apparenza, trattate con distacco. Diciamo sempre in apparenza perché, non abbiamo nessuna convinzione in merito all’accennato atteggiamento del distacco: anche qui, infatti, come nella prima parte del libro ci sembra affiorare invece un sentimento, che potremmo definire quasi religioso di osservazione, cosparso di termini biblici ed evangelici, intriso di quella spiritualità che si porta necessariamente con sé il confronto tra la vita e la morte, tra il partire e il restare, tra la rianimazione e la resurrezione: corpo di pillola che si spezza come ostia/nella tua bocca, vecchio: nell’ora del vespro/la tua comunione contro l’ipertensione sono i versi che accompagnano questa visione liturgica dei gesti di cura; profondissima è la forza che separa/ “rianimazione” e “resurrezione” […] «alzati e cammina»/può diventare un protocollo umano,/troppo umano dove il miracolo di Lazzaro è il termine di paragone per il tentativo di rianimare un corpo da riportare in vita; si sfaldano come alghe le madri,/curve di nervi nelle camere ardenti//asciutta l’acquasantiera/ l’utero s’involve, secca dove l’elemento dell’acquasantiera asciutta si rapporta con l’utero seccato nel momento in cui la madre subisce la morte prematura del figlio… e gli esempi potrebbero continuare. Come parlare dunque di distacco, di assenza di coinvolgimento, di neutralità di fronte alle esperienze dolorose della vita, accorgendosi dell’uso di termini di paragone, metafore, similitudini di questa portata?
Per concludere possiamo solo dire che siamo grati a Francesco Gallina per averci condotto su questa strada dove ognuno vedrà sicuramente ciò che più gli è caro o vicino ma dove, inevitabile sarà il confrontarsi anche con questa prospettiva, molto meno laica di quanto si pensi.
Alcuni testi da: Medicinalia
L’atlante di Netter
se perdessi la strada che porta all’arteria
col dito potresti intercettare la sim
del sangue, risalire al pin
che ci tiene in vita, messo su carta
da Frank Netter in punta di matita,
ché la vita è una questione di grafite,
roba fragile, fragile detrito
ma passata al filtro dell’arte
pulsa di nuovo colore:
anche un tumore
acquista dignità, l’orrore
la rappresentazione del male
l’inferno senza girone
che incappi sfogliando l’Atlante
diventa il manifesto dell’iperreale
più vivo della carne
che ogni giorno ti carichi sulle spalle
***
La grafia del medico di famiglia
è una in gamba
la farmacista sotto casa
si dice abbia
avuto maestri illustri (Champollion,
Evans, Ventris), che persino
Dan Brown l’abbia chiamata
in consultazione privata
sulla decodifica di antichi alfabeti in codice
dunque, cari miei, nessuno stupore
se ha antenne per captare
la calligrafia e la sua mistica,
l’arzigogolo arabeggiante, l’esotico
ondeggiare dell’inchiostro
sulla stele di Rosetta
fresca di cartuccia
***
Il cuore
sono lontani i tempi in cui Magrelli
cantava di DNA di lucciole
innestati nelle fragole
oggi la musica è cambiata: la poesia
può permettersi solo un impoetico
cuore di porco, geneticamente
modificato, installato nel corpo
di un uomo, (in attesa che il cuore umano
palpiti un giorno nel costato di un porco
per permettere il passaggio di specie
forse già in atto, senza trapianto).
***
La risonanza magnetica
le bobine di gradiente
inglobano il corpo del piccolo Mircea,
lo risucchiano nel buco nero
di un solenoide: dentro
si gioca una guerra di acufeni,
frequenze acustiche all’impazzata,
onde magnetiche, picchi di martello
la testa di Mircea si apre a ombrello sul monitor:
vediamo il cervello e le radici
del tronco encefalico, vediamo
le cause dei suoi capogiri, la vertigine
cosmica, i suoi sogni in tomografia
***
La terapia intensiva
sotto la tonda plastica dei caschi
a ventilazione non invasiva
simile con simile qui è sepolto
inclinando oltre la parabola del mondo
raddrizzata sulla carreggiata l’anima
l’angelo intubatore, l’idraulico
celeste sotto lo scafandro, sillaba
alle valvole parole d’amore
la turbolenza dei flussi d’aria
è il soundtrack che tiene in vita chi da vita
sfugge
Cinzia Demi
Bologna, maggio 2023
Cinzia Demi
https://cinziademi.it/
Cinzia Demi
Cinzia Demi (Piombino – LI), lavora e vive a Bologna, dove ha conseguito la Laurea Magistrale in Italianistica. E’ operatrice culturale, poeta, scrittrice e saggista. Dirige insieme a Giancarlo Pontiggia la Collana di poesia under 40 Kleide per le Edizioni Minerva (Bologna). Cura per Altritaliani la rubrica “Missione poesia”. Tra le pubblicazioni: Incontriamoci all’Inferno. Parodia di fatti e personaggi della Divina Commedia di Dante Alighieri (Pendragon, 2007); Il tratto che ci unisce (Prova d’Autore, 2009); Incontri e Incantamenti (Raffaelli, 2012); Ero Maddalena e Maria e Gabriele. L’accoglienza delle madri (Puntoacapo , 2013 e 2015); Nel nome del mare (Carteggi Letterari, 2017). Ha curato diverse antologie, tra cui “Ritratti di Poeta” con oltre ottanta articoli di saggistica sulla poesia contemporanea (Puntooacapo, 2019). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, rumeno, francese. E’ caporedattore della Rivista Trimestale Menabò (Terra d’Ulivi Edizioni). Tra gli artisti con cui ha lavorato figurano: Raoul Grassilli, Ivano Marescotti, Diego Bragonzi Bignami, Daniele Marchesini. E’ curatrice di eventi culturali, il più noto è “Un thè con la poesia”, ciclo di incontri con autori di poesia contemporanea, presso il Grand Hotel Majestic di Bologna.
Maram al-Masri -(Lattakia Siria 2 agosto 1962)-Le donne come me, non sanno parlare; la parola le rimane di attraverso in gola come una lisca che preferiscono inghiottire. Le donne come me sanno soltanto piangere a lacrime restie che improvvisamente rompono e sgorgano come una vena tagliata. Le donne come me sopportano gli schiaffi senza osare renderli. Tremano di rabbia e la reprimono. Come leoni in gabbia le donne come me sognano la libertà …
( Versi tratti da Anime scalze, Maram Al- Masri, Multimedia Edizioni / Casa della poesia.)
Maram al-Masri
-M’infiamma il desiderio.
M’infiamma il desiderio.
E brillano i miei occhi.
Sistemo la morale nel primo cassetto che trovo,
mi muto in demonio,
e bendo gli occhi dei miei angeli
per un bacio.
-Dormi profondamente-
Dormi profondamente
e non ti preoccupare
per la mia insonnia,
lasciami sognare un po’
di strade alberate
e di vaste dune,
dove possa galoppare
sui miei cavalli bramosi,
io,
la donna che dovrà essere
buona
e ragionevole
domattina.
Ho osservato il mio specchio
Ho osservato il mio specchio
e vi ho visto
una donna
pienamente soddisfatta
con gli occhi brillanti
d’una squisita malizia.
L’ho invidiata
Abbiamo volti
che portiamo sulle spalle
sulle carte d’identità
nelle foto ricordo
Maram al-Masri
Abbiamo volti
Abbiamo volti
che strappiamo conserviamo
nascondiamo riveliamo
ai quali ci abituiamo che rinneghiamo
che amiamo
e odiamo
Abbiamo volti
che conosciamo…
diciamo: li conosciamo?
-Che follia-
Che follia!
Il mio cuore ogni volta che sente bussare
apre la porta.
-Uno straniero mi guarda-
Uno straniero mi guarda,
uno straniero mi parla,
sorrido ad uno straniero,
parlo ad uno straniero,
m’ascolta uno straniero,
davanti
alle sue pene
pulite e bianche
piango,
sulla solitudine che unisce
gli stranieri.
-La donna che guarda dalla finestra-
La donna che guarda dalla finestra
vorrebbe avere delle lunghe braccia
per prendere il mondo
il suo Nord e il suo Sud
il suo Est e il suo Ovest
nel suo grembo
come una tenera madre
vorrebbe avere grandi mani
per carezzare i suoi capelli
scrivere delle poesie
per alleviare la sua pena.
-Desideravo-
Desideravo
che le tue labbra sfiorassero
il mio collo,
per chiudere gli occhi
e assaporare
la magia di quel
momento
proibito.
-Io e la mia felicità-
Io e la mia felicità
aspettiamo
le vibrazioni dei tuoi passi.
-Sei molto diverso dagli altri-
Sei molto diverso dagli altri.
Il tuo segno distintivo:
il mio bacio
sulla
tua bocca.
-Sono la ladra dei dolci-
Sono la ladra dei dolci
esposti nel tuo negozio
le mie dita sono appiccicaticce
e non sono riuscita
a metterne uno solo
in bocca.
-Questa sera-
Questa sera
un uomo uscirà
in cerca
di una preda
per soddisfare il segreto dei suoi desideri.
Questa sera
una donna uscirà
in cerca
di un uomo che la renderà
la padrona del suo giaciglio.
Questa sera
la preda e il predatore si incontreranno
e si compenetreranno
e forse…
forse
si scambieranno i ruoli.
-Sul letto-
Sul letto
una macchia rossa
inumidita dalle lacrime del vergine desiderio.
Ama per la prima volta
e si immerge nell´acqua eterna della vita
quel sudore
caldo
e i suoi strani effluvi
che emanano da due corpi
che festeggiano la morte del desiderio.
-Specchio-
Mi sono guardata allo specchio
e ho visto
una donna
pienamente soddisfatta,
dallo sguardo radioso
e squisita malizia.
-Tristezza-
Sola
non le permetto
di farmi visita.
Volteggia intorno a me
la caccio via.
Eccola
simile a una mosca nera
simile a una orribile mosca nera
vola qui, ronza di là
per atterrare sul profondo del mio cuore.
Tristezza
una mucca impazzita
rumina
l´erba e il fieno
della mia estasi.
-Verso di lui-
Si è diretta verso di lui
per offrirgli
i suoi pori
e le sue unghie
decorate da ciliegie
che ha divorato
avidamente.
Se ne è andata
con il cestino del suo cuore
svuotato.
-Filo di luce-
Lo guardai
attraverso un filo di luce
che filtrava
dalla finestra della mia misericordia.
Il corpo affaticato
disteso accanto a me
affamato come me.
Gli ho fatto cenno
di avvicinarsi
ma ha rifiutato.
Glielo ho ordinato
ma ha disobbedito.
L’ho obbligato
si è avvicinato tremante dalla paura
di toccare
un altro corpo.
-L’Amore-
Lo voglio,
caldo
e profondo
che mi dia vertigine;
altrimenti, non ti avvicinare.
Che parta
dal mignolo della mia mano,
per finire alla punta dei miei piedi,
passando
per i miei monti,
le mie valli e le mie gole
e catturi
la mia anima.
– Aspetto,e cosa aspetto ?-
Aspetto,
e cosa aspetto ?
Un uomo carico di fiori
e di parole dolci.
Un uomo
che mi guardi e mi veda.
Che mi parli e m’ascolti.
un uomo che pianga
per me.
Provo pietà per lui
e l’amo.
-Impediscimi-
Impediscimi, mio saggio marito,
Impediscimi, mio saggio marito,
di issarmi sui tacchi della mia femminilità,
perché all’angolo
mi aspetta un giovane
-Lei mi apre-
Lei mi apre
le sue ampie porte.
Mi chiama
e mi spinge a lanciarmi
nel suo spazio
e come un uccello
davanti alla porta aperta della gabbia
non oso.
-Delitto-
Che
meraviglioso delitto
ho commesso?
Ho goduto
di un corpo
che mi ha donato
un fiume inebriante
e una ribellione di vita.
-Anime scalze-
Le ho viste.
Loro,
i loro volti dai lividi celati.
Loro,
gli ematomi nascosti tra le cosce,
Loro,
i loro sogni rapiti, le loro parole azzittite
Loro,
i loro sorrisi affaticati.
Le ho viste
tutte
passare nella strada
anime scalze,
che si guardano dietro,
temendo di essere seguite
dai piedi della tempesta,
ladre di luna
attraversano,
camuffate da donne normali.
Nessuno le può riconoscere
tranne quelle
che sono come loro.
-Vieni, vieni-
Vieni, vieni
ho preparato la tavola del mio ventre
il giardino delle mie cosce dai frutti maturi
le mie cosce calde e felici
succose di nettare di desiderio.
Ma
prepara la tua bocca affinché io possa mangiare.
Vieni, vieni
ben temperato è il mio vino sacro
che ti darà il godimento
di una donna
matura d’amore.
Maram al-Masri
– Mi ha detto che sarebbe venuta-
Mi ha detto che sarebbe venuta
quando?
non lo so
tuttavia lei verrà, è sicuro
ma prima
bisognerà che mi tolga
lo sfavillio degli occhi
la freschezza della pelle
la pienezza dei seni
l’umido dei passi
la lucentezza dei capelli.
Dovrà privarmi
della voglia di correre
di danzare
di scoprire le braccia
di guardarmi nello specchio.
Le servirà far morire il mio desiderio
il desiderio di baciare
di fare l’amore.
– È venuta tutta intera-
È venuta tutta intera,
con l’odore del suo letto
e della sua cucina,
con i baci di suo marito
nascosti sotto la camicetta,
con il suo sperma
ancora caldo
nel ventre.
È venuta,
con la sua storia e i suoi sogni,
le sue rughe,
e il suo sorriso screpolato,
con la peluria che si tesse
sul bordo delle sue guance,
con i resti delle loro colazioni
appiccicati ai denti.
È venuta con tutti i miei dolori,
la donna che vive con il mio uomo.
-Che dispiacere-
Che dispiacere
per ogni parola d’amore
che voleva dichiararsi
e che fu seppellita viva.
Che dolore
in gola.
-Aspetto dietro la tua porta-
Aspetto
dietro la tua porta,
non aizzarmi contro i tuoi cani rabbiosi
perchè mi caccino.
I tuoi cani
che ho visto nascere,
che ho nutrito,
che ho carezzato,
che si sono dimenticati
che li abbracciavo
e che nascondevano la loro testa
nel mio grembo.
Ah,gli ingrati!
Ogni volta
che apro la mia valigia,
ne esce polvere.
– Madame Chevrot-
Età : 75 anni Professione : ex stiratrice
È da molto
che non vedo Madame Chevrot,
la donna che di solito
incontravo nella strada principale.
Mi sorrideva
e il suo sorriso mi costringeva a fermarmi,
anche se avevo fretta,
per parlare del tempo,
della sua bellezza di un tempo
e degli uomini che l’hanno amata.
Madame Chevrot è piccola,
un naso grosso come una melanzana
e pochi denti
rotti e neri,
Lei giura con fierezza, che sono veri.
Elegante, per quanto l’età lo permetta.
Truccata, tanto che le cascano le palpebre …
Al nostro ultimo incontro
mi ha raccontato
di aver conosciuto un uomo
nella sala da ballo
dove stava imparando la salsa.
Lui avrebbe tanto voluto vivere con lei …
Ma lei?
Lei esitava,
divisa tra rinunciare alla sua libertà
e rinunciare al suo russare,
perché, mi diceva,
è tutto quello che lui può offrirle
la notte.
– Grazie a tutti quelli che.-
Grazie a tutti quelli
che mi hanno amato
e a tutti quelli che mi hanno detestato
a quelli che mi hanno abbandonato
e a quelli che ho abbandonato
Ogni volta mi hanno ridato fuoco
e riacceso in me il desiderio
Ci sono quelli che ho dimenticato
e quelli che non dimenticherò mai
Non mi hanno impedito
d’avventurarmi
ogni volta
ad amare di nuovo.
Maram al-Masri
Maram al-Masri -(Lattakia Siria 2 agosto 1962)-Le donne come me, non sanno parlare; la parola le Maram al-Masri rimane di attraverso in gola come una lisca che preferiscono inghiottire. Le donne come me sanno soltanto piangere a lacrime restie che improvvisamente rompono e sgorgano come una vena tagliata. Le donne come me sopportano gli schiaffi senza osare renderli. Tremano di rabbia e la reprimono. Come leoni in gabbia le donne come me sognano la libertà …
( Versi tratti da Anime scalze, Maram Al- Masri, Multimedia Edizioni / Casa della poesia.)
Maram al-Masri – Vive suoi primi vent’anni nella città portuale siriana di Lattakia, vicina all’isola di Cipro. Dopo gli studi a Damasco e in Inghilterra, è costretta a lasciare la sua terra d’origine insieme a suo marito perché oppositrice del regime di Assad.
Si trasferisce con lui a Parigi dove vive dal 1982. A seguito della fine del suo matrimonio, l’ex marito ritorna in Siria portando con sé anche il figlio di soli diciotto mesi. A Maram Al Masri per tredici anni viene proibito di vederlo.
Maram esordisce a Damasco dove pubblica “Ti minaccio con una colomba bianca”, presso la casa editrice del Ministero dell’ Educazione. Dopo un lungo periodo di silenzio, nel 1997 ritorna alla poesia con “Ciliegia rossa su piastrelle bianche”, pubblicato a Tunisi dalle Edizioni L’Oro del Tempo nel 1997, e salutato con entusiasmo dalla critica dei paesi arabi. Nel 1998 riceve il premio del Forum culturale libanese in Francia, al quale partecipò il poeta libanese Adonis.
Nella raccolta Anime Scalze la poetessa dedica la sua opera alle donne vittime di violenza in Francia e nel mondo, a quelle “anime scalze”, alle donne che non sono mai state amate.
Nel 2000 Al Manar Edizioni pubblica a Beirut la terza raccolta Ti guardo e nel 2002 viene pubblicata in Spagna la prima traduzione di Ciliegie rosse su piastrelle bianche. Le sue opere cominciano ad essere tradotte in molte lingue. L’edizione spagnola di Ti guardo resta per quattro settimane tra i primi dieci libri di poesia più venduti. Maram al-Masri ha partecipato a numerosi festival internazionali di poesia in tutto il mondo e per Casa della poesia nel 2004 a “Il cammino delle comete” e a “Sidaja”, nel 2005 a “Napolipoesia nel Parco” e agli “Incontri di Sarajevo”. Nel 2007 e nel 2009 ha preso parte a “VersoSud”, Reggio Calabria. Nel 2017 ha ricevuto il Premio Casa della poesia – Regina Coppola.
Bibliografia
PUBBLICAZIONI:
1984 “Ti minaccio con una colomba bianca”, Ministero dell’ Educazione, Damasco.
1997, “Ciliegia rossa su piastrelle bianche”, Edizioni L’Oro del Tempo, Tunisi. Questo libro è stato tradotto in spagnolo, in francese, in corso e in inglese (Gran Bretagna e Stati Uniti). Molte sue poesie sono state tradotte e pubblicate in riviste, in spagnolo, francese, inglese, tedesco, italiano, corso e turco.
2000, “Ti guardo”: è stato pubblicato originariamente a Beirut (e poi in Francia e in Spagna); è stato pubblicato nell’agosto del 2009 da Multimedia Edizioni (traduzione dall’arabo di Marianna Salvioli).
2011, “Les âmes aux pieds nus”: è stato pubblicato in Francia da Le Temps des Cerises, e in Italia col titolo “Anime scalze” nel 2011 dalla Multimedia Edizioni / Casa della poesia che nel 2014 dà alle stampe “Arriva nuda la libertà” (traduzione dall’arabo di Bianca Carlino). Nel 2018 con la traduzione di Raffaella Marzano viene pubblicato “La donna con la valigia rossa”, racconto illustrato dall’artista salernitana Ida Mainenti.
La sua poesia è inserita nel volume “Non ho peccato abbastanza. Antologie di poetesse arabe contemporanee” (Mondadori, 2007).
Maram Al-Masri Nella Siria martoriata c’è una città che si chiama Lattakia. Una città di mare, vicina all’isola di Cipro: lì il 2 Agosto del 1962 è nata Maram Al-Masri e lì ha vissuto i suoi primi vent’anni. Studia a Damasco, poi in Inghilterra. Si sposa giovanissima e con il marito è costretta a fuggire a Parigi, in quanto oppositrice del regime di Assad.
Lì ho sepolto mio padre il giorno in cui ho deciso di partire con una sola valigia colma di sogni senza memoria… e la sua fotografia.
Quando il suo matrimonio finisce il marito ritorna in Siria portando con sé il figlio che Maram non vedrà per i successivi tredici anni. A Lattakia, oggi presa di mira dall’ISIS, vive ancora tutta la sua famiglia.
Maram esordisce a Damasco nel 1984 con Ti minaccio con una colomba bianca; poi, dopo un lungo periodo di silenzio, pubblica nel 1997 la raccolta di poesie Ciliegia rossa su piastrelle bianche. Ti guardo viene invece pubblicato a Beirut nel 2000.
Nella raccolta Anime scalze del 2011 Maram dedica i suoi versi a tutte le donne vittime di violenza, alle profughe, alle donne sommerse. La sua scrittura diventa quasi fotografia, è come vederle queste donne: i loro lividi, i loro sogni rapiti, le parole che non possono dire, i sorrisi stanchi:
Le ho viste tutte passare in strada / anime scalze, / che si guardano dietro, / temendo di essere seguite / dai piedi della tempesta, / ladre di luna / attraversano, / camuffate da donne normali. / Nessuno le può riconoscere / tranne quelle / che somigliano a loro.
La poesia di Maram è un inno alla bellezza che sopravvive al di là degli orrori, della guerra, della violenza nelle piccole cose.
Oggi il dolore di Maram è quello del suo popolo, decimato in pochi anni. I siriani da venti milioni sono diventati undici milioni. Quelli che hanno deciso di restare nella loro terra affrontano ogni giorno fame, prigione e torture da parte del regime, e le bombe dell’ISIS. A loro Maram dedica la raccolta di poesie Arriva nuda la libertà del 2014:
La Siria per me… è una donna violentata tutte le notti da un vecchio mostro / violata / imprigionata / costretta a sposarsi. / La Siria per me / è l’umanità afflitta / è una bella donna che canta l’inno della Libertà / ma le tagliano la gola. / È l’arcobaleno del popolo / che si staglierà dopo i fulmini e le tempeste.
I versi di Maram sono un omaggio a coloro che hanno perso la vita sotto le bombe o che sono morti sotto le torture del regime. Sono “figli della libertà”, indossano abiti usati di stoffa ruvida, sono scalzi o hanno scarpe troppo grandi. I figli dei figli della libertà giocano con brandelli di pneumatici, con i sassi, con i resti degli ordigni esplosi. Nessuno ha più la forza di raccontare loro una favola, ascoltano solo “il frastuono della paura e del freddo / sui marciapiedi / davanti alle porte delle loro case distrutte / negli accampamenti / o / nelle tombe.”
Ha un sogno Maram: diventare un uccello dalle grandi ali e sorvolare finalmente la sua nazione liberata da guerra e violenza, risorta dalle rovine.
Un esilio è paragonabile ad un albero privato delle radici. Una migrante come me / […] / non attecchisce da nessuna parte. / Senza patria / viene da ogni orizzonte, / portata dalle ali del vento.
Lontana dalla sua terra, la voce di Maram grida forte il proprio dissenso. I suoi versi diventano atti civili di resistenza al regime, richiesta di rispetto dei diritti umani. La sua poesia vola dalla Francia alla Siria, dall’Occidente all’Oriente: inno di giustizia e di libertà sia per i siriani che hanno deciso di restare sia per quelli che, in cammino per le strade del mondo, cercano pace e accoglienza.
Nel 2020 è stato tradotto in italiano dalla casa editrice Medinova il suo libro autobiografico “Le Rapt” con il titolo “La lontananza”.
Fonti, risorse bibliografiche, siti su Maram Al-Masri
-Roma, MunicipioXIII: il Castello della Porcareccia-
Roma, Municipio XIII -Franco Leggeri Fotoreportage- : il Castello della Porcareccia – Quartiere Casalotti. Fuori dal traffico della Via Boccea, in una discontinuità edilizia, c’è il Castello della Porcareccia, noto anche con il nome “Castello aureo”, che domina il suo borgo medievale. Il fortilizio, in posizione strategica, è costruito su di uno sperone roccioso. Anticamente vi era una torre di avvistamento, ora scomparsa. Il Castello nel corso dei secoli è stato, più volte, rimaneggiato e, rispetto alla costruzione originale, ora si vedono modifiche strutturali evidenti. Il toponimo deriva da “Porcaritia”.
Il Castello della Porcareccia-cortile interno
Nel passato questa era una località al centro di boschi di querce e, quindi , luogo più che mai adatto all’allevamento dei maiali. Il primo documento che parla del Castello è una lapide del 1002, che si trova nella Chiesa di Santa Lucia delle Quattro Porte ,dove si legge che un prete “romanus” dona la tenuta della Porcareccia ai canonici di Monte Brianzo. Nel 1192 Papa Celestino III dà la cura del fondo ai canonici di Via delle Botteghe Oscure. Il Papa Innocenzo III affidò una parte della tenuta all’Ordine Ospedaliero di Santo Spirito. La tenuta passò, dopo la crisi fondiaria del 1527, ai principi Massimo e nel 1700 ai Principi Borghese, quindi ai Salviati e ai principi Lancellotti, ora la proprietà del Castello è della Famiglia Giovenale che lo possiede dal 1932.
Il Castello della Porcareccia
Il portale d’ingresso è imponente e su di esso vi è lo stemma di Sisto IV. Prima di accedere al cortile interno, nel “tunnel”, in alto, si notano dei fori passanti sedi di una grata metallica che, alla bisogna, era calata per impedire assalti e irruzioni di nemici . Nel giardino interno del Castello vi è, in bella mostra, una stele commemorativa di un funzionario imperiale delle strade di Roma . La stele probabilmente era riversa in terra perché presenta evidenti segni di ruote di carro. Vicino vi è una lapide funeraria con incisi dei pavoni, antico simbolo di morte. Sono visibili altri reperti di epoca romana, come frammenti di capitelli e spezzoni di colonne. In bella mostra, montata alla rovescia, vi è una vecchia macina a mano per il grano, una simile è nel cortile della chiesa di Santa Maria di Galeria. Nel piazzale interno c’è la chiesetta di Santa Maria la cui costruzione risale al 1693.
Il Castello della Porcareccia
Ciò che colpisce nella chiesa è la bellezza dell’Altare realizzato in legno intagliato, come dice uno dei proprietari, il Sig. Pietro Giovenale:”l’Altare è stato costruito dai prigionieri austriaci della Grande Guerra che qui erano stati internati”. Nel 1909, giusto un secolo fa, in questa chiesa celebrava la Messa il giovane prete Don Angelo Roncalli, il futuro Papa Buono, Giovanni XXIII il quale veniva in questi luoghi per goderne la bellezze naturali e gustare ”la buona ricotta” della via Boccea che Gli veniva offerta dai pastori ; a ricordo di questa visite, all’interno della chiesa, per desiderio della Famiglia Giovenale, il Vescovo della Diocesi di Porto e Santa Rufina, Mons. Gino Reali, nel 2004 inaugurò una lapide. La tenuta della Porcareccia fu anche antesignana della “guerra delle quote latte”; Ci narra la storia che nel periodo di carestia si diede il massimo sviluppo all’allevamento dei suini per sfamare la popolazione di Roma, come si legge in una bolla di Papa Urbano V nel 1362 che decretava “libertà di pascolo ai suini in qualsiasi terreno e proprietà…”. Per segnalare la presenza degli animali furono messi dei campanelli alle loro orecchie e chiunque ne impediva il pascolo incorreva in pene severissime.
Articolo e Fotoreportage di Franco Leggeri
N.B. Le foto originali sono di Franco Leggeri- Fonte articolo: Autori Vari- Si Evidenzia e voglio ricordare che gli Alunni di Casalotti hanno realizzato un pregevole lavoro sulle origini e la Storia del Castello. L’Intervista con il Sig. Giovenale è di Franco Leggeri- Si chiarisce che l’articolo è solo una piccola sintesi ricavata da un lavoro molto più esaustivo e completo relativo al Medioevo e i sistemi difensivi della Campagna Romana – TORRI SARACENE-TORRI DI SEGNALAZIONI – Monografia e ricerca storica i biblioteca di Franco Leggeri pubblicazione a cura dell’Associazione DEA SABINA.
Il Castello della PorcarecciaIl Castello della PorcarecciaIl Castello della Porcareccia
Ugo Foscolo l’inquieto e la inattualità della rivoluzione-Articolo di Pierfranco Bruni saggista e antropologo-
Ugo Foscolo è Il Poeta che traccia il silenzio dei “Sepolcri” e la grecità di Zante nel canto sublime di un ulissismo dolorante. La rivoluzione e l’eresia.Ugo Foscolo- Un binomio che permette di leggere Ugo Foscolo tra il superamento della Ragione e la “rappresentazione” del rivoluzionario nella sua attualità. L’inquietudine dell’intellettuale moderno nell’eresia del rivoluzionario è un percorso fondamentale per comprendere l’agonia di un’epoca e la solitudine di un uomo.
Pierfranco Bruni
Articolo di Pierfranco Bruni -Il secolo che precede il decadentismo con alcuni autori assume una profonda visione tragica che anticipa il Novecento.
Ugo Foscolo e l’inattualità del rivoluzionario che recupera la tradizione. Un percorso che resta fondamentale in una età della ragione che in Foscolo ritrova la malinconia e il tempo tragico. Foscolo è la tradizione post medievale ma è anche il rivoluzionario che annuncia il romantico sentire la vita con la metafisica dell’anima. Infatti non si può prescindere da una osservazione che si apre alla modernità della letteratura attraverso il disegno della tradizione e della memoria: “L’arte non consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentare con novità”.
Ugo Foscolo. Il poeta che traccia il silenzio dei “Sepolcri” e la grecità di Zante nel canto sublime di un ulissismo dolorante. La rivoluzione e l’eresia. Un binomio che permette di leggere Ugo Foscolo tra il superamento della Ragione e la “rappresentazione” del rivoluzionario nella sua attualità. Ugo Foscolo. L’inquietudine dell’intellettuale moderno nell’eresia del rivoluzionario è un percorso fondamentale per comprende l’agonia di un’epoca e la solitudine di un uomo.
È uno dei temi centrali e riguarda anche il ruolo che ha svolto Foscolo a cominciare dall’ode “A Luigi Pallavicina” e all’ode “Bonaparte liberatore” passando attraverso “Dell’origine e dell’ufficio della letteratura” sino a toccare i suoi saggi su Petrarca, su Boccaccio, su Dante.
Ma è l’impegno del Foscolo che emerge dalle “Ultime lettere di Jacopo Ortis” che diventa il fulcro intorno al quale ruota la visione post illuminista e prettamente romantica e risorgimentale oltre che rivoluzionaria nell’eresia. Su questi aspetti bisogna attentamente riflettere attraverso elementi filosofici, grazie ai quali si cerca di sottolineare come il Foscolo vada oltre l’Illuminismo e segna l’inizio di quella decadenza post rinascimentale sino a toccare l’estetica e l’inquietudine dannunziana.
Ugo FOSCOLO
Infatti il legame tra Foscolo e D’Annunzio è uno dei perni fondamentali. Così il suo raccordarsi costantemente con Dante: “Che Dante non amasse l’Italia, chi vorrà dirlo? Anch’ei fu costretto, come qualunque altro l’ha mai veracemente amata, o mai l’amerà, a flagellarla a sangue, e mostrarle tutta la sua nudità, sì che ne senta vergogna”. Così il suo itinerario intorno a Petrarca.
Petrarca viene vissuto come il poeta della lingua che rinnova in una modernità profonda: “Benché il Petrarca siasi studiato di ricoprire d’un bel velo la figura di Amore, che greci e romani poeti ebbero vaghezza di rappresentar nudo; questo velo è sì trasparente, che lascia tuttavia scernere le stesse forme. La distinzione ideale tra i due Amori derivò primamente dalle differenti cerimonie con cui gli antichi prestavano culto alla Venere Celeste, che presedeva a’ casti amori delle zittelle e delle maritate, ed alla Venere Terrestre, riconosciuta divinità tutelare delle galanterie delle donne più in voga a que’ tempi”.
La figura e l’opera di Ugo Foscolo, nato a Zante nel 1778 morto Turnham Green nel 1827 diventa il fulcro dell’inquieto decadentismo e dell’uomo completamente libero ed eretico che rompe gli schemi sia dell’Illuminismo che del Romanticismo e si intaglia nella modernità del cuore dell’uomo. Sull’inquieto della modernità si scava tra i testi di Foscolo ed emerge un Foscolo nostro contemporaneo, anticipatore della tragedia ‘nicciana’.
Un Ulisse in costante fuga e non in viaggio. Una fuga esistenziale, metafisica geografica. Ugo Foscolo è, infatti, un eretico rivoluzionario. Il dolore dell’inquietudine non è solo tra le sue pagine. È soprattutto nel sua vita di costante Ulisse in fuga che intreccia il senso e della tragedia e la tragedia della storia. La storia è nella lingua dei popoli.
Foscolo, come ebbe a dire De Sanctis, annuncia Leopardi. Lo dichiara sia sul piano delle realtà semantiche sia su un versante di una lingua considerata come vera metafisica di un vocabolario in il concetto di parola scava nel dimensione dei linguaggi: “Nel dare principio alla serie de’ discorsi intorno alla storia letteraria ed a’ poeti d’Italia, giudico cosa necessaria, quantunque forse non dilettevole, di premettere l’opinione mia su l’origine della poesia fra gli uomini.T utti i ragionamenti su la poesia in generale, e quindi tutti i giudizj intorno alle qualità ed ai gradi di merito di ogni poeta di tutte le età, e gl’infiniti canoni e teorie degli antichi retori e de’ moderni metafisici si sono sempre fondate su l’osservazione, «che l’uomo è animale essenzialmente imitatore, e l’origine della poesia manifestamente ed unicamente ritrovasi nella naturale tendenza che l’uomo ha di riprodurre ogni cosa per mezzo d’imitazioni.» Da questa osservazione, che realmente trovasi in Aristotile, sgorgò la conseguenza che gli fu attribuita, e commentata in mille volumi, «che la poesia non è che imitazione della natura, e che i poeti eccellenti sono soltanto quelli da’ quali la natura è fedelmente imitata.»”.
Ciò porta il viaggio foscoliano verso una eredità che è fortemente dentro la visione della filosofia dei linguaggi. Odi e Sonetti sono il sublime. I Sepolcri sono la memoria e l’attraversamento del senso di morte che resta nel presente. Jacopo Ortis è il personaggio del tragico nella melanconia.
Ugo FOSCOLO
Eliot nei suoi “Quattro quartetti” recita: “Noi moriamo con quelli che muoiono:/ecco, essi partono e noi andiamo con loro./Noi nasciamo con i morti:/ecco, essi tornano e ci portano con loro”. In Eliot vive Foscolo oltre Dante e il viaggio nel regno delle “stelle”. Perché Eliot è tempo e morte, come nel righello paudiano del viaggio: “Pentimenti sul passato, noja del presente, e timor del futuro; ecco la vita. La sola morte, a cui è commesso il sacro cangiamento delle cose, promette pace”.
Qui Ortis è necessità ma anche virtù. In Eliot e Foscolo è centrale il concetto virgiliano: “Stat sua cuique dies”. Come si vive attraversando l’Ecclesiaste. Ma è Leopardi che non smette di spingere Foscolo verso Eliot e in Eliot non c’è il Dante dell’esilio ma della perdita dell’esilio in profumo di pellegrinaggio. Il Leopardi di “Due cose belle ha il mondo: amore e morte”, ovvero di “Consalvo”. Il Leopardi annunciato da Foscolo è qui: “È purtroppo destino ineluttabile che il tempo distrugga ogni cosa nel suo fluire perenne”.
La metafisica dell’illusione si legge nella metafisica della nostalgia. In Foscolo è il nostos una “malattia” dell’anima che sanguina nei versi dedicati al fretello e nel suo guardare lo sguardo di Teresa che non ha però gli occhi di Beatrice, mentre la morte “incespica” nel ricordare.
Il ricordare è il viatico più potente di ogni destino. Ricordare è destino. Dimenticare è destino. Foscolo sa che il ricordare è l’ontologia che allontana ogni finzione. Il tragico si fa più scavante nella memoria e la morte diventa il vissuto nella vita che si cioncede al presente. Siamo Sepolcri che non smettiamo di avere sguardi. Le parole non possono essere cedute alla voce, ma agli occhi.
Il mio Foscolo è il “vizio” che mi “trascina” a Pavese. Dove l’oltre è soltanto il “gorgo muto”. Come Pavese, Foscolo resta l’inattuale di un contemporaneo che aveva ben compreso la malattia della modernità.
Tragico e inquieto diventano un “sapere dell’anima”. Foscolo era già dentro questo ironico e tragico esilio.
Pierfranco Bruni
Pierfranco Bruni è nato in Calabria.
Archeologo direttore del Ministero Beni Culturali, presidente del Centro Studi “Grisi” e già componente della Commissione UNESCO per la diffusione della cultura italiana all’estero.
Nel 2024 Ospite d’onore per l’Italia per la poesia alla Fiera Internazionale di Francoforte e Rappresentante della cultura italiana alla Fiera del libro di Tunisi.
Per il Ministero della Cultura è attualmente:
presidente Commissione Capitale italiana città del Libro 2024;
Antonia POZZI- Nelle immagini l’anima- Antologia fotografica-
a cura di Onorina Dino e Ludovica Pellegatta. Edizione Ancora-
Descrizione-“Caro Dino, l’altro giorno hai detto che nelle fotografie si vede la mia anima: e allora eccotele”. Con queste parole, il 5 maggio 1938 Antonia Pozzi offre a Dino Formaggio una raccolta di circa 300 fotografie, quale suo lascito spirituale all’amico fraterno, pochi mesi prima del suicidio. A ottant’anni dalla sua scomparsa, “Nelle immagini l’anima” racconta come, attraverso la fotografia, la poetessa esprimesse un intenso amore per la vita e un profondo desiderio di radicamento esistenziale. Dei suoi “exploits” fotografici, come lei stessa amava definirli, oggi rimangono oltre quattromila immagini e dodici album, un’autobiografia visiva che rivela come la fotografia diventerà per la Pozzi uno specchio dell’anima. Le immagini qui pubblicate riportano commenti scritti di sua mano o brani scelti dalle sue poesie.
Antonia POZZI
Biografia di ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)- tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il -ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzied Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita. Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Onorina Dino
ANTONIA POZZI-PoetessaANTONIA POZZI-PoetessaAntonia Pozzi: la Poetessa dell’AnimaAntonia Pozzi: la Poetessa dell’AnimaAntonia Pozzi: la Poetessa dell’AnimaAntonia Pozzi: la Poetessa dell’AnimaANTONIA POZZI-Poetessa
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