Roma-Mostra “Giulio Turcato. Libertà e felicità” alla Galleria Lombardi-
Roma-Dal 1° al 29 marzo 2025 la Galleria Lombardi a Roma presenta nel trentennale della morte dell’artista la mostra Libertà e felicità dedicata a Giulio Turcato (Mantova, 1912 – Roma, 1995). Grande maestro dell’astrazione, faro della rinascita artistica del secondo dopoguerra, promotore di movimenti d’avanguardia, tra cui il Gruppo Forma e il Fronte Nuovo delle Arti, Giulio Turcato rimane tuttavia tra gli artisti italiani più inafferrabili della seconda metà del Novecento: personalità eccentrica, amato da tutti, poeta del segno e del colore, sperimentatore di linguaggi, trova, quale primarie qualità espressive, la libertà e la felicità. Libera e felice fu la sua pittura, e lo spirito con cui la intraprese.
Mostra Giulio Turcato. Libertà e felicità
Guglielmo Gigliotti, che scrive il saggio in catalogo, lo descrive così: “Un uomo indubbiamente originale. Un uomo libero. Non sopportava le etichette, non disdegnava la demistificazione, non sopportava chi si dava troppa importanza. L’autoironia fu una sua virtù umana, l’ironia ne fu una artistica. La sua pittura vibra segretamente di ironia, che è quel distacco con cui si affrontano le vicissitudini della vita. Libero di giocare si è sentito Turcato per tutta la vita, anche se era il gioco serio dell’arte e della vita”.
25 le opere riunite da Lorenzo ed Enrico Lombardi in una mostra che costituisce una piccola e preziosa antologica, in cui sono rappresentati tutti i cicli più importanti del pittore: dai rari «Comizi» del 1948 (sintesi astratto figurativi di impegno civile), ai «Reticoli» (ragnatele di linee su campo monocromo), agli «Itinerari» (guizzanti filamenti di luce-colore), alle «Superfici lunari» (gommapiume con crateri), ai «Paesaggi archeologici» (stratificazioni della pittura e di Roma), agli «Arcipelaghi» (danza di masse) e ai collage (di carta moneta).
Opera di Giulio Turcato:Comizio 1950
E sempre Gigliotti scrive: “La sua presenza fu così brillante, la sua pittura così fresca, il suo ingegno così fertile, e il suo carattere così felice, che di questi trent’anni sembra quasi non potersi sentire la portata. La sua pittura è la sua eredità viva. Basta guardare bene i quadri in mostra: palpitano e sorridono, tra limpidi chiarori e ombre misteriose, tra campiture vibranti e arabeschi casuali di linee saettanti, tra “superfici lunari” profonde come l’inconscio e geometrie quasi infantili”.
La mostra è accompagnata da un catalogo edito dalla Galleria Lombardi, con testo critico di Guglielmo Gigliotti e una testimonianza di Giancarlo Limoni(25 agosto 1947–9 febbraio 2025), artista e amico di Giulio Turcato. Il testo è stato scritto da Limoni un mese prima del suo decesso. La Galleria Lombardi lo ritiene il testamento poetico di un grande artista e un grande amico. Roma, gennaio 2025
Giulio Turcato
Breve biografia di Giulio Turcato (Mantova, 1912 – Roma, 1995)è uno dei più significativi pittori italiani del Novecento e tra i più interessanti interpreti dell’astrattismo europeo. Il suo lavoro è articolato e complesso: comprende intriganti risvolti figurativi e straordinarie sortite nell’ambito della scultura e della scenografìa. Una delle opere più affascinanti della sua produzione è rappresentata dalle Libertà, sette grandi sculture in ferro verniciato a vari colori timbrici, di circa nove metri di altezza ciascuna, che nel 1989 furono installate presso il lago di Piediluco, nel territorio della città di Terni. In occasione del loro restauro, conclusosi nel 2009, il Comune di Terni, in collaborazione con l’Archivio Giulio Turcato di Roma, vuole rendere omaggio all’artista con questo volume, ormai alla vigilia del centenario della sua nascita: vi emerge con forza il tema della libertà, configurandosi come valore estetico-formale e nello stesso tempo come fondamento della vita umana con tutte le sue passioni. “Libertà: evasione, desiderio lanciato verso il cielo. Una foresta che cresce” (Giulio Turcato, La Dogana, 1985).
SCHEDA INFORMATIVA
Mostra: Giulio Turcato. Libertà e felicità
Sede: Galleria Lombardi – via di Monte Giordano 40, 00186 Roma
Apertura al pubblico: 1° – 29 marzo 2025
Inaugurazione: sabato 1° marzo 2025, ore 18.00
Orari: dal martedì al sabato, ore 11.00 – 19.00. Chiuso domenica e lunedì
Ingresso libero
Informazioni: www.gallerialombardi.com | +39 06 31073928 | +39 333 2307817 | info@gallerialombardi.com
Facebook: @GalleriaLombardi | Instagram: @gallerialombardi
Yasmina Khadra- Le rondini di Kabul-Sellerio Editore
Descrizione del libro di Yasmina Khadra- Le rondini di Kabul-Traduttore Marco Bellini-Sellerio Editore-A venti anni dalla sua prima pubblicazione Sellerio ripropone Le rondini di Kabul, il romanzo più amato di Yasmina Khadra che lo ha consacrato come una delle voci più importanti del mondo arabo. Ambientato nella Kabul del 1998 occupata dai talebani, una storia straordinaria che oggi rivela la sua drammatica attualità.
Yasmina Khadra
Biografia e Opere di Yasmina Khadra– Pseudonimo femminile dello scrittore algerino Mohammed Moulessehoul (n. Kenadsa 1955). Ex ufficiale dell’esercito algerino autoesiliatosi in Francia, dopo avere pubblicato con il suo nome raccolte di racconti (Amen, 1984; Houria, 1984; La fille du pont, 1985) e romanzi (El Kahira – cellule de la mort, 1986; De l’autre côté de la ville, 1988; Le privilège du phénix, 1989), ha adottato come nom de plume quello da nubile della moglie, e con esso ha esordito con il romanzo Le Dingue au bistouri (1990), pubblicando nel 1997 il potente Morituri (trad. it. 2000), seguito da Double blanc (1998; trad. it. 2001), con i quali ha raggiunto notorietà mondiale. Abile contaminatore del genere poliziesco con le tematiche sociopolitiche che costituiscono i nodi cruciali dell’Algeria contemporanea, dotato di una scrittura densa e nervosa, della sua copiosa produzione successiva si citano qui: À quoi rêvent les loups (1999, trad. it. 2008); Les hirondelles de Kaboul (2002, trad. it. 2003); La part du mort (2004, trad. it. 2010); L’attentat (2005, trad. it. L’attentatrice, 2007); Ce que le jour doit à la nuit (2008, trad. it. 2010); Les anges meurent de nos blessures (2013, trad. it. 2014); La dernière nuit du Raïs (2015, trad. it. 2015); Khalil (2018, trad. it. 2018); L’outrage fait à Sarah Ikker (2019; trad. it. L’affronto, 2021); Le sel de tous les oublis (2020; trad. it. 2022).
El Kahira – cellule de la mort, 1986, ENAL. [romanzo]
De l’autre côté de la ville, 1988, L’Harmattan, Paris. [romanzo]
Le Privilège du phénix, 1989, ENAL. [romanzo]
Il pazzo col bisturi (Le Dingue au bistouri, 1990, 1999), trad. di Roberto Marro, Collana La metà oscura, Torino, Edizioni del Capricorno, 2017, ISBN 978-88-770-7349-5.
La Foire des enfoirés, 1993, Laphomic.
Morituri (Morituri, 1997), trad. di Maurizio Ferrara, Collana Dal mondo, Roma, e/o, 1998, ISBN 978-88-764-1344-5.
Le rondini di Kabul (Les Hirondelles de Kaboul, 2002), trad. di Marco Bellini, Collana Scrittori italiani e stranieri, Milano, Mondadori, 2003, ISBN 978-88-045-1930-0; con una Nota dell’autore scritta nel settembre 2021, Collana La memoria n.1210, Palermo, Sellerio, 2021, ISBN 978-88-389-4295-2.
L’attentato (L’Attentat, 2005), trad. di Marco Bellini [col titolo L’attentatrice], Collana Strade blu. Fiction, Milano, Mondadori, 2006, ISBN 978-88-045-5923-8; Postfazione dell’autore, Collana La memoria n.1026, Palermo, Sellerio, 2016, ISBN 978-88-389-3488-9.
Cosa aspettano le scimmie a diventare uomini (Qu’attendent les singes, 2014), trad. di Marina Di Leo, Collana Il contesto n.59, Palermo, Sellerio, 2015, ISBN 978-88-389-3367-7; Collana Promemoria, Sellerio, 2022.
Dio non abita all’Avana (Dieu n’habite pas La Havane, 2016), trad. di Marina Di Leo, Collana Il contesto, Palermo, Sellerio, 2017, ISBN 978-88-389-3686-9.
Ce que le mirage doit à l’oasis, con Lassaâd Metoui, Flammarion, 2017.
Khalil (Khalil, 2018), trad. di Marina Di Leo, Collana Il contesto n.93, Palermo, Sellerio, 2018, ISBN 978-88-389-3827-6.
L’oltraggio (L’Outrage fait à Sarah Ikker, 2019), trad. di Marina Di Leo, Collana La memoria n.1186, Palermo, Sellerio, 2021, ISBN 978-88-389-4147-4.
Il sale dell’oblio (Le Sel de tous les oublis, 2020), trad. di Marina Di Leo, Collana Il contesto, Palermo, 2022, ISBN 978-88-389-4410-9.
Brani scelti:Leonardo Sciascia – La mediocrità al potere-Brani scelti:, Il Globo, 24 luglio 1982.
Brani scelti: Leonardo Sciascia , Il Globo, 24 luglio 1982.Direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l’intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese.
In queste persone la mediocrità si accompagna ad un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D’Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo di imbecillità: solo che nel contesto in cui agiscono l’imbecillità appare – e in un certo senso e fino a un certo punto è – fantasia.
In una società bene ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica di “impiegati d’ordine”; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati – non resistendo alla competizione con gli intelligenti – come poveri “cavalieri d’industria”; in una società non società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia.
Leonardo Sciascia nasce a Racalmuto l’8 gennaio 1921, da Pasquale (1887-1957) e Genoveffa Martorelli (1898-1979); è il primo di tre fratelli, Giuseppe (nato nel 1923) e Anna (nata nel 1926): suo padre, emigrato negli Stati Uniti a venticinque anni, era rientrato in Sicilia dopo la Grande Guerra e si era sposato nel marzo del 1920. Racalmuto è per Sciascia il luogo del precoce apprendistato culturale: nelle scuole elementari frequentate dal 1927, nella sartoria dello zio Salvatore, nel teatro gestito dallo zio Giuseppe e adibito a cinema, in casa con la madre, una sua sorella insegnante elementare e le tre zie paterne, e soprattutto fra i libri che riusciva a reperire, fossero essi I promessi sposi o I miserabili, oppure le Memorie di Casanova, i Libelli di Courier, il Paradosso sull’attor comico di Diderot, o anche libretti d’opera.
«Isola nell’isola, come ogni paese siciliano», Racalmuto era un grosso borgo (13.045 abitanti nel 1921) con un’economia basata sull’estrazione dello zolfo e del sale, a metà strada tra Agrigento (allora Girgenti) e Caltanissetta: due città emblematiche, per aver dato i natali a Luigi Pirandello la prima, per esser diventata nel 1937-38 la destinazione scolastica di Vitaliano Brancati l’altra. Le due città divennero i poli di una formazione che per il giovane Sciascia coincise con l’affrancamento da un «pirandellismo di natura» in cui si sentiva ingabbiato: «sono nato e vissuto in un’area avant la lettre pirandelliana», scrisse nel 1986, «la provincia di Girgenti era il territorio che Pirandello aveva scoperto ed esplorato: e io mi ci sono maledettamente intricato – con lo stupore, l’ansietà, la febbre dell’adolescenza – appena cominciato a leggerlo».
Sciascia si trasferisce a Caltanissetta con la famiglia nel 1935 e lì intraprende gli studi magistrali nella stessa scuola dove insegnava Brancati, con cui però non ebbe all’epoca rapporti diretti.
La guerra di Spagna aveva rimosso definitivamente quel poco di nazionalismo mussoliniano che gli si era sedimentato dentro («a scuola», si legge in LaSicilia come metafora, «quando il maestro parlava del fascismo e di Mussolini, un po’ di entusiasmo mi veniva») e lo porta su posizioni convintamente antifasciste: si avvicina così a coetanei aderenti al Partito comunista clandestino animato a Caltanissetta da Pompeo Colajanni, come Luigi (Gino) Cortese ed Emanuele Macaluso, e agli ambienti antifascisti cattolici.
Nel 1941 si iscrive alla Facoltà di Magistero di Messina, supera 17 esami, ma non si laurea. Nel frattempo, dopo un primo impiego al consorzio agrario di Racalmuto come addetto all’ammasso del grano, inizia a insegnare nella scuola elementare del suo paese, ed è nell’ambiente scolastico che conosce Maria Andronico, che sposa nel 1944 e da cui ha due figlie, Laura (1945) e Anna Maria (1946).
1947- 1978
Conosce bene per tradizione familiare la realtà delle zolfare, perché suo nonno da caruso era diventato amministratore di una miniera, suo padre era contabile in una zolfara. Tutto ciò, insieme con la storia e la vita di Racalmuto, confluisce in quello che lo scrittore riteneva essere il suo vero primo libro, Le parrocchie di Regalpetra, pubblicato da Laterza nel 1956. Da più di dieci anni Sciascia scriveva saggi e articoli, soprattutto di letteratura siciliana, in particolare di poesia, e opere originali: nel 1950 aveva pubblicato Le favole della dittatura, nel 1952 la raccolta poetica La Sicilia, il suo cuore, nel 1953 il saggio Pirandello e il pirandellismo, dove pubblica delle lettere inedite di Pirandello al critico Adriano Tilgher.
Fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta si afferma nel mondo delle lettere grazie ai libri pubblicati dall’editore Einaudi: i racconti de Gli zii di Sicilia (1958) e due romanzi, Il giorno della civetta (1961) e Il consiglio d’Egitto (1963). Nel corso degli anni Sessanta gli interessi e l’attività di Sciascia si diversificano e si ampliano, pur restando fedeli a un nucleo che ha il suo centro in Sicilia: scrive di letteratura, di storia, di arte, di politica, continuando a pubblicare romanzi (A ciascuno il suo esce nel 1966), racconti, pièces teatrali, persino documentari filmati.
Nell’agosto del 1967 si trasferisce a Palermo (passando comunque le estati in Contrada Noce, nei pressi di Racalmuto, dove stende tutti i suoi libri), e da lì osserva le vicende che alla fine del decennio cambiarono profondamente la società. I riflessi sulla sua letteratura sono in un primo tempo mediati: la repressione sovietica della Primavera di Praga gli ispira una pièce teatrale su un episodio di storia siciliana del XVIII secolo, la Recitazione della controversia liparitana (dedicata a A. D.), ovvero a Alexander Dubček, il leader della Primavera di Praga. Ma già dai primi anni Settanta Sciascia scrive libri come Il contesto. Una parodia (1971) e Todo modo (1974) che affrontano tematiche d’attualità non più legate esclusivamente alla Sicilia, anticipando fenomeni politici e sociali e prefigurando eventi drammatici.
Il contesto genera forti polemiche con parte della sinistra italiana, ma ciò nonostante Sciascia prima partecipa accanto ai comunisti alla campagna referendaria in difesa della legge sull’aborto (1974), poi, l’anno successivo, si candida e viene eletto al Consiglio comunale di Palermo, come indipendente nelle liste del PCI. Dimessosi polemicamente dopo due anni (il romanzo del 1977 Candido. Un sogno fatto in Sicilia è in sostanza il racconto di quella delusione), Sciascia è protagonista di polemiche soprattutto ma non solo politiche, trovandosi a discutere con esponenti del mondo scientifico dopo la pubblicazione de La scomparsa di Majorana nel 1975.
Ma il culmine polemico viene raggiunto nel 1978 in occasione del rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e del pamphlet che scrive a ridosso dell’evento, L’affaire Moro. Un evento determinante nella decisione di candidarsi alle elezioni europee e politiche del 1979 nelle liste del Partito Radicale, e che avrebbe segnato la sua attività parlamentare.
1980 – 1989
Le opere dei primi anni Ottanta (Il teatro della memoria del 1981, in cui ripercorre la storia dello smemorato di Collegno; La sentenza memorabile del 1982, un commento al capitolo «Degli zoppi» degli Essais di Montaigne; Kermesse del 1982, una raccolta di detti popolari della sua Racalmuto, che costuisce il nucleo di Occhio di capra, apparso due anni dopo) sono appunto una sorta di ‘vacanza’ da quell’impegno per certi versi poco congeniale allo scrittore. Sono gli anni del suo impegno alla casa editrice Sellerio, di cui orienta molte scelte.
Approdato ormai alla grande stampa nazionale – scrive su «La Stampa», «Il Corriere della Sera», «L’Espresso», pur senza abbandonare «L’Ora» e «Il Giornale di Sicilia» e altre testate –, sforna numerosi articoli di letteratura, storia e arte, che confluiscono nel 1983 in Cruciverba, terza raccolta di saggi, ormai di respiro europeo, dopo le raccolte siciliane Pirandello e la Sicilia (1961) e La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia (1970). E interviene su temi di scottante attualità, come mafia e terrorismo, e sui problemi e le distorsioni della giustizia: A futura memoria (se la memoria ha un futuro) raccoglie nel 1989 gli scritti più significativi. Quell’anno torna a occuparsi del suo padre letterario con Alfabeto pirandelliano, pubblicato da Adelphi, che da tre anni era diventata la sua casa editrice, e raccoglie da Sellerio gli ultimi saggi su temi culturali in Fatti diversi di storia letteraria e civile.
Negli ultimi anni, dopo tante inchieste e cronache, Sciascia torna alla narrazione: nel 1987 con Porte aperte, ispirato al giudice racalmutese Salvatore Petrone, poi con due veri e propri romanzi d’invenzione (o di fiction, se si preferisce) percorsi da allusioni autobiografiche: Il cavaliere e la morte (1988), che si può considerare lo splendido testamento letterario dello scrittore, e Una storia semplice, uscito pochi giorni prima della morte, che lo coglie a Palermo il 20 novembre 1989.
Sciascia aveva il culto della memoria. In vita fece almeno tre scelte volte a preservare la vitalità della sua produzione: disegnò con Claude Ambroise una raccolta di opere pubblicata da Bompiani tra 1987 e 1991, affidò ad Adelphi la gestione dei singoli libri (dal 1986 a oggi tutti disponibili nel catalogo della casa editrice, insieme con una nuova raccolta delle opere, e varie sillogi di scritti dispersi) e mosse i primi passi formali per la creazione della Fondazione a lui intitolata nel suo amato paese natale, mai davvero lasciato.
La Sicilia, il suo cuore, con disegni di Emilio Greco, Bardi, Roma, 1952.
Pirandello e il pirandellismo. Con lettere inedite di Pirandello a Tilgher, Salvatore Sciascia, Caltanissetta, 1953.
Le parrocchie di Regalpetra, Laterza, Bari, 1956; seconda ed. ampliata, Laterza, Bari, 1963; poi, insieme con Morte dell’inquisitore, Laterza, Bari, 1967, pp. 9-158.
Gli zii di Sicilia, Einaudi, Torino, 1958; seconda ed., Einaudi, Torino, 1960.
Pirandello e la Sicilia, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1961.
Morte dell’inquisitore, Laterza, Bari, 1964; seconda ed., insieme con Le parrocchie di Regalpetra, Laterza, Bari, 1967, pp. 159-233.
L’onorevole, Einaudi, Torino, 1965.
Feste religiose in Sicilia, Fotografie di Ferdinando Scianna, Bari, Leonardo da Vinci Editrice, 1965, pp. 9-35 (poi in La corda pazza, 1970).
A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966.
Racconti siciliani, Istituto Statale d’Arte per la decorazione e la illustrazione del libro, Urbino, 1966 (poi in Il mare colore del vino, 1973, tranne Arrivano i nostri, incluso in Il fuoco nel mare, 2010).
Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D., Einaudi, Torino, 1969.
La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Einaudi, Torino, 1970.
Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, Edizioni Esse, Palermo, 1971.
Il contesto. Una parodia, Einaudi, Torino, 1971.
Il mare colore del vino, Einaudi, Torino, 1973.
Todo modo, Einaudi, Torino, 1974.
La scomparsa di Majorana, Einaudi, Torino, 1975.
Il fuoco nel mare, Illustrazioni di Simon Sautier, Emme, Milano, 1975 (poi in Il fuoco nel mare, 2010).
Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, Einaudi, Torino, 1977.
I Siciliani, Foto di Ferdinando Scianna, Testi di Dominique Fernandez e Leonardo Sciascia, Einaudi, Torino, 1977 (poi in Occhio di capra, 1984).
L’affaire Moro, Sellerio, Palermo, 1978; seconda ed. con la Relazione di minoranza presentata dal deputato Leonardo Sciascia, Sellerio, Palermo, 1983.
Dalle parti degli infedeli, Sellerio, Palermo, 1979.
Nero su nero, Einaudi, Torino, 1979.
Il teatro della memoria, Einaudi, Torino, 1981.
Leonardo Sciascia, La palma va a nord, a cura di Valter Vecellio, Quaderni Radicali, Roma, 1981; seconda ed., Gammalibri, Milano, 1982; poi parzialmente in Valter Vecellio, Saremo perduti senza la verità, La Vita Felice, Milano, 2003.
La sentenza memorabile, Sellerio, Palermo, 1982.
Cruciverba, Einaudi, Torino, 1983
Il volto sulla maschera. Mosjouskine – Mattia Pascal, Mondadori, Milano, 1980 (poi in Cruciverba, 1983).
Kermesse, Sellerio, Palermo, 1982 (poi in Occhio di capra, 1984).
Storia della povera Rosetta, Sciardelli, Milano, 1983 (poi in Cronachette, 1985).
Occhio di capra, Einaudi, Torino, 1984.
Stendhal e la Sicilia, Sellerio, Palermo, 1984 (poi in Fatti diversi di storia letteraria e civile, 1989).
Per un ritratto dello scrittore da giovane, Sellerio, Palermo, 1985 (poi in Per un ritratto dello scrittore da giovane, 2000).
Cronachette, Sellerio, Palermo, 1985.
La strega e il capitano, Bompiani, Milano, 1986.
1912+1, Milano, Adelphi, 1986.
Ore di Spagna. Fotografie di Ferdinando Scianna e una nota di Natale Tedesco, Pungitopo, Marina di Patti, 1988.
Porte aperte, Adelphi, Milano, 1987.
Il cavaliere e la morte, Adelphi, Milano, 1988.
Il sale della terra, Fotografie di Ferdinando Scianna, a cura di Franco Sciardelli, Il Sole 24 Ore, Milano, 1989, pp. 5-7 (suppl. a «Il Sole 24 Ore», 16 aprile 1989).
Alfabeto pirandelliano, Adelphi, Milano, 1989.
Fatti diversi di storia letteraria e civile, Sellerio, Palermo, 1989.
Una storia semplice, Adelphi, Milano, 1989.
A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano, 1989.
Curatele e traduzioni
Il fiore della poesia romanesca (Belli, Pascarella, Trilussa, Dell’Arco), antologia a cura di Leonardo Sciascia, premessa di Pier Paolo Pasolini, Salvatore Sciascia, Caltanissetta, 1952.
Gonzalo Alvarez, Isla del recuerdo (Isola del ricordo), a cura di Leonardo Sciascia, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia, 1958.
Jaki (con 12 riproduzioni), a cura di Leonardo Sciascia, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1965.
Manuel Azaña, La veglia a Benincarlò, traduzione di Leonardo Sciascia e Salvatore Girgenti, Einaudi, Torino, 1967.
Narratori di Sicilia, antologia a cura di Leonardo Sciascia e Salvatore Guglielmino, Mursia, Milano, 1967; seconda ed. a cura di Salvatore Gugliemino, Mursia, Milano, 1991.
La noia e l’offesa. Il fascismo e gli scrittori siciliani, [Ricerca antologica a cura di Elvira Giorgianni (ma in realtà a cura di Leonardo Sciascia)], Sellerio, Palermo, 1976; seconda ed., Sellerio, Palermo, 1991.
Acque di Sicilia, a cura di Leonardo Sciascia, fotografie di Lisetta Carmi, Dalmine, Bergamo, 1977 (poi in Cruciverba, 1983).
Alberto Savinio, Torre di guardia, a cura di Leonardo Sciascia, Con un saggio di Salvatore Battaglia, Sellerio, Palermo, 1977.
Delle cose di Sicilia. Testi inediti o rari, a cura di Leonardo Sciascia, Sellerio, Palermo, vol. I, 1980; vol. II, 1982; vol. III, 1984; vol. IV, 1986.
Omaggio a Pirandello, a cura di Leonardo Sciascia, Bompiani, Milano, 1986 (Almanacco Bompiani 1987) (poi in Alfabeto pirandelliano, 1989).
Vitaliano Brancati, Opere (1932-1946), a cura di Leonardo Sciascia, Bompiani, Milano, 1987 (introduzione inclusa in Per un ritratto dello scrittore da giovane, 2000).
Alla piacente, a cura di Leonardo Sciascia, contributi di Dario Del Corno, Pietro Gibellini e Leonardo Sciascia, Bompiani, Milano, 1988 (contributo incluso in Fatti diversi di storia letteraria e civile, 1989).
Alberto Savinio, Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra (1943-1952), a cura di Leonardo Sciascia e Franco De Maria, Bompiani, Milano, 1989 (introduzione inclusa in Per un ritratto dello scrittore da giovane, 2000).
Raccolte di testi postume
Ricordare Sciascia, a cura di Paolo Cilona. Con Note di Matteo Collura e Antonio Maria Di Fresco, Publisicula, Palermo, 1991.
Leonardo Sciascia, Quaderno, Introduzione di Vincenzo Consolo. Con una Nota di Mario Farinella, Nuova Editrice Meridionale, Palermo, 1991.
Leonardo Sciascia e Malgrado Tutto. Scritti di Leonardo Sciascia sul giornale del suo paese, a cura di Salvatore Restivo, Editoriale «Malgrado Tutto», Racalmuto, 1991.
Sebastiano Gesù, Le maschere e i sogni. Scritti di Leonardo Sciascia sul cinema, Maimone, Catania, 1992.
Leonardo Sciascia, Per un ritratto dello scrittore da giovane, a cura di Maria Andronico Sciascia, Adelphi, Milano, 2000.
Giuseppe Giacovazzo, Sciascia in Puglia, Edisud, Bari, 2001.
Leonardo Sciascia, L’adorabile Stendhal, a cura di Maria Andronico Sciascia, con un saggio di Massimo Colesanti, Adelphi, Milano, 2003.
Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero La felicità di far libri, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Sellerio, Palermo, 2003; seconda ed., con una Postfazione del curatore, 2019.
Storia d’una amicizia. Scritti di Leonardo Sciascia sull’opera di Bruno Caruso, Premessa di Antonio Di Grado. Postfazione di Antonio Motta, Kalós, Palermo, 2009.
Leonardo Sciascia, Il fuoco nel mare. Racconti dispersi (1947-1975), a cura di Paolo Squillacioti, Adelphi, Milano, 2010.
Troppo poco pazzi. Leonardo Sciascia nella libera e laica Svizzera, a cura di Renato Martinoni, con dvd allegato, Olschki, Firenze, 2011.
Leonardo Sciascia e la Jugoslavia. «Racconto ai miei amici di Caltanissetta della Jugoslavia e di voi: con entusiasmo, con affetto», a cura di Ricciarda Ricorda, Olschki, Firenze, 2015.
Leonardo Sciascia, Fine del carabiniere a cavallo. Saggi letterari (1955-1989), a cura di Paolo Squillacioti, Adelphi, Milano, 2016.
Leonardo Sciascia, Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, a cura di Paolo Squillacioti, Adelphi, Milano, 2018.
Raccolte di opere
Leonardo Sciascia, Opere, a cura di Claude Ambroise, Bompiani, Milano, vol. I: 1956-1971, 1987; vol. II: 1971-1983, 1989; vol. III: 1984-1989, 1991.
Leonardo Sciascia, Opere, a cura di Paolo Squillacioti, Adelphi, Milano, vol. I: Narrativa – Teatro – Poesia, 2012; vol. II: Inquisizioni – Memorie – Saggi, tomo i: Inquisizioni e Memorie, 2014; tomo ii: Saggi letterari, storici e civili, 2019.
Restano esclusi dalle due raccolte di opere e dalle raccolte di testi (elencate al punto 3), numerosi scritti di carattere saggistico e pubblicistico: saggi letterari, storici e civili, interventi su quotidiani e periodici, recensioni, introduzioni, testi di accompagnamento a libri d’arte, cataloghi di mostre, risvolti e note editoriali, ecc. La produzione letteraria dispersa (racconti ed elzeviri, poesie e traduzioni poetiche, dialoghi e interviste impossibili) è invece inclusa nel volume I delle Opere Adelphi).
Interviste
Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora, a cura Marcelle Padovani, Mondadori, Milano, 1979.
Leonardo Sciascia – Davide Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa, Sperling & Kupfer, Milano, 1981.
Leonardo Sciascia, Fuoco all’anima. Conversazioni con Domenico Porzio, a cura di Michele Porzio, Mondadori, Milano, 1992.
Sciascia ha rilasciato inoltre numerose interviste pubblicate in quotidiani, periodici, volumi, solo in piccola parte raccolti in La palma va a nord, 1981.
Poeta Carlo Betocchi– “Poesie e brani in prosa”- scelti da Marco Marchi-
Carlo Betocchi- Poesie e brani in prosa- Tetti del Cielo-Certe volte capisco che il mio tono migliore per parlare di queste cose è quello della leggerezza. Se ci ripenso, credo proprio di essere nato ai miei esercizi di poesia per le vie dell’allegrezza. E sì che mi son capitati, forse, più malanni che contenti. Ma sarà per quell’accoglienza che gli faccio, quando il dolore capita, che per modo di dire chiamerò riflessiva, ma riflessiva non è – come sa chi mi conosce – perché per me non consiste che nell’adottare un comportamento, che in questo caso è la pazienza: la pazienza, poi, si fa compagnia col tempo che passa: sarà per questo, dico, che in tale passaggio anche i malanni, le pene, quand’hanno visto che la pazienza va d’accordo col tempo, cominciano a mutare viso.
Per cui mi torna spesso alla mente la frase che scrisse San Paolo ai Corinti, dopo aver recitato le sue infinite tribolazioni: «Se c’è da vantarsi, io vanterò gli atti della mia debolezza». Che stupenda parola! Anzi, proprio, che parola della poesia. Perché i poeti non sono mica degli spiriti forti. Spiriti forti sono quelli che discutono, oggi, l’inconciliabilità delle due culture, umanistica e scientifica, e che essendo sicuri e bastanti a se stessi, non hanno da compiere atti d’adorazione, e quindi son sempre lì, intorno al bindolo a tirar su l’acqua dal pozzo della loro sapienza, che poi, corri corri, finisce per tornare nel pozzo.
Il mio spirito, invece, è certo che non basta a se stesso. Lo vedevo e lo capivo persino in queste faccende della poesia. E fin da quando, – ero giovane – usavo molto la rima. La usavo sospinto da vaghezza di canto, ma poi capitava un furore in cui, il più spesso, la rima scopriva l’aspetto insospettato della sua natura: che era tale da rendere felice il mio spirito assetato di soccorso. Sì, perché la rima, come sa chi l’ha usata ispiratamente non nasce di certo stillandosi il cervello. Nasce remota, oltre ciò che capirebbe il discorso del poeta, a scioglierne il sangue che tanto spesso coagula: la rima è soprattutto un avamposto della poesia.
(da Diario della poesia e della rima)
***
Io un’alba guardai il cielo e vidi
uno spazioso aere sulla terra perduta;
negletta cosa stava tra i suoi lidi,
tra gli spenti smeraldi oscura e muta.
Innumerevoli angioli neri vidi
volanti insieme ad una plaga sconosciuta
recando seco trasparenti e vivi
diamanti d’ombra eternamente muta.
Andava questo furioso stuolo
estenuandosi verso il fil d’occidente
e lo seguia un intenerito volo
di cerulee colombe alte e lente.
E apparvero, con le puntute ali
di bianco fuoco vivo drizzate e ardenti
gli angeli dalle vallate orientali,
le estreme piume rosee e languenti.
In un immenso lago alto e candido
nascean singolari fronde meravigliose,
le rovesce vallate un lume madido
di rugiade correa, fonde e muschiose.
E dentro i nostri cuori era come
dentro valli ripiene di nebbie e di sonno
un lento ascendere dello splendore
che poscia illuminò i monti del mondo.
(da Realtà vince il sogno)
***
Carlo Betocchi- Foto giovane
Sulla natura dei sogni
Un giovane bruno e uno biondo
abbracciati se ne van danzando
fuor di questo corporal mondo
con un passo soave e blando.
Son essi i miei sogni, essi
i miei veri sogni notturni
che invano inseguo, desti
gli occhi già in sonno taciturni.
E nulla sapendo di queste
creature fuggitive e solenni
ne vedo la turbinosa veste
appena, e gli ombrati capelli.
Pur tanta è la lor potenza
che di essa mi si nutre il cuore
e attende (con mesta pazienza)
a ricordarli per lunghe ore.
Vanno instancabili per vie
stellate, o piene di rotti nuvoli?
son essi insieme, o malinconie
profonde in se stessi gl’isolano?
Io ignoro tutto; ché l’alba
me li rivela uniti insieme
danzanti, e non vuole che sappia
niente del loro profondo seme;
e lascia soltanto ch’io pianga
o rida lunghe giornate
camminando per la mia landa
tra l’altre cose rivelate:
come un oriente che beato
eppur mesto illumina un cielo,
tinge di se stesso il creato
d’un allegro, d’un triste velo.
(da Realtà vince il sogno)
***
Musici, giocolieri, bambini, gioia
Eccoli, dolci bruni di sole
i musicanti di cortile,
con le chitarre, con le viole
fan tutta l’aria risentire.
Questo avveniva nel tempo piano,
bianco, nel mite calor meridiano.
Gemmati, e roridi di colore
i giocolieri di cortile:
di questi salti si vive e muore
chi ci vuol bene sia gentile.
Questo avveniva alla luna calante,
piena l’estate, la spiga fragrante.
Semplici, candidi, fuggitivi,
sui prati morbidi di brine,
danzano, volano giulivi
bambini in bianche mussoline.
Questo avveniva, fiorente aprile
querule l’acque eran, l’erba sottile.
(da Realtà vince il sogno)
***
Vetri
Sei vetri della finestra
nell’angolo della stanza
sono la strada maestra
d’ogni nuvola che avanza.
Io, dal mio angolo pigro
tendo insidiosi agguati,
dai poveri tetti emigro
verso quei correnti prati.
Non sono prati, son lenti
sogni; sogni non è vero,
sono fuggitivi armenti:
e nemmen questo è più vero.
Vedi quell’azzurro. Cielo
è il cielo, bambino mio;
con la nuvola, nel cielo,
va la volontà d’Iddio.
Fumo che te ne vai solo,
spensierato, liberamente,
dal focolare del duolo
al cielo: prendimi la mente.
Sei vetri della finestra
nell’angolo della stanza
sono la strada maestra
della celeste abbondanza.
(da Realtà vince il sogno)
***
Domani
Se saran queste strade di sole
che un giorno (quando avremo ali)
ci porteran lontani;
e non più mireremo dai cari
colli le case gioviali
che c’invitano ai piani:
appena un persuasivo candore
vedremo, delle montagne,
come le vene d’erba,
e il mare, dentro nullo colore,
come un vano occhio che piagne,
come una gemma acerba.
In un aere senza il dolce azzurro
dove il sole è l’etern’onda
andremo via giulivi;
con stupend’ali senza sussurro
verso una riva gioconda,
profondamente vivi.
(da Realtà vince il sogno)
***
Carlo Betocchi
Tu hai nel petto un garbuglio di cose che ronzano come un’arnia d’api al lavoro. S’apre uno spiraglio nell’arnia; il capo del verso, come un’ape d’oro, appare, sull’orlo, fremente, sta per spiccare il volo, e sdipanare il garbuglio dello sciame. E a un tratto, in quel deserto, appare un fiore giallo, a sinistra, lontano, poi un altro, ma sembra vicino, ed è rosso, sulla destra. Sono apparizioni che sorprendono il poeta: e che fantasticamente si replicano. Altro rosso, altro giallo, e un violento azzurro punteggiano il deserto: e son parole che contengono un nesso segreto, quasi mostruoso, con quello che vuole il poeta, il suo discorso che ronza, lo sciame che vola. Quello che era intenzione della natura del discorso si eleva ad altra potenza correndo a investire questi suggerimenti di colori ritmati che moltiplicano secondo il bisogno le loro apparizioni, le loro corrispondenze. E il discorso che era tutto dentro l’arnia sta ormai sciamando a precipizio con l’ardente sua fame verso i richiami dei fiori che sbramano la sua passione di impossessarsi di una ragione sconosciuta.
Ogni fiore era una rima, ed ora capisco che ognuno di essi conteneva un potenziale che il poeta non inventava da sé, ma che rispondeva, come predisposto, alla supplica ardente di quella fame compressa. Chi ha assistito a questa vicenda di parole che s’appostano lontano a creare la danza ancora insospettabile della poesia rimata, sa benissimo che da solo non ce l’avrebbe fatta. Una grande carità è scesa verso la fame d’esprimersi che lo divorava.
(da Diario della poesia e della rima)
***
Alla dolorosa Provvidenza
Quando su noi la povertà distende
la mano scarna, e coi dolori inquieti
il quotidiano, piccolo bisogno,
se anche mi sento qual t’avessi in sogno,
o Iddio, pregato, sull’alba che splende,
entra e soccorri a’ miei mali segreti.
Quella che io amo, allora, e il mio figliuolo,
stan muti in casa, mi seguon con gli occhi;
se sembro lieto, ed essi non mi credono,
se rido e canto, il canto non ha suono;
se vo per casa, anche i vecchi balocchi
presi e lasciati, mi lasciano solo.
Ma tu che all’alba, o Padre del creato,
mi hai detto: – Figlio, avviati al lavoro –
Tu in cui confido pieno di speranza,
con passo cauto di stanza in istanza
sempre mi segui e se non altro a un duolo
sciogli, più grande, il mai che mi ha legato.
Pianger mi sento e in quel sentir più sale
l’anima al pianto mista co’ miei errori:
che se i miei mali numero, rinumero
insieme le mie colpe, e per ognuno
d’essi e sorge una, una m’assale,
tante che dolgo come tanti cuori.
E forse l’albe infantili mie volgono
verso quest’alba più grande e severa
d’un’altra gioventù, non piena d’angeli,
umana, e sacra ai dolori di tanti
che come me, sulla terra, hanno sera
prima che cali il giorno, o come vogliono
i Tuoi decreti, Provvidenza vera.
(da Altre poesie)
***
Redivivo in Firenze
Mi balzò l’anima
quando vidi i tuoi tetti
diseguali
dopo che il treno una notte
lenta d’avvicinamento
mi lasciò su una piazza desolata.
Due nottambuli parlavano,
eri sola, o Firenze,
e salii nella stanza d’albergo,
dormii nelle tue braccia,
nel tempo, nell’oasi di pietra,
di calce e travature cedevoli,
sotto le stelle supreme,
vivido di battesimi:
e nel mattino
nebbioso dell’inverno
fiorentino, secco di ricordi,
destandomi,
una frattura
solitaria divampò
dalla mia mestizia.
Lasciai l’arte per l’anima,
e al crollo silenzioso
del vivere invisibile
ancora una volta
un toscano senza pianto
s’inoltrò sulla soglia dell’Ade.
(da Tetti toscani)
***
Tetti
Tetti toscani secchi
fulvi di vecchi
tegoli, in cui al tempo che oblia
scotta sempre più mia
l’arsura forte
d’estati morte;
sui colmignoli smagra
il di più, flagra
l’incanto celeste, sdoppia
il miraggio che alloppia,
e seccan vivi
i sogni estivi.
Non so che solitaria
vita per l’aria
vagoli, che par vada e ritorni
da campestri soggiorni;
mi punge il pruno
del suo profumo.
Ma i tetti non han vizi,
a’ bei solstizi
d’estate; e l’anima viaggia,
che dai tetti s’irraggia,
pei cieli asciutti,
chiari per tutti.
(da Tetti toscani)
***
Carlo Betocchi
Un dolce pomeriggio d’inverno
Un dolce pomeriggio d’inverno, dolce
perché la luce non era piú che una cosa
immutabile, non alba né tramonto,
i miei pensieri svanirono come molte
farfalle, nei giardini pieni di rose
che vivono di là, fuori del mondo.
Come povere farfalle, come quelle
semplici di primavera che sugli orti
volano innumerevoli gialle e bianche,
ecco se ne andavan via leggiere e belle,
ecco inseguivano i miei occhi assorti,
sempre piú in alto volavano mai stanche.
Tutte le forme diventavan farfalle
intanto, non c’era piú una cosa ferma
intorno a me, una tremolante luce
d’un altro mondo invadeva quella valle
dove io fuggivo, e con la sua voce eterna
cantava l’angelo che a Te mi conduce.
(da Altre poesie)
***
All’amata
I fior d’oscurità, densi, che odorano
dove tu sei, s’aggirano nell’ombra,
un’altra luce sento che m’inonda
queste pupille che l’ombra violano.
Quale tu sei, non so; forse t’adorano
le cose antiche in me, tutto circonda
te in un giardino dove i sensi all’ombra
tornano ad uno ad uno che ti sfiorano.
L’esser più soli, e l’aggirarsi dove
tu non sei più, od in remota stanza
dentro al mio petto, quando lento piove
l’amor di te che oltre di te s’avanza,
forse sarà per questo il dir d’amore
più dolce dell’amore che ci stanca.
(da Altre poesie)
***
Oggi, qualche volta congetturando come mi capita di rado, e spesso dividendo il mio cuore fra i due grandi canoni che possono servire di base alla costruzione della poesia, poesia soggettiva, poesia oggettiva, mi par di capire che la rima è stata il primo grandissimo mezzo per connaturare alla poesia il dono d’una sublime oggettività. La rima è in questo senso tutt’altro che abbandono alla musicalità: è figura dell’oggettività che riflette le grandi e superbamente ordinate costruzioni metafisiche dell’intelletto d’amore. Simula, e riecheggia, nelle sue, le corrispondenze che regolano le grandi forze dell’universo, ed inquadra in esse il discorso fluente e corrusco della vita. […]
Si capisce, e va da sé, che la mia leggerezza non vuole tuttavia dare peso, per i casi miei, a queste vicende che mi capitavano, parallele a tant’altre, come quando, da giovane, la poesia passava come un’allodola per il mio cielo, e la mia crudeltà giovanile le sparava: e mi avveniva, per caso, di non fare cilecca: ma poi era un povero, uno stento pennuto, che raccoglievo. Ebbene, voglio dire che da quei casi pullulanti di parole quasi incomprese nell’atto che le conoscevo, deboli e forti d’amore e di peccati, ho appreso a considerare appunto le parole come un universo di persone straordinariamente libere, e capaci di tutti i tiri.
(da Diario della poesia e della rima)
***
Dai tetti
È un mare fermo, rosso,
un mare cotto, in un’increspatura
di tegole. È un mare di pensieri.
Arido mare. E mi basta vederlo
tra le persiane appena schiuse: e sento
che mi parla. Da una tegola all’altra,
come da bocca a bocca, l’acre
discorso fulmina il mio cuore.
Il suo muto discorso: quel suo esistere
anonimo. Quel provocarmi verso
la molteplice essenza del dolore:
dell’unico dolore:
immerso nel sopore,
unico anch’esso, del cielo. E vi posa
ora una luce come di colomba,
quieta, che vi si spiuma: ed ora l’ira
sterminata, la vampa che rimbalza
d’embrice in embrice. E sempre la stessa
risposta, da mille bocche d’ombra.
– Siamo – dicono al cielo i tetti –
la tua infima progenie. Copriamo
la custodita messe ai tuoi granai.
O come divino spazio su di noi
il tuo occhio, dal senso inafferrabile.
(da L’estate di San Martino)
***
Di questo parlar mio
Di questo parlar mio, che si frantuma,
so così poco come il terrazziere
sa della tazza ritrovata in cocci
entro il suo sterro: e qualche coccio ha un suo
quieto brillare, un poco spento
dalla terra, che ricorda altri giorni,
ed altre forme, anzi l’intera forma,
la genuina e perfetta,
sotto un sole che fu per un momento
al suo apogeo, e brillò sulle labbra
giovanili che bevvero, fresche
come prugne a settembre,
de’ suoi colori, alle soavi nebbie
che li velavano: labbra,
tazza e bevanda ancora vive in questi
pochi frammenti; e il resto è sogno.
(da Diarietto invecchiando)
***
Così, da più oscure latebre
Così, da più oscure latebre, si libera
un io sconosciuto, invecchiando, cui
non badammo da giovani, o che intravisto
tememmo, e parevaci il peggio di noi,
il più abbandonato e senza speranza;
eppure era lui, nella sua essenza precaria
era l’uomo, nella triste sua carne,
e mortale destino, e ivi dentro
il suo amore, melanconico e vorace,
e fatuo, indegno di risposta: e ora che il crudo
suo vero rivelasi, tu, anima, specchio
d’eterno, che cosa farai? Così s’interroga
il vecchio, dondolando la testa, mentre
soffre e dubita.
(da Un passo, un altro passo)
***
Meno che nulla son io
Meno che nulla son io, nella mente
che invecchia e vaga incerta, e male
afferra le idee che vi divagano
fantasticanti: eppure sono ancora
creatura, e non è detto che da me
così squallido, così passivo e inerte,
non emani, come ora che scrivo,
il senso eterno di quell’eterna
povertà che ci è propria, a noi che viviamo
nel tempo, sulla cui nera lavagna
scriviamo col gesso dei giorni parole
che sempre biancheggiano, per Lui che le legge,
pupilla d’aquila, solo compagno sapiente.
(da Poesie del Sabato)
***
Fraterno tetto
Fraterno tetto; cruda città; clamore
e strazio quotidiano; o schiaffeggiante
vita, vita e tormento alla mia anziana
età: guardatemi! sono il più càduco,
tra voi; un rudere pieno di colpe sono…
ma un segno che qualcosa non tramonta
col mio tramonto: resiste la mia pazienza,
è come un orizzonte inconsumabile,
come un curvo pianeta è la mia anima.
(da Ultime)
***
Lo stravedere dei vecchi
Lo stravedere dei vecchi! Guardateli!
Ascoltatene uno, come son io, forse
il più debole! La mente che vacilla,
e l’azzurro che spera, mentre l’ombra
lenta, furtiva, risale i tetti:
alle mie spalle scompaiono ninnoli
e oggetti, caracollano via tavole
e sedie, s’involano alcove, trepide
masserizie amorose svaniscono
via leggere, la mia vita si spoglia,
tutta perduta vibra nell’azzurro.
(da Ultime)
***
Salmo
Quando invecchiamo, fatti più sordi alla rima
ed a quel mitico batter dei ritmi
che amore interno dettava, una cosa
sola, un esister confuso coi freschi
pimenti degli anni giovanili;
allora un ciuffo di pini su un monte,
una gran macchia verde ci commuovono
col silenzio, e siamo come silenzio
che non si perde nel nulla, ma entra
in noi per farsi conoscere, come
vampa di lauro profuma la macchia
nell’alido, col suo sentore amaro:
sì, la vecchiaia è una nuova stagione,
e la morte una stagione più alta, od umile,
di foglia secca per quei tabernacoli della
requie del canto che non serve più.
(da Poesie del Sabato)
***
Rotonda terra…
Rotonda terra; scena che si ripete,
in te, del saluto serale: consuetudine
mia planetaria, di tegola in tegola,
del mio vivere che se ne va col tuo
trapassare, lume diurno, lento,
sul tetto davanti casa; e mio formarsi,
intanto, un petto come di colomba;
e metter piume amorose per la notte
che viene; ravvolgermi unitario
con essa: pigolio interiore; perdita
dell’umano: divenire mio universale.
(da Poesie del Sabato)
Carlo Betocchi
Cinque poesie di Carlo Betocchi tradotte in francese da Jean-Charles Vegliante, Premio Betocchi 2018
Ode des oiseaux
Désirable vie
des oiseaux! Eux,
qui réjouissent les ombreux
recoins du bois de leurs doigts d’or!
J’en vis un, passereau
solitaire et lent
remplumé par le vent
délirer pour une aumône;
et j’entendis le chant modulé
intact, que va perdre
entre le ciel profond et l’herbe
une vertigineuse alouette.
Dans la pieuse nuit se tiennent
les rossignols;
rester avec la lune, seuls,
en ramées que le vent malmène!
Et, où les ondes font
un tranquille lac
habite le vol vague
de certains, charme et illusion.
Brûle l’oiseau phénix
de brûler, et ressurgit
l’oiseau phénix ; et nourrit
en soi le cygne un mal qui le mine.
Vivre indéfini
des oiseaux! Ils sont
chantés dans cette ode, messagers
de la vie que nous vivrons:
quand nous remonterons
par des fleuves d’azur
et célestes murmures
vers le vouloir du ciel.
(da Realtà vince il sogno)
Ruines 1947
Ce n’est pas vrai qu’ils ont détruit
les maisons, pas vrai:
seul est vrai dans ce mur en ruines
l’avancement du ciel
à pleines mains, à pleine poitrine,
où inconnus rêvèrent,
ou bien, vivant, crurent rêver,
ceux qui ont disparu…
Maintenant c’est à l’ombre brisée
de jouer comme autrefois,
sur les murs, dans l’aube au soleil,
imiter les aléas…
et dans le vide, à l’hirondelle qui passe.
(da Notizie)
Mais c’est vrai pourtant qu’aux vieux,
dépouillés de la beauté,
reste ce signe, dans l’âme,
de son rapide apparaître
et disparaître, ce sillon de chose
qui a été, qui saigne encore,
lourde, dans la conscience;
mais qui, goutte à goutte, ensuite
va lentement s’enfonçant dans une presque,
dans une presque rancoeur
de blanche innocence…
(da Disperse)
Très ronde terre; scène qui se répète,
en toi, du salut vespéral: habitude mienne
planétaire, avec toi et tes couchants:
brusque sursaut, de tuile en tuile,
de ma vie qui s’en va avec ton
effacement, lumière diurne, lente,
sur le toit devant la maison; et mon apprêt,
cependant, d’un plastron comme de colombe;
et arborer d’amoureuses plumes pour la nuit
qui vient; m’envelopper dans l’union
avec elle: pépiement intérieur; perte
de l’humain : mon devenir universel.
(da Poesie del Sabato)
Dans les champs
Nous un par un
comptons les jours
du blé d’azur
qui se tient droit:
dans l’enfantin
champ le murmure
sans un épi
craint: et s’en va
par le ciel vague
ment tintillant
pleine alouette
de son amour:
nous un par un
comptons les jours,
peines, et dur
espoir qui sait.
(da Poesie, Prime)
Sull’ore prime
Son l’ore prime, le solite, le ore
che la vita me ne ha chieste tante;
l’ora che al già Risorto, che «non è
più qui», tien dietro l’Angelo, distante
e vicino alla vita: che un motore
stacca in fondo alla via la sua fatica,
e parte: e ch’io resto, solo, all’antica
vicissitudine, cui non val arte
di sorta, altro che il principiare, e sia
come sia, con quel gettar di dadi
che è già scontato, che se stesso oblia,
che va crescendo d’effetto per gradi,
vola il colombo, si schiara la via,
o vita, come lenta persuadi.
Al fratello e alla sorella in giorni di dolore
Le foglie luccicano, l’estate
dalla forma crudele di gioia
ai seppelliti nel limbo
delle memorie d’infanzia
non reca che il lampo dei ricordi.
Ma a te dolore, eretto emblema
ch’entro gli sguardi ci precedi,
noi a te, fraterni, porgiamo il volto
lieti che tu ci trovi ancora uniti
oltre la linea delle apparenze,
con te, verso un paese eterno.
Dove non sia più luce sulle fronde
che questa, che dall’anima s’esala,
dove nell’ombra, la nostra mano unita
senta che sola forza al mondo è il cuore.
Una mattina
Ancora una mattina
che non potrei tradirmi
se non, nube su nube,
decidermi a rivivere
tutto nel cielo, al suo
fantastico passaggio
d’occidente in oriente,
da un mare senza mente
a un monte senza peso;
la verità che vive
nei cuori non si scrive
che misteriosamente.
Un passo, un altro passo (7)
Ma anche imparo,
giorno per giorno imparo,
che non c’è cosa in cui sia necessario
più il credere che l’operare; e che tra il fiore
del credere che amo, e il mio esserne degno,
che è il prezzo del mio esistere,
c’è di mezzo quello che ho fatto,
il mio consistere in opere e lavoro:
e ch’ivi è il tutto, tutto ciò che io posso
saper di vero, anche se avvolto nel mistero
della cosa fatta dall’uomo, e che dall’uomo
prega per il di più che non può fare,
e i doni per cui fece, alti, ringrazia.
In piena primavera, pel Corpus Domini (6)
Qui od altrove, a un poeta,
il suo tempo è fulmineo,
cometa che declina e scompare
lungo la chioma della sua pazienza.
E non può dire cose più alte di lui.
La gioventù gli è di lievito,
la vecchiaia di paragone,
e quando l’aria è sgombra di messaggi
incontra creature.
Il bene e il male in eguale misura
a lui non valgon rimpianti,
è come morto fin dalla nascita,
è come vivo dopo la morte.
Messa piana
Quando vado alla messa spesso non prego,
guardo. Sono come un bambino. Guardo,
e credo. E il Signore mi dice
(con povere fiammelle di candela,
mutamente entro me, nel mio guardare),
– Bravo, hai fatto bene a venire. –
E al segreto consenso la coscienza
s’indebita, riconoscente. E mormora:
– Basta, così sian tutti, tutti
oramai, con me. Anche quei pochi
cui ho fatto del bene. E solo mi lascino,
taciti, solo nel mio guardare. –
Messa solenne
Io non so se chiamarla la bellezza
quella che nasce in noi, dal più veridico
senso della nostra miseria. Parte di lì,
sprigiònasi, il capo di quel filo del bisogno
che tanto disegnò della bellezza, nel mondo.
E parve, ed era anche un miracolo: ma era
necessità all’esistere, non già per noi
ma per dire al Signore: – Se Tu esisti
anche noi esistiamo –. E per dirgli ubbidendo:
– Ho ritrovato in Te della bellezza il bandolo
originale, il seme. Ecco, fiorisce nell’umiltà
l’immortale coraggio del Tuo spirito,
la segreta e indicibile Tua gloria. –
Di quando in quando (14)
Se i morti sono veramente morti
allora noi non siamo vivi, ché
della loro già morta vita
andiamo tutti i giorni nutrendoci,
spesso inconsapevolmente, e quasi
dormendo, come bambini alle poppe
materne, a volte assopiti, e come in sogno.
Ché quanto la veglia ci nutre il sogno,
e i morti come la vita ci nutrono, in una
inestinguibile catena di tramonti.
Il vecchio: stravaganze, sventura, destino (5)
Lo stravedere dei vecchi! Guardateli!
Ascoltatene uno, come son io, forse
il più debole! La mente che vacilla,
e l’azzurro che spera, mentre l’ombra
lenta, furtiva, risale i tetti:
alle mie spalle scompaiono ninnoli
e oggetti, caracollano via tavole
e sedie, s’involano alcove, trepide
masserizie amorose svaniscono
via leggere, la mia vita si spoglia,
tutta perduta vibra nell’azzurro.
***
Questo color velenoso, di sera,
questo morir della luce sui vetri,
senza riflessi, che sarà rapido,
quest’ora tarda e mortale,
o tu che invecchi e non sai più se vedi
spettri o figure, credilo! ogni ora
è bambina, e se ne va innocente,
sparisce dal tuo cospetto la vita
ma torna per altri, sempre si rinnova,
la notte è un giardino di giovani tenebre.
***
Il mio cuore è debole, stasera,
come il sole che lento risale
i tetti, e profonde sono le mie colpe;
ahi! l’uomo, come sempre tramonta.
Come sempre, mentre lui tramonta,
resta l’orizzonte ineffabile
e sterminato il destino, a chiunque,
dell’esistere, sterminato!
Ciò che lasciamo indietro
si strascica verso il buio,
ciò che ci attende è incomprensibile
compreso il momento che passa.
Io sono: eccomi! io sono,
solo in quest’ora debole,
ciò che decide: io sono
la linea che divide
il passato dal futuro.
Momento eterno dell’essere
che ti stabilisci nell’attimo,
sei tu la mia grazia, decidi.
Carlo Betocchi nasce a Torino il 23 gennaio 1899 e muore a Bordighera il 25 maggio 1986. Si trasferisce ancora piccolo a Firenze per seguire il padre, impiegato delle Ferrovie dello Stato. Studia all’Istituto Tecnico fiorentino con l’amico Piero Bargellini. Consegue nel 1915 il diploma di perito agrimensore e prende parte, tra il 1917 e il 1918, alla Prima Guerra Mondiale. Inizia poi ad esercitare la professione di geometra nel campo edilizio, lavoro che lo porterà in Francia e in diverse località dell’Italia centro-settentrionale. Nel 1928, insieme a Bargellini, fonda la rivista «Il Frontespizio». Nel 1939 lascia Firenze e si trasferisce a Trieste. Insegna materie letterarie presso il conservatorio musicale di Venezia fino al suo ritorno definitivo a Firenze nel 1953. Numerose sono le sue raccolte poetiche, le più importanti delle quali sono Realtà vince il sogno (1932), L’estate di San Martino (1961), Un passo, un altro passo (1967), Prime e ultimissime (1974), Poesie del sabato (1980).
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Testi selezionati da Tutte le poesie (Mondadori, 1984)
Carlo Betocchi
Carlo Betocchi: biografia
Carlo Betocchi nasce a Torino il 23 maggio 1899 da padre ferrarese e madre toscana. Il padre, impiegato nelle Ferrovie dello Stato, nel 1906 viene trasferito con la famiglia a Firenze dove muore nel 1911. Il giovane Carlo, rimasto orfano con i fratelli Giuseppe e Anita, viene educato dalla madre la quale segue con particolare cura la sua formazione spirituale.
Dopo aver studiato all’Istituto Tecnico fiorentino con l’amico Piero Bargellini, consegue nel 1915 il diploma di perito agrimensore.
Nei primi mesi del 1917 è a Parma per frequentare il corso allievi ufficiali. Inviato al fronte qualche settimana prima della ritirata di Caporetto, partecipa alla prima resistenza sul Piave; successivamente è inviato in VaI Camonica e sull’Altopiano di Asiago.
Terminata la guerra, nel dicembre del ‘18 parte volontario per la Libia come ufficiale di guarnigione. Congedato nel ’20, lavora come geometra in Toscana nei cantieri allestiti per la ricostruzione delle case demolite dal terremoto, nelle Alpi francesi per dei lavori di condotte forzate in galleria e quindi nei cantieri stradali in Toscana e nell’Italia centro-settentrionale.
Nel 1923, con Piero Bargellini, Nicola Lisi e l’incisore Pietro Parigi, collabora alla prima rivista di carattere strapaesano «Il calendario dei pensieri e delle pratiche solari», e nel 1929 con gli stessi amici fonda «Il Frontespizio», la rivista d’ispirazione cattolica più nota negli anni del fascismo.
Tra il ’29 e il ’38 si occupa di una rubrica di poesia («Lettura di poeti») e in quegli anni collabora a varie riviste: «L’Orto», «Il Selvaggio», «Circoli», «Primato», «Campo di Marte», «Letteratura». Per le edizioni del «Frontespizio» viene pubblicata la sua prima raccolta di liriche: Realtà vince il sogno (1932). Seguono nel tempo Altre poesie e Notizie di prosa e poesia, comparse rispettivamente nel 1939 e nel 1947 e, in seguito, L’estate di San Martino (1961), Prime e ultimissime (1974) e Poesie del sabato (1980).
Gli impegni di lavoro lo portano nel 1939 a lasciare Firenze per risiedere a Trieste, dove si trasferisce con la famiglia fino al ’40; poi è a Bologna e quindi a Roma.
A seguito di una malattia contratta nei cantieri, nel 1953 è costretto ad abbandonare la professione di geometra. Sin dal 1942 è chiamato alla cattedra di materie letterarie presso il Conservatorio musicale di Venezia. Nel 1955 ricopre lo stesso insegnamento presso il Conservatorio «L. Cherubini» di Firenze dove insegna fino al 1969.
Tornato definitivamente a Firenze nel 1952, gli viene affidata nel ’58 la redazione della trasmissione radiofonica L’Approdo. Collabora a varie riviste, tra cui «La Chimera», «La Fiera letteraria» e «L’Approdo letterario» di cui è redattore fino al dicembre del 1977, anno di cessazione della prestigiosa rivista.
Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti: il Premio Feltrinelli per la poesia assegnatogli dall’Accademia dei Lincei, il Premio Viareggio (1955) e l’Elba (1968).
Nel 1981 il presidente della Repubblica Sandro Pertini gli conferisce «La Penna d’oro» per l’opera svolta (tra gli illustri premiati sono presenti Giuseppe Prezzolini e Mario Praz).
Nel 1984, in occasione della pubblicazione di Tutte le poesie (Mondadori), riceve il Premio «E. Montale» (Librex-Guggenheim) per la poesia.
Si spegne a Bordighera, all’età di ottantasette anni, il 25 maggio del 1986.
Carlo Betocchi
Il “Centro Studi e Ricerche Carlo Betocchi” svolge un’attività di promozione, conoscenza e divulgazione dell’opera del poeta. In particolare si propone i seguenti obiettivi:
– Organizzare ogni anno il “Premio Letterario Internazionale Carlo Betocchi-Città di Firenze”.
– Favorire indagini e ricerche sull’opera di Carlo Betocchi e su aspetti della poesia contemporanea a lui riferibili.
– Promuovere incontri di studio, letture e iniziative volte a diffondere e valorizzare la poesia in tutti i suoi aspetti.
– Svolgere attività editoriale finalizzata alla pubblicazione di testi di e su Carlo Betocchi.
La presidenza del Centro Studi è attualmente ricoperta da Marco Marchi.
La giuria del “Premio Letterario Internazionale Carlo Betocchi-Città di Firenze” è presieduta da Marco Marchi e composta da Sauro Albisani, Anna Dolfi, Antonia Ida Fontana, Francesco Gurrieri, Gloria Manghetti e Maria Carla Papini.
Si segnala che l’Archivio e la Biblioteca privata di Carlo Betocchi sono conservati presso l’“Archivio Contemporaneo A. Bonsanti” del “Gabinetto Scientifico-Letterario G. P. Vieusseux” di Firenze, in via Maggio n. 42.
In stanze chiuse si celebrano rituali
Di quelli che cambiano il corso dei fiumi
E uccidono linguaggi atavici
Lì uniamo le mani tiepide
Come rocce ai piedi del vulcano
Gli occhi pieni di nuvole stanche di decifrare
[destinazioni
In stanze chiuse ci abbracciamo
Alla corteccia distrutta dell’attesa
Emettiamo sospiri contro pareti profonde
Volendo bere alle finestre del domani
Niente che inciampi nella luce che si estingue
Niente che disturbi nella caduta e nel pozzo
Che cosa siamo se non un pozzo?
Dentro tutte le tempeste, tutte le lacrime
Nessuno si affaccia se non con sete
Le estati sono lunghe nella nostra canicola
Quali uccelli fanno i loro nidi in un pozzo?
Ti canterò nella mia voce più dolce
In questa stanza chiusa voglio prendere la tua mano
Portarti tra i filoni d’oro che escono dal mio ventre.
A VOLTE MI CHIAMANO DONNA
Acqua sufficiente per sommergersi
(la pista indelebile che ancora popoliamo con il nostro corpo)
Mi chiamano, se mi chiamano
(ho molti nomi,
obliqua e oscena mi chiamano,
vigilia e fitta mi chiamano)
Vengo da dove vengono tutte le cose
(più probabile di una bilancia vengo,
tra le tranquillità di un terremoto)
Sulla terra spigolosa e raccolta
(com’è dolce il sapore delle ossa!
il mio canto, il mio sostentamento)
Sono piedi che si aggrappano lì dove mi chiamano
(piedistallo sparso in divisioni atomiche,
passo da un piede all’altro per non naufragare)
Chi mi darà da bere se sono sazia?
Chi monterà padiglioni di sale tra le ferite della mia parola?
Dovrò baciare le labbra del nemico
nello stesso letto abitato e intenerito del mondo,
lì fuori,
dove ci nascondiamo al risveglio
Nell’anatomia delle età
la cellula prima fiorisce tra le mie mani
Da: Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea n. 6, a cura di W. Raffaelli e G. Lauretano, Raffaelli 2018.
KRIS VALLEJO Nata a Tegucigalpa, Honduras, nel 1974, si è prima diplomata presso la Scuola Nazionale di Belle Arti dell’Honduras, poi laureata in Pubblicità presso l’Universidad Latina di Panamá. Artista, consulente di design e immagine grafica, da 22 anni si distingue, sperimentando materiali diversi e supporti grafici e plastici, per opere ove spesso la figura femminile funge da pretesto per un discorso su temi sociali ed estetici che riguardano anche la sua scrittura in versi.
Sebastião Salgado:“In GENESI, la mia macchina fotografica ha permesso alla natura di parlarmi. E io ho avuto il privilegio di ascoltare”
DESCRIZIONE-Fu per puro caso che, nel 1970, un Sebastião Salgado ancora ventiseienne prese in mano per la prima volta una macchina fotografica. Guardare nel mirino fu una rivelazione: la vita aveva improvvisamente acquistato senso. Da quel giorno – sebbene ci siano voluti anni di duro lavoro prima di accumulare l’esperienza sufficiente a guadagnarsi da vivere come fotografo – la macchina fotografica divenne il suo strumento per interagire con il mondo. Salgado, che ha “sempre preferito il chiaroscuro delle immagini in bianco e nero”, fece qualche sparuto tentativo a colori all’inizio della sua carriera, per poi rinunciarvi del tutto.
Cresciuto in una fattoria del Brasile, Sebastião Salgado ha sempre nutrito un profondo rispetto e amore per la natura ed è sempre stato particolarmente sensibile alle ripercussioni sugli esseri umani delle loro (spesso terribili) condizioni socio-economiche. Tra le numerosissime opere che Salgado ha realizzato nel corso della sua prestigiosa carriera, spiccano tre grandi progetti di lungo periodo: Workers (1993), che documenta le vite invisibili dei braccianti di tutto il mondo; Migrations (2000), un tributo alle migrazioni di massa causate da carestia, disastri naturali, degrado ambientale e pressione demografica; e questa nuova opera, GENESI, il risultato di un’epica spedizione durata otto anni alla riscoperta di montagne, deserti, oceani, animali e popolazioni finora sfuggiti all’impatto della società moderna: la terra e la vita di un pianeta ancora incontaminato. “Circa il 46% del Pianeta è ancora com’era al momento della creazione”, ci ricorda Salgado. “Dobbiamo salvaguardare ciò che esiste”. Il progetto GENESI, così come l’Instituto Terra dei Salgado, si propone di far conoscere la bellezza del nostro pianeta, porre rimedio ai danni causati dall’uomo e preservarlo per le generazioni future.
Sebastião Salgado. GENESI-
Nel corso di 30 viaggi – a piedi, in aereo da turismo, su navi d’altura, in canoa e persino in mongolfiera, affrontando temperature estreme e situazioni talvolta pericolose – Salgado ha realizzato una serie di scatti che ci mostrano la natura, gli animali e le popolazioni indigene in tutta la loro sconvolgente bellezza. Padroneggiando il bianco e nero con tale maestria da poter competere con il grande Ansel Adams, Salgado porta la fotografia monocromatica a una nuova dimensione, al punto che le variazioni tonali e i contrasti di luce e ombra nelle sue immagini richiamano alla memoria le opere di grandi maestri come Rembrandt o Georges de la Tour.
Sebastião Salgado. GENESI-
Cosa scopriamo tra le pagine di GENESI? Le specie animali e i vulcani delle Galápagos; i pinguini, i leoni marini, i cormorani e le balene dell’Antartide e dell’Atlantico meridionale; gli alligatori e i giaguari brasiliani; i leoni, i leopardi e gli elefanti africani; la tribù isolata degli Zo’é nel profondo della giungla amazzonica; il popolo preistorico dei Korowai nell’area occidentale della Papua Nuova Guinea; i Dinka, allevatori nomadi del Sudan del Sud; i Nenci, popolo nomade della Russia artica, con le loro mandrie di renne; le comunità Mentawai nella giungla dell’arcipelago a ovest di Sumatra; gli iceberg in Antartide; i vulcani dell’Africa centrale e della penisola della Kamčatka; il deserto del Sahara; il Rio Negro e il Juruá in Amazzonia; le gole del Grand Canyon; i ghiacciai in Alaska… e molto altro. Dopo aver dedicato tanto tempo, energia e passione alla realizzazione di questo progetto, Salgado definisce GENESI “la mia lettera d’amore al pianeta”.
Sebastião Salgado. GENESI-
A differenza dell’edizione limitata da collezione, concepita come un portfolio di grande formato che si snoda attraverso tutto il pianeta, questa edizione per il commercio presenta una selezione di fotografie distribuite in cinque capitoli in base a un criterio geografico: Sud del Pianeta, Aree protette, Africa, il grande Nord, Amazzonia e Pantanal. Ciascuno a suo modo, i due libri – entrambi curati e progettati da Lélia Wanick Salgado – rendono omaggio all’imponente e impareggiabile progetto GENESI di Salgado.
IGNAZIO SILONE:«Le guerre e le epidemie» disse il vecchio Zompa, «sono invenzioni dei Governi per diminuire il numero dei cafoni. Si vede che adesso siamo di nuovo in troppi.»
«Ma insomma, tu la tessera la prenderai?» chiesi a Baldissera, per farla finita.
«Prenderla? La prenderò» egli rispose. «Ma pagarla, puoi star sicuro, non la pagherò.»
Nonostante il diverso modo di esprimerci si può dire, dunque, che in fondo eravamo pienamente d’accordo. Quella sera molte altre cose furono dette sulla guerra e non ci fu famiglia in cui non se ne parlasse! Ognuno faceva all’altro la domanda : «Ma contro chi, la guerra?».
Ignazio SILONE-FONTAMARA
Fontamara fu il primo romanzo di Ignazio Silone e pubblicato nel 1929; lo scrittore abruzzese è il narratore esterno in questo romanzo di denuncia sociale; la storia racconta le prepotenze, gli abusi, la miseria cui sono condannate le popolazioni della valle del Fucino. Fontamara è un luogo immaginario situato nella Marsica in Abruzzo, si tratta di un paese povero dove i più poveri devono fare i conti con la prepotenza dei piccoli proprietari terrieri per cui lavoro e da cui vengono sistematicamente imbrogliato e fruttati, i cosiddetti GALANTUOMINI appoggiati e protetti dal governo fascista. Il tono della narrazione è lineare e piacevole, spesso veneta da una sottile ironia nei confronti del regime e dei suoi rappresentanti. Silone denuncia amaramente che nulla è cambiato nella storia dell’uomo: una volta c’erano gli schiavi, i servi della gleba, ora ci sono i “cafoni” , ossia uomini nati poveri e costretti a rimanere tali , soggetti a soggiacere all’ingiustizia e alle sopraffazioni del padrone, in tutto questo , e qui è molto amara dal denuncia, la legge non esiste, lo Stato è muto, anzi appoggia e tutela l’ingiustizia; il messaggio è che non si può discutere con l’autorità che non rispetta la legge, e la legge stessa è prigioniera piegata all’interesse di pochi a danno di tanti. Il messaggio valido purtroppo anche adesso, pur con alle dovute variazioni, è che nell’ignoranza c’è la sconfitta del più debole.
Chi vuole dominare e spadroneggiare ha bisogno di un popolo ignorante da controllare ed ha tutto l’interesse a lasciare nell’ignorante larghe fasce della popolazione da manipolare; in questo senso l’ignoranza è la primo nemico della democrazia e condanna all’immobilismo sociale. In conclusione, il messaggio universale da trarre è che un popolo di ignoranti è più facilmente manipolabile e questo vale in tutte le epoche.
Biografia di IGNAZIO SILONE-Pseudonimo dello scrittore e uomo politico italiano Secondo Tranquilli (Pescina 1900 – Ginevra 1978). Partecipò alla fondazione del Partito comunista (1921), allontanandosene nel 1931. Attivo nel Partito socialista clandestino (1942), diresse le riviste Europa socialista (1946-47) e Tempo presente (1956-68). Scritti nel gusto della narrativa verista, partecipi della drammatica urgenza degli avvenimenti storici e nutriti di un sentimento acutissimo dei limiti della giustizia umana e del richiamo ai valori di un cristianesimo evangelico, i suoi romanzi più noti (Fontamara, ed. ted. 1933, ed. it. 1947; Pane e vino, ed. ingl. 1936, ed. ted. 1937, 1a ed. it. riveduta e col tit. Vino e pane, 1955) raffigurano per lo più situazioni e ambienti di paesi dell’Italia meridionale nel loro lento processo di redenzione sociale.
Alessandro Pizzin- Frank Zappa-Editori Riuniti Roma
Descrizione del libro di Alessandro Pizzin- Frank Zappa- Editori Riuniti-La monografia affronta in modo essenziale la vita artistica e le opere discografiche di Frank Zappa. Il libro analizza tutta la produzione discografica dell’artista, commentando brevemente ogni canzone, presenta un capitolo dedicato alle sue dichiarazioni, la discografia ufficiale e un’appendice che raccoglie i più importanti singoli, 12″ e audiocassette che tra il 1966 e il 1988 hanno costellato la produzione musicale di Frank Zappa.
Legends è una collana dedicata alle leggende della Musica Pop/Rock/Folk/Jazz/Blues.
Ogni monografia affronta in modo essenziale e rigoroso la vita, le opere discografiche e l’eredità artistica dei gruppi o dei singoli musicisti analizzati. Nel suo insieme, Legends diventa una vera e propria enciclopedia che sa trasformarsi in preziosa guida all’ascolto degli album più significativi di ciascun interprete così come in efficace promemoria dei suoi brani più celebri.
Editori Riuniti Roma
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Frank Zappa- Chitarrista e compositore rock (Baltimora 1940 – Hollywood 1993). Fondò nel 1964 il gruppo Mothers of Invention, che in pochi anni allargò trasformandolo in un ensemble elettroacustico. Negli anni Settanta, con formazioni diverse, e fino al 1984 (con una rentrée nel 1988), sviluppò fino alle estreme conseguenze il suo incontro di rock, teatralità e musica colta, per poi dedicarsi soprattutto alla composizione con l’uso di sofisticate tecnologie. Suoi lavori cameristici e sinfonici sono stati eseguiti e registrati da Z. Mehta, P. Boulez, K. Nagano e l’Ensemble Modern. È inoltre autore di varî musical, uno dei quali ebbe una versione cinematografica (200 Motels, 1971).
Piero Calamandrei- Il fascismo come regime della menzogna Editori Laterza-Bari
Piero Calamandrei
Descrizione del libro di Piero Calamandrei-«Bisogna fare di tutto perché quella intossicazione vischiosa non ci riafferri: bisogna tenerla d’occhio, imparare a riconoscerla in tutti i suoi travestimenti. In quel ventennio c’è ancora il nostro specchio. Solo guardando ogni tanto in quello specchio possiamo accorgerci che la guerra di Liberazione, nel profondo delle coscienze, non è ancora terminata.»
I capitoli inediti di un’opera di Piero Calamandrei: un bilancio del ventennio all’indomani della Liberazione, un inno alla libertà ritrovata, un’analisi a caldo del regime.
Il regime della menzogna costituzionale
Lo Stato legalitario è uno strumento di legalità che si presta alla politica di qualsiasi partito: il meccanismo formale con cui le leggi si creano e si applicano è come uno stampo vuoto, nel quale, attraverso un procedimento tecnico fissato una volta per sempre, si può colare qualsiasi metallo. Per arrivare attraverso questo meccanismo a fare approvare una legge che abolisca la proprietà privata non si deve seguire un procedimento formalmente diverso da quello che condurrebbe ad ottenere una legge che gelosamente la conservi: qua e là, basta che si formi nel libero voto delle opinioni e degli interessi una maggioranza in un senso o in un altro, perché il metodo legalitario possa servire ugualmente a trasformare in diritto l’ideale politico di quella maggioranza. Per questo nei programmi dei partiti di opposizione che operano nell’ambito dello Stato legalitario non c’è come necessaria premessa la riforma dei meccanismi costituzionali: attraverso i quali, se se ne accetta il metodo, ogni partito può arrivare a conquistar il governo col voto ed aver tradotti in leggi i propri postulati economici e sociali.
Ma ci sono altri partiti, ai quali più propriamente si adatta l’attributo di rivoluzionari, i quali prima che i problemi di sostanza, attinenti al contenuto del diritto, si pongono i problemi di forma, attinenti al modo di formularlo: i quali ritengono, cioè, che prima di passare alla risoluzione delle concrete questioni economiche e sociali, sia necessario stabilire un “ordine nuovo”, un nuovo metodo per creare le leggi destinate a risolverle. Tra questi partiti, per i quali la questione costituzionale attinente alla forma dello Stato si presenta al primo posto come premessa necessaria di ogni altra riforma di carattere più sostanziale, fu il fascismo: il quale, sia nel suo primo tumultuoso affacciarsi alla vita politica, sia più tardi nella dottrina formatasi dopo il suo trionfo (per non sbagliare, mi riferirò sempre, nel citare i capisaldi di questa dottrina, a fonti autentiche), è stato anzitutto negazione polemica dei metodi costituzionali dello Stato liberale e proposito o velleità di costruire, in luogo di questo, un nuovo meccanismo di legalità attraverso il quale la volontà dello Stato, cioè il diritto, potesse manifestarsi in maniera più genuina e più energica che non attraverso i logori ingranaggi della libertà, del suffragio popolare e della divisione dei poteri.
La iniziale perplessità del fascismo su tutti i problemi politici sostanziali, che passavano in seconda linea di fronte all’urgenza, in cui tutte le ambizioni si trovavano fino ad allora concordi, di dar la scalata al potere, si riscontra, malamente dissimulata, anche nella successiva elaborazione teorica della dottrina; al centro della quale, in luogo di coerenti e consapevoli direttive politiche proposte all’attività pratica del governo, si trovano disquisizioni filosofiche sulla natura dello Stato, e vuote esaltazioni di esso, concepito come strumento di forza e di dominio. Essenziale per questa dottrina è l’autorità: come si conquista, come si tiene, come si impone, ma a quali scopi sociali questa autorità venga esercitata, in quali direzioni essa si adoperi in servizio della civiltà, ciò sembra secondario in quella dottrina. Quando avrò la forza in mano, sembra dire l’autore, vedrò caso per caso che cosa mi convenga fare: “Il fascismo politicamente vuol essere una dottrina realistica: praticamente aspira a risolvere solo i problemi che si pongono storicamente da sé e che da sé trovano o suggeriscono la propria soluzione. Per agire tra gli uomini, come nella natura, bisogna entrare nel processo della realtà e impadronirsi delle forze in atto”.
Quasi sembrerebbe di sentire in questo passo un’eco dello spirito antidogmatico del liberalismo, il quale nella sua espressione più genuina non vuol farsi sostenitore di programmi organici e completi di riforme economiche, perché insegna che l’ordine e il contenuto delle soluzioni debbono essere suggeriti dalle circostanze concrete via via che esse propongono alla politica i problemi pratici da risolvere. Ma nel liberalismo questa ripugnanza ad accettare programmi aprioristici è naturale, come omaggio alla libertà che non può essere ipotecata da soluzioni anticipate e che, attraverso le forme dello Stato liberale, deve trovar aperta la via a risolvere i problemi concreti nel modo storicamente più aderente alla realtà che via via si presenta sempre nuova e imprevedibile. Viceversa, in una dottrina che nega la libertà e pone in luogo di essa l’autorità, questo confessato agnosticismo su tutto quel che riguarda la soluzione dei problemi politici concreti può esser sintomo rivelatore del profondo indifferentismo ideale di un movimento il quale, avendo come unico dogma il potere, è pronto ad adottare caso per caso qualsiasi politica che gli serva a mantenerlo.
Ma quali sono dunque i caratteri giuridici di questo nuovo strumento istituzionale che il fascismo contrappone allo Stato legalitario? Quando, dalla polemica negativa contro i difetti del metodo liberale, il fascismo passa alla ricostruzione degli organi destinati alla produzione del diritto, in che consiste la tanto vantata originalità dell’ordinamento costituzionale uscito da questa dottrina?
Prima di rispondere a questa domanda, bisogna premettere, per colui che nel lontano avvenire vorrà scrivere pacatamente la storia del fascismo, una avvertenza: guardarsi dal credere che per farsi un’idea esatta del regime fascista possa bastare il leggerne la descrizione nelle leggi da esso create. Creder che per ricostruire l’aspetto giuridico di una civiltà sia sufficiente interrogare le leggi del tempo senza occuparsi di ricercare se e come erano in fatto applicate, è sempre un errore storico, perché quasi sempre tra le leggi come sono scritte e la loro applicazione pratica vi è un certo scarto, e la legalità proclamata nei codici è temperata nella realtà sociale da una certa dose di illegalismo che l’autorità non è in grado di impedire. Ma l’errore diventerebbe particolarmente grave di fronte a un regime come quello fascista, il quale ha avuto il carattere singolarissimo, anzi unico nella storia, di appoggiare i propri ordinamenti costituzionali, quasi arco su due colonne, da una parte sulla legalità ufficiale, dall’altra sull’illegalismo ufficioso: cioè da una parte sulle leggi e dall’altra sulla violazione delle medesime adoprata anch’essa, al par delle leggi, come strumento politico di governo.
In verità nella legislazione fascista abbondano, come si vedrà, le leggi “costituzionali”: e grande risalto fu dato, nei primi anni del regime, alla preparazione della cosiddetta “riforma costituzionale”, lo studio della quale fu solennemente affidato ad una commissione tecnica di diciotto insigni specialisti, che popolarmente furono chiamati i “soloni” (e, dai più maligni, “i fessoloni”). Ma chi si fermasse a considerare soltanto questo corpus di leggi costituzionali che si tengono in vetrina per presentarle, vedrebbe del sistema politico fascista soltanto la facciata, cioè le istituzioni di gala, quelle che si tengono in vetrina per presentarle agli ospiti di riguardo nei giorni di cerimonia: mentre in realtà la parte più importante del sistema, era costituita dai congegni interni, appositamente predisposti nelle retrostanze, per annientare o per snaturare le leggi apparenti tenute in mostra dinanzi agli occhi del pubblico.
Era un po’ difficile, in verità, dare di un siffatto sistema una definizione in termini giuridici!
Una rivoluzione, quand’è una rivoluzione vera, sopprime una dopo l’altra le istituzioni giuridiche e con esse la legalità dell’ordinamento abbattuto; e mentre prepara le nuove leggi in cui dovrà stabilmente fissarsi la sua vittoria, apre necessariamente, tra il vecchio regime ed il nuovo, uno hyatus di illegalismo, sulla natura del quale i giuristi non trovano ardui problemi da risolvere: è l’inevitabile illegalismo di fatto che segue le rivoluzioni vittoriose, male accetto ma transitorio, che non è fine a se stesso e dura solo quanto occorre per ricostruire la nuova legalità. Né difficile è la definizione giuridica di un’altra sorta di illegalismo: quello che impera in quei regimi dove il principe apertamente si proclama legibus solutus e governa come tale. Qui si sa di che si tratta: è il tradizionale illegalismo dei tiranni, senza mezzi termini e senza maschera; e quindi ben definibile e classificabile; che almeno ha il merito della sincerità.
Ma quando ci si mette a cercare una definizione giuridica del regime fascista, in cui si incontra questo singolarissimo paradosso che è una legalità appoggiata sull’illegalismo, ovvero un illegalismo non di fatto ma di diritto, il compito di chi voglia descrivere in maniera chiara questo ibrido ordinamento diventa quanto mai arduo. Era ammirevole l’impegno con cui i professori di diritto costituzionale cercavano di sciogliere i mille indovinelli che venivano fuori da quel regime: era rivoluzione o non era? La monarchia rappresentativa c’era ancora o era stata abolita? Contava più il capo dello Stato o il capo del governo? Lo Statuto era ancora in vigore o era stato soppresso? C’era ancora l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, ovvero si era introdotta una distinzione tra iscritti che hanno tutti i diritti e non iscritti che hanno tutti i doveri? I detti interpreti aguzzavano gli espedienti della loro ermeneutica su quelle leggi; e credevano di trovare in esse la risposta a tutti quei problemi. Ma non si accorgevano, o figuravano di non accorgersi, che la soluzione, più che alle leggi, sarebbe stato necessario chiederla a quella pratica politica a cui le leggi servivano soltanto da schermo figurativo.
In verità nel regime fascista c’è stato qualcosa di più profondo, di più complicato, di più torbido dell’illegalismo: c’è stata la simulazione della legalità, la truffa, legalmente organizzata, alla legalità. A tutte le tradizionali classificazioni delle forme di governo bisognerebbe aggiungere una nuova parola che riuscisse a significare questo novissimo tipo di regime: il governo dell’indisciplina autoritaria, della legalità adulterata, dell’illegalismo legalizzato, della frode costituzionale…
In un regime siffatto le istituzioni vanno prese non per quello che è scritto nelle leggi, ma per quello che è sottinteso tra le righe di esse: e le parole non hanno più il significato registrato nel vocabolario, ma un significato diverso e assai spesso opposto a quello comune, intelligibile soltanto agli iniziati.
Come meglio si vedrà dal seguito di queste considerazioni, il carattere in cui si riassumono le singolari qualità di questo regime è quello della doppiezza: in senso proprio ed in senso traslato. Il sistema fascista risulta infatti dalla combinazione di due ordinamenti giudiziari uno dentro l’altro: quello ufficiale, che si esprime nelle leggi, e quello ufficioso, che si concreta in una pratica politica sistematicamente contraria alle leggi. A questa duplicità di ordinamento corrisponde una doppia stratificazione di organi: una burocrazia di stato e una burocrazia di partito, pagate entrambe dagli stessi contribuenti, e ricongiunte al vertice in colui che è insieme il manovratore dell’una e dall’altra, “capo del governo” e insieme “duce del fascismo”. Ma tra la burocrazia dell’illegalismo e quella della legalità non vi è antitesi, anzi vi è una segreta alleanza e una specie di reciproca vicarietà: tanto che per volersi render conto esattamente di quello che è il regime, non si deve chieder la spiegazione ad una sola di esse, ma bisogna piuttosto cercarla nel punto ove esse si incontrano, a mezza strada tra legalità e illegalismo.
La menzogna politica, che può sopravvenire in tutti i regimi come corruzione e degenerazione di essi, qui è stata sistematicamente assunta, fin da principio, come strumento normale e fisiologico di governo. Ciò apparirà in maniera evidente dall’esame di quei quattro capisaldi della dottrina fascista, che potrebbero denominarsi le sue quattro finzioni costituzionali: il totalitarismo, la rivoluzione, il consenso, la monarchia.
La finzione del totalitarismo
Totalitarismo: per vent’anni questa parola ci ha ossessionato. Era uno di quei vocaboli catapulta che quando i gerarchi li scaricavano enfiando le gote e sporgendo la quadrata mandibola, davano alla folla la sensazione quasi fisica dell’irresistibile schiacciamento. Nella maschia oratoria fascista tutto diventava totalitario: dalla dedizione al duce alle adunate dei gregari, dalla riforma scolastica alla consegna dell’olio agli ammassi. Ma i sostantivi per i quali questo attributo era stato originariamente inventato dal suo creatore (giustamente celebrato dai filologi più avvertiti come rinnovatore della lingua italiana) erano soprattutto due: “regime” e “Stato”. Regime totalitario, Stato totalitario… Quale realtà politica si nascondeva sotto questo aggettivo rintronante?
Qualunque professore di dottrine politiche (ce n’era uno per ogni cantonata) avrebbe potuto spiegarvelo in quattro parole: di fronte al frazionamento e alla disgregazione dei regimi liberaldemocratici, in cui l’unità dello Stato era perpetuamente messa in pericolo dalle lotte dei partiti e dalle tendenze anarchiche del sindacalismo, ecco finalmente, col fascismo, il regime che armonizza e unifica tutte le forze sociali, e tutte le “potenzia” senza che alcuna vada dispersa; ecco finalmente raggiunto, qui, perfetta identificazione dell’interesse privato nell’interesse pubblico, l’annientamento di ogni egoismo individuale nel sentimento di disciplina nazionale… Questo è il totalitarismo: un monumentale blocco d’acciaio, in cui tutti i cittadini si trovano finalmente fusi, emulsionati, amalgamati…
Ma sarà meglio che cerchiamo di capir per conto nostro, senza scomodar le guide autorizzate, che cosa c’era sotto queste belle immagini.
La teoria del totalitarismo è riassunta in una nota formula: “Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, la quale, secondo la glossa autentica, significa nella sua faccia negativa che “nulla di umano, di spirituale, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato”; e nella sua faccia positiva che “lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo”.
Sotto l’aspetto negativo è chiaro, e più chiaro diventa nel commento dell’autore, che cosa la formula voglia dire. Non solo si nega, ma addirittura si dichiara “non pensabile” l’esistenza fuori dello Stato di una vita morale individuale: la libertà, la dignità spirituale, è, per il fascismo, un dono che la persona riceve dallo Stato; anzi la persona è tale solo in quanto lo Stato abbia soffiato in essa il creator suo spirito. Che nell’uomo esista per natura un pensiero che le leggi esterne non possono costringere, una volontà libera che non riconosce alcuna tirannia, una coscienza morale che vive sola padrona di sé in una quarta dimensione posta fuori dal tiro dello Stato che può colpire soltanto con armi a tre dimensioni, tutto questo è, più che negato, ignorato dal fascismo: “Nulla di umano, di spirituale esiste… fuori dello Stato”; è proprio scritto così. Anche la morale è una creazione dello Stato, è volontà dello Stato “etico”: cosicché in sostanza morale e diritto si identificano, e non può neanche sorgere il problema del contrasto tra legge giuridica e giustizia morale, dato che quello che lo Stato pone come diritto, è, per il solo fatto che chi lo pone è lo Stato, volontà morale: “Lo Stato, come volontà etica universale, è creatore del diritto”. Tutto questo è assai chiaro; ma non è altrettanto originale. Si tratta infatti, semplicemente, di una brutale caricatura della deificazione hegeliana dello Stato, che tradotta in termini politici vuol dire un esasperato assolutismo in adorazione della propria onnipotenza; lo schiacciamento della libertà sotto la religione fascista dell’autorità: “Lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo”. È una concezione non soltanto antindividualistica e antiliberale, ma anche, essenzialmente, anticristiana. Se si ricercano nel campo pratico le conseguenze giuridiche di queste premesse filosofiche, si vede che esse significano nient’altro che il ritorno ad un’autocrazia peggiore, poiché estesa anche al campo spirituale, di quelle rovesciate dalla rivoluzione francese. Aboliti quei “diritti di libertà” che lo Stato legalitario aveva posti a salvaguardia della persona umana come barriere non valicabili dalla stessa legalità, la legge torna ad essere in ogni campo onnipotente: e può anche, se così piace allo Stato, ristabilire la schiavitù. Dato che la personalità giuridica non si considera più come necessario riflesso di una preesistente personalità morale che lo Stato deve limitarsi a riconoscere, ma come creazione ex novo dello Stato che può a suo arbitrio rifiutarla e ritoglierla, niente si oppone a che, in cosiffatto regime, l’uomo sia legalmente retrocesso a cosa. Questo vuol dire dunque, sotto questo primo aspetto negativo, il totalitarismo: una specie di teocrazia senza dio, in cui lo Stato si è assunto anche il potere di creare le anime.
Ma il totalitarismo, si è visto, non ha soltanto questa portata negativa, di annullamento dell’individuo nello Stato; nell’altra faccia, quella positiva, esso si presenta come esaltazione dei valori individuali, dei quali lo Stato fascista sarebbe “sintesi ed unità”: ogni individuo, “in quanto esso coincida con lo Stato, coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua esistenza storica”, trova nello Stato il suo “potenziamento”: fuori dello Stato è nulla, dentro lo Stato esso diventa tutto: e nel sottoporsi all’autorità dello Stato trova in questa soggezione “la sola libertà che possa essere una cosa seria”, cioè la libertà dell’individuo nello Stato”.
Messo di fronte a queste formule per lui misteriose, il giurista che poco si intende di filosofia cerca di tradurle in proposizioni che abbiano un senso pratico chiaramente intelligibile alla sua tecnica. Egli vede nello Stato uomini che comandano e uomini che ubbidiscono, nel diritto regole formulate da uomini a cui altri uomini sono chiamati ad ubbidire; egli chiama libertà individuale quella zona di attività esterna nei limiti della quale, stabiliti dalla legge, l’individuo può comportarsi come meglio crede senza essere soggetto ad alcuno; e vede nella soggezione il contrario della libertà. E il suo spirito semplificatore lo porta a ricercare i meccanismi pratici che si annidano sotto il fumo del linguaggio filosofico: come son ripartite, nello Stato totalitario, le funzioni del comandare e dell’ubbidire? Chi sono i governanti e chi i governati? Quali persone concorrono effettivamente, colla loro volontà, a creare quei comandi che poi devono valere come volontà dello Stato, cioè a creare il diritto?
Si legge che il totalitarismo è la sintesi e la messa in valore della vita di tutto il popolo: guardiamo dunque attraverso quali sistemi pratici tutto il popolo concorre nello Stato fascista alla creazione del diritto.
Il fascismo respinge energicamente “l’assurda menzogna convenzionale dell’egualitarismo politico”. Esso “nega che il numero, per il semplice fatto di essere numero, possa dirigere la società umana; nega che questo numero possa governare attraverso una consultazione periodica; afferma la disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini; che non si possono livellare attraverso un fatto meccanico ed estrinseco, com’è il suffragio universale…”. Lo Stato “…non è numero, come somma di individui formanti la maggioranza di un popolo. E perciò il fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggiore numero, abbassandolo al livello dei più; ma è la forma più schietta di democrazia, se il popolo è concepito, come dev’essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l’idea più potente perché più morale, più coerente, più vera, che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi; anzi di Uno, e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti”.
Si può innanzitutto osservare che in questa polemica contro il sistema elettorale dei regimi liberali e democratici, si cerca a bella posta, con superficiale espediente giornalistico, di far confusione tra l’uguaglianza di fatto e la uguaglianza giuridica. Lo Stato legalitario non è in alcun modo basato sull’assurda credenza, smentita dalla natura, che tutti gli uomini siano di fatto qualitativamente uguali, né pretende che tutti i cittadini possano di fatto concorrere al governo in misura uguale, come unità aritmeticamente equivalenti; ma crede che per far affiorare le direttive politiche corrispondenti alle forze sociali più vive e per trovar gli uomini meglio adatti a governare in conformità di esse, non esista metodo più perfetto (o meno imperfetto) di quello che dà a tutti i cittadini in ugual misura la libertà giuridica di esprimer pubblicamente le proprie idee, di raggrupparsi secondo esse in partiti, e di concorrere col voto alla elezione di coloro che dovranno tradurle in leggi. Non dunque equivalenza quantitativa di tutti i cittadini: ma libertà giuridica data ugualmente a ciascuno di immettere nella lotta politica le proprie qualità personali, in modo che, nelle idee e negli uomini, le qualità migliori possano affermarsi e prevalere. È un sistema, dunque, che vede nella libertà il miglior filtro dei valori umani. Si potrà sostenere che questo sistema ha dei difetti, si potranno suggerire, se ci sono, sistemi migliori; ma non è lecito, se non si vuol cambiare le carte in tavola, far apparire come un sistema indirizzato a soffocare la qualità sotto la quantità livellatrice quello che è, viceversa, essenzialmente un metodo per allargare sulla totalità del popolo la ricerca e la educazione della qualità, per dare a tutte le idee e a tutti gli uomini che valgano, in qualunque ceto sociale, la possibilità di rivelarsi e di farsi valere.
Ma guardiamo qual è, in contrapposto a questo che si afferma superato, il metodo di selezione delle idee e degli uomini proposto dal totalitarismo fascista.
Prima di tutto, abolizione dei partiti: un partito solo, che esclude ed annienta tutti gli altri e che pretende di coincidere, esso solo con lo Stato. “Un partito che governa totalitariamente una nazione è un fatto nuovo nella storia” sentenzia gravemente l’inventore della dottrina; in questo ha perfettamente ragione, perché i partiti finora avevano avuto storicamente un senso, solo in quanto fossero più d’uno e in contrasto tra loro: cioè porzioni o frazioni della vita politica dello Stato, che rappresentava il tutto di cui essi, anche etimologicamente, erano le “parti” contrapposte. Ma quando, com’è avvenuto col fascismo, i partiti si riducono ad uno e quest’uno si dilata fino ad abbracciare in sé la totalità della vita politica (sicché si è potuto parlare del fascismo come di un partito-Stato e di uno Stato-partito), allora l’idea stessa di partito dovrebbe dissolversi; e la stessa espressione di “partito totalitario” dovrebbe apparire come una contraddizione in termini, come quella di chi dicesse che l’intero è parte di sé medesimo. E in verità, durante questi vent’anni coloro che guardavano con superficiale buon senso l’evoluzione della vita pubblica italiana, non riuscivano a spiegarsi il fenomeno indubbiamente nuovo nella storia di questo partito che dopo aver sgominato tutti gli altri partiti ed esser rimasto padrone unico e incontrastato del campo, continuava tuttavia, pur governando lo Stato senza opposizioni, a stare in armi contro le opposizioni che non c’erano, come un duellante che dopo aver steso in terra l’avversario continuasse a rimanere in guardia, puntando la spada contro il vento; e i pacifici cittadini, nel veder questa gente vestita di nero che dopo dieci o quindici anni dal trionfo continuava ad aggirarsi per le piazze con aria truce e con tanto di pugnale alla cintola, si domandavano: “Ma con chi l’hanno?”.
Non capivano, questi loici pieni di ingenuità, che la sopravvivenza paradossale di questo partito totalitario colle sue gerarchie armate costituenti dal centro alla periferia un duplicato apparentemente inutile della burocrazia dello Stato, era (come meglio si vedrà tra poco) uno strumento necessario della “rivoluzione continua” coltivato a bella posta per mantenere gli spiriti in stato di perpetua mobilitazione per conservare al regime quel certo tono eccitante di illegalismo che giustificava il continuar delle sopraffazioni e delle ruberie.
Prima conseguenza di questo tipico carattere del totalitarismo, che è la soppressione di tutti i partiti fuor che di quello al potere, è stata la esclusione dalla vita pubblica (e qui, come si è visto, vita pubblica voleva dire molte volte vita professionale) di tutti i cittadini che non fossero iscritti al partito fascista. Abolita la libertà di stampa e di associazione, tolta a tutti la possibilità di manifestare in forma legale opinioni che dissentissero da quelle del partito dominante, la gran maggioranza dei cittadini fu condannata al perpetuum silentium ed all’ozio politico: esser fuori dal partito voleva dire, politicamente, esser fuori dallo Stato. E questa fu, nonostante che potesse superficialmente apparire come una prova di forza, la fatale debolezza del fascismo: quella che doveva togliergli inesorabilmente ogni possibilità di avvenire. Mentre si proclamava a parole la espressione totalitaria di tutte le forze vive della nazione, si metteva al bando la grandissima maggioranza dei cittadini, e così, col rinunciare a cercare in mezzo ad essi un contributo di uomini e di idee, a ridurre la vita politica dello Stato, la sintesi universale di tutto un popolo, a sfogo partigiano di una sola minoranza faziosa. A ben guardare, se per Stato totalitario si deve intendere quello che apre la strada alle qualità dei migliori, ricercandole e ridestandole in mezzo al popolo senza distinzioni di tendenza o di ceti, questa denominazione si addice ai regimi liberali e democratici, assai meglio che a quello fascista; perché solo in quelli, attraverso la dialettica dei partiti, non c’è voce che vada perduta, e la vita pubblica dello Stato riesce veramente, attraverso la libertà di opposizione che è anch’essa una forma di collaborazione, ad essere la sintesi di tutto un popolo. Anche nel campo spirituale, la libertà è ricchezza: dove c’è libertà non vi è frazione sia pur minima della nazione che sfugga a questa gara di qualità, attraverso la quale la vita pubblica perpetuamente si ossigena e si rinnovella; mentre una dittatura di partito finisce con l’impoverire anche spiritualmente lo Stato, perché si condanna da sé a trarre uomini ed idee da quel suo piccolo campo chiuso che ogni giorno diventa più sterile e più maligno, mentre al di là della siepe fertili distese rimangono incolte. Ma si può dire almeno che dentro a questo angusto recinto il fascismo abbia saputo introdurre ed attuare un metodo di selezione delle qualità migliore di quello praticato nello Stato legalitario? Si potrebbe infatti pensare che quella feconda opposizione delle idee che non era più permessa come distinzione e opposizione di partiti fosse però ammessa nell’interno del partito unico, in modo che i vantaggi del metodo liberale fossero messi a profitto entro questa più limitata cerchia: e che dentro di essa fosse tollerato e magari incoraggiato il formarsi di diverse tendenze, e consentita la critica reciproca, e concesso ai fascisti di raggrupparsi intorno ad esse e di scegliere da sé, in ciascun gruppo, i propri capi.
Niente di tutto questo. Ogni tanto, specialmente tra i fascisti universitari, affioravano correnti eterodosse che invocavano la libertà di critica e di discussione politica: non per tutti i cittadini, si intende, ma almeno per gli iscritti al partito. Pareva, sul primo momento, che a queste correnti giovanili si volesse consentire libero sfogo: si lasciavano fondare giornaletti che parevano destinati a rimettere in onore l’intelligenza, a riportare nella gioventù l’abitudine
Piero Calamandrei
Breve biografia di Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, scrittore e uomo politico, fu tra i fondatori del Partito d’Azione e tra gli artefici della Costituzione repubblicana.Nel 1945 fondò a Firenze la rivista “Il Ponte”, animando il dibattito politico, culturale e civile del primo decennio della Repubblica. Nel catalogo Laterza anche: Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) (a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato); Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) (con Franco Calamandrei, a cura di Alessandro Casellato); Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei); Non c’è libertà senza legalità; Il fascismo come regime della menzogna.
nelle incisioni , affreschi , dipinti e foto dal 1500 sino al 1900-
Ricerca e pubblicazione a cura Franco Leggeri per l’Associazione DEA SABINA
Ratto delle Sabine-Autore: Poussin Nicolas (1594-1665)
Descrizione: La stampa rappresenta il momento più drammatico del Ratto delle Sabine. La scena si svolge in un contesto urbano dove, sullo sfondo, fanno da quinta un tempio e diversi edifici cittadini ripresi nella classica prospettiva centrale. A sinistra, su di un piedistallo, davanti a due uomini togati, si trova Romolo, ripreso in una teatrale posa plastica, con la corona che gli cinge il capo e la mano sinistra elevata chiusa a pugno intorno a un lembo del suo mantello. È intento a impartire ordini mentre intorno a lui si concretizza la violenza, con uomini e donne che lottano e fuggono. Nella parte inferiore, al di sotto dell’immagine, si trova un’iscrizione in caratteri capitali e corsivi che funge da didascalia all’immagine stessa.
Notizie storico-critiche: La stampa di traduzione fa parte di una serie di incisioni che illustrano la storia delle origini di Roma sulla base delle fonti storiche di Plutarco (Vite Parallele, Vita di Romolo) e di Tito Livio (Storia di Roma dalla fondazione). In particolare lo storico latino Tito Livio, nato nel 59 a. C. e morto nel 17 d. C. a Padova, dedica tutta la sua vita alla stesura di un’unica colossale opera storiografica “Ab Urbe condita libri”, che inizia dopo il 27 a. C. e viene pubblicata in successione per gruppi di libri; l’ultimo volume esce dopo la morte di Augusto, avvenuta il 14 d.C. L’intenzione dell’autore era quella di coprire l’intera storia di Roma dalle origini fino all’età contemporanea, ma la narrazione si ferma con il libro CXLII, che giunge fino alla morte di Druso (9 a.C.). La data della fondazione di Roma è stata fissata dallo Storico Latino Varrone sulla base dei calcoli effettuati dall’astrologo Lucio Taruzio. Il soggetto della presente stampa è preso da un famoso dipinto di Poussin del 1637/ 1638, oggi conservato al Louvre, che il veneto Angelo Biasioli incide utilizzando la raffinata tecnica dell’acquatinta per restituire i passaggi tonali e chiaroscurali dell’animata scena mitica, nella quale la classicità è esaltata sia nelle architetture che nei costumi. Biasioli lavora soprattutto a Milano per diversi editori; questa tiratura, eseguita proprio a Milano dall’editore Luigi Valeriano Pozzi, è presumibilmente eseguita tra il 1820, quando i rami di buona parte della serie sono già stati tirati dall’editore romano Scudellari (1819), ed il 1824, quando la serie compare sul Giornale di Letteratura, Scienze ed Arti (tomo XXXIV, aprile maggio giugno 1824) come edite dal milanese Pozzi.
Collocazione
Provincia di Cremona
Ente sanitario proprietario: A.S.S.T. di Crema
Compilazione: Casarin, Renata (2009)
Aggiornamento: Uva, Cristina (2012)-
Descrizione
Autore: Poussin Nicolas (1594-1665), inventore; Sala Vitale (1803-1835), disegnatore; Biasioli Angelo (1790-1830), incisore; Pozzi Luigi Valeriano (notizie 1800 ca.-1808), editore
Cronologia: post 1820 – ante 1824
Tipologia: disegno
Materia e tecnica: carta/ acquaforte; carta/ acquatinta
Misure: 565 mm x 480 mm (parte incisa); 66 cm x 58 cm (cornice)
Ratto delle Sabine-Autore: Conti Primo (1900-1988)-Studio per il ratto delle sabine
Descrizione
Identificazione: Studio per il ratto delle sabine
Autore: Conti, Primo (1900-1988)
Cronologia: 1924
Tipologia: disegno
Materia e tecnica: carta/ grafite
Misure: 279 mm x 212 mm
Descrizione: matita di grafite su carta
Notizie storico-critiche:A cavallo tra la fine degli anni Dieci e gli inizi del decennio successivo, nell’opera di Primo Conti si osserva una svolta poetica che condurrà la pittura dell’artista fiorentino lontano dall’aggressione futurista, per assorbire gradualmente, invece, un sintetismo formale di carattere purista, tipico della corrente novecentista, ma scevro da quella retorica compositiva per cui quest’ultima si contraddistingue. Tra le più grandi e articolate composizioni di figure del pittore, il “Ratto delle sabine”, presentato alla “III Esposizione Internazionale di Roma”, si concretizza per una fortissima novità espressiva lontana dagli archetipi novecenteschi. Il dipinto infatti è definito da Enrico Crispolti come un’opera “furiana”, nel quale “la “sospensione” malinconica, la sottile insinuazione di malaise psichico avviene smussando cromaticamente la nettezza del plasticismo purista, introducendo spiazzamenti asimmetrici, e ritmi di profili continuamente ondulati e curvilinei, ma mai in senso d’ispirazione geometrica” (E. Crispoldi, Primo Conti: catalogo retrospettivo per le mostre tenute in occasione dei sessanta anni di lavoro dell’artista, Firenze 1971). In alcune lettera indirizzate all’amico Pavolini, Conti racconta le vicende che hanno contrassegnato la realizzazione dell’opera. Il 29 ottobre 1924, fa sapere, “esporrò a Roma insieme al Trittico e a qualche ritratto, un Ratto delle Sabine del quale non possiedo altro che qualche disegno” e nuovamente allo stesso il 13 novembre scrive “stò ultimando i disegni per il Ratto delle Sabine”, e ancora annuncia la fine del lavoro con una lettera del 14 gennaio 1925 “fra qualche ora, forse, metterò l’ultima pennellata e la firma alle Sabine”, e la stessa sera conclude con una cartolina dicendo “Le Sabine vivono ormai di luce propria” (Calvesi, in Primo Conti 1911-1980, Firenze 1980). Tra i numerosi bozzetti preparatori di cui l’artista parla nelle lettere a Pavolini, due disegni firmati e datati “P. Conti / 1924” sono conservati presso la Fondazione dedicata al pittore a Fiesole, mentre un altro bozzetto, firmato e datato come i precedenti, è custodito presso le Raccolte Civiche del Gabinetto di Disegni del Castello Sforzesco dal 1932, dopo essere stato donato dall’autore stesso alle raccolte pubbliche milanesi. Il disegno raffigurante la parte sinistra del dipinto, così come l’opera a olio o i disegni della fondazione (i quali descrivono invece la parte destra e la parte centrale del quadro, attraverso linee più abbozzate e veloci e senza rifinitura o forti contrasti chiaroscurali) è contraddistinto da una composizione ottenuta mediante il serrato incastro volumetrico dei corpi che si affollano, contorcendosi attraverso un energico dinamismo, inedito fino a questo momento nelle opere del pittore. Confrontando il dipinto con il disegno in questione, si osservano piccole differenze nella raffigurazione dei personaggi e di alcuni particolari. Nel disegno è infatti assente la donna in secondo piano sulla destra tra le quatto figure o i due lembi di panneggio accanto alla donna accovacciato a terra. Ancora, nel disegno il piccolo omino in basso che sembra scappare in primo piano, nel dipinto diventa un carnefice ed è posto stavolta sullo sfondo. Il disegno milanese, probabilmente uno degli ultimi realizzati dall’artista, è caratterizzato da un fitto chiaroscuro eseguito con matita dura tramite linee oblique parallele, le quali invadono tutta la composizione risultando più marcate e fitte tra le giunture dei vari corpi che si accostano tra di loro.
Ratto delle Sabine-l’Affresco raffigura un episodio mitico delle origini di Roma
Descrizione
Ambito culturale: Ambito comasco
Cronologia: post 1615 – ante 1630
Tipologia: pertinenze decorative
Materia e tecnica: affresco finito a secco
Misure: 170 cm x 13 cm x 120 cm
Descrizione: L’affresco, realizzato sulla parete destra del salone, è presentato illusionisticamente come un quadro racchiuso in una cornice di legno e fissato alla parete. Raffigura un episodio mitico delle origini di Roma, il cosiddetto Ratto delle Sabine, ordinato da Romolo per supplire alla carenza di donne dei romani. L’anonimo pittore raffigura il rapimento delle mogli e delle figlie dei Sabini, un’antica popolazione del Lazio, messo in atto dai soldati romani che le avevano attirate con l’inganno nella loro città. Una particolarità dell’affresco è costituita dall’ambientazione della scena, che si svolge in una città di Roma trasfigurata dalla fantasia, dove il richiamo all’architettura antica, rappresentata dal tempio circolare a sinistra, più vicino alle architetture rinascimentali di Bramante che agli edifici classici, si affianca a una sfilata di edifici moderni, molto simili a quelli che si potevano vedere nella Como di primo Seicento. Anche il paesaggio d’acque,con barche cariche di merci, più che al fiume Tevere sembra ispirarsi a una veduta marina o, addirittura, al lago di Como su cui si affaccia la villa dei Gallio.
Notizie storico-critiche:L’affresco con il Ratto delle Sabine fa parte della decorazione del salone centrale di villa Gallia, edificata a partire dal 1614. Non conosciamo il nome dell’artista che eseguì questo affresco e la datazione esatta del suo intervento, che molto verosimilmente fu commissionato dall’abate Marco Gallio, cui si deve la costruzione dell’edificio. Come altre scene del salone, anche questa è un omaggio diretto alla storia di Roma, città in cui Marco Gallio aveva vissuto a lungo a fianco del potente zio cardinale Tolomeo, artefice della fortuna della famiglia.
Ratto delle Sabine-disegno probabilmente preparatorio per una scena teatrale-
seconda metà del XVII secolo
Descrizione
Ambito culturale: ambito veneto
Cronologia: ca. 1750 – ca. 1799
Tipologia: disegno
Materia e tecnica: carta/ matita/ penna/ inchiostro/ acquerellatura
Misure: 495 mm. x 397 mm.
Descrizione: Matita, penna, inchiostro nero, acquerello grigio, acquerelli colorati su carta bianca. Filigrana intera: forma di aquila stilizzata che regge due lance e, sotto, in lettere capitali, “LAF”.
Notizie storico-critiche:Il disegno, probabilmente preparatorio per una scena teatrale, non reca alcuna attribuzione: per il tratto leggero, frammentato e luminoso, per l’acquerellatura di delicata policromia, è probabilmente da assegnare ad un artista veneto, attivo nella seconda metà del XVII secolo.
Collezione: Collezione di disegni di Riccardo Lampugnani del Museo Poldi Pezzoli
Ratto delle Sabine-Autore: Ricchi Pietro detto Lucchese (attr.) (1606/ 1675)
Descrizione
Autore: Ricchi Pietro detto Lucchese (attr.) (1606/ 1675)
Cronologia: post 1600 – ante 1699
Tipologia: pittura
Materia e tecnica: olio su tela
Misure: 90,5 cm x 66,8 cm
Descrizione: In primo piano a destra un soldato afferra una giovane donna, mentre dietro di lui un altro sta già sollevando la preda; in secondo piano la scena è stipata di donne e soldati con insegne militari, picche, vessilli.
Collezione: Collezione dei dipinti dal XII al XVI secolo dei Civici Musei d’Arte e Storia di Brescia
Collocazione-Brescia (BS), Musei Civici di Arte e Storia. Pinacoteca Tosio Martinengo
Compilazione: Basta, C. (1991)
Aggiornamento: Giuffredi, L. (2003)
Ratto delle Sabine-Milano- Museo Martinitt e Stelline
Descrizione
Cronologia: post 1725 – ante 1775
Tipologia: pittura
Materia e tecnica: tela/ pittura a olio
Misure: 228 cm x 177 cm
Collocazione
Milano (MI), Museo Martinitt e Stelline
Compilazione: Amaglio, Silvia (2013)
Ratto delle Sabine-Cremona (CR), Museo Civico Ala Ponzone
Ratto delle Sabine
Descrizione
Ambito culturale: ambito neoclassico
Cronologia: ca. 1800 – ca. 1815
Tipologia: disegno
Materia e tecnica: matita nera su carta bianca
Misure: 288 mm x 204 mm
Collocazione
Cremona (CR), Museo Civico Ala Ponzone
Compilazione: Iato, V. (2001)
Aggiornamento: Bora, G. ()
Ratto delle Sabine-Autore: Pistrucci Filippo (sec. XIX), inventore / incisore-
Misure: 185 mm x 115 mm (parte incisa); 181 mm x 125 mm (parte figurata); 191 mm x 140 mm (Impronta)
Collocazione
Monza (MB), Musei Civici di Monza
Compilazione: Marchesi, Ilaria (2010)
Ratto delle Sabine-Autore: Aquila Pietro (1640/ 1692), incisore
Ratto delle Sabine
Descrizione
Autore: Aquila Pietro (1640/ 1692), incisore / disegnatore; Berrettini Pietro detto Pietro da Cortona (1596/ 1669), inventore
Cronologia: ca. 1670 – ante 1692
Oggetto: stampa smarginata
Soggetto: storia
Materia e tecnica: acquaforte
Misure: 613 mm x 418 mm (parte incisa)
Collezione: Fondo Calcografico Antico e Moderno della Fondazione Biblioteca Morcelli-Pinacoteca Repossi
Collocazione
Chiari (BS), Pinacoteca Repossi
Compilazione: Brambilla, Lia (2003); Scorsetti, Monica (2003)-
Ratto delle Sabine Autore: Biasioli Angelo (1790/ 1830)
Descrizione
Identificazione: Ratto delle Sabine
Autore: Biasioli Angelo (1790/ 1830), incisore
Cronologia: post 1790 – ante 1830
Oggetto: stampa
Soggetto: storia
Materia e tecnica: acquatinta
Misure: 181 mm. x 114 mm. (Parte figurata); 195 mm. x 135 mm. (Parte incisa)
Collocazione
Monza (MB), Musei Civici di Monza
Compilazione: Fumagalli, Monica (2005)
Ratto delle Sabine-Bartoli Pietro Santi; Caldara Polidoro detto Polidoro da Caravaggio
Descrizione
Autore: Bartoli Pietro Santi (1635/ 1700), incisore; Caldara Polidoro detto Polidoro da Caravaggio (1499-1500/ 1543), inventore
Ambito culturale: Scuola romana
Cronologia: post 1650 – ante 1699
Oggetto: stampa
Soggetto: storia
Materia e tecnica: acquaforte
Misure: 386 mm x 122 mm (inciso); 392 mm x 158 mm (foglio)
Collocazione
Brescia (BS), Musei Civici di Arte e Storia. Pinacoteca Tosio Martinengo
Compilazione: Menta, L. (1999)
Aggiornamento: D’Adda, R. (2002)
Scultura – Ratto delle Sabine – Giambologna – Firenze – Loggia dei Lanzi
Descrizione
Autore: Non identificato, fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Firenze (FI), Italia, 1890 – 1899
Materia/tecnica: albumina/carta
Misure: 30 x 40
Collocazione: Milano (MI), Regione Lombardia, fondo Scrocchi, SCR_4_STABC_TQ
Classificazione
Genere: foto d’arte
Soggetto: arte
Compilazione: Truzzi, Stefania (2005)
Aggiornamento: Casone, Laura (2006)
Pietro da Cortona – Ratto delle Sabine – Dipinto – Olio su tela – Roma – Palazzo del Campidoglio – Galleria Capitolina – Sala Pietro da Cortona
Pietro da Cortona – Ratto delle Sabine – Dipinto – Olio su tela – Roma – Palazzo del Campidoglio – Galleria Capitolina – Sala Pietro da Cortona
Anderson Domenico
Descrizione
Autore: Anderson Domenico (1854/ 1938), fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Roma (RM), 1855-1919
Materia/tecnica: albumina/carta
Misure: n.d.
Collocazione: Milano (MI), Raccolte storiche dell’Accademia di Brera, fondo Fondo Frizzoni, Fototeca storica – Armadio Frizzoni – FF 302
Classificazione
Compilazione: Lapesa, C. (2008)-
Dipinto – “Ratto delle Sabine”
Fotografia dello Studio Calzolari (studio) (1882/1996)
Dipinto – “Ratto delle Sabine” (?)
Foto Studio Calzolari (studio)
Descrizione
Autore: Studio Calzolari (studio) (1882/1996), fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Mantova (MN), Italia, XX
Materia/tecnica: gelatina bromuro d’argento/vetro
Misure: n.d.
Note: Dipinto, olio su tela, raffigurante ratto delle Sabine (?).
Collocazione: Mantova (MN), Archivio di Stato di Mantova, fondo Archivio fotografico Calzolari, ASMn, Archivio Calzolari
Classificazione
Genere: da attribuire
Compilazione: Previti, Serena (2008)
Milano – Stazione Centrale – Atrio biglietti – scalone di accesso alla galleria di testa // persone, fregio “Ratto delle Sabine” Cfr: FM AB 23/a, FM AB 23/b, FM AB 31, FM AB 33/a, FM AB 33/b
Milano – Stazione Centrale – Atrio biglietti – scalone di accesso alla galleria di testa // persone, fregio “Ratto delle Sabine” Cfr: FM AB 23/a, FM AB 23/b, FM AB 31, FM AB 33/a, FM AB 33/b
Paoletti, Antonio
Descrizione
Autore: Paoletti, Antonio (1881/ 1943)
Luogo e data della ripresa: Milano (MI), Italia
Materia/tecnica: gelatina a sviluppo
Misure: n.d.
Note: Milano – Stazione Centrale – Atrio biglietti – scalone di accesso alla galleria di testa // persone, fregio “Ratto delle Sabine” Cfr: FM AB 23/a, FM AB 23/b, FM AB 31, FM AB 33/a, FM AB 33/b
Collocazione: Milano (MI), Raccolte Grafiche e Fotografiche del Castello Sforzesco. Civico Archivio Fotografico, fondo Foto Milano, FM APL 22
Classificazione
Compilazione: Paoli, Silvia (2013)
Firenze – Piazza della Signoria – Scultura – Ratto delle Sabine – Giambologna – Loggia dei Lanzi
Firenze – Piazza della Signoria – Scultura – Ratto delle Sabine – Giambologna – Loggia dei Lanzi
Descrizione
Autore: Non identificato, fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Firenze (FI), Italia, 1920 – 1930
Materia/tecnica: gelatina bromuro d’argento/carta
Misure: 18 x 24
Collocazione: Milano (MI), Regione Lombardia, fondo Scrocchi, SCR_82_ST_DV
Classificazione
Genere: architettura
Soggetto: città
Compilazione: Tonti, Stella (2007)
Leggende di Roma – Ratto delle Sabine (in alto) – Caio Muzio pone la mano destra sul braciere davanti a Porsenna (in Basso) – Disegno
Leggende di Roma – Ratto delle Sabine (in alto) – Caio Muzio pone la mano destra sul braciere davanti a Porsenna (in Basso) – Disegno
Fotografo non identificato
Descrizione
Autore: Fotografo non identificato (notizie), fotografo principale
Luogo e data della ripresa: 1855-1919
Materia/tecnica: albumina/carta
Misure: n.d.
Note: La fotografia riprende il foglio sul quale sono riportati i due disegni.
Collocazione: Milano (MI), Raccolte storiche dell’Accademia di Brera, fondo Fondo Frizzoni, Fototeca storica – Armadio Frizzoni – FF 1513
Classificazione
Compilazione: Lapesa, C. (2009)
Gruppo scultoreo – Marmo – Ratto delle Sabine – 1574-1580 – Giambologna – Firenze – Piazza della Signoria – Loggia della Signoria o dei Lanzi
Gruppo scultoreo – Marmo – Ratto delle Sabine – 1574-1580 – Giambologna – Firenze – Piazza della Signoria – Loggia della Signoria o dei Lanzi
Fotografo-Non identificato
Descrizione
Autore: Non identificato, fotografo principale
Luogo e data della ripresa: Firenze (FI), Italia, 1860 – 1880
Materia/tecnica: albumina/carta
Misure: n.d.
Collocazione: Milano (MI), Raccolte Grafiche e Fotografiche del Castello Sforzesco. Civico Archivio Fotografico, fondo Vedute Italia, VI H 218
Classificazione
Genere: foto d’arte
Soggetto: arte
Compilazione: Ossola, Margherita (2016)
Il ratto delle Sabine-Biasioli Angelo
Il ratto delle Sabine- Biasioli Angelo-Descrizione
Identificazione: Ratto delle Sabine
Autore: Biasioli Angelo (1790/ 1830), incisore
Cronologia: post 1790 – ante 1830
Oggetto: stampa smarginata
Soggetto: storia
Materia e tecnica: acquatinta
Misure: 180 mm. x 113 mm. (Parte figurata); 186 mm. x 127 mm. (Parte incisa)
Collocazione
Monza (MB), Musei Civici di Monza
Compilazione: Fumagalli, Monica (2005)
Ratto delle Sabine-Autore: Caraglio Giacomo (1500/ 1570), incisore
Descrizione
Identificazione: Ratto delle Sabine
Autore: Caraglio Giacomo (1500/ 1570), incisore
Cronologia: ca. 1527
Oggetto: stampa smarginata
Soggetto: storia
Materia e tecnica: bulino
Misure: 508 mm x 360 mm (parte incisa)
Notizie storico-critiche:Malgrado questa stampa sia tradizionalmente intitolata “Il ratto delle Sabine”, Archer sottolinea che quello che è stato rappresentato non è il ratto vero e proprio, bensì un episodio successivo raccontato da Livio e da Plutarco, ovvero il tentativo di riscatto dei Sabini che raggiunsero Roma e combatterono nel Foro, mentre le donne Sabine intervennero per chiedere il mantenimento della pace. La figura femminile raffigurata seduta su un asino sarebbe la dea Vesta, presso il cui tempio avvenne la lotta. Questa incisione fu l’ultimo lavoro del Caraglio, che la lasciò incompiuta. Essa venne completata da un incisore anonimo, dallo stile più duro e più largo rispetto al Caraglio. Bartsch testimonia che l’invenzione è da attribuire a Baccio Bandinelli; Vasari invece l’attribuiva a Rosso Fiorentino. Il timbro al verso dell’esemplare qui catalogato indica che questo foglio fece parte della collezione di Heinrich Buttstaedt, pittore, fotografo collezionista e mercante d’arte nato a Gouda e morto a Berlino nel 1876. Entrò a far parte del Fondo Calcografico della Pinacoteca Repossi tramite il legato Cavalli.
Collezione:Fondo Calcografico Antico e Moderno della Fondazione Biblioteca Morcelli-Pinacoteca Repossi
Ratto delle sabine
Caladara Polidoro detto Polidoro da Caravaggio; Alberti Cherubino
Descrizione
Autore: Caladara Polidoro detto Polidoro da Caravaggio (1499-1500/ 1543), inventore; Alberti Cherubino (1553/ 1615), incisore
Cronologia: post 1553 – ante 1615
Oggetto: stampa smarginata
Soggetto: mitologia
Materia e tecnica: bulino
Misure: 200 mm. x 103 mm. (Parte figurata)
Collocazione
Monza (MB), Musei Civici di Monza
Compilazione: Ruiu, Daniela (2004)
Ratto delle Sabine-Polidoro da Caravaggio; Le Blon, Jakob Christof (attribuito)
Descrizione
Autore: Polidoro da Caravaggio (1500 ca.-1543), inventore; Le Blon, Jakob Christof (attribuito) (1667/1670-1741), incisore
Cronologia: post 1667 – ante 1741
Oggetto: stampa tagliata
Soggetto: storia
Materia e tecnica: bulino
Misure: 449 mm x 167 mm (Parte figurata); 449 mm x 167 mm (Parte incisa)
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