“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Tristano e Isotta(Tristan und Isolde) è un dramma musicale di Richard Wagner, su libretto dello stesso compositore. Costituisce il capolavoro del Romanticismo tedesco e, allo stesso tempo, è uno dei pilastri della musica moderna, soprattutto per il modo in cui si allontana dall’uso tradizionale dell’armonia tonale.
Richard Wagner-
La trama è basata sul poemaTristan di Gottfried von Straßburg, a sua volta ispirato dalla storia di Tristano raccontata in lingua francese da Tommaso di Bretagna nel XII secolo. Wagner condensò la vicenda in tre atti, staccandola quasi completamente dalla storia originale e caricandola di allusioni filosofiche di stampo schopenhaueriano.
Decisivo per la stesura dell’opera fu l’amore intercorso tra il musicista e Mathilde Wesendonck (moglie del suo migliore amico), destinato a restare inappagato. Wagner era ospite dei Wesendonck a Zurigo, dove ogni giorno Mathilde poteva ammirare pagina per pagina l’evolvere della composizione. Trasferitosi a Venezia per fuggire lo scandalo, Wagner si ispirò alle notturne atmosfere della città lagunare, dove scrisse il secondo atto e dove attinse l’idea per il preludio del terzo. Scrisse Wagner nella sua autobiografia:
«In una notte d’insonnia, affacciatomi al balcone verso le tre del mattino, sentii per la prima volta il canto antico dei gondolieri. Mi pareva che il richiamo, rauco e lamentoso, venisse da Rialto. Una melopea analoga rispose da più lontano ancora, e quel dialogo straordinario continuò così a intervalli spesso assai lunghi. Queste impressioni restarono in me fino al completamento del secondo atto del Tristano, e forse mi suggerirono i suoni strascicati del corno inglese al principio del terz’atto.»
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Terminato a Lucerna nel 1859, Tristano venne inizialmente proposto al teatro di Vienna, dove però fu respinto in quanto giudicato ineseguibile. Dovettero trascorrere ben sei anni prima che il dramma potesse essere rappresentato per la prima volta al Koenigliches Hof- und National- Theater (Opera di Stato della Baviera) di Monaco di Baviera il 10 giugno 1865, diretta da Hans von Bülow con Ludwig e Malwina Schnorr von Carolsfeld nelle parti dei due protagonisti, e con il concreto sostegno del re Ludwig II.
La critica dell’epoca si divise tra coloro che videro in quest’opera un capolavoro assoluto e quelli che la considerarono una composizione incomprensibile. Tra questi ultimi figura il critico austriaco Eduard Hanslick, noto per le sue posizioni conservatrici in ambito musicale. Fu proprio l’atteggiamento di Hanslick a fornire a Wagner l’idea per il personaggio di Sixtus Beckmesser ne I maestri cantori di Norimberga.Il cosiddetto “accordo del Tristano“, che apre la partitura.Una copia del manoscritto originale . Finale.
Al Teatro alla Scala di Milano, il 29 dicembre 1900, andò in scena nella traduzione italiana di Boito ed Angelo Zanardini con la direzione di Arturo Toscanini. Nel 1902 avvenne la prima rappresentazione in concerto nel Théâtre du Château-d’Eau di Parigi di “Tristan et Isotte” nella traduzione francese di Alfred Ernst.
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Musica
Nella musica del Tristano si è voluta vedere un’anticipazione del futuro.[1] Servendosi dell’uso ossessivo del cromatismo e della tecnica della sospensione armonica, Wagner ottiene un effetto di suspense che dura per tutto il corso dell’azione. Le cadenze incomplete del preludio non vengono risolte fino alla fine del dramma, che si chiude col canto di amore e morte di Isotta (Liebestod). Come dice il critico Rubens Tedeschi, il linguaggio musicale del Tristano deve farsi infinitamente duttile per dipingere – oltre il pochissimo che accade – il moltissimo che viene alluso. Il Leitmotiv deve quindi smussare la propria nettezza melodica a favore della massima incertezza. In questo sbiadire dei contorni melodici si insinua l’allentamento dei rapporti armonici, come l’ombra notturna dei due amanti contribuisce all’ambiguità dei significati. È una sorta di ondeggiamento perpetuo simile al movimento del mare. Hanslick stroncò il valore della partitura affermando che “contiene della musica ma non è musica” e denunciando “il fumo dell’oppio suonato e cantato”. Lo stesso Wagner, in una lettera a Mathilde Wesendonck, definì il proprio lavoro “qualcosa di terribile, capace di rendere pazzi gli ascoltatori”.
Particolarmente impressionanti per la loro modernità – al limite della dodecafonia – sono le variazioni del tema del Filtro d’amore e della Canzone mesta del pastore, a metà del terzo atto, che accompagnano il protagonista nella sua delirante allucinazione. Il cromatismo e il prevalere dell’armonia sulla melodia appaiono già evidenti fin dalle prime battute del preludio (tema del Desiderio). Carl Dahlhaus definisce queste battute come una serie informe e insignificante di intervalli se non fosse per gli accordi che sorreggono e determinano la condotta melodica. La condotta armonica del tema del Desiderio (ossia il famoso “accordo del Tristano”) acquista carattere motivico in proprio. Allo stesso modo, il motivo del Destino deve la sua inconfondibile fisionomia non tanto alla condotta melodica quanto al collegamento con una successione di accordi che ha l’evidenza inquietante dell’enigma. In altre parole, la condotta armonica (che se ascoltata autonomamente non avrebbe senso) scaturisce nel rapporto che intercorre tra il motivo melodico del tema del Destino e un contrappunto cromatico a suo modo integrato nel motivo stesso: affiora l’idea paradossale di un “motivo polifonico”.[2]
La prima rappresentazione del Tristano nel 1865 ebbe un effetto non indifferente sul pubblico dell’epoca. Rubens Tedeschi segnala che l’estetica del decadentismo europeo nacque in quel momento, sebbene all’interno di un processo che sarebbe accaduto anche senza il diretto intervento di Wagner. La “valanga intellettuale” investì letterati, pittori e musicisti preparando la ribellione della avanguardie novecentesche. Valgono tra tutte le parole di Giulio Confalonieri:
«Tristano non ha soltanto soddisfatto una sete e placato una febbre ormai brucianti nell’umanità intera, ma altresì infettato la musica di un bacillo che nulla, nemmeno le più moderne penicilline, sono ancor riuscite ad eliminare del tutto.»
Interpretazione
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Wagner all’epoca del Tristano.
Si dice spesso che nel Tristano Wagner abbia voluto mettere in scena la filosofia di Schopenhauer. In effetti, in una lettera spedita a Franz Liszt nel dicembre del 1854, Wagner scrisse che l’incontro col grande filosofo gli aveva rivelato un “accorato e sincero desiderio di morte, la piena incoscienza, la totale inesistenza, la scomparsa di tutti i sogni, unica e definitiva redenzione”. Ma (come nota il critico Petrucci nel suo Manuale wagneriano), se così fosse, Tristano e Isotta avrebbero saputo dominare la loro passione. Schopenhauer insegna che per raggiungere la serenità occorre accettare la sofferenza e rassegnarsi alla concezione pessimistica dell’impossibilità del desiderio. Tristano è invece letteralmente divorato dal desiderio. L’esaltazione della notte – cantata per tutto il secondo atto come brama irrisolta di fuggire la luce del giorno e con essa la vacuità del reale – trova nella morte la sua naturale conseguenza in quanto liberazione. Una liberazione, dunque, non pessimistica rinuncia ma simbolo (per metà ascetico, per altra metà panteistico) di unione cosmica. Per questo motivo, Tristano era addirittura venerato dal filosofo Nietzsche, anche in virtù delle sue ideologie dell’ateismo: “Vorrei immaginare un uomo capace di ascoltare il terzo atto del Tristano senza il supporto del canto, come una gigantesca sinfonia, senza che la sua anima esali l’ultimo respiro in un doloroso spasimo”.
Schopenhauer e la filosofia della pace dei sensi saranno piuttosto trattati nel mistico Parsifal, che decretò l’allontanamento di Nietzsche dalla concezione wagneriana. A proposito del presunto ateismo del Tristano, vale la pena di segnalare un’osservazione di Antonio Bruers: “A chi giudicasse esagerato l’uso della parola ateo, dobbiamo rilevare un fatto che non si discute: in tutto il Tristano non è mai nominato Dio.”
Un altro dubbio circa il legame con Schopenhauer arriva da Thomas Mann: “Tristano si rivela profondamente legato al pensiero del Romanticismo e non avrebbe avuto bisogno di Schopenhauer come padrino. La notte è il regno di ogni romanticismo; scoprendola esso ha sempre identificato in lei la verità, in contrasto con la vaga illusione del giorno, il regno del sentimento in antitesi a quello della ragione”.
In effetti Tristano racchiude in sé la percezione di un mondo misterioso e fantastico in cui esprimere la propria “eterna eccezionalità”; racchiude l’inconsapevole ricordo di eventi passati e fondamentali; racchiude l’individuo che per comprendersi si isola dalla società. Cos’altro simboleggiano, per esempio, i favolosi castelli che Ludwig II eresse tra i monti della Baviera? Lo stesso Ludwig che, un’ora dopo aver assistito alla prima rappresentazione, decise di ritirarsi da solo nella notte, cavalcando nel bosco in preda ad una fortissima emozione. Allo stesso modo farà Zarathustra di Nietzsche, che per ritrovare se stesso si ritira sulla cima di una montagna. Siamo già molto lontani dall’eroe medievale del soggetto originale. L’eroe è stato trasferito dalla dimensione dell’amore cortese alla tenebrosa atmosfera degli Inni alla notte di Novalis.
Del resto, come sempre capita in Wagner, non è possibile non rintracciare alcune latenti allusioni politiche che tanto fecero discutere in seno alla Tetralogia. Già il poeta Hölderlin aveva decantato la “grande missione” della Germania, situata al centro dell’Europa e considerata come il “cuore sacro dei popoli”. In questa direzione, Tristano e Isotta potrebbero forse simboleggiare la verità intima che la forza del filtro magico ha saputo rivelare contrapponendola al resto del mondo, all’apparenza delle convenzioni sociali. Tali allegorie (che in futuro avrebbero contagiato pericolosamente la politica intesa come purezza dello spirito tedesco) si associano però al costante desiderio di annullamento nutrito dai protagonisti. Il loro desiderio non è deputato a risolversi nell’opulenza della vita materiale ma in un’altra dimensione, simbolo metafisico della vita più autentica e segreta. Questo è il vero dramma dei due amanti: l’impossibile conciliazione della dicotomia in cui sono costretti a vivere, divisi come sono tra anima e corpo, tra essenza e apparenza, come rivela il tormento allucinato di Tristano nel terzo atto, mirabilmente reso nell’incisione discografica di Wilhelm Furtwängler.
Tristano e Isotta non vivono un amore normale ostacolato dalle avversità come accade in Romeo e Giulietta, bensì inappagabile per sua stessa natura, condannato a vivere nel finito e soddisfabile solo nella morte. È la verità più profonda che gli amanti avrebbero taciuto reprimendola nel subcosciente. Non c’è da stupirsi, quindi (anche se per altri comprensibili motivi) che Cosima Wagner ironizzò riguardo l’amore intercorso tanti anni prima tra suo marito e Mathilde Wesendonck. Nel suo libro La mia vita a Bayreuth, Cosima scrisse: “Poverina, si spaventerebbe se sapesse cosa c’è nel Tristano!”
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Trama
Antefatto
Per liberare la Cornovaglia da un ingiusto tributo imposto dagli irlandesi, Tristano ha ucciso il cavaliere Morold, patriota irlandese e fidanzato della principesse Isotta, figlia del re d’Irlanda. Ferito durante il combattimento, viene amorevolmente curato dalla stessa Isotta, la quale non conosce la sua identità. Soltanto il ritrovamento di un frammento della spada le fa capire di trovarsi davanti all’assassino del suo uomo; allora lo risparmia, facendosi promettere di sparire per sempre dalla sua vita. In seguito, Tristano infrange il giuramento e ritorna per portarla in sposa al Re di Cornovaglia, come pegno di riconciliazione tra i due paesi.
Atto I
Scena 1ª
La voce di un giovane marinaio si alza dal ponte di un vascello:
“Verso levante muove la nave, soffia il vento verso il nostro paese: e tu, bimba irlandese, dove rimani?…”
In rotta verso l’Inghilterra, Isotta sfoga la sua rabbia contro il giovane Tristano, cui la lega un confuso sentimento di amore e di odio. Lo fa chiamare affinché la venga a trovare ma Tristano, turbato, risponde di non poter abbandonare il timone della nave.
Scena 2ª
Isotta ricorda il passato, racconta alla sua ancella Brangania di essersi affezionata a un misterioso guerriero di nome Tantris, il giovane rimasto ferito nella battaglia, che lei raccolse curandone le ferite. In realtà, Tantris era Tristano, che presentandosi sotto falso nome era riuscito a scampare alla vendetta di Isotta grazie al suo sguardo supplicante.
“Con lucida spada mi presentai davanti a lui, per vendicare la morte di Morold. Dal suo giaciglio egli mi guardò: non sulla lama, non sulla mano, ma sui miei occhi egli alzò lo sguardo. Con mille giuramenti mi promise lealtà eterna ed ebbi pietà per la sua pena. Ma ben altro sfoggio fece Tristano di ciò che in me celavo. Colei che tacendo gli ridava la vita, colei che tacendo lo salvava dall’odio, tutto egli ha messo in mostra! Borioso del successo, mi ha additata quale preda di conquista. Sii maledetto, infame!…”
Reprimendo l’amore che li unisce, Isotta vorrebbe uccidersi con lui per cancellare l’affronto.
Scena 3ª
Tristano arriva e, in un impeto di rabbia, accetta di sacrificarsi con onore.
“La signora del silenzio, silenzio a me impone. Se comprendo ciò che ha taciuto, taccio ciò che non comprende.”
Entrambi credono di bere un potente veleno ma Brangania ha sostituito il veleno con un filtro d’amore. Nell’orchestra, ricompaiono i temi del Desiderio e dello Sguardo, che erano già apparsi nel preludio strumentale. Il loro sentimento si rivela con forza alla realtà, ogni incomprensione svanisce e il mondo circostante non ha più alcun significato. Quando lo scudiero di Tristano, Kurwenald, giunge ad avvertire dell’imminente incontro col Re, Tristano risponde: “Quale re?” ormai del tutto ignaro di ciò che sta avvenendo. Nel momento in cui la nave approda nel porto, Tristano e Isotta si gettano l’uno nelle braccia dell’altro.
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Atto II
Scena 1ª
Nel giardino del castello di re Marke, durante la notte, Isotta attende l’arrivo di Tristano. Brangania la avverte del pericolo che stanno correndo, sapendo che Melot, amico di Tristano, ma innamorato segretamente di Isotta, potrebbe rivelare al Re l’amore clandestino della coppia. Isotta non le crede. Tristano si precipita in scena con un abbraccio travolgente.
Scena 2ª
Incomincia la lunga notte dei due innamorati che è la vera protagonista del dramma, è l’oscurità che circonda i due amanti e li riassorbe in un’originaria, individuale armonia. Dice Isotta:
“Chi là segretamente celai, come mi parve malvagio quando, nello splendore del giorno, l’unico fedelmente amato sparve agli sguardi d’amore, e quale nemico s’erse dinnanzi a me! Trascinarti voglio laggiù, con me nella notte, dove il mio cuore mi promette la fine dell’errore, dove svanisce la follia del presentito inganno.”
Dice Tristano:
“Su noi discendi, notte arcana! Spargi l’oblio della vita!… Quel che là nella notte vegliava cupamente richiuso, quel che, senza sapere e pensarci, oscuramente concepii – l’immagine che i miei occhi non osavano osservare, ferita dalla luce del giorno – mi si rivelò scintillante.”
”Gloria al filtro e alla sua forza! Mi dischiuse le vaste porte dove solo in sogno ho soggiornato. Dalla visione celata nel segreto scrigno del cuore, esso cacciò lo splendore ingannevole del giorno, sì che il mio orecchio, penetrando la notte, potesse vederla davvero.
“Chi amoroso osserva la notte della morte, a chi essa confida il suo profondo mistero: la menzogna del giorno, fama e onore, forza e ricchezza, come vana polvere di stelleinnanzi a lui svanisce!…Fuor dal mondo, fuor del giorno, senza angosce, dolce ebbrezza, senza assenza, mai divisi, soli, avvinti, sempre sempre, nell’immenso spazio!..”
Ma nel momento più impetuoso della passione, quando le voci e la musica vengono sospinte dal motivo della Felicità, improvvisamente l’incanto si spezza. Arrivano il Re, Melot e i cortigiani del castello, che circondano inorriditi la coppia degli amanti. Il tema musicale del Giorno avverso invade la scena. Sorge l’alba.
Scena 3ª
Melot, tradendo Tristano, presenta al Re la sua vittima. Il magnanimo re Marke si perde allora in un lungo monologo cantato sul tema del Cordoglio, addolorato per il comportamento di Tristano e rievocando le vicende che li unirono in passato.
“A me, questo? Perché? Chi mi è fedele, se il mio Tristano mi tradì?… Se non c’è redenzione, chi può spiegare al mondo tale cupo immenso abisso?…”
Ma Tristano, come trasognato, non può fornire alcuna spiegazione. “Ciò che tu domandi non potrai mai comprendere”, e si volge quindi verso l’amata:
“Dove ora Tristano s’avvia, vuoi tu seguirlo, Isotta? È terra buia, muta, da cui mia madre m’inviò, quando mi partorì dal regno della morte…”
Mentre Isotta lo bacia, Melot incita il Re a reagire. Tristano sfida l’amico a duello e si lascia cadere sulla sua spada. Cade ferito tra le braccia di Kurwenald.
Atto III
Scena 1ª
Il castello di Tristano nel terzo atto.
Tra le rovine del suo castello, accudito dal fedele Kurwenald, Tristano riprende lentamente conoscenza. Ferito nel corpo e nell’anima, egli ha delle allucinazioni. Ciò che desidera gli è negato e il pensiero di Isotta, simbolo di quel desiderio, lo travolge. Immobile sul letto la cerca, in preda al delirio la invoca:
“Kurwenald, non la vedi?!”
Ma l’orizzonte del mare è completamente vuoto. Tristano, allora, maledice il filtro magico che gli rivelò l’amore e la verità:
“Il terribile filtro, che m’ha votato al tormento, io stesso l’ho distillato! Nell’affanno del padre, nel dolore della madre, nel riso e nel pianto, ho trovato i veleni del filtro!”…
Sono pagine molto drammatiche, dove la musica rompe definitivamente con la tonalità tradizionale anticipando per la prima volta il sistema dodecafonico. Ma intanto la nave di Isotta è apparsa davvero all’orizzonte, salutata da un’allegra cantilena del corno inglese. Tristano è fuori di sé dalla gioia. Egli segue l’arrivo del veliero e manda Kurwenald a ricevere l’amata. Rimasto solo, si strappa le bende della ferita e si alza in piedi sanguinante:
“O sangue mio, scorri giulivo!… Lei, che un dì mi guarì le ferite, a me s’avvicina per salvarmi!… Possa il mondo perir, dinnanzi alla mia esultante fretta!”…
Isotta entra in scena. Sulle grandi note del tema del Giorno avverso, i due amanti si abbracciano. Sul tema dello Sguardo, Tristano esala l’ultimo respiro.
Scena 2ª
Mentre Isotta piange la morte di Tristano, un’altra nave approda al castello. Si tratta di re Marke che, venuto a conoscenza del filtro magico e dell’inevitabile verità, è accorso con Melot a chiedere perdono. Ma Kurwenald, furibondo per la morte del suo padrone, si scaglia contro di lui. Appena Melot arriva lo uccide in un colpo; resta ferito a sua volta e muore egli stesso accanto al corpo di Tristano. Il Re, addolorato, cerca di spiegarsi con Isotta ma lei, ormai, non lo ascolta più. Nel suo canto supremo, Isotta invoca la celebre Liebestod, la “morte d’amore” che riunirà i due amanti:
“Son forse onde di teneri zeffiri? Son forse onde di voluttuosi vapori? Nel flusso ondeggiante, nell’armonia risonante, nello spirante universo del respiro del mondo, annegare, inabissarmi, senza coscienza, suprema voluttà!”
Sulle note della Felicità, Isotta cade trasfigurata sul corpo di Tristano. Il Re benedice i cadaveri. Si chiude lentamente il sipario.
Al Padiglione Tavolara di Sassari “I luoghi e le parole di Enrico Berlinguer”
Sassari-Si intitola I luoghi e le parole di Enrico Berlinguer la mostra che sarà inaugurata al Padiglione dell’artigianato EugenioTavolara di Sassari il 1° febbraio alle 11.30. Organizzata dalla Fondazione Enrico Berlinguer della Sardegna con il Comune di Sassari, il contributo della Regione Sardegna, la collaborazione della Fondazione di Sardegna e il patrocinio dell’Università di Sassari, la mostra sarà visitabile gratuitamente sino al 19 marzo, mentre in seguito sarà trasferita a Cagliari.
Nella ricorrenza del quarantennale dalla morte di Enrico Berlinguer, l’obiettivo della mostra è quello di contribuire a ripensare il lascito politico di un leader di rara caratura morale, radicato nel Paese reale e stimato dai suoi oppositori. Attraverso un racconto storico e iconografico si ricostruisce l’itinerario di Berlinguer con documenti originali, audiovisivi e una selezione di fotografie da reportage.
Enrico Berlinguer
Il materiale documentale è stato organizzato in cinque sezioni tematiche: gli affetti, il dirigente, la crisi italiana, la dimensione globale, l’attualità e il futuro. Si aggiungono focus specifici: il contributo del Partito Comunista Italiano alle riforme adottate in Italia dal 1968 al 1984, le relazioni internazionali intessute da Berlinguer che sottolineano la dimensione globale della sua leadership, la violenza politica e lo stragismo, drammatica costante di quegli anni, i libri a lui dedicati a evidenziarne il particolare rilievo storico-politico.
La mostra è stata ideata dall’Associazione Enrico Berlinguer di Roma assieme alla Fondazione Gramsci. La sua versione sarda è arricchita con una nuova sezione dedicata al rapporto tra il leader del Pci e la sua terra natia. Attraverso foto e documenti originali, particolarmente significativi, la sezione Berlinguer e la Sardegna illustra tre fasi: l’adesione al Partito comunista a Sassari e le prime esperienze di militanza attiva; il ritorno in Sardegna nel 1957, come vicesegretario regionale; il contributo alla politica sarda come vicesegretario e segretario nazionale.
Considerato il grande riscontro avuto dalla mostra a Roma e a Bologna, dove si è registrata la visita di oltre 100mila persone, gli organizzatori si aspettato altrettanto successo per le due tappe isolane.
La Fondazione Enrico Berlinguer, insieme con la Fondazione Nivola che gestirà la mostra, curerà in modo particolare il rapporto con le scuole affinchè gli studenti e le studentesse, con la visita e con la partecipazione ai laboratori didattici, possano approfondire la conoscenza della storia della seconda metà del Novecento di cui Enrico Berlinguer è stato un protagonista primario.
All’inaugurazione interverranno Salvatore Cherchi e Ugo Sposetti, presidenti rispettivamente della Fondazione Enrico Berlinguer e della Associazione Enrico Berlinguer, soggetti ideatori e realizzatori della mostra. Previsti gli interventi del sindaco di Sassari, Giuseppe Mascia, della presidente della Regione, Alessandra Todde, del presidente del Consiglio regionale, Piero Comandini, e della presidente dell’Anci, Daniela Falconi. Le conclusioni saranno affidate a Gavino Angius, componente della segreteria nazionale del Partito comunista nel periodo berlingueriano. Alla cerimonia parteciperanno le figlie di Enrico Berlinguer, Bianca e Maria, il vicepresidente della Regione, Giuseppe Meloni, l’assessorato regionale della cultura, l’assessora comunale alla Cultura, Nicoletta Puggioni, e tanti altri esponenti istituzionali, politici, sociali e culturali del territorio.
Simone de Beauvoir il romanzo “I Mandarini”-Giulio Einaudi editore-
Simone de Beauvoir-romanzo I Mandarini”
Il libro-– Giulio Einaudi editore–Nel quadro dell’intera produzione di Simone de Beauvoir, I Mandarini, insieme all’autobiografia – Memorie d’una ragazza perbene, L’età forte, La forza delle cose, A conti fatti -, è il romanzo piú significativo ed emblematico. Nessuno meglio di Beauvoir avrebbe potuto raccontare la tumultuosa stagione di questo dopoguerra, in cui gli intellettuali francesi, i Mandarini appunto, erano gli indiscussi protagonisti della vita culturale e politica (basti pensare a Sartre e a Camus). Le vicende di Henri, Nadine, Anne, Dubreuilh, dei giovani «esistenzialisti » e delle ragazze che girano a vuoto, riflettono le lacerazioni di un mondo che non sa trovare il suo equilibrio, sospeso com’è tra speranze, ideali e il duro confronto con la realtà.In appendice Simone de Beauvoir vista da Sartre.Il romanzo di una generazione di intellettuali nella Parigi esistenzialista del secondo dopoguerra.
Breve biografia di Simone de Beauvoir
Simone de Beauvoir
Simone de Beauvoir (Parigi 1908 – 1986)compí i suoi studi letterari e filosofici alla Sorbona. L’incontro con Sartre, che le sarà compagno per tutta la vita, è del luglio 1929. Gli anni della guerra e del dopoguerra furono fervidi di battaglie politiche, incontri e esperienze, come l’esordio della rivista «Les Temps Modernes» e l’amicizia con Camus, Leiris, Giacometti, Genet, Vian, Nelson Algren.Di Simone de Beauvoir Einaudi ha pubblicato I mandarini (Prix Goncourt 1954), Memorie di una ragazza perbene, L’età forte, La terza età, La forza delle cose, A conti fatti, Una morte dolcissima, Le belle immagini, Lo spirituale un tempo, Quando tutte le donne del mondo…, Una donna spezzata e La cerimonia degli addii.
Simone de Beauvoir: vita e opere
Chi è Simone de Beauvoir?-Scrittrice, filosofa, figura chiave del femminismo della seconda ondata: l’intellettuale Simone de Beauvoir è uno dei fiori all’occhiello della cultura francese, per la quale è ormai diventata un’icona.
Infanzia e passione per la scritturaNacque a Parigi nel 1908, da una famiglia cattolica e borghese, che le consentì di avere un’infanzia felice. Si appassionò alla scrittura da piccola, divertendosi a imitare i libri che leggeva, nonché a «editarli», rilegandoli con tanto di copertina. Condivideva questa passione con l’amica Zaza, che morì prematuramente nel 1929, senza realizzare il sogno di scrivere.
ZazaZaza è uno dei personaggi principali di Mémoires d’une jeune fille rangée (Memorie di una ragazza per bene), primo degli scritti autobiografici, in cui Simone de Beauvoir racconta la sua infanzia e la genesi del suo percorso intellettuale. In questo mémoire, Zazarappresenta la scrittura «uccisa» dalle convenzioni di una famiglia altoborghese, che le aveva impedito di emanciparsi spingendola al matrimonio. A lei fa da contrappunto la personalità indipendente di Simone de Beauvoir, che racconta le sue peregrinazioni notturne, in solitaria, nei bistrot parigini.
Simone De Beauvoir e Jean-Paul Sartre a Roma nel 1963 — Fonte: getty-images
La scrittura come strumento di liberazionePer scelta, Simone de Beauvoir non si sposò mai, e identificò nella scritturail suo principale strumento di liberazione. In un modo o nell’altro, tutti i suoi scritti sono di ispirazione autobiografica: l’impegno in letteratura significò, per lei, partire sempre dalla sua condizione di donna.
La relazione d’amore e intellettuale con SartrePresto decise che voleva insegnare, così si iscrisse all’università. Nel 1929 passò il concorso dell’Agrégation in filosofia, arrivando seconda: il primo classificato era Jean-Paul Sartre, filosofo dell’esistenzialismo. Lei lo chiamava “Sartre”, lui la soprannominò “il Castoro”, animale industrioso (dall’assonanza del suo cognome con l’inglese beaver): tra i due iniziò una relazione d’amore e un sodalizio intellettuale che durò tutta la vita. Erano una coppia originale, non esclusiva, basata sulle idee di necessità, libertà e trasparenza.
I primi romanzi e la rivista “Tempi moderni”Simone de Beauvoir insegnò fino al 1943, poi, dopo il successo del suo primo romanzo L’invitée (L’invitata), si dedicò solo alla scrittura. Nel 1945 fondò, insieme a Sartre e altri, la rivista Tempi moderni, che si prefiggeva di dare spazio alla letteratura impegnata, e pubblicò Le Sang des autres (Il sangue degli altri). Nel 1947, negli Stati Uniti, incontrò lo scrittore Nelson Algren, di cui si innamorò.
Il secondo sesso: saggio sul femminismoNel 1949 pubblicò Le deuxième sexe (Il secondo sesso), che diventò un saggio cardine del femminismo, anche se Simone de Beauvoir si definì femminista solo a partire dal 1970: «Lo sono diventata soprattutto dopo che il libro [Il secondo sesso] è esistito per altre donne». Si impegnò per la legalizzazione dell’aborto, firmando nel 1971 il Manifesto delle 343.
L’autobiografiaNel 1954 il romanzo Les mandarins (I mandarini) valse a Simone de Beauvoir il premio Goncourt, e nel 1958 pubblicò Mémoires d’une jeune fille rangée, iniziando l’impresa autobiografica che continuò con La force de l’age (nella traduzione italiana L’età forte, 1960), La force des choses (La forza della cose, 1963), Une morte très douce (Una morte dolcissima, 1964), Tout compte fait (A conti fatti, 1972), La Cérémonie des adieux (La cerimonia degli addii, 1981).
Raccolta di raccontiNel 1967 Simone de Beauvoir pubblicò la raccolta di racconti La femme rompue (Una donna spezzata). Nel 1968 lei e Sartre parteciparono attivamente agli eventi del maggio.
Morte di Simone de BeauvoirSimone de Beauvoir continua a scrivere negli ultimi anni di vita nella sua casa di Parigi, fino al 14 aprile del 1986, giorno della sua morte. La scrittrice viene seppellita nel cimitero di Montparnasse, accanto a Jean-Paul Sartre, suo compagno di vita.
Curiosità
Quando Simone de Beauvoir morì, nel 1986, centinaia di donne parteciparono al suo funerale, e la scrittrice Elisabeth Badinter gridò: “Donne, a lei dovete tutto!”.
2Simone de Beauvoir: opere
Le opere di de Beauvoir si dividono tra romanzi, memorie, saggi e scritti filosofici.
2.1Romanzi
RomanziAl centro di tutti i suoi romanzi c’è il tema del rapporto con l’Altro come momento essenziale di presa di coscienza di ogni individuo:
L’invitée è la storia di un ménage à trois. Françoise e Pierre vogliono sperimentare nuove modalità di relazione, e invitano una ragazza, Xavière, all’interno della loro coppia. La presenza di Xavière scombussola gli equilibri preesistenti al punto che Françoise finisce per ucciderla.
Le sang des autres è ambientato durante l’occupazione nazista e ha per protagonisti gli uomini e le donne della Resistenza alle prese con i loro dilemmi.
Les mandarins parla dei rapporti tra gli intellettuali di sinistra nel dopoguerra: il titolo fa riferimento ai “mandarini” della Cina del XVI secolo, i funzionari che detenevano il potere culturale.
La femme rompue si compone di tre racconti scritti in prima persona, nei quali l’introspezione femminile di tre donne in crisi mette in luce il loro ruolo all’interno della famiglia e della società.
2.2Memorie
MemoriePer Simone de Beauvoirscrittura e vita non potevano esistere l’una senza l’altra. L’impresa autobiografica accompagna quasi tutte le tappe della sua vita:
Mémoires d’une jeune fille rangée racconta infanzia e adolescenza, e la formazione che l’ha portata a intraprendere il suo personale percorso di emancipazione. Si chiude sulla morte di Zaza e sull’incontro con Sartre.
La force de l’age e La force des choses raccontano la vita adulta con Sartre: l’impegno politico e l’esistenzialismo.
Une morte très douce è incentrato sulla morte della madre.
Tout compte fait è una sorta di bilancio della sua vita.
La céremonie des adieux scritto dopo la morte di Sartre, ne racconta gli ultimi anni di vita.
2.3Saggi e scritti filosofici
Saggi e scritti filosoficiSimone de Beauvoir scrisse alcuni saggi come Faut-il brûler Sade? (Bruciare Sade? 1955) e La vieillesse (La terza età, 1960), ma nessuno di ampiezza e importanza parti a Il secondo sesso.
Il secondo sesso di Simone de Beauvoir – Le deuxième sexe
Successo e criticaQuando il libro uscì alcuni lettori si aspettavano uno scabroso racconto sessuale: furono delusi di fronte alle quasi mille pagine di trattazione sulla condizione della donna. Il primo volume vendette 22.000 copie in una settimana, l’edizione tascabile del 1969 raggiunse le 750.000 e venne tradotto in 33 lingue. Messo all’indice dal Vaticano, fustigato sia da destra che da sinistra, il libro si fonda sull’assunto che «donna non si nasce, si diventa».
L’identità della donna in FranciaFin dal quindicesimo secolo, in Francia, le donne scrittrici iniziarono a scardinare il modello interpretativo dominante in letteratura: quello maschile. Nel 1405, la protofemminista Christine de Pizan, ne Le livre de la Cité des dames, considerava l’identità della donna non come un fatto di natura, ma come il risultato di influenze storiche, sociali e culturali. De Beauvoir compì questa operazione dal punto di vista filosofico, inaugurando la riflessione ontologica dal punto di vista di genere: «traducendo» cioè, per la prima volta, la filosofia nella lingua del femminismo.
3.1Il secondo sesso: struttura del libro
Simone De Beauvoir, 1953 — Fonte: getty-images
StrutturaDal punto di vista della struttura, il libro nella prima parte analizza i punti di vista sulla donna adottati dalla biologia, dalla psicanalisi, dal materialismo storico, dalla letteratura. La seconda analizza come si è costituita la realtà femminile, e quali sono le conseguenze su di essa dei punti di vista maschili passati in rassegna in precedenza; quindi descrive il mondo, dal punto di vista delle donne, per come è stato loro proposto.
Come definire la natura della donnaPer definire la natura della donna, la filosofa rifiuta nozioni come «eterno femminino», e sostiene che sia necessario superare il dibattito – per lei conchiuso in sé stesso – su superiorità, inferiorità o uguaglianza tra uomo e donna, per ricominciare la discussione da zero, con altri termini.
Analizzare la condizione femminileA partire dall’assunto che la funzione biologica di femmina non è sufficiente a definire una donna, si chiede allora: che cos’è una donna? Se essere donna non è un mero dato naturale, ma una costruzione culturale, la condizione femminile va analizzata: quali circostanze limitano la libertà di una donna e può essa oltrepassarle? Se la risposta è sì, quali strade si aprono perché una donna si realizzi?
I riferimenti filosoficiPer rispondere a queste domande, i principali riferimenti filosofici che utilizza sono evidentemente l’esistenzialismo, e poi Hegel, Lacan e Lévi-Strauss.
Raggiungere l’indipendenzaSecondo De Beauvoir, per sottrarsi alla sua condizione di inferiorità imposta, una donna deve perseguire la propria emancipazione, tramite il raggiungimento dell’indipendenza economica e culturale.
Simone de Beauvoir: la vita
Nasce nel 1908 a Parigi da una famiglia borghese e cattolica
Si appassiona alla scrittura fin da piccola, condivide questa passione con l’amica Zaza
Decide di voler fare l’insegnante e si iscrive all’università
Nel 1929 muore l’amica Zaza, mentre lei passa il concorso dell’Agrégation in filosofia e incontra Sartre
La relazione intellettuale e amorosa con Sartre durerà per tutta la vita, sebbene entrambi avessero altre esperienze al di fuori della coppia
Erano due intellettuali impegnati, protagonisti dell’esistenzialismo
De Beauvoir insegnò fino al 1943, quando uscì il suo primo romanzo, poi si dedicò solo alla scrittura
Lei e Sartre parteciparono attivamente al maggio francese del ‘68
A partire dagli anni ’70, lei si dedicò all’impegno femminista, soprattutto in favore della legalizzazione dell’aborto
Morì nel 1986
Simone de Beauvoir: le opere
Romanzi: il tema di fondo è sempre il rapporto con l’Altro
L’invitée, 1943
Le sang des autres, 1944
Les mandarins, 1954, vince il premio Goncourt
La femme rompue, 1968.
Memorie: Raccontano le tappe della sua emancipazione e il suo percorso intellettuale, prima da sola poi insieme a Sartre
Mémoires d’une jeune fille rangée, 1958
La force de l’age, 1960
La force des choses, 1963
Une morte très douce, 1964
Tout compte fait, 1972
La Cérémonie des adieux, 1981
Saggi e scritti filosofici:
Il più importante è Le deuxième sexe, uscito nel 1949 e diventato un testo cardine del pensiero femminista
Il libro ha un successo enorme, vende centinaia di migliaia di copie
È una trattazione filosofica di quasi mille pagine sulla condizione della donna
Inaugura la riflessione ontologica da un punto di vista di genere
Si compone di due parti: la prima analizza i punti di vista maschili sulle donne attraverso varie discipline, la seconda analizza la realtà dal punto di vista delle donne.
L’affermazione principale del libro è che “donna non si nasce, si diventa”: significa che essere donna non è un dato naturale ma una costruzione culturale
I riferimenti filosofici utilizzati sono l’esistenzialismo, Hegel, Lacan, Lévi-Strauss
Per superare una condizione di inferiorità imposta, sostiene che per le donne sia necessario perseguire l’indipendenza economica e culturale
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Castelnuovesi -I tetti di Castelnuovo di Farfa, il mio Dedalo.
Castelnuovo di Farfa (Rieti)
Franco Leggeri Fotoreportage-Brani e foto da Murales Castelnuovesi -I tetti di Castelnuovo di Farfa, il mio Dedalo.Scoprire, o riscoprire Castelnuovo, cercando di aver gli occhi disincantati, mi permette comunque di vederne l’anima del mio Dedalo la più popolare, la più vissuta dalla gente comune. Scopro e riscopro, nuovo punto di vista, dopo tanti anni i vicoli del mio “Borgo Dedalo”, dove ho trascorso l’infanzia e la mia giovinezza che, nell’età dell’incoscienza, appare eterna. Se da adulti, in modo crudo, ci rendiamo conto che la vita passa in fretta, ci consola il pensiero che l’eterno rimane non nella materia, ma nelle vibrazioni, nelle sensazioni che aleggiano intorno a noi e che percepiamo secondo la nostra sensibilità e i nostri stati d’animo. Ora, osservando i tetti, vale la pena ricordare e raccontare e magari riflettere su queste nuove sensazioni che danno i tetti di Castelnuovo. Quante cose sono cambiate in queste vie , tante persone ,attori nella mia fanciullezza, non esistono più, altre sono invecchiate e altre ancora sono lontano altrove a cercare una vita diversa . E’ strano cercare dai tetti, di aprirli, e vedere, nei ricordi, le persone che abitavano la casa, scoprire l’atmosfera, rivivere gli stati d’animo con occhi diversi, con esperienza ,“lunga esperienza della vita”, reinventare ed animare anche i più piccoli dettagli del quotidiano la vita semplice e minimalista di una volta.
Castelnuovo di Farfa-Disegno di Tatiana Concas
Castelnuovo di Farfa
Castelnuovo di Farfa-Disegno di Tatiana Concas
Vedo le vie di Dedalo là dove diventano più ripide, più stette , gli incroci e giù per i vicoli e scalette e ancora piccoli cortili e scale buie, soprattutto d’inverno. Nel mio paese, nel mio Dedalo ora sono cambiate molte, moltissime cose forse troppe .Sono cambiate le persone, le case, anche le storie non sono più le stesse. Ma il “Borgo Dedalo” , il mio Castelnuovo , quello carico di storie scritte su di epigrafi marmoree “inchiodate” nella mia anima. Queste storie, immutabili e solide, che parlano e raccontano alla mia memoria, come una canzone poetica infinita ,di un Castelnuovo tramontato per sempre. Il mio paese, Castelnuovo, il mio Dedalo è un posto così sconosciuto alla “nuova gente” che ora lo abita e lo “consuma” e che ne distrugge il verde e la sua storia. La “nuova gente” che non ha
l’abitudine di menzionarne il nome del mio Dedalo. La “nuova gente” non può ricordare la musica , dolci suoni, che uscivano da ogni porta , non può godere il trionfo delle emozioni e la purezza dei sogni che nascondono i cuori carichi di emozioni che creano le case del “mio paese” .
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Se Castelnuovo si legge come uno spartito musicale ……
……….ed è così che da quelle porte sarebbe uscito il suono di un pianoforte o un di violino o di un’arpa o di una batteria, in un trionfo di suoni, braccia aperte e cuori vibranti, e palpitante di emozioni.
Questo è il mio sogno più puro.
Un sogno che tengo ancora nascosto da qualche parte dentro di me, ma al quale ho smesso di credere.
A Castelnuovo è amministrato il razzismo ed è ancora in uso , forte consumo, il filo spinato che traccia il confino e i confini per gli esclusi.
Le vibrazioni dell’anima sono respinte da un muro di odio.
“ipocrisia, incapacità, odio e degrado morale.”
È questo l’inno, la lugubre nenia , che cantano e suonano gli assassini della Libertà.
La mia musica, quella che scrive la mia penna,
La musica che scrivo sul foglio bianco è in cerca dei tasti bianchi e neri.
Si ferma ad ascoltarmi e mi accarezza i capelli.
Castelnuovo non regge l’odio e l’astio.
Castelnuovo che naviga nel cielo e vola, lo prego, aggrappato alla mia fantasia.
Castelnuovo le prime note,
i primi palpiti di cuore, i tanti circoli viziosi ,
sì, questi sono i pensieri per un’opera incompiuta.
I ricordi dei volti rigati
con lacrime di dolore .
Castelnuovo non piangeva, ma non era triste, aveva capito.
Castelnuovo ,il suo volto rigato dalla commozione…………………..
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Brani tratti dal libro di Franco Leggeri-Castelnuovo, la riva Sinistra del Farfa
Castelnuovo di Farfa (Rieti) Panorama (prima del 1935)
NOTA-la foto di Castelnuovo è del 1920, forse anche prima. Il Campanile , come si può vedere, ancora non è stato restaurato. I lavori di restauro, forma attuale, furono eseguiti nel 1935. Da questa foto mancano tante nuove costruzioni e sopraelevazioni..
Castelnuovo di Farfa e i suoi particolariCastelnuovo di Farfa e i suoi particolariCastelnuovo di Farfa-Castelnuovo di Farfa e i suoi particolariCastelnuovo di Farfa e i suoi particolariCastelnuovo di FarfaCastelnuovo di FarfaCastelnuovo di FarfaCastelnuovo di FarfaCastelnuovo di Farfa-Porta CastelloCastelnuovo di Farfa -40simoPremio letterario “LA TORRE D’ARGENTO”-1982-2022Castelnuovo di Farfa (Rieti)Castelnuovo di Farfa (Rieti)Castelnuovo di Farfa (Rieti)Castelnuovo di Farfa la notte e i Bar di via Roma.Castelnuovo di Farfa la notte di via Roma.Castelnuovo di Farfa la notte di via Roma.Castelnuovo di Farfa la notte di via Roma.Castelnuovo di Farfa la notte di via Roma.Castelnuovo di Farfa la notte e i Bar di via Roma.Castelnuovo di Farfa la notte di via Roma.Castelnuovo di Farfa la notte e i Bar di via Roma.Castelnuovo di Farfa la notte e i Bar di via Roma.Castelnuovo di Farfa la notte e i Bar di via Roma.Castelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa (Rieti) nei disegni di Francesca Vanoncini- La CampagnaCastelnuovo di Farfa (Rieti) nei disegni di Francesca Vanoncini-La Torre dell’OrologioCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Foto 1950-Castelnuovo di Farfa (Rieti) Foto del 1889Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Foto anni 1950/60-Loc. LA VIGNACastelnuovo di Farfa (Rieti) – Foto inizio 1900-Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Foto inizio 1900-Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Foto inizio 1900-Castelnuovo di Farfa (Rieti) –Castelnuovo di Farfa (Rieti) –Castelnuovo di Farfa (Rieti) – La FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – chiesa Madonna degli AngeliCastelnuovo di Farfa (Rieti) – chiesa Madonna degli AngeliCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Monte Cavallo -La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via GaribaldiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Porta Fonte CisternaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Arco CherubiniCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Porta Fonte CisternaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Il GhettoCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Arco CherubiniCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma OvestCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Guglielmo Marconi-La FontanellaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Garibaldi-Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Guglielmo Marconi-Via Arco Cherubini
Franco Leggeri brani dal libro “Murales Castelnuovesi” :IL GIORNO DELLA MEMORIA-Tra Storia e Contro-storia-
Franco Leggeri brani dal libro “Murales Castelnuovesi” –Castelnuovo di Farfa-Il mattino a Castelnuovo, al risveglio, certe volte, mi piace prendere tempo per poi decidere se scriverò qualcosa. Ogni risveglio lo devo immaginare come il ritorno a Castelnuovo per la prima volta, cercando di pensarlo circondato da una terra sconosciuta :la Valle del Farfa. Poi prende il sopravvento il profumo del caffè e così inizio un nuovo giorno con il foglio bianco e una carovana di pensieri da trascrivere. Una collezione di immagini che pian piano si andranno, possibilmente, a sistemarsi nello spazio delle pagine non scritte. Poi uscire dalla staticità e, al terzo caffè, iniziare un viaggio negli scaffali dei libri che forse non leggerò .Muovo i libri come pedine nella scacchiera della mente , quasi sempre,poi, il desiderio di scrivere mi riporta alla scrivania. Sì, così esco dalla notte ,dai pensieri e dai disegni bui . Segni poggiati nel nulla e nel nero ma poi , pian piano, la planimetria e il progetto della pagina diventa chiaro e ben definito. E’ questo un Gennaio diverso, freddo ma con un silenzio che ricorda il momento triste della pandemia. Oggi è il GIORNO DELLA MEMORIA, e allora ecco di cosa scrivere su questo foglio bianco. Il 27 gennaio, qui a Castelnuovo, sono tutti eruditi e acculturati “storici “ .Peccato che i cosiddetti “storici” alla “castelnuovese” non ricordino perché e come iniziò l’orribile olocausto. Ma voi che vi riempite la bocca di “MEMORIA”, sì dico a voi che, con le vostre bocche piene delle parole “cultura e memoria”, gridate e vi stracciate le vostre giacchette “firmate” e continuate tutte le volte a dire e a scrivere :”Affinché non accada mai più! “. E anche oggi continuate a dirlo!E allora vi chiedo se veramente ricordate com’è iniziato l’orribile olocausto.Non certo con i campi di sterminio, non certo con i lager, non certo con le deportazioni di massa.Iniziò con l’eliminazione del dissenso, con il controllo e la paura. Iniziò con l’eugenetica. Iniziò con la divisione del popolo in categorie. Iniziò con il sospetto e la sfiducia del vicino. Voi che riempite le vostre bocche della parola “MEMORIA”, poi isolate le persone solo perché di intralcio alla vostra narrazione tesa a coprire le vostre politiche. Voi che predicate la Democrazia, siete stati i creatori del “LISTONE UNICO” , di triste memoria, oggi al “potere”. Voi isolate e cancellate la VERA STORIA CASTELNUOVESE, manovrandola e incanalandola nella direzione , a beneficio, del vostro “potere” . Credo che “la clessidra” e “il vostro tempo” si stia esaurendo, ma continuerete a cercare ogni scappatoia per galleggiare ancora per un po’. Credo che ognuno di voi avrà presto una casella che si è costruita nei “Gironi” del Nostro Castelnuovo. Concludo questa mia nota con i versi del Sommo Poeta:” E quindi uscimmo a riveder le stelle (Inferno XXXIV, 139)”.
Castelnuovo di Farfa-Disegno di Tatiana Concas
Castelnuovo di Farfa :” La SMEMORIZZAZIONE” dei Giovani castelnuovesi e gli avvinazzati “AMARCOD da CANTINA” .
Castelnuovo di Farfa-A Castelnuovo è in atto una operazione di “SMEMORIZZAZIONE” . Operazione di pura barbarie porta avanti da individui “APPECORONATI” e “ACCAPEZZATI” che conducono, da sempre, una vita da servi e ascari dei vari capibastone. Questi personaggi, ahimè, sono addetti alla demolizione di Castelnuovo. Questi barbari ne distruggono la storia , le tradizioni ed esiliano, culturalmente, i nativi non graditi ai capibastone. Evidentemente questi ascari ,ed i vari sotto panza, non comprendendo che senza memoria storica le società , in particolare le piccole comunità, sono candidate all’autodistruzione se non a quella fisica: certamente a quella morale e culturale. Gli appecoronati castelnuovesi non comprendono che la storia serve certamente a conoscere il passato: ma in funzione del presente e nella prospettiva del futuro. E’ questo, a mio avviso, che sta avvenendo a Castelnuovo. La maggior parte dei giovani castelnuovesi è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale è mancato ogni tipo di rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono e non hanno radici che si nutrono dell’Orgoglio Castelnuovese. E dunque, se non è una scempiaggine, è per lo meno un’ingenuità ritenere che il passato sia passato del tutto o stia sepolto o fermo nella “teca del tempo”. Al passato, anche il più gravoso, – certo se ne abbiamo la forza e la capacità –, può essere restituita energia, fino a farne sprizzare fuori qualcosa di utile non solo per il presente ma anche per il futuro. Se tutto questo discorso vale per la storia in generale credo che sia ancor più valido per la storia locale. Voglio ricordare ai giovani castelnuovesi che la prima identità si forma nei luoghi dove nasciamo. L’identità è ,in gran parte, un abito dismesso da chi ci ha preceduto, noi lo ritroviamo, lo rattoppiamo e se il rammendo sarà eseguito bene allora l’abito diventa anche più bello di quello che abbiamo trovato. Ma se di quell’abito dismesso,-memoria-, ci vergogniamo e lo buttiamo allora indossiamo altri abiti e questo, ahimè, nel tentativo di travestirci da quello che non siamo e , quindi, noi crediamo di esistere solo se rassomigliamo a qualcuno visto in qualche altra parte ma sicuramente non a Castelnuovo allora , sicuramente, non saremo mai veri castelnuovesi.
La FONTANELLA della PIAZZETTA-Disegno di Tatiana CONCAS
CASTELNUOVO DI FARFA La FONTANELLA della PIAZZETTA
Castelnuovo di Farfa (Rieti)
nei disegni di Francesca Vanoncini-
La Fontanella della Piazzetta
Franco Leggeri –Castelnuovese
Franco Leggeri-POESIA Castelnuovo noi che siamo andati via-Biblioteca DEA SABINA
dall’introduzione Murales Castelnuvesi :“-………..E’ innegabile che la maggior parte dei morti tace. Non dice più niente. Ha – letteralmente – già detto tutto. Ho cercato di raccogliere, scrivere, un flusso tempestoso o calmo di pensieri: Emozioni che ho cercato di trasformare in poesia. Ho cercato di attraversare il confine verso la prateria della poesia, dove riposano i Castelnuovesi………..”.
Castelnuovo noi che siamo andati via.
Noi castelnuovesi che abbiamo viaggiato dietro la polvere
alzata dagli zoccoli dei cavalli del padrone.
Noi che abbiamo bevuto l’acqua del nostro fiume Farfa
e mangiato il pesce pescato in quelle Gole
maestre del nostro nuoto .
Castelnuovo , siamo andati via
seguendo la luna del mattino
tra gli sguardi nascosti dietro le finestre.
Siamo andati via cercando il sole,
il suo nascondiglio dietro Fara.
Siamo andati via , non ricordo, o non voglio ricordare la stagione
dei silenzi, madre dei nostri mille perché.
Siamo andati via noi che conoscevamo
il suono della cedra solo dal racconto dei vecchi castelnuovesi
guerrieri reduci di assurde e folli guerre in terre lontane.
Siamo andati via , noi poveri tra i poveri,
accolti da Pasolini e da Mamma Roma.
Siamo stati neorealismo e protagonisti
di pellicole in bianco e nero.
Castelnuovo, noi torniamo con le nostre cicatrici e i nostri racconti.
Noi castelnuovesi abbiamo nostalgia
dei vecchi sorrisi , di volti amici,
siamo tornati con lo zaino ancora pieno di perché.
Siamo tornati alla ricerca dei suoni e voci antiche,
quelle conservate in angoli chiusi e bui.
Siamo tornati per rileggere lapidi a noi care.
Castelnuovo, siamo tornati ora
tra sguardi estranei alle nostre cicatrici.
Eppure, Castelnuovo
noi non siamo mai andati via
perché abbiamo nelle nostre vene il tuo sangue.
Torniamo a prenderci e testimoniare quel che nessuno
potrà mai riscrivere o certificare: la nostra Storia.
La Storia quella che abbiamo lasciato
chiusa dietro le nostre vecchie porte.
Castelnuovo, si quelle porte dove aspettavamo
di uscire dietro i passi certi da seguire.
Castelnuovo, siamo tornati forti con il coraggio di terminare
l’inverno e l’amara stagione dei rancori e dell’odio.
Pierangela Palma -GIOCONDA DE VITO. La dea del violino-
Con una presentazione di Salvatore Accardo
Zecchini Editore-VARESE-
-GIOCONDA Anna Clelia DE VITO-(Martina Franca 26 luglio 1907- – Roma 1994)-Martina Franca ha dato i natali ad una delle più grandi violiniste del panorama internazionale del Novecento: Gioconda De Vito, donna del profondo sud che è riuscita ad arrivare ai vertici del concertismo internazionale in un’epoca in cui essere donne non era affatto semplice. Un’artista che ha saputo esprimere nel migliore dei modi i tratti distintivi della scuola italiana: profondità di lettura, scrupolosità nei dettagli, rigore ed inflessibilità. Furtwängler, Giulini, Karajan, Fischer e Aprea, sono solo alcuni dei nomi dei partner con cui ha collaborato nella sua luminosa carriera, interrotta bruscamente da un suo volontario ritiro.
Questo libro si propone di ripercorrere le tappe più significative della sua attività artistica, indagando sul suo prematuro ritiro dalle scene e le possibili motivazioni. È un testo ricco di fotografie, carteggi e documenti rari, contiene materiale inedito, proveniente in massima parte dall’Archivio “Gioconda De Vito” della Fondazione “Paolo Grassi” di Martina Franca.
Vi sono inoltre lettere di Kubelík, Menuhin, Furtwängler, Šostakovic nonché telegrammi di Benito Mussolini e varia altra documentazione che attesta la sua vita artistica nel corso del ventennio fascista.
Completano il volume interviste ed esempi musicali che riportano diteggiature ed arcate della De Vito.
GIOCONDA DE VITO
Gioconda de Vito (26 July 1907 – 14 October 1994) was an Italian-British classical violinist. (The dates 22 June 1907 and 24 October 1994 also appear in some sources.[1])
Life
De Vito was born, one of five children, in the town of Martina Franca in southern Italy, to a wine-making family. Initially she played the violin untaught, having received only music theory lessons from the local bandmaster. Her uncle, a professional violinist based in Germany, heard her attempting a concerto by Charles Auguste de Bériot when she was aged only eight, and decided to teach her himself. At age 11, she entered the Rossini Conservatory in Pesaro to study with Remy Principe. She graduated at age 13, commenced a career as a soloist, and at age 17 became Professor of Violin at the newly founded conservatory in Bari. In 1932, aged 25, she won the first International Violin Competition in Vienna. After she played the BachChaconne in D minor, Jan Kubelík came up to the stage and kissed her hand (she later appeared under the baton of Kubelik’s son Rafael Kubelík).
She then taught at Palermo and Rome, at the Accademia di Santa Cecilia. She had earlier been presented to Benito Mussolini, who greatly admired her playing, and he used his influence to get her the Rome post. World War II interrupted what would otherwise have been the most productive period of her burgeoning career. In 1944, she was given the unique honour of a lifetime professorship at the Academy.[2]
De Vito played under Wilhelm Furtwängler a number of times, and had a great affinity for his approach. In 1953[3] they also played a Brahms sonata at Castel Gandolfo for Pope Pius XII, the choice of Brahms being the Pope’s own request. In 1957 de Vito played the Mendelssohn concerto for the Pope. A member of the audience later sent her a letter saying that he was no longer an atheist, because her playing of the slow movement had made him realise there must be a God.
During that concert, de Vito realised she had reached the pinnacle of her career, and decided to retire in another three years. After informing the pope of her decision, Pius XII tried for an hour to dissuade her, saying she was far too young to retire so early, but to no avail. During the final years of her career, de Vito collaborated with Edwin Fischer, who was also nearing the end of his career. At their recording sessions for the Brahms sonatas Nos.1 and 3, he had required medical attention. The recording of Sonata No. 2 was assumed by Tito Aprea in 1956, after they successfully recorded Beethoven’s Kreutzer and Frank’s A major sonatas. Edwin Fischer died in 1960.
In 1961, at the age of 54, De Vito retired from concert appearances and from any violin playing at all. She also decided not to teach. Once while on holiday in Greece, she encountered Yehudi Menuhin on a beach and she agreed to play some duets with him at his villa. Unfortunately, when they arrived at the villa, Menuhin realised he did not have a spare violin with him, so the opportunity to resume playing did not materialize. However, she had recorded Viotti’s Duo in G with Menuhin in 1955 and they recorded Handel’s Trio Sonata in G minor with John Shinebourne, cello and Raymond Leppard, harpsichord. Both recordings are included Disc 41 of Menuhin – the Great EMI Recordings. Two years earlier Menuhin, de Vito and Shinebourne along with harpsichordist George Malcolm, recorded Handel’s Op.5/2 “Sonata for 2 Violins and Continuo in D” (Complete EMI Recordings, Korean issue from 2013). All of these works were recorded in EMI’s Abbey Road Studio No.3.
De Vito’s repertoire was small; it excluded most of the popular violin concertos written after the 19th century (for example, those by Elgar, Sibelius, Bartók, Berg, Bloch and Walton) – the sole exception being the Pizzetti concerto. Her particular favourites were “the three Bs” – Bach, Beethoven and Brahms. Her major recordings were issued in 1990 as The Art of Gioconda de Vito. They include the Bach Double Violin Concerto with Yehudi Menuhin, conducted by Anthony Bernard.
Private life
In 1949, de Vito married David Bicknell, an executive with EMI Records, and although she lived in Britain from 1951, her English was always rudimentary and she often required a translator. Bicknell died in 1988, and Gioconda de Vito died in 1994, aged 87.
Quello schiaffo che Arturo Toscanini subì a Bologna, il 14 maggio del ‘ 31
La sera del 14 maggio 1931 a Bologna è in programma al Teatro Comunale un concerto, diretto da Arturo Toscanini, in memoria di Giuseppe Martucci, direttore emerito dell’orchestra bolognese alla fine dell’800.
Lo schiaffo a Toscanini Bologna
Il maestro si rifiuta di dirigere l’inno fascista Giovinezza e l’Inno reale al cospetto del ministro Ciano e di Arpinati. Viene aggredito e schiaffeggiato da alcune camicie nere presso un ingresso laterale del teatro. Tra gli squadristi c’è il giovane Leo Longanesi (secondo I. Montanelli, ma per altri questa è “una leggenda senza conferma”).
Rinunciando al concerto, Toscanini si rifugia all’hotel Brun. Il Federale Mario Ghinelli, con un seguito di facinorosi, lo raggiunge all’albergo e gli intima di lasciare subito la città, se vuole garantita l’incolumità.
Il compositore Ottorino Respighi, media con i gerarchi e ottiene di accompagnare il direttore al treno la sera stessa.
Il 19 maggio l’assemblea regionale dei professionisti e artisti deplorerà “il contegno assurdo e antipatriottico” del maestro parmigiano. Sull’ “Assalto” Longanesi scriverà: “Ogni protesta, da quella del primo violino a quella del suonatore di piatti, ci lascia indifferenti”.
Toscanini dal canto suo scriverà una feroce lettera a Mussolini, già suo compagno di lista a Milano nelle elezioni politiche del 1919. Dal “fattaccio” di Bologna maturerà la sua decisione di lasciare l’Italia, dove tornerà a dirigere solo nel dopoguerra.
Il concerto in onore di Martucci sarà rifatto al Comunale sessanta anni dopo, il 14 maggio 1991, sotto la direzione di Riccardo Chailly.
Approfondimenti
TOSCANINI, LA VERITA’ SUL FAMOSO SCHIAFFO -Archivio “la Repubblica”
BOLOGNA Due giorni di relazioni e concerti hanno infine riparato, a sessant’ anni dagli eventi, a quello schiaffo che Arturo Toscanini subì a Bologna, il 14 maggio del ‘ 31, ad opera di squadristi, per essersi rifiutato di dirigere al Teatro Comunale gli inni nazionali. Ch’ erano allora Giovinezza e Marcia Reale. Nel gesto riparatore si sono unite le due città di Bologna e di Parma. La prima ha ospitato martedì il convegno internazionale dedicato a Bologna per Toscanini, la seconda, nella giornata di ieri, una tavola rotonda. Entrambe, nei teatri Comunale e Regio, hanno ospitato il concerto che, diretto da Riccardo Chailly, ha visto Raina Kabaivanska e l’ Orchestra dell’ ente lirico bolognese interpretare quelle pagine di Giuseppe Martucci che Toscanini non poté eseguire. Punto di partenza dell’ indagine di storici e musicologi, alla quale si sono aggiunte le testimonianze di Walfredo Toscanini e Gottfried Wagner, è stato dunque l’ offesa al maestro. Luciano Bergonzini, che alla ricostruzione di quell’ ingiuria ha dedicato un saggio, pubblicato in questi giorni dal Mulino (Lo schiaffo a Toscanini. Fascismo e cultura a Bologna all’ inizio degli anni Trenta), ha esposto la sua tesi, che è sostanzialmente nuova. In sintesi, non furono i gerarchi del regime, primi fra tutti Leandro Arpinati, all’ epoca vicinissimo a Mussolini, e Mario Ghinelli, federale a Bologna, i promotori dell’ azione. Arpinati, piuttosto, tentò fino all’ ultimo di giungere ad una soluzione che sventasse lo scontro diretto, a un compromesso che permettesse il regolare svolgimento del concerto in memoria di Giuseppe Martucci, ben sapendo che Toscanini non avrebbe mai eseguito né la Marcia Reale, né Giovinezza, come prevedeva il protocollo. Di fatto, egli prese la decisione più semplice: Costanzo Ciano e lui non si sarebbero recati al Teatro Comunale. La serata avrebbe perso così il carattere ufficiale, liberando Toscanini da ogni obbligo. Inoltre, nonostante non sia tutt’ oggi facile giungere ad una conclusione definitiva sull’ argomento, tra gli aggressori non ci furono personalità di spicco del fascismo bolognese. Non c’ era certamente Ghinelli; assente probabilmente pure Leo Longanesi, che pure in seguito si sarebbe vantato d’ esser stato lui a colpire il musicista. Il suo ruolo, sempre secondo Bergonzini, sarebbe stato soltanto quello dell’ ispiratore attraverso articoli di giornale e discorsi. Rimane, invece, il sospetto che tutto abbia avuto origine all’ interno delle faide che andavano dividendo le gerarchie fasciste, e delle quali del resto sarà vittima lo stesso Arpinati. Se la proposta dello studioso bolognese fosse la ricostruzione più verosimile, allora lo schiaffo, la progettazione e l’ esecuzione dell’ aggressione sarebbero nate proprio da quel consenso al regime, che aveva trovato fertile terreno non solo nelle classi medie, ma anche in quelle subalterne urbane. Toscanini sarebbe loro apparso un vessillo da abbattere, incuranti di quanto si andava decidendo nelle sfere alte del regime. Constatazione questa che riaprirebbe una querelle mai risolta: quella del ruolo degli intellettuali, da un lato, e del sostegno che il fascismo seppe trovare, se pur distribuito in maniera disomogenea, nei più diversi strati della società italiana. Sul versante opposto, giustamente l’ accento è stato spostato dall’ offesa in sé, atto sempre vile, al gesto di Toscanini, a quel rifiuto del direttore d’ orchesta che costituisce, come ha sottolineato Harvey Sachs nel suo intervento conclusivo, un esempio raro, certamente poco imitato in quegli anni, di coraggio. Umanità della musica, definizione questa con la quale Sachs bene ha riassunto la forte componente etica dell’ arte toscaniniana, una componente che coniugava esigenze artistiche e convinzioni morali. Infine, l’ attenzione è tornata a volgersi alle pagine di Giuseppe Martucci, interpretate a Bologna e a Parma da Riccardo Chailly, sul podio dell’ Orchestra del Teatro Comunale, affidate alla voce di Raina Kabaivanska, La canzone dei ricordi. Pagine di un sinfonismo italiano ormai obliato che, Fiamma Nicolodi lo ha evidenziato tratteggiando l’ itinerario musicale del compositore, avvicina la tradizione tedesca romantica e tardo-romantica a quella francese, a Saint-Saens e a Franck. Difficile valutarne gli esiti. Nel ricostruire la storia dell’ Italia musicale non se ne può prescindere, però, giocando Martucci, e con lui gli Sgambati, i Mancinelli, i Bossi, un ruolo tutt’ altro che secondario.
Luciano Bergonzini, Bologna 14 maggio 1931: l’offesa al Maestro, in Toscanini. Atti del Convegno Bologna per Toscanini, 14 maggio 1991, a cura di L. Bergonzini, Bologna, CLUEB, 1992, p. 13 sgg.
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Viene considerato uno dei maggiori direttori d’orchestra di sempre, per l’omogeneità e la brillante intensità del suono, la grande cura dei dettagli, il perfezionismo e l’abitudine di dirigere senza partitura grazie a un’eccezionale memoria fotografica.[1][2] Viene ritenuto in particolare uno dei più autorevoli interpreti di Verdi, Beethoven, Brahms e Wagner.
Fu uno dei più acclamati musicisti della fine del XIX e della prima metà del XX secolo, acquisendo fama internazionale anche grazie alle trasmissioni radiofoniche e televisive e alle numerose incisioni come direttore musicale della NBC Symphony Orchestra. Refrattario in vita all’idea di ricevere premi e decorazioni di sorta (tanto da rifiutare la nomina a senatore a vita propostagli da Luigi Einaudi, vd. infra), a trent’anni dalla morte fu insignito del Grammy Lifetime Achievement Award.
Arturo Toscanini nacque a Parma, nel quartiereOltretorrente, il 25 marzo del 1867, figlio del sarto e garibaldinoClaudio Toscanini, originario di Cortemaggiore (in provincia di Piacenza), e della sarta parmense Paola Montani; il padre era un grande appassionato di arie d’opera, che intonava in casa con amici dopo averle apprese al Teatro Regio, che frequentava spesso da spettatore. Questa passione contagiò anche il piccolo Arturo; del suo talento si accorse non il padre, ma una delle sue maestre, una certa signora Vernoni, che, notando che memorizzava le poesie dopo una singola lettura senza mai più dimenticarle, gli diede gratuitamente le prime lezioni di solfeggio e pianoforte. Arturo dimostrò nuovamente memoria eccezionale, riuscendo a riprodurre al pianoforte musiche che aveva sentito anche soltanto canticchiare; la maestra Vernoni suggerì ai genitori l’iscrizione del figlio alla Regia Scuola di Musica, il futuro conservatorio di Parma.[2][4][5]
A nove anni Arturo Toscanini vi si iscrisse vincendo una borsa di studio non nell’adorato pianoforte, bensì in violoncello (divenendo allievo di Leandro Carini) e composizione (allievo di Giusto Dacci). Nel 1880, studente tredicenne, gli venne concesso per un anno di essere violoncellista nell’orchestra del Teatro Regio. Si diplomò nel 1885 con lode distinta e premio di 137,50 lire.[4][6][7][8][9][10]
Nel 1886 si unì come violoncellista e secondo maestro del coro a una compagnia operistica per una tournée in Sudamerica. In Brasile il direttore d’orchestra, il locale Leopoldo Miguez, in aperto contrasto con gli orchestrali abbandonò la compagnia dopo una sola opera (il Faust di Charles Gounod), con una dichiarazione pubblica ai giornali (che avevano criticato la sua direzione) nella quale imputava tutto al comportamento degli orchestrali italiani. Il 30 giugno 1886 la compagnia doveva rappresentare al Teatro Lirico di Rio de Janeiro l’Aida di Giuseppe Verdi con un direttore sostituto, il piacentinoCarlo Superti; Superti fu però pesantemente contestato dal pubblico e non riuscì neanche a dare l’attacco all’orchestra. Nel caos più totale Toscanini, incitato da alcuni colleghi strumentisti per la sua grande conoscenza dell’opera, prese la bacchetta, chiuse la partitura e incominciò a dirigere l’orchestra a memoria. Ottenne un grandissimo successo, iniziando così la carriera di direttore a soli 19 anni, continuando a dirigere nella tournée. Al ritorno in Italia, su consiglio e mediazione del tenore russo Nikolaj Figner, si presentò a Milano dall’editrice musicale Giovannina Strazza, vedova di Francesco Lucca, e venne scelto da Alfredo Catalani in persona per la direzione al Teatro Carignano di Torino per la sua opera Edmea, andata in scena il 4 novembre dello stesso 1886, ottenendo un trionfo e critiche entusiaste.[2][5][6][11]
Successivamente riprese per un breve periodo la carriera di violoncellista; fu secondo violoncello alla prima di Otello, diretta al Teatro alla Scala da Franco Faccio il 5 febbraio 1887, e per l’occasione ebbe modo di entrare in contatto con Giuseppe Verdi.[2][12][13]
Arturo Toscanini
Nel frattempo, prima di intraprendere a pieno ritmo la carriera di direttore d’orchestra, tra il 1884 e il 1888 Toscanini si era dedicato alla composizione di alcune liriche per voce e pianoforte. Si ricordano Spes ultima dea, Son gelosa, Fior di siepe, Desolazione, Nevrosi, Canto di Mignon, Autunno, V’amo, Berceuse per pianoforte.
Nel 1895, nel nome di Wagner, avvenne l’esordio da direttore al Teatro Regio di Torino, con il quale collaborò fino al 1898 e di cui, il 26 dicembre 1905, inaugurò la nuova sala con Sigfrido. Nel giugno 1898 iniziò a dirigere al Teatro alla Scala (fino al 1903 e nel 1906/1907), con il duca Guido Visconti di Modrone come direttore stabile, il librettista e compositore Arrigo Boito vice-direttore e Giulio Gatti Casazza amministratore. Toscanini divenne il direttore artistico del teatro milanese e, sulla scia delle innovazioni portate dal suo idolo Richard Wagner, si adoperò per riformare il modo di rappresentare l’opera, ottenendo nel 1901 quello che ai tempi era il sistema di illuminazione scenica più moderno e nel 1907 la fossa per l’orchestra;[15] pretese inoltre che le luci in sala venissero spente e che le signore togliessero i cappelli durante la rappresentazione, proibì l’ingresso agli spettatori ritardatari e rifiutò di concedere i bis; ciò creò non poco scompiglio, dato che i più consideravano il teatro d’opera anche come un luogo di ritrovo, per chiacchiere e far mostra di sé.[2][7] Come scrisse il suo biografo Harvey Sachs, “egli credeva che una rappresentazione non potesse essere artisticamente riuscita finché non si fosse stabilita un’unità di intenti tra tutti i componenti: cantanti, orchestra, coro, messa in scena, ambientazione e costumi”. Il 26 febbraio 1901, in occasione della traslazione delle salme di Giuseppe Verdi e di Giuseppina Strepponi dal Cimitero Monumentale di Milano a Casa Verdi, diresse 120 strumentisti e circa 900 voci nel Va, pensiero che non veniva eseguito alla Scala da vent’anni. Nel 1908 si dimise dalla Scala e dal 7 febbraio fu invitato a dirigere presso il teatro Metropolitan di New York, venendo molto contestato per la sua decisione di abbandonare l’Italia. Proprio durante tale esperienza Toscanini comincerà a considerare gli Stati Uniti d’America come la sua seconda patria.[7]
Schierato per l’interventismo, rientrò in patria nel 1915, all’ingresso dell’Italia in guerra, e si esibì esclusivamente in concerti di propaganda e beneficenza; dal 25 al 29 agosto 1917, per allietare gli animi dei combattenti, diresse una banda sul Monte Santo appena conquistato durante la battaglia dell’Isonzo; per tale atto venne decorato con una Medaglia d’argento al valor civile[16]. Subito dopo la fine della guerra, nel giro di pochissimi anni s’impegnò nella riorganizzazione dell’orchestra scaligera (con la quale era tornato a collaborare), che trasformò in ente autonomo.
Ancora per spirito patriottico, nel 1920 si recò a Fiume per dirigere un concerto e incontrare l’amico Gabriele D’Annunzio, che con i suoi legionari aveva occupato la città contesa dagli slavi e dal governo italiano[17].
Di idee socialiste, dopo un’iniziale condivisione del programma fascista, che lo aveva portato nel novembre 1919 a candidarsi alle elezioni politiche nel collegio di Milano nella lista dei fasci di combattimento con Benito Mussolini e Filippo Tommaso Marinetti senza venire eletto,[20] se ne allontanò a causa del progressivo spostamento verso l’estrema destra di Mussolini, divenendone un forte oppositore già da prima della marcia su Roma. Voce fermamente critica e stonata nella cultura omologata al regime, riuscì, grazie all’enorme prestigio internazionale, a mantenere l’Orchestra del Teatro alla Scala sostanzialmente autonoma nel periodo 1921-1929; al riguardo annunciò anche che si sarebbe rifiutato di dirigere la prima di Turandot dell’amico Giacomo Puccini se Mussolini fosse stato presente in sala (che invece poi diresse, in quanto il duce non si recò alla rappresentazione).
Per questi atteggiamenti di aperta ostilità al regime subì una campagna di stampa avversa sul piano artistico e personale, mentre le autorità disposero provvedimenti, come lo spionaggio su telefonate e corrispondenza e il ritiro temporaneo del passaporto a lui e famiglia; tutto ciò contribuì a mettere in pericolo la sua carriera e la sua stessa incolumità, come accadrà a Bologna.[21]
Il 14 maggio 1931, infatti, trovandosi nella città felsinea per dirigere al Teatro Comunale un concerto della locale orchestra in commemorazione di Giuseppe Martucci, Toscanini si rifiutò in partenza di far eseguire come introduzione gli inniGiovinezza e Marcia Reale al cospetto di Leandro Arpinati, Costanzo Ciano e vari altri gerarchi. Dopo lunghe negoziazioni, che il Maestro non volle accettare, si arrivò alla defezione di Arpinati e Ciano, alla perdita di ufficialità del concerto e, di conseguenza, alla non necessità di esecuzione degli inni. Toscanini, al suo arrivo in auto al teatro in compagnia della figlia Wally, in ritardo a causa delle negoziazioni, appena sceso, fu assalito da un folto gruppo di fascisti, venendo schiaffeggiato sulla guancia sinistra, si presume dalla camicia nera Guglielmo Montani, e colpito da una serie di pugni a viso e collo; fu messo in salvo dal suo autista, che lo spinse in macchina, affrontò brevemente gli aggressori e poi ripartì. Il gruppo di fascisti giunse poi all’albergo dove era alloggiato il Maestro e gli intimò di andarsene immediatamente; verso le ore 2 della notte, dopo aver dettato un durissimo telegramma di protesta a Mussolini in persona in cui denunciava di essere stato aggredito da “una masnada inqualificabile” (telegramma che non avrà risposta), avendo persino rifiutato di farsi visitare da un medico, partì in auto da Bologna diretto a Milano, mentre gli organi fascisti si preoccupavano che la stampa, sia italiana sia estera, non informasse dell’accaduto. Da quel momento Toscanini visse principalmente a New York; per qualche anno tornò regolarmente a dirigere in Europa, ma non in Italia, dove tornò in maniera saltuaria solamente dopo la seconda guerra mondiale, a seguito del ripristino di un governo democratico. Nondimeno, i dischi da lui incisi con orchestre statunitensi e inglesi per la casa discografica La voce del padrone non furono sottoposti a censura da parte del regime di Mussolini e rimasero regolarmente in catalogo fino al 1942 e oltre. [21][22][23][24][25]
Arturo Toscanini
Nel 1933 infranse i rapporti anche con la Germania nazista, rispondendo con un rifiuto duro e diretto a un invito personale di Adolf Hitler a quello che sarebbe stato il suo terzo Festival di Bayreuth.[26] Le sue idee avverse al nazismo e all’antisemitismo che esso perseguiva lo portarono fino in Palestina, dove il 26 dicembre 1936 fu chiamato a Tel Aviv per il concerto inaugurale dell’Orchestra Filarmonica di Palestina (ora Orchestra Filarmonica d’Israele), destinata ad accogliere e a dare lavoro ai musicisti ebrei europei in fuga dal nazismo, che diresse gratuitamente.[27] Nel 1938, dopo l’annessione dell’Austria da parte della Germania, abbandonò anche il Festival di Salisburgo, nonostante fosse stato caldamente invitato a rimanere. Nello stesso anno inaugurò il Festival di Lucerna (per l’occasione molti, soprattutto antifascisti, vi andarono dall’Italia per seguire i suoi concerti); inoltre, quando anche il governo italiano, in linea con l’alleato tedesco, adottò una politica antisemita promulgando le leggi razziali del 1938, Toscanini fece infuriare ulteriormente Mussolini definendo tali provvedimenti, in un’intercettazione telefonica che gli causò un nuovo temporaneo ritiro del passaporto, “roba da Medioevo“. Ribadì inoltre in una lettera all’amante, la pianistaAda Colleoni: “maledetti siano l’asse Roma-Berlino e la pestilenziale atmosfera mussoliniana”.[21][28]
L’anno successivo, anche a seguito della sempre più dilagante persecuzione razziale, abbandonò totalmente l’Europa, spostandosi negli Stati Uniti d’America.
Dagli States continuò a servirsi della musica per lottare contro il fascismo e il nazismo e si adoperò per cercare casa e lavoro a ebrei, politici e oppositori perseguitati e fuoriusciti dai regimi;[27] l’Università di Georgetown, a Washington, gli conferì una laurea honoris causa. Per lui, inoltre, nel 1937 era stata appositamente creata la NBC Symphony Orchestra, formata da alcuni fra i migliori strumentisti presenti negli Stati Uniti, che diresse regolarmente fino al 1954 su radio e televisioni nazionali, divenendo il primo direttore d’orchestra ad assurgere al ruolo di stella dei mass media.
«(…) sento la necessità di dirle quanto l’ammiri e la onori. Lei non è soltanto un impareggiabile interprete della letteratura musicale mondiale (…). Anche nella lotta contro i criminali fascisti lei ha mostrato di essere un uomo di grandissima dignità. Sento pure la più profonda gratitudine per quanto avete fatto sperare con la vostra opera di promozione di valori, inestimabile, per la nuova Orchestra di Palestina di prossima costituzione. Il fatto che esista un simile uomo nel mio tempo compensa molte delle delusioni che si è continuamente costretti a subire”[29]»
Durante la seconda guerra mondiale diresse esclusivamente concerti di beneficenza a favore delle forze armate statunitensi e della Croce Rossa, riuscendo a raccogliere ingenti somme di denaro. Si adoperò anche per la realizzazione di un filmato propagandistico nel quale dirigeva due composizioni di Giuseppe Verdi dall’alto valore simbolico: l’ouverture della Forza del destino e l’Inno delle Nazioni, da lui modificato variando in chiave antifascista l’Inno di Garibaldi e inserendovi l’inno nazionale statunitense e L’Internazionale. Nel 1943 il Teatro alla Scala, sui cui muri esterni erano state scritte frasi come “Lunga vita a Toscanini” e “Ritorni Toscanini“, venne parzialmente distrutto durante un violento bombardamento da parte di aereialleati; la ricostruzione avvenne in tempi rapidi, grazie anche alle notevoli donazioni versate dal Maestro.
Il 13 settembre 1943 la rivista statunitense Life pubblicò un lungo articolo di Arturo Toscanini dal titolo Appello al Popolo d’America. L’articolo era in precedenza un’accorata lettera privata di Toscanini al presidente americanoFranklin Delano Roosevelt.
«Le assicuro, caro presidente, – scrive Toscanini – che persevero nella causa della libertà la cosa più bella cui aspira l’umanità (…) chiediamo agli Alleati di consentire ai nostri volontari di combattere contro gli odiati nazisti sotto la bandiera italiana e in condizioni sostanzialmente simili a quelle dei Free French. Solo in questo modo noi italiani possiamo concepire la resa incondizionata delle nostre forze armate senza ledere il nostro senso dell’onore. (…)»
Toscanini non aveva in simpatia la posizione ambivalente di Richard Strauss durante la seconda guerra mondiale e dichiarò al riguardo: “Di fronte allo Strauss compositore mi tolgo il cappello; di fronte all’uomo Strauss lo reindosso”.[30]
Il ritorno
Arturo Toscanini
L’11 maggio 1946 il settantanovenne Toscanini ritornò in Italia, per la prima volta dopo quindici anni, per dirigere lo storico concerto di riapertura del Teatro alla Scala, ricordato come il concerto della liberazione, dedicato in gran parte all’opera italiana, e probabilmente per votare a favore della Repubblica. Quella sera il teatro si riempì fino all’impossibile: il programma vide l’ouverture de La gazza ladra di Rossini, il coro dell’Imeneo di Händel, il Pas de six e la Marcia dei Soldati dal Guglielmo Tell e la preghiera dal Mosè in Egitto di Rossini, l’ouverture e il coro degli ebrei del Nabucco, l’ouverture de I vespri siciliani e il Te Deum di Verdi, l’intermezzo e alcuni estratti dall’atto III di Manon Lescaut di Puccini, il prologo e alcune arie dal Mefistofele di Boito. In quell’occasione esordì alla Scala il soprano Renata Tebaldi, definita da Toscanini “voce d’angelo”.
Alla Scala fu direttore di altri tre spettacoli: il concerto commemorativo di Arrigo Boito, comprendente la Nona sinfonia di Beethoven, nel 1948, la Messa di requiem di Verdi nel 1950 ed infine un concerto dedicato a Wagner nel settembre 1952.
Il 5 dicembre 1949 venne nominato senatore a vita dal Presidente della RepubblicaLuigi Einaudi per alti meriti artistici, ma decise di rinunciare alla carica il giorno successivo, inviando da New York il seguente telegramma di rinuncia:
«È un vecchio artista italiano, turbatissimo dal suo inaspettato telegramma che si rivolge a Lei e la prega di comprendere come questa annunciata nomina a senatore a vita sia in profondo contrasto con il suo sentire e come egli sia costretto con grande rammarico a rifiutare questo onore. Schivo da ogni accaparramento di onorificenze, titoli accademici e decorazioni, desidererei finire la mia esistenza nella stessa semplicità in cui l’ho sempre percorsa. Grato e lieto della riconoscenza espressami a nome del mio paese pronto a servirlo ancora qualunque sia l’evenienza, la prego di non voler interpretare questo mio desiderio come atto scortese o superbo, ma bensì nello spirito di semplicità e modestia che lo ispira… accolga il mio deferente saluto e rispettoso omaggio.»
Addio alle scene e morte
Toscanini si ritirò a 87 anni, ponendo fine a una straordinaria carriera duratane 68;[4] rese tuttavia nota la sua volontà di lasciare il podio solo a familiari e amici, volendo evitare di ricevere eccessive celebrazioni pubbliche.[31]
Per il suo ultimo concerto, interamente dedicato a Wagner, compositore sempre molto amato, diresse la NBC Symphony Orchestra il 4 aprile 1954 alla Carnegie Hall di New York, in diretta radiofonica. Proprio in occasione di quell’ultima esibizione il Maestro, celebre anche, come già accennato, per la sua straordinaria memoria ed il suo perfezionismo maniacale (caratteristiche che, insieme al suo carattere irascibile ed impulsivo, lo portavano regolarmente ad infuriarsi quando l’esecuzione non risultava esattamente come lui voleva), mentre dirigeva il brano dell’opera Tannhäuser, per la prima volta perse la concentrazione e smise di battere il tempo.
Ritratto di Arturo Toscanini, direttore d’orchestra (1867-1957). Foto di Leone Ricci, Milano.
Toscanini rimase immobile per ben 14 secondi ed i tecnici radiofonici fecero immediatamente scattare un dispositivo di sicurezza che trasmise musica di Brahms[31], una reazione a posteriori giudicata eccessiva e forse dettata dal panico, laddove l’orchestra in realtà non aveva mai smesso di suonare. Il Maestro si ricompose e riprese a dirigere normalmente fino alla fine del concerto, dopodiché si ritirò rapidamente nel proprio camerino, mentre in teatro gli applausi sembravano non smettere più.[32]
Nel dicembre del 1956, debilitato da problemi di salute legati all’età, espresse il desiderio di trascorrere il Capodanno con tutta la famiglia. Il figlio Walter organizzò quindi una grande festa a New York con figli, nipoti, vari parenti e amici; a mezzanotte il Maestro, insolitamente allegro ed energico, volle abbracciare tutti uno per uno, poi intorno alle due andò a letto. Al mattino di Capodanno del 1957, alzatosi attorno alle 7, si recò in bagno e quando ne uscì stramazzò al suolo, colpito da una trombosi cerebrale.[31]
Toscanini rimase in agonia per 16 giorni e morì alle soglie dei 90 anni, nella sua casa newyorkese di Riverdale, il 16 gennaio 1957; la salma ritornò il giorno dopo in Italia con un volo diretto all’Aeroporto di Ciampino, a Roma, e venne accolta all’arrivo da una folla di persone. Da lì fu traslata a Milano: la camera ardente e il funerale furono allestiti presso il Teatro alla Scala e la gente salì anche sui tetti degli edifici circostanti per poter vedere qualcosa.
Composto da una marea di persone, il corteo funebre si avviò verso il Cimitero Monumentale di Milano, dove il Maestro venne tumulato nell’Edicola 184 del Riparto VII, la tomba di famiglia precedentemente edificata alla morte del figlioletto Giorgio dall’architetto Mario Labò e dallo scultore Leonardo Bistolfi, con tematiche rappresentanti l’infanzia e il viaggio per mare (Giorgio era morto di una difterite fulminante a Buenos Aires mentre seguiva il padre in tournée ed era ritornato a Milano defunto in nave).[33][34][35][36][37] Nella stessa cappella hanno ricevuto sepoltura il padre del Maestro, Claudio, la sorella Zina, gli altri tre figli del Maestro (Walter, Wanda, Wally), la moglie Carla, l’insigne pianista Vladimir Horowitz (1903-1989), marito di Wanda, la loro figlia Sophie Horowitz (1934-1975), la ballerina Cia Fornaroli (1888-1954), moglie del figlio Walter, e il nipote Walfredo Toscanini (1929-2011), figlio di Walter e della Fornaroli e ultimo discendente diretto maschio del Maestro.
Il nome di Arturo Toscanini si è successivamente meritato l’iscrizione al Famedio del medesimo cimitero.[38]
Vita privata
Arturo era il primogenito e dopo di lui i genitori ebbero tre figlie: Narcisa (1868-1878), Ada (1875-1955) e Zina (1877-1900).[39][40]
Arturo Toscanini con la figlia Wally, 1955
Toscanini sposò la milanese Carla De Martini (nata nel 1877) a Conegliano il 21 giugno 1897; la moglie diverrà sua manager.[2][31] Ebbero quattro figli: Walter, nato il 19 marzo 1898 e morto il 30 luglio 1971, storico e studioso del balletto, che sposò la celebre prima ballerinaCia Fornaroli;[41][42] Wally, nata il 16 gennaio del 1900, chiamata come la protagonista dell’ultima opera dell’amico scomparso Alfredo Catalani, La Wally[43], nel corso della seconda guerra mondiale elemento importante della Resistenza italiana e successivamente fondatrice di un’associazione per la ricostruzione del Teatro alla Scala distrutto dai bombardamenti alleati, nonché moglie del conte Emanuele di Castelbarco e celebre animatrice del jet set internazionale,[43][44][45] morta l’8 maggio 1991; il predetto Giorgio, nato nel settembre 1901 e morto di difterite il 10 giugno 1906; Wanda Giorgina, nata il 7 dicembre del 1907, diventata celebre per avere sposato il pianistarusso e amico di famiglia Vladimir Horowitz, morta il 21 agosto 1998.[31][37][46][47]
Il 23 giugno 1951 la moglie morì a Milano e Toscanini rimase vedovo.[48]
Toscanini ebbe varie relazioni extraconiugali, ad esempio con il soprano Rosina Storchio, dalla quale nel 1903 ebbe il figlio Giovanni Storchio, nato cerebroleso e morto sedicenne il 22 marzo 1919,[49][50] e con il soprano Geraldine Farrar, che avrebbe voluto imporgli di lasciare moglie e figli per sposarla; il Maestro non gradì l’ultimatum e, per tale motivo, nel 1915 si dimise da direttore d’orchestra principale del Metropolitan e ritornò in Italia. Ebbe anche una relazione durata sette anni (dal 1933 al 1940) con la pianista Ada Colleoni, amica delle figlie e divenuta moglie del violoncellista Enrico Mainardi; tra i due, nonostante vi fossero trent’anni di differenza, nacque un profondo legame, come risulta da una raccolta di circa 600 lettere e 300 telegrammi che il Maestro le inviò.[51][52][53]
Era un appassionato intenditore e collezionista d’arte, nonché conoscente o amico di molti pittori; secondo il nipote Walfredo, la sua collezione nella casa milanese di via Durini arrivava a contare fino a 200 quadri[31].
Critica
Toscanini fu pressoché idolatrato dalla critica finché fu in vita; la RCA Victor, che l’aveva sotto contratto, non si faceva problemi a definirlo il miglior direttore d’orchestra mai esistito. Tra i suoi sostenitori non vi erano solo i critici musicali, ma anche musicisti e compositori: un parere d’eccezione viene da Aaron Copland.[54]
Tra le critiche che gli furono mosse spicca quella “revisionista”, secondo la quale l’impatto di Toscanini sulla musica americana è da giudicare in definitiva più negativo che positivo, poiché il Maestro prediligeva la musica classica europea a quella a lui contemporanea. Tale bacchettata venne dal compositore Virgil Thomson, il quale deprecò la poca attenzione di Toscanini per la musica “contemporanea”. Va tuttavia sottolineato come Toscanini abbia speso parole d’ammirazione per compositori a lui senz’altro contemporanei, quali Richard Strauss e Claude Debussy, di cui diresse e incise la musica. Altri compositori attivi nel XX secolo i cui brani furono eseguiti sotto la direzione di Toscanini furono Paul Dukas (L’apprendista stregone), Igor’ Stravinskij (Le rossignol e la Suite da Petruška), Dmitrij Shostakovich (sinfonie numero 1 e 7) e George Gershwin, del quale diresse i tre lavori maggiori (Rapsodia in Blu, Un americano a Parigi e il Concerto in Fa).
Un’altra critica spesso mossa a Toscanini è quella di essere troppo “metronomico”, cioè di battere il tempo fin troppo rigidamente, senza mai distaccarsi dalle partiture. Questa sua caratteristica gli valse la rivalità di Wilhelm Furtwängler, caratterizzato da un modo di dirigere totalmente opposto a quello del Maestro italiano; i due si detestarono per anni e non ne fecero mistero.
Nota è l’aspra discussione sorta fra Toscanini e Maurice Ravel in relazione ai tempi della partitura del celebre Boléro del compositore francese.[55] Alla prima esecuzione a New York, il 4 maggio 1930, infatti, il direttore affrettò il tempo, dirigendo due volte più velocemente di quanto indicato, per poi allargarlo nel finale. Ravel gli ricordò che il brano andava eseguito con un unico tempo, dall’inizio alla fine, e che nessuno poteva prendersi certe libertà (lo stesso compositore, dopo la prima esecuzione, aveva anche fatto preparare un avviso che imponeva di eseguire il Boléro in modo tale che durasse esattamente diciassette minuti), e Toscanini gli rispose: “Se non la suono a modo mio, sarà senza effetto”, risposta che Ravel commentò dicendo: “i virtuosi sono incorreggibili, sprofondati nelle loro chimere come se i compositori non esistessero”.[56]
Francobollo emesso nel 2007 nel 50º anniversario della morte Francobollo della Repubblica di San Marino che celebra Arturo Toscanini, sempre per il 50° dalla morte
Toscanini registrò 191 dischi, specialmente verso la fine della carriera, molti dei quali sono ancora ristampati. Inoltre sono conservate molte registrazioni di esibizioni televisive e radiofoniche. Particolarmente apprezzate sono quelle dedicate a Beethoven, Brahms, Wagner, Richard Strauss, Debussy tra gli stranieri, Rossini, Verdi, Boito e Puccini tra gli italiani.
I beni che documentano la vita di Toscanini sono stati dati dai suoi eredi a istituzioni pubbliche italiane e statunitensi. A New York presso la New York Public Library si conservano molte delle partiture annotate e la rassegna stampa degli eventi che videro protagonista il Maestro; alcuni documenti sono invece conservati presso la Fondazione Arturo Toscanini di Parma; a Milano si trovano documenti presso l’archivio del Museo Teatrale alla Scala, l’Archivio di Stato e il Conservatorio di musica “Giuseppe Verdi”; il 19 dicembre 2012 vi fu un’asta su lotti di lettere e spartiti del Maestro: tutto ciò rischiava di andare disperso, ma 60 lotti su 73 andarono all’Archivio di Stato[61].
^ D’Annunzio gli aveva scritto: “Venga a Fiume d’Italia, se può. È qui oggi la più risonante aria del mondo e l’anima del popolo è sinfonia come la sua orchestra”.
^ Comune di Milano, App di ricerca defunti Not 2 4get (i suoi resti attualmente riposano al Cimitero Maggiore di Milano nella celletta 729 del Riparto 211).
^ Enzo Restagno, Ravel e l’anima delle cose, Il Saggiatore, Milano, 2009, pag.34
^ Da un’intervista di Dimitri Calvocoressi a Ravel per il Daily Telegraph dell’11 luglio 1931, in Maurice Ravel. Lettres, écrits, entretiens Ed. Flammarion, Parigi, 1989
^ Un singolare aneddoto è legato alla prima di quest’opera, che esordì incompleta e postuma alla morte di Puccini. Toscanini interruppe infatti l’esecuzione a metà del terzo atto, all’ultima pagina completata dall’autore; alcuni testimoni riportano che, voltatosi verso il pubblico, il direttore affermò: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto». Toscanini non diresse mai più la Turandot, tanto meno nella versione completata da Franco Alfano (di cui egli fu, peraltro, promotore, nonché recensore avendone bocciata una prima versione, presso l’editore Ricordi di Milano). Vd. Julian Budden, Puccini, traduzione di Gabriella Biagi Ravenni, Roma, Carocci Editore, 2005, ISBN 88-430-3522-3, pp. 458s.
Marco Capra (a cura di), Toscanini. la vita e il mito di un Maestro immortale, Milano, Rizzoli, 2017
Piero Melograni, Toscanini. La vita, le passioni, la musica, Milano, Mondadori, 2007.
Adriano Bassi, Arturo Toscanini, Collana I Signori della Musica, Milano, Targa Italiana, 1991
(EN) B.H. Haggin, Contemporary Recollections of the Maestro, Boston, Da Capo Press, 1989 (ristampa di Conversations with Toscanini e di The Toscanini Musicians Knew)
Harvey Sachs, Toscanini, Boston, Da Capo Press, 1978 (edizione italiana EDT/Musica, 1981). – Nuova ed. ampliata in pubblicazione nel giugno 2017.
(EN) Harvey Sachs, Reflections on Toscanini, Prima Publishing, 1993.
Arturo Toscanini, Lettere (The Letters of Arturo Toscanini. Compiled, edited and selected by Harvey Sachs, Knopf, 2002), traduzione di Maria Cristina Reinhart, a cura di Harvey Sachs, Milano, Il Saggiatore, 2017 [col titolo Nel mio cuore troppo d’assoluto: le lettere di Arturo Toscanini, Saggi Garzanti, 2003], ISBN978-88-428-2344-5.
Howard Taubman, The Maestro. The Life of Arturo Toscanini, Westport, Greenwood Press, 1977.
(EN) Joseph Horowitz, Understanding Toscanini. A Social History of American Concert Life, Berkeley, University of California Press, 1994.
(EN) Tina Piasio, “Arturo Toscanini”, in Italian Americans of the Twentieth Century, ed. George Carpetto and Diane M. Evanac, Tampa, FL, Loggia Press, 1999, pp. 376-377.
(EN) William E. Studwell, “Arturo Toscanini.” In The Italian American Experience: An Encyclopedia, ed. S.J. LaGumina, et al., New York, Garland, 2000, pp. 637-638.
Viterbo va in scena al Teatro dell’Unione “Italian Dire Straits Tribute Band”
Il Comune di Viterbo e ATCL – Circuito multidisciplinare del Lazio sostenuto da MIC – Ministero della Cultura e Regione Lazio, presentano, al Teatro dell’Unione, domenica 9 febbraio alle ore 18,00, Italian Dire Straits Tribute Band. Il progetto di quella che viene oggi definita la miglior tribute band dei Dire Straits nasce nel dicembre del 2008. Da allora ha suonato in tutta Europa in club, teatri, festival e location open air. Riprodurre le sonorità dei Dire Straits non viene preso alla leggera e la band lo fa con grande professionalità e rispetto, grazie a sonorità molto vicine a quelle di Mark Knopfler, con un pizzico di interpretazione originale. Il repertorio spazia su tutta la discografia dei Dire Straits, alternando i grandi classici quali “Sultans of Swing”, “Tunnel of Love”, “Telegraph Road”, “Romeo and Juliet”, “Brothers in Arms”, “Money for Nothing”, “Private Investigations” a pezzi più particolari come “News”.
Viterbo -Teatro dell’Unione “Italian Dire Straits Tribute Band”
il Teatro Unione (o Teatro dell’Unione) è il principale teatro della città di Viterbo. La sua costruzione ed il suo nome derivano dalla “unione” di un gruppo di cittadini viterbesi che nel 1844 formarono la “società dei palchettisti”, con a capo il conte Tommaso Fani Ciotti.[1]
In seguito ai gravi danni dovuti ai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, vista la necessità di reperire ingenti somme per la sua ricostruzione, termina il condominio tra la Società dei Palchettisti ed il Comune, che fino a quel momento aveva amministrato il teatro. Dal 9 dicembre 1949, con decreto prefettizio, la proprietà è totalmente comunale.[5]
Foyer del Teatro Unione e Carrozza dei Priori (1700).
L’edificio è situato nel centro storico in piazza Verdi (comunemente detta piazza del Teatro).
Dopo un lungo periodo di chiusura di oltre sei anni dovuto a lavori di ristrutturazione, il Teatro è stato riaperto al pubblico il 13 giugno 2017 nell’occasione di un incontro con lo scrittore americano Jeffery Deaver.[6][7]
Dal dicembre 2017 la programmazione delle stagioni di prosa, danza e teatro ragazzi è curata dall’Associazione Teatrale fra i Comuni del Lazio.[8][9][10][11] Il teatro ospita inoltre il concorso internazionale di canto Premio Fausto Ricci che ha visto come Presidenti di Giuria personalità del mondo della lirica come Fiorenza Cossotto, Desirée Rancatore, Fiorenza Cedolins, Luciana Serra e Alfonso Antoniozzi nonché direttori e casting manager di importanti teatri d’opera italiani ed europei, e, per l’edizione 2020, il celebre tenore spagnolo José Carreras[12][13].
Viterbo -Teatro dell’Unione
Storia
Soffitto del Teatro Unione.
Fino alla seconda metà dell’Ottocento, il teatro principale di Viterbo era il Teatro del Genio, ma era ormai ritenuto non più adeguato, sia per la capienza che per la sua scarsa connotazione sul tessuto urbano.[1]
Il Teatro dell’Unione divenne nell’Ottocento il primo per importanza e prestigio poiché l’impulso che ne permise l’edificazione fu la passione, comune a quasi tutte le principali città italiane, per l’opera lirica.
Il progetto prevedeva una nutrita partecipazione sia da parte della società dei palchettisti che da parte dello stesso Comune, il quale garantì l’acquisto di almeno cinque palchi. Il primo atto della società fu l’elezione della Deputazione Teatrale, composta dal Delegato Apostolico Mons. Orlandini e da sei deputati: Tommaso Fani, Antonio Calandrelli, Domenico Liberati, Giuseppe Signorelli, Cesare Calabresi e Vincenzo Federici, ingegnere comunale.[5]
La scelta della località dove erigere il Teatro ricadde sulla Contrada San Marco, dopo aver scartato l’idea di abbattere il Teatro del Genio e le abitazioni vicine per costruirvi il nuovo edificio. La Deputazione propose inoltre di dare all’Unione la forma del Teatro Argentina di Roma.[14]
Il 20 Giugno 1845 fu bandito l’appalto concorso per la costruzione del Teatro, l’incarico di valutare i progetti fu attribuito all’Accademia Nazionale di San Luca e la scelta ricadde sull’architetto Virginio Vespignani, esponente di spicco del tardo “classicismo eclettico”.[5]
Inaugurato nel 1855 con una stagione lirica che durò dal 4 agosto al 25 settembre e che comprendeva ben tre melodrammi e un balletto, la prima stagione si rivelò un vero e proprio successo. Negli anni successivi andò aumentando l’interesse del pubblico, sia con melodrammi che con lavori di prosa del repertorio dell’epoca e dai primi del ‘900 il teatro ospitò anche alcuni spettacoli cinematografici. Durante la seconda Guerra mondiale il teatro fu gravemente danneggiato e a causa della necessità di reperire ingenti somme per la ricostruzione il comune ne diventò unico proprietario.[5]
Facciata del Teatro dell’Unione di Viterbo
La sua conformazione architettonica propria dei teatri all’italiana è caratterizzata dalla separazione tra sala e scena, dalla simmetria e dalla prospettiva dell’impianto, il palco in declivio, la divisione “classistica” o “gerarchica” dei posti nonché le raffinate decorazioni fanno del Teatro dell’Unione un vero e proprio gioiello tra i teatri storici italiani.[5]
Il Teatro dell’Unione oggi
Viterbo -Teatro dell’Unione “Italian Dire Straits Tribute Band”
La capienza del teatro è di 574 posti, di cui 188 in platea a cui vanno aggiunti 4 posti per disabili e altrettanti per i relativi accompagnatori. I palchetti sono in totale 97 e sono disposti su 4 ordini. Il loggione non è agibile per motivi di sicurezza.
Dopo i lavori di restauro la graticcia è stata completamente rinnovata, così come la quadratura nera ed il sipario. Il palco ha 3 americane motorizzate.
Note
Clementina Barucci, Virginio Vespignani, architetto tra Stato Pontificio e Regno d’Italia, Argos, p. 296.
^ Clementina Barucci, Enzo Bentivoglio, Vincenzo Fontana., Vespignani a Viterbo. Il teatro dell’Unione e le opere progettate nel viterbese dall’architetto Virginio Vespignani., a cura di Simonetta Valtieri, GBE / Ginevra Bentivoglio Editore.
Bertolt Brecht- Arte, riflessione e godimento estetico-Articolo di Renato Caputo
Bertolt Brecht
Bertolt Brecht, sin dai primi anni venti, ha sviluppato una poetica modernista [1] e la Neue Sachlichkeit e, più in generale, il movimento delle avanguardie storiche hanno avuto una grande importanza nello sviluppo delle sue opere giovanili, non solo dal punto di vista tecnico-formale. È, però, indispensabile analizzare da un punto di vista storico l’adesione di Brecht a questi movimenti, considerandola soprattutto in relazione a quella radicale critica dell’arte tradizionale e al bisogno di rinnovamento estetico che erano alla base della sua riflessione sull’arte. Del resto, anche limitandosi a considerare unicamente i punti di contatto relativi alla critica dell’arte e dell’estetica tradizionale, vi sono delle differenze sostanziali tra le posizioni di Brecht e quelle dei teorici più radicali delle avanguardie. Egli, infatti, non solo non intendeva limitarsi all’astratta denunzia di un mondo sempre più privo di poesia, ma riteneva necessario opporsi a tutte quelle teorie che consideravano come ormai scontata la “bancarotta dell’arte” [2]. In altri termini, Brecht non intendeva arrendersi a quello che considerava un paralizzante pessimismo, un facile scetticismo che si serviva strumentalmente della teoria hegeliana della morte dell’arte per mascherare la propria incapacità di intervento sulla realtà, la propria ignavia di fronte alla tragedia dell’arte nel mondo moderno [3]. A suo parere, infatti, non si poteva considerare definitivamente “morta” ogni forma di espressione artistica, né si doveva, di fronte a questa crisi, arrivare a negare l’importanza stessa dell’attività creativa in essa dispiegata [4]. Irreversibilmente “morta” era unicamente una determinata forma d’espressione artistica, tanto dominante da essere spesso scambiata con l’arte tout court: l’arte “ingenua”. Quell’arte, cioè, che più o meno volutamente ignora o pretende di poter ignorare la “sfida” della modernità [5].
Se gran parte dell’arte tradizionale appariva destinata a una lenta, ma irreversibile agonia, ben diverso era, a parere di Brecht, lo stadio di salute dell’arte dell’inzwischenzeit, cioè dell’espressione artistica appropriata all’epoca della morte della poesia, una rappresentazione artistica fondata su di una solida base riflessiva e “sentimentale”, nel senso schilleriano del termine. L’arte per sopravvivere nel mondo moderno, a parere di Brecht, in effetti non può rinunciare a comprendere in sé quei momenti della riflessione e della mediazione che sembrano condurre alla rovina la “spensierata immediatezza” dell’arte di un tempo. Nell’epoca moderna, la rappresentazione artistica non può più pensare di poter vivere in contrasto con il razionale, ma deve necessariamente, per quanto le è possibile, appropriarsene adattandolo alle proprie esigenze espressive.
Tuttavia, ciò non deve comportare la rinuncia a quella componente essenziale dell’arte legata ai sentimenti e all’immaginazione. A parere di Brecht, in effetti, “bisogna liberarsi da prese di posizione di battaglia del tipo «di qua la ratio» oppure «di là l’emotio». Bisogna analizzare accuratamente il rapporto tra ratio e emotio in tutta la sua contraddittorietà [6] e non si deve permettere agli avversari di presentare il teatro epico come qualcosa di esclusivamente razionale e contrario a ogni emozione. Gli «istinti» i quali, trasformati ormai in riflessi condizionati delle esperienze, sono diventati avversari dei nostri interessi. Le emozioni impantanate, a binario unico, non più controllabile dall’intelletto. Dall’altra parte la ratio emancipata dei fisici, con il suo formalismo meccanico” [7]. Brecht, quindi, avvertiva la necessità di rilegittimare il piacere estetico come momento fondamentale dell’esperienza estetica – di contro a ogni tentativo di imporre un’arte intellettualistica che ne metteva in discussione la stessa legittimità – ripensandolo, però, in vista di una sua riconnessione all’elemento etico-didattico. Il momento del godimento estetico deve, però, esser ripensato in vista di una sua riconnessione all’elemento etico-didattico, da cui troppo spesso è stato intellettualisticamente separato. In altri termini, il piacere prodotto dall’esperienza estetica non può più essere qualcosa di immediato, che prescinda del tutto dal momento della riflessione, dato che lo stesso spettatore dotato di un minimo di consapevolezza della sua funzione non aspira più a perdersi in un passivo sentire, ma vuole comprendere e giudicare.
Da questa necessità deriva la radicale critica di Brecht a quelle opere commerciali, di evasione che definiva con disprezzo “culinarie”. Ciò non significa che a esse Brecht contrapponesse un’arida e intellettualistica concezione dell’arte. Brecht ha così definito, sul suo diario, l’opera di due importanti autori della sua epoca che possono essere considerati i rappresentanti di queste opposte concezioni dell’arte: “George è privo della dimensione sensibile e la sostituisce con una raffinata arte culinaria. Anche KARL KRAUS, il rappresentante della seconda linea, è privo della dimensione sensibile perché è puramente spirituale. L’unilateralità di entrambe le linee rende sempre più difficile un giudizio. Nel caso di GEORGE si ha un soggettivismo portato agli estremi che vorrebbe presentarsi come oggettivo per il fatto che si presenta in maniera formalmente classicistica. In realtà, con tutta la sua apparente soggettività, la lirica di KRAUS è però più prossima all’oggetto, regge più cose. KRAUS è più debole di GEORGE, questo è il guaio. Altrimenti gli sarebbe tanto superiore”[8].
Di contro a queste tendenze Brecht riteneva che il compito fondamentale dell’artista consistesse “nel ricreare i figli dell’era scientifica, in maniera sensuale e in letizia. Questo non lo si ripeterà mai abbastanza, specialmente per noi tedeschi, così inclini a scivolare nell’incorporeo e nell’invisibile, per poi metterci a parlare di Weltanschauung, di visione del mondo, proprio quando il mondo non è più visibile” [9].
Articolo di Renato Caputo
Fonte -Ass. La Città Futura Via dei Lucani 11, Roma |-
Note:
[1] L’importanza di questa poetica è testimoniata, per esempio, da quanto scriveva Brecht in riferimento alle note da lui aggiunte ai suoi drammi: “tutte queste norme teatrali, destinate a un teatro terrestre (secolarizzato), produttivo, umano e saggio, in cui l’ascoltatore è il rappresentante del «destino», non sono naturalmente solo di origine ideologicamente speculativa, ma anche dettate semplicemente dal gusto. Punti di riferimento del gusto sono gli edifici, le macchine, le forme linguistiche, le manifestazioni pubbliche ecc. di tipo moderno”. Bertolt Brecht Diario di lavoro, tr. it. di Zagari, B., Einaudi Torino 1976, p. 440.
[2] Cfr. Brecht, B., Gesammelte Werke, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1967, vol. XX, p. 129.
[3] Prima ancora che al livello teorico, questo tratto caratterizzante è individuabile nel tormentato processo di sviluppo dell’opera brechtiana. L’implacabile sarcasmo e la corrosiva ironia che animano la produzione giovanile di Brecht permettono al dolore e allo sconforto metafisico in essa preminenti di non rinchiudersi nell’angusto cerchio dei sentimenti del poeta, di non cedere a quella hybris dell’abisso, che domina nelle opere di tanti poeti espressionisti a lui contemporanei. [Sulla necessità di distinguere l’opera giovanile di Brecht dall’espressionismo resta tuttora valido il contributo di Chiarini P., Bertolt Brecht, Laterza, Bari 1959]. Il suo radicale pessimismo, infatti, non si riposa mai in un’astratta negazione assoluta, in un pavido annullamento della volontà, in un immobile e comodo intellettualismo e pessimismo cosmico. Egli condanna senza appello le passioni e le aspirazioni dell’uomo, ma solo quelle che non hanno per orizzonte la sua radicale finitezza. Egli sembra condannare la vita, interessarsi solo alla sua lenta e inesorabile decomposizione eppure, già in queste prime opere, si può cogliere un profondo amore per tutto ciò che in essa è grande e nobile. Così la maturità “epica” della sua produzione artistica viene a coincidere con la progressiva capacità di liberarsi da questo dolore, da questo profondo pessimismo, almeno quel tanto che basta a poterlo contemplare riflessivamente e, quindi, esprimere artisticamente. Un distacco che gli consente di descrivere con una oggettività tutta epica questa sofferenza, di dargli un nome, una precisa fisionomia storica sì da farne un che di finito e, quindi, di non estraneo all’orizzonte dell’uomo. In altri termini, solo elevando, dando un significato generale al suo torbido patimento giovanile, solo portando a un livello universale i suoi personalissimi sentimenti Brecht è riuscito a fondere in una ricca personalità artistica le peculiarità del suo combattivo e insaziabile spirito critico con il momento più astratto della sua Weltanschauung. Proprio in ciò sta il segreto di quella perfetta riuscita sul piano artistico che sembra spesso mancare negli scritti teorici in cui i due opposti momenti giungono di rado, solo per brevissimi momenti, a quella unificazione che comporta il potenziamento critico di entrambi.
[4] Di fronte a chi condannava in blocco come decadente quasi tutta l’arte “tardo borghese”, Brecht rispondeva con la consueta ironia: “è fuor di dubbio: la letteratura non è in fiore, ma si dovrebbe evitare di pensare facendo ricorso a vecchie metafore. Il concetto di fioritura è unilaterale. Non è lecito vincolare il valore di un’opera, la valutazione della sua forza e della sua grandezza all’idea idillica di una fioritura organica”. Brecht, B., Gesammelte…, op. cit., vol. XX, p. 26.
[5] Brecht a tal proposito osserva: “certo è chiaro che nessuno possa dubitare della rovina dell’arte se ritiene che sia vera arte quella che al giorno d’oggi viene percepita come tale” Brecht, B., Scritti teatrali a cura di Castellani, E., 3 voll., Einaudi, Torino 1975, p. 129.
[6] Prima ancora che nei suoi scritti teorici, Brecht ha dato una esemplare testimonianza di ciò nella sua produzione artistica. I due elementi essenziali di ogni opera, l’immagine e il pensiero, nei suoi lavori appaiono, infatti, inevitabilmente in contrasto, ognuno di essi sembra in grado di salvaguardare la propria esistenza solo contrapponendosi all’altro. Tutta la sua produzione è, così, attraversata e caratterizzata dalla profonda coscienza e dalla instancabile denuncia di questa dolorosa scissione, di questa piaga che tormenta il poeta, ma solo come manifestazione esemplare di quell’implacabile tormento che, in maniera spesso incosciente, travaglia ogni uomo moderno. Le sue opere non solo manifestano esemplarmente questa contraddizione, ma sono tutte intrise dal sentimento riflesso, dalla forza negativa di essa.
[7] B. Brecht, Diario…op. cit., p. 244.
[8] Ivi, p. 153.
[9] Brecht, B., Scritti teatrali, vol. II, p. 185.
Bertolt Brecht
Fonte -Ass. La Città Futura Via dei Lucani 11, Roma |-
FERMO-Palazzo dei Priori-la mostra “Steve McCurry – Children”-
Fermo- Torna a Palazzo dei Priori di Fermo il nuovo appuntamento con “Il tempo delle mostre“, questa volta dedicato all’arte del celebre fotografo americanoSteve McCurry. Dal 20 dicembre 2024 al 4 maggio 2025 le sale del Palazzo ospitano la mostra “Steve McCurry – Children”, ideata e curata di Biba Giacchetti. La mostra inaugura un percorso emozionante sull’infanzia vista attraverso l’obiettivo di Steve McCurry, uno dei fotografi più amati al mondo
Fermo- Steve McCurry fotografo americano
Con oltre 50 fotografie, il pubblico avrà l’occasione di ammirare l’unica esposizione tematica interamente dedicata ai bambini, realizzata nell’arco di quasi cinquant’anni di carriera. Le immagini, provenienti da ogni angolo del mondo, ritraggono i più piccoli in scene di vita quotidiana, offrendo un omaggio a questo periodo straordinario della vita.
Spiega Steve McCurry: “Ho avuto il grande privilegio di fotografare i bambini di tutto il mondo e ora che ho una figlia anch’io apprezzo ancora di più la loro energia, la loro curiosità, le loro potenzialità. Nonostante il contesto difficile in cui molti di loro nascono, i bimbi hanno la capacità di giocare, sorridere, ridere e condividere piccoli momenti di gioia. C’è sempre la speranza che un bambino possa crescere e cambiare il mondo.”
Fermo- Steve McCurry fotografo americano
L’inaugurazione della mostra si terrà giovedì 19 dicembre alle ore 17. La mostra è promossa dal Comune di Fermo con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Fermo, in collaborazione con Orion57, partner Mus-e del Fermano. L’organizzazione è affidata a Maggioli Cultura e Turismo.
Fermo- Steve McCurry fotografo americano
A Fermo una straordinaria galleria di ritratti esplora tutte le sfaccettature dell’infanzia, accomunate da un elemento universale: lo sguardo dell’innocenza. I bambini immortalati da McCurry, pur diversi per etnia, abiti e tradizioni, condividono la stessa energia inesauribile, la gioia di vivere e la capacità di giocare anche nei contesti più difficili, spesso segnati da povertà, conflitti o condizioni ambientali estreme. Il visitatore sarà guidato in un viaggio ideale accanto a McCurry, attraverso paesi come India, Birmania, Pakistan, Tibet, Afghanistan, Libano, Etiopia e Cuba….
Steve McCurry fotografo americano
Biografia di Steve McCurry Fotoreporter statunitense (n. Filadelfia, Pennsylvania, 1950). Dopo la laurea in Teatro alla Penn State University e l’esperienza in un quotidiano locale, ha iniziato a lavorare come freelance in India. Poco dopo l’invasione russa dell’Afghanistan, è riuscito ad attraversare il confine con il Pakistan e a fotografare la situazione del paese: nel 1980 il servizio è stato premiato con la Robert Capa Gold Medal. Da quel momento in poi, M. ha continuato a seguire i conflitti internazionali (dalla Guerra del Golfo al conflitto Iran-Iraq), sempre animato dal desiderio di mostrare le conseguenze delle guerre sui volti e sui paesaggi. Noto al grande pubblico per la “Ragazza afgana” (foto pubblicata nel 1985 sul National Geographic), ha vinto prestigiosi premi quali il Magazine Photographer of the Year, il National Press Photographers Award e per quattro volte il World Press Photo Contest. M. è uno dei fotografi più riconoscibili e apprezzati al mondo; fra le mostre che hanno ospitato i suoi lavori si ricordano Viaggio intorno all’uomo (Genova, 2012), Oltre lo sguardo (Monza – Roma 2014-15), Icons and Women (Forlì, 2015), Leggere (Brescia, 2017).Fonte- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Orari di apertura: dal martedì al venerdì 10:30 – 13 / 15:30 – 18; sabato e domenica 10:30 – 13 / 15:30 – 19. lunedì chiuso. Previste aperture straordinarie in occasione di eventi e festività.
Biglietto: unico Fermo Musei € 9,00; ridotto € 7,00 (ragazzi dai 14 ai 25 anni, gruppi composti da più di 15 persone, soci FAI, soci Touring Club Italia, soci Italia Nostra); gratuito under 13, disabili, soci Icom, giornalisti con tesserino. Il biglietto include l’ingresso al circuito museale della città.
È possibile acquistare il biglietto online sul sito web fermomusei.it.
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