IL GIUBILEO LETTERARIO del 1825: il solo Anno Santo (regolare) dell’Ottocento-Articolo di Giovanni Fighera-
Roma-Il 24 maggio 1824 fu indetto il Giubileo del 1825, che sarebbe stato l’unico dell’Ottocento. Erano passati quasi dieci anni dal Congresso di Vienna che intendeva riportare l’Europa al periodo precedente la Rivoluzione francese: la cosiddetta Restaurazione. Ma dopo l’abbattimento dell’Ancien Regime nulla sarebbe più stato come prima.
Prof.Giovanni Fighera
In quegli anni si assistette a un rilancio della Chiesa come istituzione a livello europeo e a una diffusa religiosità nel nascente clima culturale romantico che si tradusse anche in numerose conversioni dalla confessione luterana a quella cattolica: il diffuso fenomeno rappresentava il ritorno alla Chiesa madre di Roma dopo lo schiaffo che era stato inferto al papato sul finire del Settecento con la prigionia del papa e la mancata celebrazione dell’Anno Santo del 1800. In un certo senso, la rinnovata religiosità apparteneva a quella manifestazione più ampia di lotta contro Napoleone per l’affermazione della patria e per la libertà religiosa.
Nello stesso mese di maggio 1824 papa Leone XII promulgava la prima enciclica Ubi primum che attaccava l’arbitrio individuale nella lettura della Bibbia e, al contempo, l’indifferentismo religioso.
Il Collegio Romano e la Chiesa di Sant’Ignazio furono restituiti alla Compagnia di Gesù che tornava a ricoprire quel ruolo che aveva avuto da secoli. Il Giubileo era un grande dono – scriveva il papa – per tutti i fedeli del mondo. L’invito era quello di partecipare in gran numero per convertirsi e ottenere il perdono di tutti i peccati.
Accolsero l’invito importanti personalità della nobiltà e dei reali europei: Francesco I re di Napoli, Maria Teresa d’Este, Maria Cristina di Savoia, figlia del re di Sardegna. Vi parteciparono anche magistrati e ufficiali. Massimo d’Azeglio, all’epoca solo ventisettenne, che sarebbe divenuto genero di Alessandro Manzoni, pittore, scrittore, patriota e deputato del Regno d’Italia, era presente.
Non vi partecipò, invece, Alessandro Manzoni, nipote del giurista Cesare Beccaria celebre in tutta Europa, che in quegli anni stava redigendo la prima edizione de I promessi sposi a partire da quel Fermo e Lucia che aveva fatto leggere solo a pochi intimi amici. La sua conversione era avvenuta all’incirca quindici anni prima, non come racconta l’aneddoto della Chiesa di San Rocco, ma in un percorso di cui Manzoni dava notizia addirittura al papa Pio VII in una lettera dell’ottobre 1809: [Alessandro Manzoni] Cattolico del regno Italico, ed [Enrichetta Blondel] di Religione detta riformata della Comunione di Ginevra, riempite le formalità civili, sonosi congiunti in matrimonio innanzi ad un ministro della sud[dett]a Religione riformata. Da tal unione è nata una fanciulla la quale è stata battezzata cattolicamente, secondo il rito della S. Romana Chiesa. L’Oratore Cattolico […] ora è disposto a riparare il suo fallo secondo li principj della S. Religione Cattolica.
Quindi è, che godendo Egli piena libertà dell’esercizio di sua Cattolica Religione, e dell’educazione della prole dell’uno, e dell’altro sesso, secondo la stessa Cattolica Religione, ed essendo rimosso ogni pericolo di sua sovversione, col consenso della sud[dett]a sua compagna, pentito del fallo commesso, implora dall’Autorità Apostolica un opportuno riparo, capace di render tranquilla la di lui Coscienza, e di cancellare ogni sinistra idea ne’ Cattolici, fra’ quali debbono ambedue legittimamente congiunti.
Il percorso di conversione sarebbe proseguito negli anni seguenti fino alla confessione il 28 agosto 1811, il giorno di sant’Agostino, un grande convertito. Al Giubileo Manzoni non partecipò, probabilmente per freddezza non nei confronti della religione cattolica, ma piuttosto dello Stato pontificio. La produzione letteraria manzoniana non conserva memoria di questo importante evento della storia della Chiesa.
Nel 1825 papa Leone XII emanò anche una nuova disposizione in materia di ordinamento degli studi: la Quod divina sapientia organizzava la gioventù in una prospettiva di ritorno alla tradizione e alla pedagogia tenendo conto anche dei cambiamenti avvenuti. Alla fine del 1824 vennero emanati editti che prescrivevano disposizioni atte a garantire atteggiamenti morigerati e rigorosi a Roma durante l’Anno Santo.
Nell’aprile del 1825 Bartolomeo Pacca propose di chiamare a Roma gli apologeti di tutti i popoli affinché l’Anno Santo si tramutasse nell’occasione di raccogliere attorno alla Chiesa tutti i difensori contro l’indifferentismo, contro i carbonari e contri i massoni. Non a caso nello stesso anno venne pubblicata l’enciclica Quo graviora contro i massoni e i carbonari che sottolineava la rottura che i movimenti carbonari e massonici avevano attuato nei confronti della Chiesa e, quindi, l’incompatibilità tra l’appartenenza alla Chiesa e alla massoneria.
Fu tramandata memoria che partecipassero al Giubileo trecento settantacinque mila pellegrini, ma probabilmente la cifra è esagerata. L’Anno Santo non ebbe il successo che il papa si aspettava e la partecipazione fu più su scala nazionale che internazionale.
Fu l’ultimo effettivo Giubileo celebrato nell’Ottocento. Nel 1850, infatti, papa Pio IX, Giovanni Mastai Ferretti, era esule a Gaeta, ospite del re di Napoli Ferdinando II, da dove sarebbe rientrato a Roma solo nell’aprile. Era fuggito dalla città il 24 novembre 1848, l’anno delle grandi rivoluzioni europee. Nel febbraio del 1849 venne proclamata la Repubblica romana che rimase in vigore fino a novembre. Il papa indisse un Giubileo, che fu un invito alla penitenza e alla preghiera. Roma non fu centro delle celebrazioni né tantomeno dei pellegrinaggi.
Venticinque anni più tardi, lo stesso Pio IX, il papa che rimase più a lungo sul soglio pontificio nella storia della Chiesa, annunciò il Giubileo la vigilia di Natale del 1874 con la Bolla «Gravibus ecclesiae sed huius saeculi calamitatis». Non fece però aprire le Porte sante per evitare scontri con gli anticlericali. Dopo la breccia di Porta Pia del 1870 la Chiesa aveva perso il potere temporale e dichiarava che il proprio Stato era occupato.
Il papa concesse l’indulgenza a tutti i fedeli che avessero visitato tre chiese dei loro luoghi di origine in tutto il mondo. L’11 febbraio 1875 avvenne l’inaugurazione: erano presenti il pontefice e il clero di Roma. Non ci furono pellegrinaggi solenni. Il papa si dichiarava prigioniero di re Vittorio Emanuele II. Una comitiva costituita da illustri cattolici di tanti Stati del mondo giunse a Roma a fargli visita il 12 aprile. (pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 7-4-2025)
Risvolto-Etty Hillesum-DIARIO-1941-1942 -ADELPHI EDIZIONI-All’inizio di questo Diario, Etty è una giovane donna di Amsterdam, intensa e passionale. Legge Rilke, Dostoevskij, Jung. È ebrea, ma non osservante. I temi religiosi la attirano, e talvolta ne parla. Poi, a poco a poco, la realtà della persecuzione comincia a infiltrarsi fra le righe del diario. Etty registra le voci su amici scomparsi nei campi di concentramento, uccisi o imprigionati. Un giorno, davanti a un gruppo sparuto di alberi, trova il cartello: «Vietato agli ebrei». Un altro giorno, certi negozi vengono proibiti agli ebrei. Un altro giorno, gli ebrei non possono più usare la bicicletta. Etty annota: «La nostra distruzione si avvicina furtivamente da ogni parte, presto il cerchio sarà chiuso intorno a noi e nessuna persona buona che vorrà darci aiuto lo potrà oltrepassare». Ma, quanto più il cerchio si stringe, tanto più Etty sembra acquistare una straordinaria forza dell’anima. Non pensa un solo momento, anche se ne avrebbe l’occasione, a salvarsi. Pensa a come potrà essere d’aiuto ai tanti che stanno per condividere con lei il «destino di massa» della morte amministrata dalle autorità tedesche. Confinata a Westerbork, campo di transito da cui sarà mandata ad Auschwitz, Etty esalta persino in quel «pezzetto di brughiera recintato dal filo spinato» la sua capacità di essere un «cuore pensante». Se la tecnica nazista consisteva innanzitutto nel provocare l’avvilimento fisico e psichico delle vittime, si può dire che su Etty abbia provocato l’effetto contrario. A mano a mano che si avvicina la fine, la sua voce diventa sempre più limpida e sicura, senza incrinature. Anche nel pieno dell’orrore, riesce a respingere ogni atomo di odio, perché renderebbe il mondo ancor più «inospitale». La disposizione che ha Etty ad amare è invincibile. Sul diario aveva annotato: «“Temprato”: distinguerlo da “indurito”». E proprio la sua vita sta a mostrare quella differenza.
In copertina-Etty Hillesum ritratta nella sua stanza (1937).
Etty Hillesum
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AA.VV-Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza- FAZI EDITORE-
Poesie da Gaza-Fazi Editore–La poesia come atto di resistenza. La forza delle parole come tentativo di salvezza. È questo il senso più profondo delle trentadue poesie di autori palestinesi raccolte in questo volume, in gran parte scritte a Gaza dopo il 7 ottobre 2023, nella tragedia della guerra in Palestina, in condizioni di estrema precarietà: poco prima di essere uccisi dai bombardamenti, come ultima preghiera o testamento poetico (Abu Nada, Alareer), mentre si è costretti ad abbandonare la propria casa per fuggire (al-Ghazali), oppure da una tenda, in un campo profughi dove si muore di freddo e di bombe (Elqedra). Come evidenzia lo storico israeliano Ilan Pappé nella prefazione, «scrivere poesia durante un genocidio dimostra ancora una volta il ruolo cruciale che la poesia svolge nella resistenza e nella resilienza palestinesi. La consapevolezza con cui questi giovani poeti affrontano la possibilità di morire ogni ora eguaglia la loro umanità, che rimane intatta anche se circondati da una carneficina e da una distruzione di inimmaginabile portata». Queste poesie, osserva Pappé, «sono a volte dirette, altre volte metaforiche, estremamente concise o leggermente tortuose, ma è impossibile non cogliere il grido di protesta per la vita e la rassegnazione alla morte, inscritte in una cartografia disastrosa che Israele ha tracciato sul terreno». «Ma questa raccolta non è solo un lamento», nota il traduttore Nabil Bey Salameh. «È un invito a vedere, a sentire, a vivere. Le poesie qui tradotte portano con sé il suono delle strade di Gaza, il fruscio delle foglie che resistono al vento, il pianto dei bambini e il canto degli ulivi. Sono una testimonianza di vita, un atto di amore verso una terra che non smette di sognare la libertà. In un mondo che spesso preferisce voltare lo sguardo, queste poesie si ergono come fari, illuminando ciò che rimane nascosto». Perché la scrittura, come ricordava Edward Said, è «l’ultima resistenza che abbiamo contro le pratiche disumane e le ingiustizie che sfigurano la storia dell’umanità».
AA.VV-Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza- FAZI EDITORE-
Il libro è anche un’iniziativa concreta di solidarietà verso la popolazione palestinese. Per ogni copia venduta Fazi Editore donerà 5 euro a EMERGENCY per le sue attività di assistenza sanitaria nella Striscia di Gaza.
«Posso scrivere una poesia / con il sangue che sgorga». Yousef Elqedra
«La libertà per cui moriamo / non l’abbiamo mai sentita». Haidar al-Ghazali
«La poesia nella mia prigione / È nutrimento / È acqua e aria». Dareen Tatour
«Se devo morire, / che porti speranza, / che sia una storia».
Refaat Alareer
«Leggete queste poesie non solo con gli occhi, ma con l’anima. Ascoltate la loro musica, il loro ritmo sottile. Che siano per voi un ponte verso la comprensione, un inno alla dignità, e un ricordo che la bellezza, anche nelle situazioni più difficili, può ancora fiorire». dalla nota del traduttore Nabil Bey Salameh
«Forse questa raccolta contribuirà a erodere in qualche misura lo scudo di silenzio e disinteresse che garantisce immunità ai responsabili del genocidio a Gaza». dalla prefazione di Ilan Pappé
«Non credete che nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU anziché i paesi che hanno la bomba atomica sarebbe più giusto mettere quelli che sono riusciti pur massacrati dai bombardamenti a scrivere queste poesie bellissime?». Luciana Castellina
Curata da Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini e Leonardo Tosti, questa raccolta propone una selezione di poesie di dieci autori palestinesi: Hend Joudah, Ni’ma Hassan, Yousef Elqedra, Ali Abukhattab, Dareen Tatour, Marwan Makhoul, Yahya Ashour, Heba Abu Nada (uccisa nell’ottobre 2023), Haidar al-Ghazali e Refaat Alareer (ucciso nel dicembre 2023). Il volume è arricchito da una prefazione dello storico israeliano Ilan Pappé e da due interventi firmati dalla scrittrice Susan Abulhawa, autrice del romanzo bestseller Ogni mattina a Jenin, e dal giornalista premio Pulitzer Chris Hedges, ex corrispondente di «The New York Times» da Gaza.
A cura di Antonio Bocchinfuso, Mario Soldaini, Leonardo Tosti Prefazione di Ilan Pappé Con interventi di Susan Abulhawa e Chris Hedges
Traduzione dall’arabo di Nabil Bey Salameh Traduzione dall’inglese di Ginevra Bompiani ed Enrico Terrinoni
AA.VV-Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza- FAZI EDITORE-
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Fiumicino-Maccarese (Roma)- Weekend al Museo del Saxofono tra jazz mediterraneo e suoni elettronici –
Jazz, elettronica e visite guidate al Museo del Saxofono il 12 e 13 aprile. Concerto, apericena e possibilità d’ingresso gratuito. Scopri il programma completo.
Un weekend musicale tra sax, jazz e sperimentazione sonora. Dal 12 aprile 2025, il Museo del Saxofono di Maccarese ospita due serate speciali. Biglietti: 18€, orari: 20:00 e 21:00.
Due giorni all’insegna della musica dal vivo, tra jazz mediterraneo e musica elettroacustica contemporanea, animeranno il Museo del Saxofono sabato 12 e domenica 13 aprile 2025. Situato a Maccarese, a pochi chilometri da Roma, il museo conferma la sua vocazione di centro culturale attivo, capace di proporre esperienze sonore immersive e multidisciplinari.
Il Mediterranean Jazz Quartet si esibirà sabato 12 aprile alle ore 21:00, con un concerto dal titolo “Musiche, luoghi e tempi dell’anima”. Il quartetto — Francesco Bignami (pianoforte), Nicola Buffa (chitarra), Bruno Zoia (contrabbasso), Cesare Botta (batteria) — proporrà composizioni originali dal sapore mediterraneo, tratte da progetti discografici come Immagini di Roma e Sangue Latino. Alle ore 20:00, sarà possibile partecipare a un’apericena al costo di 17,00 €, mentre l’ingresso al concerto è di 18,00 € (più 1,00 € di prevendita su Liveticket.it).
Il concerto del Mediterranean Jazz Quartet mescola influenze latine, scale orientali e jazz moderno, per un risultato sonoro unico. Le composizioni, firmate dai membri del gruppo, esplorano le radici culturali del Mediterraneo in chiave jazzistica e improvvisativa. Il progetto prende spunto dal disco Una Favola Mediterranea, arricchito da brani dei precedenti album della band.
Come partecipare:
Concerto: sabato 12 aprile, ore 21:00
Biglietto: 18,00 € + 1,00 € prevendita su Liveticket.it
Apericena facoltativa: ore 20:00, € 17,00
Musica elettroacustica e arte concettuale: il concerto della domenica
Domenica 13 aprile, dalle ore 11:00, è prevista una visita guidata con performance live condotta dal direttore del museo Attilio Berni, sul tema “Il saxofono e le sue metamorfosi”. A seguire, alle ore 18:00, andrà in scena Echoes of the Time: un evento gratuito che propone un viaggio nei linguaggi contemporanei, tra voce, sax, viola ed elettronica.
Con Echoes of the Time, la programmazione cambia registro. Domenica 13 aprile alle ore 18:00, il museo ospita un concerto-performance con opere di Francesco Telli, Christian Banasik, Giorgio Nottoli e Giovanni Costantini. I temi toccano argomenti profondi come femminicidio, migrazione, trauma e interiorità.
Gli interpreti:
Virginia Guidi – voce
Luca Sanzò – viola
Enzo Filippetti – sax
Banasik e Nottoli – sound direction
L’evento è gratuito, previa prenotazione e acquisto del biglietto di ingresso al museo.
Visita guidata interattiva tra i sax più rari al mondo
Domenica mattina, dalle ore 11:00, sarà possibile partecipare a una visita guidata con intermezzi musicali dal vivo, condotta dal direttore Attilio Berni, fondatore del museo. La visita ripercorre la storia e l’evoluzione dello strumento, attraverso esemplari rari e unici, come il saxofono più grande e quello più piccolo mai costruiti.
Dove si trova il Museo del Saxofono e come arrivare
Via dei Molini snc (angolo via Reggiani), Maccarese, Fiumicino (RM)
Come arrivare:
Treno da Roma Termini a Maccarese-Fregene, poi taxi (5 min)
In auto, uscita Maccarese-Fregene dalla SS1 Aurelia
Parcheggio gratuito in zona
Info e prenotazioni: +39 06 61697862 / +39 320 2514087
Il Museo del Saxofono è il più grande centro espositivo al mondo dedicato al sassofono, con oltre 600 strumenti. Inaugurato nel 2019, è oggi un punto di riferimento internazionale per appassionati e musicisti.
Comune di Mompeo (Rieti)–Rassegna “A Porte Aperte”-Dalla Musica alle stelle:musiche di Mozart e Boccherini-
Comune di Mompeo –Articolo di Giulia Mininni–Nell’ambito della rassegna “A Porte Aperte” del Comune di Mompeo con il supporto della Regione Lazio e la direzione artistica di Renato Giordano il giorno sabato 12 aprile, presso l’Auditorium S. Carlo alle ore 18,00 andrà in scena il concerto VICINI E LONTANI : MUSICHE Di BOCCHERINI E MOZART. Luigi Boccherini e Wolfgang Amadeus Mozart sono due compositori allo stesso tempo tanto vicini per l’epoca in cui hanno vissuto ma anche tanto lontani per lo stile ed il genere. La loro musica testimonia il passaggio dallo stile Barocco a quello Classico. Ma mentre Mozart crea una musica moderna e assolutamente originale, Boccherini continua a rimanere fedele ai canoni della musica galante e Rococò che si avvicina al Romanticismo in arrivo, mentre Mozart lancia il suo sguardo verso il Nuovo Mondo. Piccoli gioielli di musica da camera che non solo celebrano i due compositori che hanno scritto le pagine più belle per questo genere musicale, ma allo stesso tempo mettono in risalto le doti degli esecutori dell’Ensemble Crescendo . L’orchestra Ensemble Crescendo nasce dall’idea di Carla Tutino di valorizzare il repertorio da camera con contrabbasso si avvale di musicisti con esperienza che operano e lavorano insieme da anni in diverse realtà musicali sinfoniche e cameristiche. Gli artisti che suoneranno sono Roberto Baldinelli e Caterina Bono ( violini) Paola Emanuele (viola), Adriano Ancarani (violoncello) ,Carla Tutino (Contrabbasso). Il programma della giornata oltre al concerto prevede l’ apertura e la visita guidata all’osservatorio astronomico del castello Orsini Naro a cura del CNAI alle 15.30, ed alle ore 20.00 dopo il concerto , l’osservazione del cielo primaverile con telescopio nel giardino dell’auditorium S. Carlo.
Comune di Mompeo (Rieti)–Rassegna “A Porte Aperte”-
Sabato 12 aprile Programma: h. 15.30 apertura e visita guidata all’ Osservatorio astronomico Castello Orsini Naro a cura del CNAI (Centro nazionale Astroricercatori indipendenti), h. 18.00 Concerto “Vicini e Lontani” all’Auditorium S. Carlo. h. 20. 00 Osservazione del cielo primaverile con telescopio nel giardino dell’Auditorium . Ingresso Gratuito.
Poesia di Antonia Pozzi: la porta che si chiude -3 dicembre del 1938.
Quando Antonia Pozzi arrivò, la mattina del 2 dicembre 1938, la neve aveva rivestito di bianco la campagna intorno all’ abbazia di Chiaravalle. Lasciò la bicicletta e si sedette a pochi metri da una roggia, come in Lombardia chiamano i piccoli corsi d’ acqua che traversano i campi. Aveva con sé un barattolo di pasticche. Le ingoiò con una sola sorsata d’ acqua e poi si sdraiò sulla neve, dove la trovarono ancora viva. Morì poche ore dopo.Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola. Adagiata su un prato innevato di Chiaravalle, imbottita di farmaci e tristezza, se ne andava Antonia Pozzi. Lo sguardo perso nello sguardo senza pupilla del cielo. Aveva ventisei anni.
La porta che si chiude
Tu lo vedi, sorella: io sono stanca,
stanca, logora, scossa,
come il pilastro d’un cancello angusto
al limitare d’un immenso cortile;
come un vecchio pilastro
che per tutta la vita
sia stato diga all’irruente fuga
d’una folla rinchiusa.
Oh, le parole prigioniere
che battono battono
furiosamente
alla porta dell’anima
e la porta dell’anima
che a palmo a palmo
spietatamente
si chiude!
Ed ogni giorno il varco si stringe
ed ogni giorno l’assalto è più duro.
E l’ultimo giorno
– io lo so –
l’ultimo giorno
quando un’unica lama di luce
pioverà dall’estremo spiraglio
dentro la tenebra,
allora sarà l’onda mostruosa,
l’urto tremendo,
l’urlo mortale
delle parole non nate
verso l’ultimo sogno di sole.
E poi,
dietro la porta per sempre chiusa,
sarà la notte intera,
la frescura,
il silenzio.
E poi,
con le labbra serrate,
con gli occhi aperti
sull’arcano cielo dell’ombra,
sarà
– tu lo sai –
la pace.
Antonia Pozzi, considerata oggi una delle voci più belle e intense del novecento italiano, riposa a Pasturo (Valsassina) nel paese dove ancora si respira il respiro della sua anima e dove le hanno dedicato dei cartelli con le sue poesie.
Fonte- Sitting on the dock of the bay²
ANTONIA POZZI-Copia del manoscritto PREGHIERA ALLA POESIA
ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)-Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … …
È strana, a volte, la vita. Se osserviamo dall’esterno, alcune persone sembrano insolitamente privilegiate e la loro esistenza fluisce serena, senza ostacoli, come un fiume che scorre inarrestabile. Eppure, talvolta, quel moto lento e inesorabile si interrompe bruscamente, magari per una casualità o per un intervento volontario, e noi restiamo attoniti e smarriti ad interrogarci sul perché. Cosa può aver spinto, a soli 26 anni, Antonia Pozzi a compiere il suo tragico gesto in una gelida giornata decembrina di tanti anni fa, quando sull’Europa si addensavano minacciose le nubi di guerra? Forse non sapremo mai se le ragioni del suo suicidio sono da ricercarsi in un oscuro “male di vivere”, oppure in un sentimento di disperazione fatale. Possiamo asserire con certezza però che il panorama letterario italiano ne risultò impoverito perché, come ebbe a commentare Dino Formaggio, un famoso filosofo legato da profonda amicizia con la donna: “la poesia di Antonia Pozzi rimane, più che mai oggi, una delle voci liriche più sofferte e più pure, più luminosamente illimpidite, della poesia lirica italiana di questo secolo“. Una voce isolata e solitaria, quella della Pozzi, a lungo poco nota, fino alla “riscoperta” da parte di Montale, che ne decretò la fama definitiva. Milanese, nata nel 1912 da una facoltosa famiglia alto-borghese (il padre era un noto avvocato, la madre, una nobildonna nipote di Tommaso Grossi, scrittore amico di Carlo Porta e del Manzoni), Antonia Pozzi studia al liceo classico “Manzoni”, nella sua città, e intreccia ben presto una relazione con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, relazione fortemente avversata dai genitori, terminata nel 1933, con il trasferimento dell’insegnante a Roma. L’ambiente altolocato di appartenenza offre alla giovane molteplici stimoli culturali: la frequentazione di un circolo sociale esclusivo, un palco riservato alla Scala e – chance non comune all’epoca – la possibilità di viaggiare. Antonia suona il pianoforte, dipinge, si dedica alla fotografia, pratica il nuoto, il tennis, lo sci, l’equitazione. E’ una bionda bellezza esile e raffinata, con i bei capelli ondulati tagliati corti, stile Anni Trenta. Il mondo sembra spalancarsi dinanzi a lei, caleidoscopio rutilante di opportunità ed emozioni. Quando si iscrive alla facoltà di filologia dell’Università statale di Milano, nel 1930, sembra aprirsi per lei un nuovo capitolo, il più felice, della sua breve esistenza. Frequenta molti dei nomi più importanti del firmamento intellettuale milanese di quegli anni, da Vittorio Sereni ad Enzo Paci, da Luciano Anceschi a Remo Cantoni, ma nessuno avrà maggiore influenza su di lei del docente di estetica Antonio Banfi, con cui si laureerà nel 1935. Viaggia in Italia, Austria, Germania e Inghilterra, ma visita anche le periferie della sua città, un mondo per il quale prova compassione, sentendosi quasi in colpa per i suoi natali privilegiati. Non a caso preferisce all’elegante mondanità milanese la solitudine della vita immersa nella natura incontaminata di Pasturo, presso Lecco, dove si erge la settecentesca villa di famiglia. Antonia fa lunghe escursioni a piedi o in bicicletta, ama la selvaggia bellezza di quei paesaggi ricchi di picchi innevati, di torrenti e di crepacci. Trae fonte di ispirazione dalla natura, è il silenzio delle alture che la induce alla meditazione sulla finitezza umana. Scatta fotografie ai luoghi ed agli abitanti, colti nelle loro umili mansioni quotidiane. Solo in alcuni e brevi momenti la giovane riesce a sentirsi in pace con se stessa. Poi la Storia, con la sua urgenza, irrompe anche nel ritiro dorato di Antonia: è il 1938 e le leggi razziali fasciste colpiscono alcuni dei suoi amici più cari. La giovane scrive, amara, al Sereni: <<l’età delle parole è finita per sempre>>. Il male di vivere, di cui soffre da tempo, si acuisce. “Morte” è una parola dolorosamente ricorrente nei suoi versi. Pericolosamente ricorrente. E la morte, infine, si materializza e se la porta via il 3 dicembre 1938, quando Antonia decide di avvelenarsi con dei barbiturici nei prati antistanti l’abbazia cistercense di Chiaravalle. Il suo biglietto di addio ai genitori parla di un’invincibile “disperazione mortale”, ma la sua famiglia nega a lungo la circostanza del suicidio, per evitare lo scandalo. Le sue prime opere vengono pubblicate postume, dalla Mondadori, un anno dopo la sua morte, dopo essere state revisionate dal padre, che modifica soprattutto quelle dai contenuti amorosi. Ma, a dispetto delle manipolazioni subite, la produzione lirica della Pozzi affascina tuttora generazioni di lettori per la modernità e per la scarna essenzialità dei suoi versi soffusi di tristezza, debitori del crepuscolarismo e dell’espressionismo tedesco.
Dopo un lungo periodo di oblio, persino il cinema si è interessato ad Antonia e la sua vita è stata ricostruita nel cine-documentario della regista Marina Spada in “Poesia che mi guardi”, presentato fuori concorso alla 66ª Mostra del Cinema di Venezia, nel 2009. In occasione del centenario della sua nascita, i registi Sabrina Bonaiti e Marco Ongania hanno, poi, realizzato un film-documentario dal titolo “Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa” e nel 2016 è stato proiettato, al Cinema Mexico di Milano , un film sulla sua vita intitolato “Antonia” di Ferdinando Cito Filomarino. Oggi ella riposa nel cimitero di Pasturo, e la sua tomba è vegliata dal monumento funebre dello scultore Giannino Castiglioni, un “Cristo Giovane” che ha lo sguardo rivolto alla Grigna, alle amate montagne testimoni silenti e imperturbabili della “breve sosta” di Antonia nella nostra dimensione terrena.
Articolo di Giovanna Potenza , è una dottoressa di ricerca specializzata in Bioetica. Ha due lauree con lode, è autrice della monografia “Bioetica di inizio vita in Gran Bretagna” (Edizioni Accademiche Italiane, 2018) e ha vinto numerosi premi di narrativa. È uno spirito curioso del mondo che ama viaggiare e scrivere e che legge avidamente libri che riguardino il Rinascimento, l’Età Vittoriana, l’Arte e l’Antiquariato. Ha una casa ricca di oggetti antichi e di collezioni insolite, tra cui quella di fums up e di bambole d’epoca “Armand Marseille”.
Antonio Gramsci- Antologia a cura di Antonio A Santucci-
-Editori Riuniti- Roma
Antonio Gramsci. Antologia –La questione delle antologie gramsciane non è né recente, né di facile soluzione. È sempre stato ritenuto necessario «antologizzare Gramsci», ma è anche vero che «antologizzare Gramsci» è sempre stato un problema.
Si tratta infatti di un lascito letterario vasto, alla morte dell’autore rimasto inedito o non pubblicato in volume: articoli di giornale o di rivista, relazioni o documenti politici, gli appunti carcerari raccolti nei celebri «quaderni», lettere scritte in libertà o in prigionia, nulla di tutto ciò è stato approntato da Gramsci per la pubblicazione in volume.
Iniziare a leggere Gramsci dunque non è facile. Come scegliere fra le centinaia di scritti, dal 1913 al 1937, saggi, annotazioni, squarci di costume, documenti politici, cronache teatrali, elzeviri di terza pagina, lettere, tutti raccolti in parecchi volumi, molti dei quali non più reperibili in libreria? Per questo oggi, mentre permane la necessità – per chi voglia davvero studiare e approfondire Gramsci – di non assumerlo «in pillole», di rifarsi cioè all’intero corpus dei suoi scritti, contestualizzandoli con l’aiuto di libri di critica gramsciana e di libri di storia del movimento comunista e del marxismo, permane anche il problema di mettere a punto strumenti antologici che, cercando di non tradire la complessità di pensiero del comunista sardo, aiutino la sua «divulgazione», cioè vengano incontro al lettore meno esperto e lo incoraggino a muovere i primi passi nell’universo di questo grande autore, letto e studiato in tutto il mondo.
Antonio Gramsci- Antologia
Le antologie gramsciane sono state fin qui soprattutto di due specie: tematiche (sulla questione cattolica o meridionale, sul fascismo, sul Risorgimento, su Croce, e così via); e complessive, a volte anche con un taglio interpretativo determinato, oppure circoscritte al vasto territorio dei Quaderni, ma comunque tese a presentare il pensiero gramsciano complessivamente inteso. Le prime sono le più obsolete, perché isolano un aspetto, un tema appunto, di un pensiero in cui davvero «tutto si tiene», organizzato cioè intorno a un nucleo di domande fortemente legate le une alle altre: queste raccolterischiano così di restituire l’immagine del Gramsci «specialista» di tanti specialismi (storico, critico letterario, fi losofo, ecc.), che fu uno dei grandi limiti della prima edizione tematica dei Quaderni del carcere curata tra il 1948 e il 1951 da Felice Platone e Palmiro Togliatti.
L’antologia curata da Antonio A. Santucci per gli Editori Riuniti nel 1997 con il titolo Le opere, che oggi opportunamente torna disponibile per i tipi della Editori Riuniti University Press, di fatto è stata per molti anni l’unica antologia «generalista» effettivamente in libreria, costituendo dunque un supporto particolarmente utile per la didattica universitaria e per chiunque volesse avere un primo approccio non minimalista (cioè mediante antologie di pochissime pagine) al pensiero di Gramsci.
(dalla prefazione di Guido Liguori)
INDICE
Prefazione p. 9
Avvertenze 13
LE OPERE
I
Neutralità attiva e operante 17
La luce che si è spenta 22
Pietà per la scienza del Prof. Loria 25
Socialismo e cultura 27
Tre principii, tre ordini 31
Indifferenti 38
Margini 41
La morale e il costume 46
Liolà di Pirandello 50
Note sulla Rivoluzione Russa 53
I massimalisti russi 57
L’orologiaio 60
La rivoluzione contro il «capitale» 63
Il nostro Marx 67
Utopia 71
II
La taglia della storia 79
Democrazia operaia 84
La conquista dello stato 88
Ai commissari di reparto delle officine Fiat centro e brevetti 94
Socialisti e anarchici 98
Per un rinnovamento del partito socialista 102
La forza della rivoluzione 110
Il Consiglio di fabbrica 113
Sindacati e consigli 118
Il programma dell’ordine nuovo 123
Il partito comunista 132
Franche parole ad un borghese 143
III
Bergsoniano! 147
Il Congresso di Livorno 149
I comunisti e le elezioni 153
Socialisti e fascisti 156
Sovversivismo reazionario 158
I due fascismi 161
Una lettera a Trockij sul futurismo italiano 164
Capo 167
Contro il pessimismo 172
Problemi di oggi e di domani 177
Necessità di una preparazione ideologica di massa 185
Lettera al comitato centrale del partito comunista sovietico 192
Lettera a Palmiro Togliatti 203
IV
Alcuni temi della quistione meridionale 209
V
Quaderni del carcere 235
Primo quaderno 235
Terzo quaderno 245
Quarto quaderno 261
Quinto quaderno 263
Sesto quaderno 265
Settimo quaderno 282
Ottavo quaderno 289
Nono quaderno 297
Decimo quaderno 304
Undicesimo quaderno 337
Dodicesimo quaderno 377
Tredicesimo quaderno 389
Quattordicesimo quaderno 423
Quindicesimo quaderno 429
Sedicesimo quaderno 437
Diciassettesimo quaderno 441
Diciannovesimo quaderno 442
Ventunesimo quaderno 445
Ventiduesimo quaderno 451
Ventisettesimo quaderno 469
Ventottesimo quaderno 472
Indice dei nomi 481
Antonio Gramsci. Antologia
Autore: Antonio Gramsci
ISBN13: 9788864730738
€23.75€25.00
Editori Riuniti, Via di Fioranello n.56, 00134, Roma (RM)-
Contatti
Email: info@editoririuniti.it
Tel. casa editrice: 06 79340534
Tel. disponibilità titoli e stato ordini: 011 0341897
LaBohème è un’opera in quattro quadri di Giacomo Puccini, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, ispirato al romanzo di Henri MurgerScene della vita di Bohème. Il libretto ebbe una gestazione abbastanza laboriosa, per la difficoltà di adattare le situazioni e i personaggi del testo originario ai rigidi schemi e all’intelaiatura di un’opera musicale. Per completare il lavoro Puccini impiegò tre anni di lavoro passati fra Milano, Torre del Lago e la Villa del Castellaccio vicino Uzzano, messa a disposizione dal conte Orsi Bertolini.[1] Qui completò il secondo e terzo atto, come da lui annotato con una scritta rimasta sui muri della villa.[2] L’orchestrazione della partitura procedette invece speditamente e fu completata una sera di fine novembre del 1895.[3]
«Più invecchio, più mi convinco che La bohème sia un capolavoro e che adoro Puccini, il quale mi sembra sempre più bello.»
Meno di due mesi dopo, il 1º febbraio 1896, La bohème fu rappresentata per la prima volta al Teatro Regio di Torino, con Evan Gorga, Cesira Ferrani, Antonio Pini Corsi, Camilla Pasini e Michele Mazzara, diretta dal ventinovenne maestro Arturo Toscanini, con buon successo di pubblico, mentre la critica ufficiale, dimostratasi all’inizio piuttosto ostile, dovette presto allinearsi ai generali consensi.[4] La versione finale invece venne messa in opera per la prima volta al Grande di Brescia, riscuotendo tanti applausi da far tremare le pareti di scena.[senza fonte][5][6][7] L’opera ha la stessa fonte e lo stesso titolo dell’omonimo spettacolo di Ruggero Leoncavallo, con cui al tempo Puccini ingaggiò una sfida.[8]
Trama
L’esistenza spensierata di un gruppo di giovani artisti bohémien costituisce lo sfondo dei diversi episodi in cui si snoda la vicenda dell’opera, ambientata nella Parigi del 1830.
Quadro I
Adolf Hohenstein, bozzetto del costume di una rappezzatrice per la prima rappresentazione de La bohème (quadro II)
In soffitta
La vigilia di Natale, il pittore Marcello sta dipingendo un paesaggio del Mar Rosso, e il poeta Rodolfo sta tentando di accendere il fuoco con la carta di un dramma scritto da lui (ma nel camino manca la legna). Giunge il filosofo Colline, che si unisce agli amici e si lamenta poiché la vigilia di Natale nessuno concede prestiti su pegno. Infine, il musicista Schaunard entra trionfante con un cesto pieno di cibo e la notizia di aver finalmente guadagnato qualche soldo. I festeggiamenti sono interrotti dall’inaspettata visita di Benoît, il padrone di casa venuto a reclamare l’affitto, che però viene liquidato con uno stratagemma. È quasi sera e i quattro bohémiens decidono di andare al caffè Momus. Rodolfo si attarda un po’ in casa, promettendo di raggiungerli appena finito l’articolo di fondo per il giornale “Il Castoro”.
Rimasto solo, Rodolfo sente bussare alla porta. Una voce femminile chiede di poter entrare. È Mimì, giovane vicina di casa: le si è spento il lume e cerca una candela per poterlo riaccendere. Una volta riacceso il lume, la ragazza si sente male: è il primo sintomo della tubercolosi. Quando si rialza per andarsene, si accorge di aver perso la chiave della stanza: inginocchiati sul pavimento, al buio (entrambi i lumi si sono spenti), i due iniziano a cercarla. Rodolfo la trova per primo ma la nasconde in una tasca, desideroso di passare ancora un po’ di tempo con Mimì e di conoscerla meglio. Quando la sua mano incontra quella di Mimì (“Che gelida manina”), il poeta chiede alla fanciulla di parlargli di lei. Mimì gli confida d’essere una ricamatrice di fiori e di vivere sola (“Sì, mi chiamano Mimì”).
L’idillio dei due giovani, ormai ad un passo dal dichiararsi reciproco amore, viene interrotto dagli amici che, dalla scala, reclamano Rodolfo. Il poeta vorrebbe restare in casa con la giovane, ma Mimì propone di accompagnarlo e i due, che dal “voi” formale del dialogo precedente, sono passati al “tu” degli innamorati, inneggiando all’amore (“O soave fanciulla”, anche conosciuta come “Amor, amor”) lasciano insieme la soffitta mentre si baciano.
Quadro II
Adolf Hohenstein, bozzetto della prima rappresentazione de La bohème (quadro II)
Al caffè
Il caffè Momus. Rodolfo e Mimì raggiungono gli altri bohèmiens. Il poeta presenta la nuova arrivata agli amici e le regala una cuffietta rosa. Al caffè si presenta anche Musetta, una vecchia fiamma di Marcello, che lei ha lasciato per tentare nuove avventure, accompagnata dal vecchio e ricco Alcindoro. Riconosciuto Marcello, Musetta fa di tutto per attirare la sua attenzione, esibendosi (“Quando men vo“), facendo scenate ed infine cogliendo al volo un pretesto, il dolore al piede per una scarpetta troppo stretta, per scoprirsi la caviglia e far andare via Alcindoro a comprare un nuovo paio di scarpe. Marcello non può resisterle e i due amanti si riconciliano. Subito dopo si scopre che i quattro amici non possono pagare il conto. Musetta allora fa sommare al cameriere il conto di Alcindoro e dei bohèmiens e li mette in conto ad Alcindoro stesso. Quindi fuggono. Poco dopo Alcindoro, tornato con le scarpe per Musetta, scopre la fuga di quest’ultima e visto il doppio conto da pagare si accascia su una sedia.
Quadro III
Adolf Hohenstein, tavola di attrezzeria per la prima rappresentazione de La bohème (quadro II)
La Barriera d’Enfer
Febbraio. Mentre la neve cade dappertutto, i doganieri lasciano passare le lattaie venute a portare latte e formaggi alla sordida osteria dove Marcello lavora come ritrattista; tra di esse giunge anche Mimì, venuta in cerca dell’amico per confidargli le sue pene. La vita in comune con Rodolfo le si è rivelata ben presto impossibile: le scene di gelosia sono ormai continue, come pure i litigi e le incomprensioni; lui la accusa ingiustamente di leggerezza e di infedeltà. Marcello le rivela che anche il suo rapporto con Musetta è in crisi, poiché la donna non riesce ad abbandonare la sua vita lasciva e lo tradisce ripetutamente con uomini facoltosi. In quella giunge Rodolfo, che ha passato la notte all’osteria: Mimì si nasconde e origlia mentre Marcello lo spinge a parlare di lei. Sulle prime lo scrittore conferma ciò che lei ha raccontato; tuttavia poi, incalzato dall’amico, gli rivela che le sue accuse sono un pretesto: ha capito che Mimì è gravemente malata e che la vita nella soffitta potrebbe pregiudicarne ancor più la salute. Mimì ascolta, non vista, queste confessioni, ma la sua tosse la fa scoprire: lei e Rodolfo hanno quindi uno struggente confronto nel corso del quale dapprima si accusano a vicenda, ma poi iniziano a ricordare tutti i bei momenti passati insieme. Nel frattempo giunge Musetta, la quale ha appena amoreggiato con un uomo: ciò causa le ire di Marcello, che rompe la loro relazione e la scaccia. Anche Mimì e Rodolfo decidono di separarsi, ma trovano che lasciarsi in inverno sarebbe come morire, così decidono di aspettare fino alla bella stagione, la primavera.
Quadro IV
In soffitta
Ormai separati da Musetta e Mimì, Marcello e Rodolfo si confidano le pene d’amore. Quando Colline e Schaunard li raggiungono, le battute e i giochi dei quattro bohémiens servono solo a mascherare la loro disillusione. All’improvviso sopraggiunge Musetta, che ha incontrato Mimì sofferente sulle scale, ormai prossima alla fine, in quella soffitta che vide il suo primo incontro con Rodolfo. Musetta manda Marcello a vendere i suoi orecchini per comperare medicine, ed esce lei stessa per cercare un manicotto che scaldi le mani gelide di Mimì. Anche Colline decide di vendere il suo vecchio cappotto (“Vecchia zimarra, senti”), al quale è molto affezionato, per contribuire alle spese. Qui, ricordando con infinita tenerezza i giorni del loro amore, Mimì si spegne dolcemente circondata dal calore degli amici (che le donano il manicotto e le offrono un cordiale) e dell’amato Rodolfo. Mimì è apparentemente assopita, inizialmente nessuno si avvede della sua morte. Il primo ad accorgersene è Schaunard, che lo confida a Marcello. Nell’osservare gli sguardi e i movimenti degli amici, Rodolfo si rende conto che è finita e, ripetendo straziato il nome dell’amata, l’abbraccia piangendo.
Descrizione del libro di Susanna Pozzoli -Venetian Way-Marsilio Editori-Un patrimonio di immagini del saper fare veneziano e veneto, uno straordinario omaggio alla città lagunare e alle sue maggiori realtà produttive in terraferma, raccolto in un volume perché non vada perduto e viva oltre i tempi e i modi del momento espositivo. Susanna Pozzoli è qui autrice a tutto tondo, avendo lavorato sia come fotografa sia come autrice dei testi: racconti brevi delle sue esperienze, professionali e umane, vissute nel tempo trascorso nelle ventuno botteghe e imprese artigiane di eccellenza, protagoniste speciali di questo lavoro autoriale. Aprono la pubblicazione una nota di Michelangelo Foundation e la prefazione di Franco Cologni. Un testo introduttivo di Toto Bergamo Rossi, direttore di Venetian Heritage Foundation, mette in risalto il valore storico e di patrimonio vivente che queste realtà incarnano per Venezia e il Veneto. La storica dell’arte Barbara Stehle è stata invitata a presentare l’aspetto artistico del progetto Venetian Way, esposto a Homo Faber 2018.
Susanna Pozzoli
Autore SUSANNA POZZOLI, fotografa italiana residente a Parigi, ha curato progetti espositivi di ampio respiro principalmente dedicati al savoir faire artigianale. La sua ricerca personale associa alla fotografia testi e video da lei realizzati. Nel 2018 crea Venetian Way, ampio lavoro esposto alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia per Homo Faber. Nel 2019 è finalista del Premio Fondazione VAF ed espone al Museo MART di Rovereto la serie Casa Costanza. Incontro con Meret Oppenheim.
Conosco Susanna Pozzoli ormai da una decina di anni e trovo difficile collocare il suo lavoro in una tipologia fotografica. Credo che sia importante sottolineare che spesso i suoi lavori raccontano delle storie, in cui ci viene proposto di entrare. Ci interessa riuscire a ravvisare una “metodologia” operativa comune alle diverse storie. È importante qui sottolineare che Pozzoli racconta delle storie ma il suo lavoro nulla ha a che fare con il fotoreportage. Abbiamo, quindi, chiesto a Susanna se c’è un modus operandi comune, che la guida.
Susanna Pozzoli – La dimensione narrativa nel mio lavoro è molto presente ed è un fil rouge che seguo nel processo di lavoro. Molti dei progetti che ho sviluppato sono a cavallo tra la ricerca e la creazione: il racconto di un luogo reale che ho fotografato in un momento specifico, un’evocazione molto libera del suo passato grazie alle tracce che rimangono. Credo che le mie fotografie siano un po’ come uno schizzo che mostra giusto qualche elemento scelto. Non mi pongo mai come unico obiettivo quello di documentare o informare. Non sono né una giornalista, né un’artista che lavora in modo puramente astratto con la fotografia. Allo stesso tempo, mi rendo conto che l’estetica, la composizione, la buona esecuzione sono importanti per me. Sono esigente in questo senso e curo l’esecuzione e la stampa, che realizzo dal 2009 con lo stesso stampatore, Roberto Berné. Questo stare tra le discipline, non semplice per definirsi e a volte complicato anche per chi osserva il lavoro, è per me naturale, innato. Si è definito molto presto, continua a svilupparsi, cambia, ma resta una costante. Non sono alla ricerca della “bella immagine”, né di quella che cruda e diretta cerca una sorta di neutralità. La relazione tra le singole fotografie, il loro ordine, la presenza o meno di testi, di suoni o di oggetti in un’installazione sono fondamentali.
Quando l’idea di un progetto arriva, è sempre chiara e allo stesso tempo complessa e strutturata in più momenti: inizio con una fase di studio e documentazione; segue un periodo di riprese fotografiche, interviste o video, scrittura e si conclude con una lunga fase di selezione, rielaborazione, montaggio e creazione di un volume e/o di una mostra. I progetti sono sempre lunghi, a volte richiedono anni per vedere la luce e ovviamente, creando, incontrando la realtà, tutto prende una forma diversa da quella prevista nei miei progetti teorici elaborati e scritti. Ho sempre più lavori in corso e il ritmo è variabile. Sono lenta, molto, ho bisogno di far riposare le esperienze. Il materiale che alla fine mostro è una piccola parte del lavoro prodotto e scegliere cosa non mostrare per arrivare all’essenza di un racconto è molto importante e non istintivo. In questa fase mi avvalgo dell’occhio fresco e fidato di alcune persone che negli anni sono diventati i miei consiglieri. Ci sono progetti che per mancanza di fondi o per altre ragioni rimangono nel cassetto, sono stati pensati, studiati, fotografati, ma poi restano lì, in attesa del momento propizio o di quell’urgenza personale che li rende prioritari. Inutile dire che non sono legata al concetto di “attualità”.
Lavoro pensando a serie di immagini, quasi sempre correlate da altri elementi. Direi che ogni insieme è un racconto per frammenti.
I soggetti scelti, possono essere legati alla mia storia personale, o interessarmi per la loro unicità. Di solito un’idea diventa insistente e comincio a sondare, a leggere, oppure torno a fotografare lo stesso luogo, a prendere appunti, diventa un pensiero fisso, un asse di ricerca.
Un aspetto che mi interessa è la dimensione corale di ogni esperienza personale, allo stesso tempo unica, irripetibile e condivisibile, spesso simile a quella di altri, spesso legata a molte altre storie coeve. Davanti a un racconto in immagini, spero di risvegliare le emozioni personali di chi osserva. Il legame tra le esperienze umane affettive, la relazione tra persone e luoghi, gli oggetti amati o gli strumenti di lavoro/passione sono le trame del mio lavoro. Raramente includo ritratti nei miei progetti personali, anche se nella mia ricerca la presenza umana è tangibile, oserei dire, sempre presente.
A volte vorrei slegarmi da questo “metodo”. Ho cassetti di fotografie che mi sembrano certo riuscite e “belle”, ma che nell’epoca in cui vivo, dove l’accessibilità al mezzo fotografico è così diffusa, non hanno, per me, molto senso. Non fotografo tutto quello che incontro, non ho sempre la macchina con me (quella è stata una fase di apprendimento), ma quando sono dentro un progetto è un’immersione completa e la notte mi sveglio pensando a cosa devo fotografare.
Dagli anni della mia formazione ho sentito la necessità di delimitare i miei soggetti, di identificare una storia o un luogo da raccontare dandomi però la libertà di farlo con uno sguardo autoriale, libero, che inviti lo spettatore a intuire quello che non si vede. Lettrice appassionata, amo le descrizioni precise, ma asciutte in cui la fantasia del lettore deve cucire tra le parole una propria visione. Questo è quello che cerco di fare con il mio lavoro che negli anni ha abbracciato la scrittura, il video e in alcuni casi è diventato una presentazione multimediale. Nel futuro vorrei diventasse più aperto al caso, alla sperimentazione. Da un po’ faccio esperimenti in questo senso.
Angela Madesani – Vogliamo parlare del tuo recente lavoro, in fieri, Simonne la cui protagonista è una vecchia casa “addormentata” nel centro della città di Doudeville, Seine-Maritime, in Normandia, la capitale del lino. Un edificio che non è più abitato dal 2014 e che dal 1720 è di proprietà della stessa famiglia, i Guérin.
S.P. – I villaggi semi abbandonati nel cuore della Francia sono molti e mi sono sempre piaciutitantissimo. Alcuni dietro a un’apparante povertà mostrano segni di antiche attività, di una presenza importante di persone e beni, di passaggio e dinamismo… Ci sono case abbandonate perché senza eredi, altre per litigi e altre sono semplicemente sospese, in attesa di decidere quello che sarà di loro.
La casa che è diventata la protagonista di questo progetto è proprio nel centro di un paese, poco abitato e fuori dai percorsi turistici in Normandia. Le imposte chiuse, la lunga bottega al primo piano e una bellissima facciata a nord (“pignon nord”) in stile tradizionale, hanno attirato la mia attenzione. Con Delphine Garcia, pittrice che vive nel territorio e lavora spesso a Doudeville, abbiamo notato che in alcuni giorni, la luce del pian terreno era accesa e l’imposta semiaperta… La casa non era quindi abbandonata! Abbiamo deciso di cercare un contatto per entrare in questo edificio e abbiamo infine incontrato il proprietario, nipote dell’ultima residente Simonne Guérin che nel corso della sua vita ha abbandonato i piani superiori, per vivere al pian terreno. La casa è stratificata per epoche. In alto la soffitta, poi i due piani dove hanno vissuto sino agli anni Ottanta e poi il pian terreno dove tutto è più caotico e moderno. Il proprietario ci ha accolte e ha raccontato la storia di questa casa dove è nato e cresciuto e a cui è molto affezionato. Ci ha parlato della sua famiglia, i Guérin, di sua madre e della zia Simonne, che non si è mai spostata, e ha tenuto il negozio aperto sino a quando ha potuto, molto anziana. Era una famiglia conosciuta per la vendita e la confezione di lino. Mi ha edotta sull’evoluzione storica di questa “città” che è stata un centro economico internazionale importante. Qui, proprio in questa piazza oggi sempre deserta, trasformata in un parcheggio senza charme, si affaccendavano i compratori di lino. Un mondo lontano, difficile da immaginare. Il declino di Doudeville è legato alla delocalizzazione della filiale del lino, un grande cambiamento avvenuto durante la prima ondata di mondializzazione. Eppure questo mercato e la sua attività sono documentati da moltissime fotografie e stereo-fotografie di fine Ottocento e inizio Novecento.
Nell’arco di un anno, con Delphine sono ritornata più volte a fotografare. Nella casa “addormentata” tra le ragnatele, troviamo abiti e cappelli per i giorni di festa, ma anche utensili e strumenti da lavoro, bottoni, materie prime e ricordi che si sono andati a perdere tra cose accumulate senza valore, polvere e confusione. Il progetto è stato realizzato in fotografia medio formato a colori ed è un “gioco”: alcuni oggetti sono stati messi in scena, altri sono stati fotografati proprio lì dove li ho trovati. L’idea alla base di questa serie è quella di una visita della casa sotto la guida della defunta Simonne che, secondo me, vive ancora qui sospesa e che ci ha accolte con benevolenza. I giorni spesi a Doudeville, con il cielo grigio in piena estate, la luce bianca e fioca tra i fantasmi del passato, sono stati una fantastica caccia al tesoro.
A.M. – Ancora una volta la storia di una casa, di una famiglia. Forse in tutto questo c’è un legame con la tua vicenda personale, alla quale hai dedicato il libro Passato Prossimo?
S.P. – Passato Prossimo è stato per me estremamente importante. Iniziato insieme alla mia passione per la fotografia, in modo informale e poi negli anni pensato e ripensato, ripreso e abbandonato. Il soggetto è certo legato alla mia famiglia, ma anche alla storia in senso più ampio. Partendo da un salumificio, costruito nel 1954 a Chiavenna, in provincia di Sondrio e quindi dismesso negli anni Ottanta, ho deciso di tracciare il racconto di una storia familiare concentrandomi sulla relazione tra attività di piccola impresa tramandata e nucleo familiare. In filigrana emerge l’attaccamento al territorio che questa eredità ha creato per più generazioni e che si è perso con la mia. La mia famiglia, come molte altre in Italia, ha sviluppato un’attività che è stata tramandata di generazione in generazione. Dal 1872 il salumificio Pozzoli ha seguito le tracce della storia, ritmata dalle guerre, dalle crisi, da povertà e ripresa, dalle divisioni familiari e dalla fratellanza e dal mutuo sostegno. Tutto ciò in un territorio che ha avuto un’importanza storica e internazionale, trovandosi al centro della Mitteleuropa sul confine tra Italia e Svizzera proprio al centro delle Alpi. Con l’apertura del passo del Brennero ha perso centralità, ricchezza, passaggio e forza produttiva. I racconti sono stati raccolti all’interno di interviste audio fatte ai membri della mia famiglia, ai nonni, a persone cha hanno lavorato, al Tiglio, la fabbrica realizzata con piastrelle rosa e essiccatoi in legno, con tutte le guide per l’aria da aprire e chiudere a mano, per i prosciutti crudi e le bresaole. Un luogo che da bambina trovavo magico, con il suo grande giardino dismesso, spazi vuoti, scale… Mio nonno paterno mi portava a giocare proprio lì. Erano momenti di fertile immaginazione nutriti dal suo racconto: “qui c’erano le vasche dove a mano facevano i salami, si mettevano in fila gli operai e…”. Negli anni successivi è mio padre che mi ha accompagnata e ha raccontato tra nostalgia e stupore quel tempo passato. Al Tiglio, le tracce del passaggio di chi ha lavorato, gli utensili dismessi, ganci, pese, ma anche gli elementi dell’ufficio, lampadari, cartoni vuoti, sono stati tra i primi soggetti che ho fotografato. È un mestiere che si lascia indovinare tra la polvere e il silenzio assoluto di questo luogo, con la natura che poco a poco ha conquistato e piegato l’edificio. La possibilità di stare sola con la mia macchina fotografica mi ha regalato momenti di creatività e introspezione.
Ho ripreso in mano questo progetto quando vivevo a New York, nel 2008, ero già stata per molti anni a Parigi e tornavo regolarmente al Tiglio per fotografare, ma è nel contesto di Harlem, lontano dal tessuto familiare che mi sono detta che andava finito. Il lavoro è stato presentato nella sua forma finale nel 2010 con una mostra e una pubblicazione sostenuta dalla Fondazione Credito Valtellinese a Sondrio. In mostra una serie di cassettoni, raccontavano, grazie a montaggi audio, aneddoti e ricordi di lavoro e di vita condivisa. In otto tappe è la storia di una piccola attività e di una famiglia che possiamo vedere. Una selezione di fotografie d’epoca forma dei collages, che fanno da sottofondo alle fotografie in medio formato della fabbrica. Le voci animano una mostra dove le fotografie di questo luogo dismesso comunicano la forza del silenzio e della natura che ora dominano.
Dopo un importante sviluppo negli anni, la cessione dell’attività a un grande gruppo diventato socio, ha creato una cesura anche familiare. Senza un progetto di lavoro perché restare in un paese? Questa è un po’ la conclusione, senza giudizio di questo lavoro. Un’apertura, una perdita, un segno dei tempi?
Il lavoro era tanto, la fatica e l’impegno presenti ogni giorno perché un salumificio non può mai chiudere e ai tempi era il sapere tramandato che permetteva di reagire ai cambiamenti atmosferici per far sì che il prodotto maturasse e fosse pronto per la vendita. Per generazioni le famiglie sono rimaste legate a tradizioni, obblighi e responsabilità a volte pesanti e certamente complesse, ma forti. Il coinvolgimento iniziava da bambini, tutta la famiglia era coinvolta. “Casa” era prima di tutto nella mia famiglia il lavoro vissuto come impegno, tramandato con passione e fonte costante di interesse e attività. La mostra includeva Girotondo, un video composto di Super 8 d’epoca e di una camminata di mio padre dentro il Tiglio dismesso. Un’immersine nel ricorso sulle musiche originali di Ctrl-alt-suppr, un gruppo musicale underground parigino.
A.M. – Ci puoi raccontare la tua storia, gli anni della formazione?
S.P. – Ho iniziato a sognare di viaggiare e fotografare quando ero ragazzina. Dal mio paesino tutto attorniato di montagne questa prospettiva mi sembrava fantastica. Mi affascinavano le macchine fotografiche e cercavo di usare quelle di mio padre di nascosto. Da allora, mi è restata l’idea che ci sia qualcosa di magico nell’atto di fotografare: decidere di inquadrare un luogo, una persona, un oggetto in un certo modo, scegliendo quali dettagli far emergere, cosa includere e cosa escludere in un momento preciso, forse unico, per poi poterlo ritrovare fissato per l’eternità. Ho studiato Lingue e Letterature straniere a Bergamo e ho seguito un corso serale per l’apprendimento di base della tecnica fotografica a colori e in bianco e nero e l’uso del flash. Ho lavorato come fotografa per i matrimoni. Allora, la fotografia era solo analogica e l’apprendimento non era rapido. Oggi mi dico che è stata una bella scuola. Poi ho avuto la bellissima opportunità di frequentare l’Atelier Reflèxe, una scuola indipendente di insegnamento fotografico a Montreuil, appena fuori Parigi, dove ho frequentato fotografi importanti. Ero a Parigi con il progetto Erasmus ma ho deciso di conseguire una doppia laurea. Studiavo storia dell’arte alla Sorbonne, dove ho finito il mio percorso con un master in Multimédia. A Milano sono stata assistente di Ramak Fazel, eccezionale fotografo che allora lavorava molto su commissione per il mondo del design e ho lavorato in diversi archivi, catalogando fotografie. Tutto questo mi ha insegnato a affinare lo sguardo e a sviluppare delle capacità tecniche. Direi che in qualche modo la mia formazione si è conclusa con l’esperienza alla galleria Carla Sozzani di Milano, dove per circa due anni ho partecipato alla creazione di mostre, occupandomi di molti aspetti e apprendendo sul campo come si crea un progetto espositivo, come si struttura la comunicazione, come si lavora in équipe e tutti gli aspetti pratici necessari. Nel 2007 ho lasciato Milano e questo lavoro, con un po’ di follia, mi sono trasferita a New York e ho ricominciato da capo, mettendo la mia creatività al centro, concentrandomi su progetti fotografici e video.
A.M. – Tra i tuoi lavori che prediligo, che trovo più densi di contenuto, è quello che hai dedicato a Meret Oppenheim e alla sua casa di Carona in Svizzera, intitolato appunto Un’estate con Meret Oppenheim. Un’artista, tu, che entra nel luogo dell’anima di una delle più grandi artiste del XX secolo, Meret. È un lavoro in cui sei riuscita a trasmettere perfettamente l’atmosfera di quel luogo, o forse quella che io suppongo essere l’atmosfera di quel luogo: non ci sono mai stata.
S.P. – Barbara Stehle che ha scritto un bellissimo testo per la pubblicazione nella collana della Fondazione VAF Stiftung-Manfredi dal titolo Un’estate con Meret Oppenheim nel 2021, punto finale della mia ricerca, ha definito questo progetto come un omaggio a Meret Oppenheim: mi piace. Forse effettivamente, ho cercato nel lungo processo di creazione di questo volume ispirazione, una guida personale verso la libertà e la forza di autodeterminazione e autonomia che Meret ha incarnato nelle sue scelte di vita e nel suo essere artista. In un certo senso studiandola, parlando di lei con chi bene l’ha conosciuta ho potuto incontrarla e apprezzarne tante sfumature. Lisa Wenger, nipote di Meret è stata il mio principale supporto, con il suo aiuto abbiamo ritrovato le tracce di Casa Costanza nella corrispondenza di M.O. e in numerosi ricordi. Suo fratello Michael e la loro madre Birgit Wenger, cognata di Meret Oppenheim, che ho potuto intervistare, a quasi cento anni, proprio a Carona, si sono prestati al gioco con generosità e apertura. L’architetto Aurelio Galfetti che ha lavorato, quando era molto giovane, fresco di studi con Meret Oppenheim al restauro di Casa Costanza ha condiviso i suoi ricordi. Jacqueline Burckhardt e Bice Curiger amiche intime e collaboratrici negli ultimi anni di vita dell’artista ne hanno fatto un ritratto pieno di vita. Questa vitalità, il gusto leggero ma non lezioso, ironico ma molto attento e profondo di Meret Oppenheim aleggiano in tutta Casa Costanza, un luogo unico, firmato M.O. Si tratta quindi di una casa – opera d’arte totale, Gesamtkunstwerk, che è stata per l’artista un luogo molto importante, rimasto dall’infanzia sino agli ultimi mesi della sua vita, il centro affettivo, l’heimat.
Il progetto è nato dalla mia lettura delle biografie su Meret Oppenheim. Intorno al 2014 il lavoro di Oppenheim e la sua storia, le sue poesie mi hanno catturata, ispirata e incoraggiata a approfondire la sua conoscenza. In Afferrare la vita per la coda di Martina Corgnati un intero capitolo è dedicato a Carona e alla storia unica di Casa Costanza, che ha accolto Meret bambina in un ambiente stimolate, aperto all’arte e alla cultura, per poi essere da lei trasformato e restare per le generazioni future. L’edificio, acquistato nel 1917 dai Wenger, ha una curiosa facciata settecentesca e la casa, su più piani con un giardino interno, si è trasformata nel tempo da casa contadina a palazzetto con passaggi, scale, un ballatoio e un grande soggiorno signorile al primo piano. Nel 1967-68 Meret Oppenheim ha potuto realizzare un suo grande sogno: restaurare e reinventare Casa Costanza trasformandola e modificandola, scegliendo quali pezzi e opere tenere, cosa buttare, cosa valorizzare. Ha eseguito degli interventi pittorici, ha realizzato pezzi di design e scelto il luogo giusto per ogni oggetto. Senza entrare nel dettaglio, direi che Meret ha reso questa casa un insieme particolare, unico e riconoscibile. Per chi ama il suo lavoro ogni angolo parla di lei e della famiglia in cui è nata. Ci sono testimonianze delle sue amicizie, artisti che hanno lasciato a lei o creato proprio qui in vacanza piccoli pezzi dai suoi disegni o ready made, il tutto unito a ricordi della sua infanzia, bellissimi giochi vintage e libri illustrati dell’amata nonna di Meret, Lisa Wenger (omonima della nipote), illustratrice e scrittrice di libri per ragazzi, una donna brillante tra le prime a studiare all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf che ha stimolato e nutrito la creatività della nipote.
Nel mio lavoro le voci delle persone che ho intervistato per raccontare questa storia si intrecciano e le fotografie a colori, realizzate con pellicola medio formato 6×6, non mostrano tanto la casa, la sua architettura quanto le tracce dell’artista surrealista. Il mio desiderio era quello di evocare la sua presenza, di far emergere il suo stile, le sue scelte originali (ancora più se si pensa al periodo storico). Casa Costanza è un luogo privato e vissuto e non un museo. La famiglia rispetta il volere di Meret Oppenheim e le sue richieste: nulla è stato spostato dal 1968, tutto resta in un insieme molto originale e pensato in ogni minimo dettaglio. C’è qualcosa di magico e sospeso, un bel silenzio e tantissima cura.
A.M. – Nel corso degli anni hai fatto anche molti lavori su committenza. Come ti poni in questi due diversi frangenti operativi? Ci sono degli atteggiamenti comuni?
S.P. – Il lavoro su commissione è una parte importante della mia attività e negli anni si è sempre più avvicinato al mio lavoro personale per temi e interessi, anche se restano numerose differenze in termini di metodo, scopo e risultati. Non ho mai preso questo aspetto alla leggera. Sono felice di essere stata scelta per ritrarre o raccontare un determinato luogo, una bottega artigiana, o per fare una documentazione di una realtà. Che sia un ritratto d’attore per un porfolio o un progetto lungo e ambizioso è sempre un’avventura. Va detto che ci sono molte restrizioni da considerare e a volte il committente ha una visione che non sposa totalmente la mia, ma ho sempre messo impegno e passione nel mio lavoro. Da diversi anni ho realizzato il lavoro su commissione quasi esclusivamente in digitale per motivi di costi e tempistiche, nonostante io ami l’analogico.
Ho avuto delle bellissime opportunità che mi hanno permesso di viaggiare e conoscere l’Italia e la Francia, dove vivo da diversi anni, e di fare tantissimi incontri. Cerco nei miei lavori su commissione di proporre una visione, di mettere un po’ del mio modo di guardare il mondo anche nelle fotografie che possono sembrare meno “importanti”. Negli anni, questo mestiere è cambiato moltissimo. Ci vorrebbe troppo tempo per raccontarne l’evoluzione, ma certamente quello che è stato sino all’avvento del digitale e prima della diffusione dei social networks è lontanissimo da ciò che oggi i fotografi fanno come lavoro. Il mondo è cambiato in modo evidente, la fruizione dell’immagine è rivoluzionata, e il mestiere di fotografo è stato stravolto.
Negli anni quello che ha caratterizzato il mio lavoro su commissione è la specializzazione nei mestieri dell’arte, iniziata nel 2010. Fotografo artigiani al lavoro, botteghe, manufatti in produzione per fondazioni quali la Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte di Milano, la Michelangelo Foundation di Ginevra, ho lavorato per l’INAM, Istituto Nazionale dei Mestieri d’Arte di Francia, ma ho anche fotografato direttamente per maison tra cui Cartier e per artigiani in tutta Europa. Nel 2018 ho realizzato una mostra, dal titolo Venetian Way, che ha avuto luogo presso la Fondazione Giorgio Cini a Venezia, per la biennale, dedicata all’eccellenza artigiana Homo Faber. Per questo grande progetto espositivo sostenuto da Michelangelo Foundation ho lavorato sul mondo dell’artigianato del Veneto. 21 mestieri scelti, ma fotografati con libertà autoriale piena. Ho scattato in pellicola medio formato e il progetto ha richiesto quasi due anni. Nel 2021, con una diversa selezione e un testo, un racconto che ho scritto per ogni artigiano o realtà, è nato l’omonimo volume pubblicato da Marsilio che racconta le storie dei protagonisti del nobile lavoro dell’artigiano.
Gestire l’agenda tra lavoro personale e commissione non è semplice. Lavorare su commissione resta una bellissima chance che mi ha dato la possibilità di essere autonoma economicamente e di restare legata al mondo del lavoro attivamente. Ho avuto la possibilità di scoprire universi che non avrei mai scoperto seguendo solo i miei interessi Le difficoltà sono, però, molteplici: a volte vorrei proporre un lavoro più originale o avere più comprensione e libertà, molto spesso è la rapidità richiesta e limiti economici a creare forti barriere.
A.M. – Tracce a Montespluga è un progetto iniziato nel 2022 per raccontare un luogo, dovetuo nonno aveva una casa, in un momento storico di cambiamento ambientale, che comporta un profondo mutamento del rapporto tra uomo e territorio. Un altro ambito del nostro contemporaneo di grande interesse.
S.P. – Ti sto scrivendo da quello che per quest’estate sarà il mio studio. Sono a 1908 metri d’altezza sul livello del mare, in Valchiavenna a due passi dal confine con la Svizzera, sulla via dello Spluga. Lo spazio in cui lavoro è un container trasparente che si affaccia sul lago artificiale di Montespluga e le macchine con targhe internazionali rallentano davanti a mia questa grande vetrata, un po’ incuriosite.
Mi trovo in un luogo molto particolare, dove la bellezza naturalistica si confronta da tempi remoti con un forte impatto dell’uomo, il suo controllo e lo sfruttamento delle risorse idriche, geologiche, di pascolo. Il paesaggio è disegnato dal serpente di strada, dalla diga con le sue imponenti sponde. La natura è forte, quasi lunare, tratteggiata dall’erosione del vento e della neve. Per molti anni Montespluga in inverno era ricoperta di neve, c’erano ghiacciai di nevi perenni a pochi chilometri, ghiacciai che oggi si sono sciolti.
Questo luogo è legato a ricordi d’infanzia e per me ha una magia unica. Il clima è mutevole, c’è una fortissima presenza degli elementi: acqua, vento, sole… Tutto è contrastato qui.
Negli ultimi anni i cambiamenti climatici in atto sono sempre più evidenti. La flora, perennemente in evoluzione, si è modificata sensibilmente con la presenza di nuove specie pioniere e una diffusione di larici in altezze che una volta sarebbero state impossibili. Per tutto il 2022 la siccità impressionante ha dato forma a un territorio secco, con colori insoliti per Montespluga: l’erba gialla, le rocce sempre più esposte, zolle secche nella piana del lago… Invece questa estate piogge e freddo insoliti, temporali violenti ritmano le giornate. I pascoli sono verdissimi ma zuppi e a volte insidiosi per il pascolo.
L’idea di questo lavoro è quella di fotografare Montespluga tra il 2022 e 2023 e di raccogliere le impressioni di chi la conosce, abita e vive. La prospettiva scelta è quella della percezione personale più che scientifica, il racconto legato alla flora. È un viaggio sensibile, non una documentazione, anche se per questo lavoro posso contare sull’appoggio di studiosi del clima che mi stanno permettendo di capire esattamente cosa significano le curve sulle precipitazioni, come cambia il terreno, la sua struttura. La collaborazione più importante è quella con Saul Caligari, giardiniere e studioso, grande conoscitore del territorio, che partecipa attivamente al progetto sin dal suo inizio. Alterniamo momenti dedicati alle riprese fotografiche, passeggiate esplorative, interviste e momenti di lavoro a distanza. Inoltre ho il sostegno di Barbara Bonnefoy, professore in psicologia ambientale all’Università di Parigi-Nanterre (Francia), che si occupa in particolare delle reazioni psicologiche che si attivano nei singoli individui e nelle comunità nei confronti dell’ambiente e dei suoi cambiamenti.
Nei mesi di luglio e agosto 2023 lavoriamo a Montespluga. Ho creato degli atelier aperti al pubblico tutti i sabati, raccolgo materiale vintage (vecchie foto, cartoline, pubblicità). Fotografo, intervisto i “caricatori” che hanno portato le mucche in alpe per i mesi estivi e i pochi residenti e i turisti di passaggio. Tutti e tre, Caligari, Bonnefoy e io, insieme dibattiamo di quello che giorno per giorno scopriamo o verifichiamo in termini di flora, rapporti sociali e paesaggio-clima.
L’idea è quella di dare voce a chi questo luogo lo conosce per staccarsi dalla nostalgia e cercare di attivare uno sguardo attento sul presente, prima di tutto sulla flora e sulle condizioni climatiche effettive.
Come sarà Montespluga tra 50 anni? Questa è l’ultima grande domanda che pongo a tutti e che aiuta a osservare il presente per immaginare il futuro.
Una volta terminata la fase di raccolta di tutti materiali, il progetto tornerà completamente nelle mie mani per fare una selezione, rielaborazione e creazione dei contenuti che saranno raccolti in una mostra e spero in una pubblicazione composta di frammenti, in qualche sorta un racconto allo stesso tempo corale e autoriale.
Poesie di Tomás Segovia – Poeta spagnolo, naturalizzato messicano-
QUELLO CHE HO
Mi stanco sempre di contare
prima di finire l’inventario
di tutto quello che ho
Tante albe e crepuscoli
e notti silenziose
Tanti alberi in tutto il mondo
quasi tutti con uccelli
Tante delizie per il tatto e la vista
e l’udito finchè mi arriva
per l’olfatto ed il gusto raffinato
e tante ore per stare allegro
e altre per sognare assopito
e tanti giorni con le sue notti
come il fedele rinnovarsi dell’onda
Ho tutto questo oltre
la donna che mi possiede.
Lo que tengo
Siempre me canso de contar
Antes de completar el inventario
De todo lo que tengo
Tantos amaneceres y crepúsculos
Y altas noches calladas
Tantos árboles por todo el mundo
Casi todos con pájaros
Tantas delicias para el tacto y para el ojo
Y el oído hasta donde todavía me llega
Para el olfato y el taimado gusto
Y tantas horas para estar despierto
Y otras para soñar dormido
Y tantos días con sus noches
Como el fiel renovarse de las olas
Todo eso tengo y además
La mujer que me tiene.
da Estuario
Edizioni Pre-textos 2011
Collezione La croce del sud
RESPIRI NELLA NOTTE
*
Qui contro la mia pelle il soffio
del tuo respiro nel sonno
e dall’altra parte fuori
Il sussurro del vento che vaga nella notte
che trae dallo sfondo l’effusione solitaria
del silenzioso tumulto delle cose
E tra un respiro e l’altro
con le ali aperte che cadono nel tempo
l’estensione dell’abbraccio
di un me stesso felice dell’assenza musicale
che beve un profondo fiume d’amore e di mistero
le cui due mani sono
due respiri diversi.
QUELLO CHE HO
Mi stanco sempre di contare
prima di finire l’inventario
di tutto quello che ho
Tante albe e crepuscoli
e notti silenziose
Tanti alberi in tutto il mondo
quasi tutti con uccelli
Tante delizie per il tatto e la vista
e l’udito finchè mi arriva
per l’olfatto ed il gusto raffinato
e tante ore per stare allegro
e altre per sognare assopito
e tanti giorni con le sue notti
come il fedele rinnovarsi dell’onda
Ho tutto questo oltre
la donna che mi possiede.
Lo que tengo
Siempre me canso de contar
Antes de completar el inventario
De todo lo que tengo
Tantos amaneceres y crepúsculos
Y altas noches calladas
Tantos árboles por todo el mundo
Casi todos con pájaros
Tantas delicias para el tacto y para el ojo
Y el oído hasta donde todavía me llega
Para el olfato y el taimado gusto
Y tantas horas para estar despierto
Y otras para soñar dormido
Y tantos días con sus noches
Como el fiel renovarse de las olas
Todo eso tengo y además
La mujer que me tiene.
da Estuario
Edizioni Pre-textos 2011
Collezione La croce del sud
Tomás Segovia
Dimmi donna
Dimmi donna dove nascondi il tuo mistero
donna acqua pesante volume trasparente
più segreta quanto più ti spogli
quale è la forza del tuo splendore inerme
la tua abbagliante armatura di bellezza
dimmi non posso più con tante armi
donna seduta sdraiata abbandonata
insegnami il riposo il sonno e l’oblio
insegnami la lentezza del tempo
donna tu che convivi con la tua carne ignominiosa
come accanto ad un animale buono e calmo
donna nuda di fronte all’uomo armato
togli dalla mia testa questo casco d’ira
calmami guariscimi stendimi sulla fresca terra
toglimi questi vestiti di febbre che mi asfissiano
sommergimi indeboliscimi avvelena il mio pigro sangue
donna roccia della tribù sbandata
discingimi queste maglie e cinture di rigidezza e paura
con cui mi atterrisco e ti atterrisco e ci separo
donna oscura e umida pantano edenico
voglio la tua larga fragrante robusta sapienza,
voglio tornare alla terra e ai suoi succhi nutritivi
che corrono sul tuo ventre e i tuoi seni e irrigano la tua carne
voglio recuperare il peso e la completezza
voglio che tu m’inumidisca, m’ammolli, m’effemini
per capire la femminilità, la morbidezza umida del mondo
voglio appoggiata la fronte nel tuo grembo materno tradire
il ferreo esercito degli uomini
donna complice unica terribile sorella
dammi la mano torniamo ad inventare il mondo noi due soli
voglio non distaccare mai gli occhi da te
donna statua fatta di frutta colomba cresciuta
lasciami sempre vedere la tua misteriosa presenza
il tuo sguardo di ala e seta e lago nero
il tuo corpo tenebroso e raggiante plasmato di slancio senza incertezze
il tuo corpo infinitamente più tuo che per me quello mio e che
dai di slancio senza incertezze senza tenerti niente il tuo
corpo pieno e uno illuminato tutto di generosità donna mendicante
prodiga porto del pazzo Ulisse non permettere che io
dimentichi mai la tua voce di uccello memorioso
la parola calamitata che nel tuo intimo pronunci sempre nuda
la parola sempre giusta di folgorante ignoranza
la selvaggia purezza del tuo amore insensato
delirante senza freno abbrutito invidiato
il gemito nettissimo della tenerezza
lo sguardo pensieroso della prostituzione
la cruda chiara verità dell’amore che assorbe e divora e
si alimenta l’invisibile zampata della divinazione
l’accettazione la comprensione la sapienza senza strade
la spugnosa maternità terreno di radici
donna casa del doloroso vagabondo
dammi da mordere la frutta della vita
la stabile frutta di luce del tuo corpo abitato
lasciami reclinare la mia fronte funesta
sul tuo grave grembo di paradiso boscoso
spogliami acquietami guariscimi di questa colpa acre
di non essere sempre armato ma soltanto io stesso.
Versione originale: Dime mujer
Dime mujer dónde escondes tu misterio
mujer agua pesada volumen transparente
más secreta cuando más te desnudas
cuál es la fuerza de tu esplendor inerme
tu deslumbrante armadura de belleza
dime no puedo ya con tantas armas
mujer sentada acostada abandonada
enséñame el reposo el sueño y el olvido
enséñame la lentitud del tiempo
mujer tú que convives con tu ominosa carne
como junto a un animal bueno y tranquilo
mujer desnuda frente al hombre armado
quita de mi cabeza este casco de ira
cálmame cúrame tiéndeme sobre la fresca tierra
quítame este ropaje de fiebre que me asfixia
húndeme debilítame envenena mi perezosa sangre
mujer roca de la tribu desbandada
descíñeme estas mallas y cinturones de rigidez y miedo
con que me aterro y te aterro y nos separa
mujer oscura y húmeda pantano edénico
quiero tu ancha olorosa robusta sabiduría
quiero volver a la tierra y sus zumos nutricios
que corren por tu vientre y tus pechos y que riegan tu carne
quiero recuperar el peso y la rotundidad
quiero que me humedezcas me ablandes me afemines
para entender la feminidad la blandura húmeda del mundo
quiero apoyada la cabeza en tu regazo materno
traicionar al acerado ejército de los hombres
mujer cómplice única terrible hermana
dame la mano volvamos a inventar el mundo los dos solos
quiero no apartar nunca de ti los ojos
mujer estatua hecha de frutas paloma crecida
déjame siempre ver tu misteriosa presencia
tu mirada de ala y de seda y de lago negro
tu cuerpo tenebroso y radiante plasmado de una vez sin titubeos
tu cuerpo infinitamente más tuyo que para mí el mío
y que entregas de una vez sin titubeos sin guardar nada
tu cuerpo pleno y uno todo iluminado de generosidad
mujer mendiga pródiga puerto del loco Ulises
no me dejes olvidar nunca tu voz de ave memoriosa
tu palabra imantada que en tu interior pronuncias siempre desnuda
tu palabra certera de fulgurante ignorancia
la salvaje pureza de tu amor insensato
desvariado sin freno brutalizado enviciado
el gemido limpísimo de la ternura
la pensativa mirada de la prostitución
y la clara verdad cruda
del amor que sorbe y devora y se alimenta
el invisible zarpazo de la adivinación
la aceptación la comprensión la sabiduría sin caminos
la esponjosa maternidad terreno de raíces
mujer casa del doloroso vagabundo
dame a morder la fruta de la vida
la firme fruta de luz de tu cuerpo habitado
déjame recostar mi frente aciaga
en tu grave regazo de paraíso boscoso
desnúdame apacíguame cúrame de esta culpa ácida
de no ser siempre armado sino sólo yo mismo.
Tomás Segovia
Biografia di Tomàs Segovia (1927-2011)- Nació en Valencia, España, el 21 de mayo de 1927; murió en la Ciudad de México, el 7 de noviembre de 2011. Poeta, ensayista y narrador. Radicó en México desde 1940. Estudió Filosofía y Letras en la Facultad de Filosofía y Letras de la unam, y Lengua Francesa en el Institut Français d’Amérique Latine (México). Certificat d’Aptitude à l’Enseignement de la Langue Française (La Sorbona). Fue editor de la Dirección General de Publicaciones de la unam; secretario de la colección de clásicos universales; organizador y director de La Casa del Lago; profesor de El Colegio de México, donde creó el Centro de Enseñanza e Investigación de la Traducción; director de la Revista Mexicana de Literatura; jefe de redacción de Plural. Traductor de Giuseppe Ungaretti, André Breton, Alain Borer, Cesare Pavese, Victor Hugo, L. Febre, Roman Jacobson, Paul Vignaux, Mircea Eliade, Rainer María Rilke, Jacques Lacan, Frances Yates, William Shakespeare, Gérard de Nerval y muchos otros. Colaborador de Plural, Revista Mexicana de Literatura, Revista de la Universidad de México y Vuelta. Becario de El Colegio de México, 1953; del cme, 1954 y 1955; y de la Fundación Guggenheim, 1968 y 1976. Miembro del snca desde 1994. Premio Xavier Villaurrutia, 1973 por Terceto. Premio Magda Donato 1974 por Trizadero. Premio Alfonso x de Traducción Literaria, 1982, por Atalía, de Jean Racine. Premio Alfonso x de Traducción Literaria, 1984 por Poesías completas de Gérard de Nerval. Premio Juan Rulfo 2005 por su trayectoria. Premio de Poesía Federico García Lorca 2008 por su aportación a la literatura.
Obra de consulta: Catálogo biobibliográfico de la literatura en México
Tomás Segovia
Tomás Segovia
QUELLO CHE HO – TOMAS SEGOVIA
Di questa poesia non esiste una traduzione. Non ci sono suoi libri in italiano, o almeno io non ne ho trovati, come pure non si trova la sua biografia, se non nei siti stranieri. Ho quindi provveduto da sola e come mi succede di solito, ho trovato altre sue poesie altrettanto ed anche più notevoli.
In questa il tema è emblematico per un esule, uno della sua generazione, che si deve allontanare da amici e da parenti, costretto a spostarsi di paese in paese o da una nazione ad un’altra.
Non ci si può attaccare agli oggetti, perchè spesso dev’essere abbandonato tutto quello che non entra dentro una valigia: naturale il pensiero di censire quello che, invece si possiede, sia pure l’aria che si respira.
Poesia semplice e lineare, per la quale ho voluto mantenere il rapporto di quelle parole anaforicamente costanti, a costo di far sembrare puerile la mia traduzione, ma diversamente mi sarebbe sembrato di tradire l’autore.
A questo punto, mi piacerebbe avere qualche riscontro al mio lavoro.
Sono stata contenta di scoprire che Tomas era un blogger convinto. Tomas Segovia, scrittore e poeta, nasce a Valencia il 21 maggio 1927, come era solito dire “mia madre era in città per caso e ho deciso di unirsi a lei”. Dopo la vittoria di Franco nella guerra civile, la sua famiglia, di fede repubblicana, fu costretta all’esilio. Dapprima a Parigi e poi a Casablanca prima di stabilirsi nel 1940 in Messico, uno dei pochi paesi per fornire il supporto a titolo definitivo alla Repubblica, anche nella sconfitta.
Là, completò gli studi di Filosofia e letteratura spagnola alla Università Nacional Autonoma de Mexico e poi al Colegio de Mexico. Dopo gli studi insegnò non solo alla UNAM (Universidad Nacional Autónoma de Messico), ma anche presso l’Institut Français d’Amérique Latine’ e ‘Alliance Française’. Seguirono quattro anni di permanenza in Uruguay e successivamente torna in Francia. Nel 1966 torna in Messico, grazie alla sovvenzione del ‘Guggenheim Foundation’, restando presso il ‘Colegio de Messico’ come studioso di letteratura, salvo un periodo come professore ospite presso l’Università di Princeton. Si ritira dalla quella vita nel 1984, vivendo tra Madrid ed il sud della Francia, dove si dedica alla traduzione e ad impartire conferenze, corsi e seminari.
Col suo primo libro pubblicato nel 1945, entra a far parte della scena intellettuale di Città del Messico, fondando nel 1946 la rivista Presencia ancora adolescente. Ha poi diretto la rivista La Revista Mexicana de Literature (1958-1963), e successivamente ha collaborato con le due pubblicazioni letterarie messicane più importanti: Plurale e Vuelta – quest’ultima fondata da lui stesso con Octavio Paz.
Fu anche un membro del consiglio consultivo del dizionario della lingua spagnola in Messico.
Numerosi i riconoscimenti ottenuti: Premio Xavier Villaurrutia nel 1972, in due occasioni ha ricevuto la ‘Alfonso-X-Prize’ per le traduzioni letterarie, il premio Octavio Paz per la Poesia e il saggio, il Premio Juan Rulfo nel 2005, uno dei più importanti dell’America Latina
Muore a Città del Messico, il 7 Novembre 2011 per un cancro. Il senato del parlamento messicano osserva un minuto di silenzio in suo onore.
In Spagna, il direttore dell’Istituto Cervantes dirà: con la sua morte abbiamo perso uno dei grandi punti di riferimento di quella che è stata chiamata la generazione degli esuli.
QUELLO CHE HO
Mi stanco sempre di contare
prima di finire l’inventario
di tutto quello che ho
Tante albe e crepuscoli
e notti silenziose
Tanti alberi in tutto il mondo
quasi tutti con uccelli
Tante delizie per il tatto e la vista
e l’udito finchè mi arriva
per l’olfatto ed il gusto raffinato
e tante ore per stare allegro
e altre per sognare assopito
e tanti giorni con le sue notti
come il fedele rinnovarsi dell’onda
Ho tutto questo oltre
la donna che mi possiede.
Lo que tengo
Siempre me canso de contar
Antes de completar el inventario
De todo lo que tengo
Tantos amaneceres y crepúsculos
Y altas noches calladas
Tantos árboles por todo el mundo
Casi todos con pájaros
Tantas delicias para el tacto y para el ojo
Y el oído hasta donde todavía me llega
Para el olfato y el taimado gusto
Y tantas horas para estar despierto
Y otras para soñar dormido
Y tantos días con sus noches
Como el fiel renovarse de las olas
Todo eso tengo y además
La mujer que me tiene.
da Estuario
Edizioni Pre-textos 2011
Collezione La croce del sud
Tomás Segovia (Spanish pronunciation: [toˈmas seˈɣoβja]; 21 May 1927 – 7 November 2011)[1][2] was a Mexican author, translator and poet of Spanish origin. He was born in Valencia, Spain, and studied in France and Morocco.[3] He went into exile to Mexico, where he taught at the Colegio de México and other universities.[3] Segovia founded the publication Presencia (1946),[4] was director of La Revista Mexicana de Literatura (1958–1963),[5] formed part of the magazine Plural, and collaborated in Vuelta.[6] He was married to the writer Inés Arredondo from 1953 to 1965.[7]
At the time of his death he resided in Madrid, Spain.[8]
Works
His work as a poet is not separate from his literary criticism and works of translation. Notable books of poetry include La luz provisional (1950), El sol y su eco (1960), Anagnórisis (1967), Figura y secuencias (1979) and Cantata a solas (1985). Prose works include: Contracorrientes (1973), Poética y profética (1986) and Alegatorio.[3][9][10]
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