Elvira Notari, la pioniera del Cinema italiano e la sua visione autentica
Elvira Notari, la pioniera del Cinema italiano e la sua visione autentica. “Il cinema è la più grande arte del nostro secolo, ma come tutte le cose umane è soggetta ai capricci della fortuna e della creatività.”Federico Fellini
Elvira Notari, la pioniera del Cinema italiano
Elvira Notari è una delle figure più straordinarie e poco celebrate nella storia del cinema italiano. Direttrice, produttrice, sceneggiatrice e attrice, è stata la prima donna a realizzare film in un’Italia ancora dominata da una visione patriarcale e tradizionalista. Nata a Napoli nel 1886, Elvira Notari è diventata un’icona di una cinematografia che cercava di raccontare la realtà del popolo, la sua vita quotidiana, e le sue tradizioni, in un periodo in cui il cinema era visto principalmente come un prodotto di intrattenimento e non come uno strumento di narrazione profonda e culturale. Ha vissuto in un’epoca in cui il cinema italiano stava facendo i suoi primi passi. Il suo percorso nel mondo del cinema inizia negli anni ’10 del Novecento, quando nel 1913 decise di aprire la sua casa di produzione, la Cines Napoli. In un momento in cui la gran parte delle donne si limitava a ruoli passivi nell’industria cinematografica, Elvira si distinse per il suo spirito imprenditoriale e per la sua volontà di essere una protagonista assoluta.
Una pioniera che non solo recitava nei suoi film, ma li scriveva, li produceva e li dirigeva. Era una donna che non si accontentava di essere solo un volto davanti alla macchina da presa, ma desiderava costruire una sua visione cinematografica, affermandosi come figura creativa. I suoi film sono stati ispirati dalla sua città natale, Napoli, e dalla cultura popolare napoletana. Elvira Notari ha raccontato storie di vita quotidiana, di amore, di sacrificio, di passione, ma anche di lotta sociale e di critica ai costumi. La sua Napoli, rappresentata nei film, era una città vibrante e pulsante, dove i protagonisti erano spesso lavoratori, pescatori, contadini e figure della tradizione. Attraverso il suo cinema è riuscita a immortalare una Napoli che non si vedeva nelle pellicole più conosciute dell’epoca.
Il Cinema popolare e la nascita di un Linguaggio
Elvira Notari è soprattutto nota per aver contribuito alla nascita del cinema popolare. Nei suoi film, infatti, emerge un’attenzione particolare per le classi più umili, per le donne, per le dinamiche familiari e per le tradizioni del Sud Italia. La sua visione non era solo una rappresentazione dei costumi locali, ma anche una critica e una riflessione sulle difficoltà e le speranze di chi viveva ai margini della società. Il suo lavoro è stato un precursore del cosiddetto cinema neorealista che avrà il suo apice negli anni Quaranta, ma il suo stile era decisamente più intimo e focalizzato sulla semplicità e sull’autenticità della vita quotidiana. Nonostante i limiti tecnologici e le difficoltà economiche, Elvira Notari riuscì a girare film che catturavano le emozioni più autentiche, utilizzando spesso attori non professionisti, scelti tra la gente comune. I suoi film, infatti, rappresentano una fusione tra il documentario e la fiction, in cui l’aspetto visivo e realistico della vita napoletana era al centro della narrazione. La sua capacità di raccontare storie vere, autentiche, senza filtri, rendeva i suoi film assolutamente innovativi per l’epoca. La sua attenzione al linguaggio popolare e alla vita di strada risuonava con la gente comune, creando una connessione emotiva profonda con il pubblico.
I film di Elvira Notari: un ritorno alle radici del Cinema italiano
Tra i film più significativi di Elvira Notari spiccano “Cavalleria”(1915), un dramma intenso e passionale, che rappresenta una delle prime incursioni nella vita delle classi popolari e nel mondo rurale, e “Assunta Spina”(1915), una delle sue pellicole più celebri. “Assunta Spina” è tratto da una novella di Salvatore Di Giacomo, un autore napoletano di grande rilievo, e racconta la storia di una donna forte e coraggiosa che affronta le difficoltà della vita con dignità. Questo film segna un importante passo nella rappresentazione di figure femminili forti nel cinema italiano, un tema che Elvira Notari esplorerà spesso nel suo lavoro. Il film, pur nelle sue limitazioni tecniche, presenta una grande intensità emotiva e una riflessione sociale che si distingue per la sua forza.
Un altro film che merita attenzione è “L’ultima corsa” (1919),che presenta un mondo di miseria e di lotte quotidiane, ma allo stesso tempo una grande passione e speranza. Questo film, sebbene non tanto conosciuto, è significativo per il suo approccio realistico e la sua capacità di raccontare la vita del popolo con un’umanità straordinaria. Elvira Notari non si limitò a raccontare storie di passione e sacrificio, ma affrontò anche tematiche più complesse e sociali. In “Il ventre di Napoli” (1923), ad esempio, la regista esplora la vita dei quartieri più poveri della città, offrendo una rappresentazione crudele ma realistica delle disuguaglianze sociali. Anche in questo film emerge un forte legame con la tradizione napoletana e con la sua cultura popolare, ma c’è anche una critica sociale che denuncia le ingiustizie della società del tempo.
Il Cinema di Elvira Notari: una Rivoluzione femminile
Ciò che rende ancora più straordinaria la figura di Elvira Notari è il fatto che, oltre a essere una pioniera nel campo del cinema, ha avuto anche il coraggio di sfidare le convenzioni di genere. In un mondo cinematografico dominato dagli uomini, Elvira ha avuto la forza di affermarsi come regista, produttrice e sceneggiatrice, ruoli che, all’epoca, erano pressoché impossibili per una donna. La sua figura rappresenta un esempio di emancipazione femminile in un contesto dove il cinema era una prerogativa maschile. Non solo, ma Elvira Notari è stata anche una delle prime registe a dare spazio e voce alle donne nei suoi film, non più solo come semplici comparse o figure romantiche, ma come protagoniste reali con una propria individualità. La sua capacità di raccontare storie di donne forti, indipendenti, ma anche fragili e vulnerabili, le ha dato una visione unica e profonda del mondo femminile.
Il declino e l’oblio
Nonostante il grande successo iniziale e la popolarità che i suoi film riscossero, il cinema di Elvira Notari subì una crisi con l’arrivo del sonoro e la nascita di nuove tendenze artistiche. Nel 1930, la sua casa di produzione fallì e, di lì a poco, l’opera di Elvira Notari cadde nel dimenticatoio. Il suo nome fu lentamente oscurato dalla grande storia del cinema italiano che vedeva la nascita di registi come Fellini, De Sica e Rossellini. Tuttavia, i suoi film continuano a essere apprezzati oggi per il loro spirito autentico e per la loro capacità di raccontare una Napoli che è ormai leggenda.
Conclusioni
Elvira Notari è stata una donna straordinaria che ha segnato indelebilmente la storia del cinema italiano. Il suo contributo alla nascita di un cinema popolare e alla valorizzazione della cultura napoletana è inestimabile. Con il suo spirito innovativo e la sua determinazione, Elvira Notari ha dimostrato che il cinema può essere uno strumento potente di narrazione, capace di raccontare le storie delle persone comuni e di farle diventare universali. La sua figura merita oggi una riscoperta e una valorizzazione, affinché il suo nome non resti nell’ombra ma brilli di quella luce che, fin dalla sua nascita, ha saputo emanare.
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Biblioteca DEA SABINASylvia Plath- Lettera d’amore e altre Poesie.
Descrizione-Sylvia Plath, voce tra le più potenti e limpide della letteratura americana, dopo la tragica morte divenne rapidamente e a lungo rimase un simbolo delle rivendicazioni femministe. Educata ai rigidi valori della società statunitense, nella sua breve vita la Plath riuscì a coniugare potenza espressiva e realizzazione estrema di sé, evadendo dalle sbarre imposte dalla condizione di “moglie” e trovando proprio in questo tentativo di superamento la suprema forza creativa. Nei suoi versi il tono è assoluto, ogni parola, e ciò che essa rappresenta, non potrebbe essere altrimenti: «suono e senso» scrive Seamus Heaney nel brano che introduce il volume «si alzano come una marea dalla lingua per trascinare l’espressione individuale su una corrente più forte e profonda di quanto l’individuo potesse prevedere». In tutto il percorso lirico della Plath, e fino alle perfette composizioni di Ariel, istanze psicologiche, biografiche e poetiche si fondono con un tono di libertà e perentorietà unico, un senso di urgenza e spontaneità che emerge dalla disciplina di metro, metafore, rime con la potenza di un fiat, con l’euforia di una mente che crea e supera il dolore personale, per approdare a un sentimento stupefatto, meravigliato dell’esistere.
Breve Biografia
Sylvia Plath (Boston, 27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963) è stata una poetessa e scrittrice statunitense.Assieme ad Anne Sexton, la Plath è stata l’autrice che più ha contribuito allo sviluppo del genere della poesia confessionale,un genere di poesia sviluppatosi negli Stati Uniti negli anni Cinquanta e Sessanta in cui gli scrittori raccontano le proprie esperienze personali e i loro turbamenti interiori. Autrice anche di vari racconti e di un unico dramma teatrale a tre voci, per lunghi periodi della sua vita ha tenuto un diario, di cui sono state pubblicate le numerose parti sopravvissute. Parti del diario sono invece state distrutte dall’ex-marito, il poeta laureato inglese Ted Hughes, da cui ebbe due figli, Frieda Rebecca e Nicholas. Morì suicida all’età di trent’anni. Ecco di seguito una delle sue poesie più belle.
Sylvia Plath- Lettera d’amore e altre Poesie.
Lettera d’amore
Non è facile dire il cambiamento che operasti.
Se adesso sono viva, allora ero morta
anche se, come una pietra, non me ne curavo
e me ne stavo dov’ero per abitudine.
Tu non ti limitasti a spingermi un po’ col piede, no-
e lasciare che rivolgessi il mio piccolo occhio nudo
di nuovo verso il cielo, senza speranza, è ovvio,
di comprendere l’azzurro, o le stelle.
Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente
mascherato da sasso nero tra i sassi neri
nel bianco iato dell’inverno
come i miei vicini, senza trarre alcun piacere
dai milioni di guance perfettamente cesellate
che si posavano a ogni istante per sciogliere
la mia guancia di basalto. Si mutavano in lacrime,
angeli piangenti su nature spente,
Ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano.
Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio.
E io continuavo a dormire come un dito ripiegato.
La prima cosa che vidi fu l’aria, aria trasparente,
e le gocce prigioniere che si levavano in rugiada
limpide come spiriti. Tutt’intorno giacevano molte
pietre stolide e inespressive,
Io guardavo e non capivo.
Con un brillio di scaglie di mica, mi svolsi
per riversarmi fuori come un liquido
tra le zampe d’uccello e gli steli delle piante
Non m’ingannai. Ti riconobbi all’istante.
Albero e pietra scintillavano, senz’ombra.
La mia breve lunghezza diventò lucente come vetro.
Cominciai a germogliare come un rametto di marzo:
un braccio e una gamba, un braccio, una gamba.
Da pietra a nuvola, e così salii in lato.
Ora assomiglio a una specie di dio
e fluttuo per l’aria nella mia veste d’anima
pura come una lastra di ghiaccio. E’ un dono..
Io sono verticale
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
Succhiante minerali e amore materno
Così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
Né sono la beltà di un’aiuola
Ultradipinta che susciti gridi di meraviglia,
Senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
E la cima d’un fiore, non alta, ma più clamorosa:
Dall’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.
Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
Alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo, ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
Forse assomiglio a loro nel modo più perfetto –
Con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo e io siamo in aperto colloquio,
E sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
Finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.
(da “Lady Lazarus e altre poesie”, traduzione di Giovanni Giudici, con postfazione di Teresa Franco, 2023)
Limite (Febbraio 1963, scritta poco prima di morire)
La donna ora è perfetta
Il suo corpo
morto ha il sorriso della compiutezza,
l’illusione di una necessità greca
fluisce nei volumi della sua toga,
i suoi piedi
nudi sembrano dire:
Siamo arrivati fin qui, è finita.
I bambini morti si sono acciambellati,
ciascuno, bianco serpente,
presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
Lei li ha raccolti
di nuovo nel suo corpo come i petali
di una rosa si chiudono quando il giardino
s’irrigidisce e sanguinano i profumi
dalle dolci gole profonde del fiore notturno.
La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,
non ha motivo di essere triste.
E’ abituata a queste cose.
I suoi neri crepitano e tirano.
Sylvia Plath
Monologo delle 3 del mattino
È meglio che ogni fibra si spezzi
e vinca la furia,
e il sangue vivo inzuppi
divano, tappeto, pavimento
e l’almanacco decorato con serpenti
testimone che tu sei
a un milione di verdi contee da qui,
che sedere muti, con questi spasmi
sotto stelle pungenti,
maledicendo, l’occhio sbarrato
annerendo il momento
che gli addii vennero detti, e si lasciarono partire i treni,
ed io, gran magnanimo imbecille, così strappato
dal mio solo regno.
Sylvia Plath
Sylvia Plath e Ted Hughes, l’amore finito in tragedia
Quello tra Sylvia Plath e Ted Hughes non fu un rapporto felice, ma anzi tormentato e ambiguo, terminato definitivamente con il suicidio della poetessa
Sylvia Plath
Papaveri a luglio
Piccoli papaveri, piccole fiamme d’inferno,
Non fate male?
Guizzate qua e là. Non vi posso toccare.
Metto le mani tra le fiamme. Ma non bruciano.
E mi estenua il guardarvi così guizzanti,
Rosso grinzoso e vivo, come la pelle di una bocca.
Una bocca da poco insanguinata.
Piccole maledette gonne!
Ci sono fumi che non posso toccare.
Dove sono le vostre schifose capsule oppiate?
Ah se potessi sanguinare, o dormire! –
Potesse la mia bocca sposarsi a una ferità così!
O a me in questa capsula di vetro filtrasse il vostro liquore,
Stordente e riposante. Ma senza, senza colore.
Sylvia Plath
Ariel
Stasi nel buio. Poi
l’insostanziale azzurro
versarsi di vette e distanze.
Leonessa di Dio,
come in una ci evolviamo,
perno di calcagni e ginocchi! –
La ruga
s’incide e si cancella, sorella
al bruno arco
del collo che non posso serrare,
bacche
occhiodimoro oscuri
lanciano ami –
Boccate di un nero dolce sangue,
ombre.
Qualcos’altro
mi tira su nell’aria –
cosce, capelli;
dai miei calcagni si squama.
Bianca
godiva, mi spoglio –
morte mani, morte stringenze.
E adesso io
spumeggio al grano, scintillio di mari.
Il pianto del bambino
nel muro si liquefà.
E io
sono la freccia,
la rugiada che vola
suicida, in una con la spinta
dentro il rosso
occhio cratere del mattino.
Rita Levi-Montalcini, non si vergognava di mostrare al mondo le sue debolezze, tanto da chiamare la sua autobiografia “Elogio dell’imperfezione”.
Vedeva l’imperfezione come parte integrante della natura umana e come un elemento necessario per la crescita personale.
La sua esperienza di vita, che la vide costretta a fuggire dall’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale e ad affrontare difficoltà d’ogni sorta nella sua carriera, la portò a sviluppare una profonda consapevolezza dei propri limiti: la filosofia di vita di una persona molto umile e modesta.
Dietro questa modestia nascondeva una volontà d’acciaio, che l’ha portata ai risultati che conosciamo tutti.
Ha lasciato scritto:
«La mancanza di complessi, una notevole tenacia nel perseguire la strada che ritenevo giusta e la noncuranza per le difficoltà che avrei incontrato nella realizzazione dei miei progetti, lati del carattere che ritengo di aver ereditato da mio padre, mi hanno enormemente aiutato a far fronte agli anni difficili della vita.>>
Figlia di genitori, molto colti, di origini sefardite, si formò nella sua Torino, studiando medicina.
Ebbe come compagni universitari due futuri Nobel, Salvador Luria e Renato Dulbecco. tutti e tre alla scuola dell’istologo Giuseppe Levi, il padre di Natalia Ginzburg.
Sin da subito si dedicò agli studi sul sistema nervoso, studi che avrebbe proseguito per tutta la vita.
Laureatasi nel 1936 si specializzò in neurologia e psichiatria, fu incerta se dedicarsi alla professione medica o portare avanti le ricerche in neurologia.
In seguito alle leggi razziali del 1938 la Levi-Montalcini, fu costretta a emigrare.
Nel marzo del 1939, insieme alla famiglia, andò Belgio, per un po’, fu ospite dell’istituto di neurologia dell’Università di Bruxelles
Il giorno prima di Natale, sempre con la famiglia tornò in auto a Torino, dove, allestì un laboratorio domestico nella sua camera da letto.
Poco dopo la raggiunse Giuseppe Levi, scappato dal Belgio, invaso dai nazisti. Rita fu orgogliosa si avere il suo Professore come suo primo assistente. Il loro obiettivo era quello di comprendere il ruolo dei fattori genetici e di quelli ambientali nella differenziazione dei centri nervosi.
Ma, il pesante bombardamento di Torino da parte delle forze aeree angloamericane nel 1941, rese indispensabile abbandonare la città. Si rifugiò in una villa delle colline astigiane, dove ricostruì il suo mini laboratorio e riprese gli esperimenti.
Nel 1943 l’invasione dei tedeschi costrinse la famiglia ad abbandonare il loro rifugio ormai insicuro.
Iniziò un pericoloso viaggio che si concluse a Firenze dove sopravvissero rimanendo nascosti e separati, cambiando spesso abitazione.
Nell’agosto 1944 i tedeschi lasciarono Firenze e Rita prestò servizio come medico presso il Quartier Generale anglo-americano, occupandosi di malati di malattie infettive.
E’ qui che si accorse di un suo grande difetto come medico, quel lavoro non era adatto a lei. Non riusciva ad avere il necessario distacco personale dal dolore dei pazienti.
Terminata la guerra, nel 1945 tornò a Torino dove riprese gli studi accademici sempre grazie all’aiuto di Giuseppe Levi.
Nel 1946 il biologo Viktor Hamburger, i cui studi erano stati oggetto di verifica negli esperimenti condotti con Levi durante il periodo della guerra, la invitò a Saint Louis, presso il Dipartimento di zoologia della Washington University.
Innestando in embrioni di pollo frammenti di speciali tumori, poté osservare il prodursi di un “gomitolo” di fibre nervose.
Nel dicembre 1951 presso la New York Academy of Sciences, presentò l’ipotesi di un agente promotore della crescita nervosa. La sua tesi che cercava di spiegare la differenziazione dei neuroni e la crescita di quelle fibre nervose, ipotizzava l’esistenza di fattori di crescita capaci di controllare questa differenziazione.
La tesi venne approfondita con nuovi esperimenti, condotti nel 1952 con la coltura in vitro all’Università di Rio de Janeiro. Infine giunse la scoperta del fattore di crescita nervoso: una proteina che gioca un ruolo essenziale nella crescita, che fu chiamata Nerve Growth Factor (NGF).
Nel 1956 venne nominata professoressa associata e nel 1958 professoressa ordinaria di zoologia presso la Washington University di Saint Louis. Nonostante inizialmente volesse rimanere in quella città solo un anno, vi lavorò e vi insegnò fino al suo pensionamento, avvenuto nel 1977.
Nel 1986 ricevette il Nobel per la medicina insieme al biochimico Stanley Cohen. Nella motivazione del premio si legge: «La scoperta dell’NGF all’inizio degli anni cinquanta è un esempio affascinante di come un osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos. In precedenza i neurobiologi non avevano idea di quali processi intervenissero nella corretta innervazione degli organi e tessuti dell’organismo».
La scienziata ha devoluto una parte dell’ammontare del premio alla comunità ebraica, per la costruzione di una nuova sinagoga a Roma. Nel 1987 ricevette dal Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan la National Medal of Science, l’onorificenza più alta nel mondo scientifico statunitense.
Lavorò assiduamente anche in Italia: fondò un gruppo di ricerche e diresse il Centro di Ricerche di neurobiologia creato dal CNR a Roma. Si ritirò da questo incarico solo “per raggiunti limiti d’età”.
Nominata senatrice, è stata la più anziana della storia repubblicana italiana. In occasione del compimento dei cento anni ebbe modo di dichiarare:
“Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente”.
Rita Levi-Montalcini è morta il 30 dicembre 2012, alla veneranda età di 103 anni.
Le sue ceneri sono state tumulate nella tomba di famiglia nel settore ebraico del cimitero monumentale di Torino.
Andrea Appiani primo pittore di Napoleone in Italia: un maestro da riscoprire-Articolo di Andrea Ciavattone-
Paris-3 avril 2025 Una mostra da vedere dedicata al pittore lombardo Andrea Appiani (1754-1817), aperta dal 16 marzo al 28 luglio 2025, al Museo Nazionale dei Castelli di Malmaison e Bois-Préau, avenue du château de Malmaison, 92500 Rueil Malmaison.
Quante volte abbiamo ammirato le opere di Jacques-Louis David, maestro del neoclassicismo, che celebrano Napoleone Bonaparte come condottiero e imperatore di Francia. Passeggiando tra le sale del Museo del Louvre, possiamo osservare capolavori che esaltano la figura del celebre generale francese, il cui dominio ha ridisegnato la cultura, la politica e la società europea.
Fu proprio con la vittoria nella battaglia di Ponte Lodi, il 10 maggio 1796, che Bonaparte entrò trionfante a Milano, dove conobbe il pittore Andrea Appiani che fu sia affrescatore che pittore di cavalletto. Soprannominato “le peintre des grâces”, Appiani era apprezzato dai suoi contemporanei per i dipinti commemorativi e allegorici, e i ritratti.
Formatosi sotto la guida del maestro Antonio de Giorgi, Appiani si specializzò nella decorazione di teatri, chiese e palazzi, come nel caso della decorazione presso Palazzo Reale di Milano, il cui intervento fu purtroppo distrutto durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
Andrea Appiani, primo pittore di Napoleone
Nel 1805 Appiani fu nominato primo pittore del Regno d’Italia, dando inizio a una prolifica produzione di opere dedicate a Napoleone. Tra queste un meraviglioso ritratto, datato 1805, in cui sono presenti tutti gli elementi iconografici che esaltano la figura di Napoleone, non più come primo console o condottiero militare, ma come Re d’Italia, essendo stato incoronato a Milano il 26 maggio 1805.
Appiani Andrea – Ritratto maschile. Olio su tavola, 20,5 x 14 cm. Il pittore Andrea Appiani riesce a carpire in questo ritratto uno sguardo intenso ed espressivo di un personaggio vestito nobilmente e con tipica capigliatura dell’epoca. Lo sfondo in tono con l’abito
Leggendo questo passaggio si nota la grande abilità di Appiani nel dipingere Napoleone nella sua nuove veste politica e sociale :
“Napoléon, de trois-quarts vers la droite, porte le «petit habillement», semblable à celui porté au sacre à Notre-Dame, mais brodé sur velours vert au lieu du velours pourpre […]. Si le regard est ailleurs et la bouche un peu trop sévère, l’attention portée au traitement des mains est intéressante: la droite serrant le manteau pour lui donner ce pli qui équilibre la composition, la gauche posée ouverte sur la couronne de roi d’Italie livrée par le joaillier Marguerite”.
Andrea Appiani, primo pittore di Napoleone
Per valorizzare la sua abilità artistica, il Museo Nazionale dei Castelli di Malmaison e Bois-Préau ha organizzato la prima grande retrospettiva dedicata a lui. La mostra, intitolata Andrea Appiani (1754-1817). Primo pittore di Napoleone in Italia, è aperta dal 16 marzo al 28 luglio 2025 e ripercorre la sua evoluzione stilistica attraverso cinque sezioni espositive tematiche e cronologiche: dalla carriera prenapoleonica agli splendori di Napoleone, dai ritratti pubblici e privati, fino alle decorazioni ad affresco e alla sua eredità artistica.
L’obiettivo è riscoprire il ruolo che questo artista ha avuto per la cultura italiana e per i legami con la Francia, restituendogli il posto che merita tra i grandi maestri del neoclassicismo. Passeggiando all’interno della mostra, lo spettatore potrà riscoprire un artista dalla grande abilità tecnica, utilizzata per la celebrazione del potere sociale, politico e militare di Napoleone.
Sono Andrea Ciavattone, un neolaureato italiano in Storia e critica dell’arte di 24 anni che ha deciso di intraprendere una nuova avventura in Danimarca. Qui, immerso in una realtà vivace e stimolante, ho trovato un’accoglienza calda e un ambiente che mi ha spinto a esplorare nuove prospettive. Con una formazione accademica in ambito artistico, ho scelto di raccontare la mia cultura e le mie radici, concentrandomi in particolare sull’arte italiana del XX secolo. Il mio obiettivo è condividere con voi la bellezza e la ricchezza di un patrimonio artistico che continua a influenzare il panorama culturale globale. Nei miei articoli, cercherò di coinvolgervi in un viaggio attraverso le opere e i protagonisti che hanno segnato la storia dell’arte, stimolando la vostra curiosità e approfondimento.
Andrea Appiani un maestro da riscoprire-Biblioteca DEA SABINA
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Andrea Appiani
Andrea Appiani Nato a Milano il 31 maggio 1754 da Maria Liverta Jugali e Antonio medico, era destinato a seguire la carriera del padre. Ma verso i quindici anni, nel 1769-70, per manifesta vocazione venne messo alla scuola privata di Carlo Maria Giudici, pittore e scultore di vaglia, che, alla fine del suo insegnamento, lo affidò al famoso frescante Antonio De Giorgi all’Accademia ambrosiana. Frequentò poi lo studio di M. Knoller, approfondendo la tecnica ad olio e studiò anatomia all’Ospedale maggiore con Gaetano Monti, scultore e suo intimo per tutta la vita. Con la morte del padre affrontò un periodo di nera miseria e di attività spuria buona a toutfaire, dai fiori su seta alle decorazioni per carrozze, ai figurini per spettacoli. Pure, nata nel 1776 l’Accademia di Brera, seguì liberamente i corsi di G. Traballesi, col quale rimase in amicizia. In questo periodo strinse amicizia anche con G. Piermarini, con l’Aspari e, soprattutto, coi Parini (ci restano un ritratto a matita del poeta, eseguito dall’A., ora nel Museo Poldi Pezzoli, e un frammento di un’ode del Parini all’amico pittore: frammento 207 in Parini, Tutte le opere, I, Firenze 1925, p. 513), con Giocondo Albertolli; più tardi con Vincenzo Monti e col Foscolo.
La prima opera certa, l’affresco coi Santi Gervasio e Protasio per la chiesa di Caglio, fu iniziato nel settembre 1776 e finito nel gennaio del 1777. Lavori di bozzettista e scenografo alla Scala sotto la direzione del Galliari – ne rimane solo il ricordo – gli permisero di uscire lentamente dalle strette del bisogno e dall’oscurità. Del 1778-79 sono le quattro tempere con il Ratto di Europa per il conte Ercole Silva. Tra il ’78 e l’83 dipinse una Natività per la Collegiata di S. Maria ad Arona (1782) e affrescò nel palazzo Diotti, ora prefettura di Milano, e nella chiesa parrocchiale di Rancate, mentre la sua attività stagionale come scenografo lo portò a Firenze su invito di Domenico Chelli.
Il quinquennio tra l’86 e il ’90 comincia con il progetto architettonico dell’altar maggiore del duomo di Monza (costruito nel 1798) e prosegue con affreschi a Milano in palazzo Busca alle Grazie, in palazzo Litta Arese, in casa Orsini Falcò (via Borgonuovo 11) in collaborazione col Traballesi, in palazzo Greppi (via S. Antonio 12), intervallati da ritratti e quadri sacri tra i quali una Cena in Emmaus, finita solo nel ’96 per la congregazione degli osti (Milano, Galleria Civica di Arte Modema), per culminare con il fondamentale ciclo delle Storie di Psiche nella Rotonda della Villa reale di Monza (1789).
Appiani Andrea – Ritratto maschile. Olio su tavola, 20,5 x 14 cm. Il pittore Andrea Appiani riesce a carpire in questo ritratto uno sguardo intenso ed espressivo di un personaggio vestito nobilmente e con tipica capigliatura dell’epoca. Lo sfondo in tono con l’abito
Nel 1790 l’A. sposò Costanza Bernabei, già sua allieva. Il lustro successivo è sostanzialmente assorbito dalla grossa impresa degli affreschi in Santa Maria presso San Celso a Milano, che il pittore, ormai eminente su tutti, aveva fatto precedere, nel 1791, da un viaggio di nove mesi per studio a Parma, Bologna, Firenze e Roma.
Un periodo di riposo in casa Moriggia a Balsamo – ove dipinse affreschi, le cui parti superstiti sono oggi conservate nella villa Ghirlanda di Balsamo Cinisello – e gli affreschi a Milano in casa Stanga, oggi Radice Fossati (via Cappuccio 12), precedono di pochi mesi l’intensa attività del periodo cisalpino. Entrato di colpo con un ritratto a matita, capolavoro tuttora esistente (AUano, Accademia di Belle Arti), nelle grazie del ventisettenne Bonaparte, venne incaricato di presiedere la commissione delle requisizioni artistiche (eviterà poi l’incarico per sopraggiunta malattia) e di disegnare medaghe, testate, allegorie repubblicane per proclami, brevetti, carte ufficiali; questo non gli impedirà di dipingere numerosi ritratti agli illustri del momento, né di affrescare in casa Castiglioni, Wilcrek, Castelbarco, Silvestri (qui ancora col Traballesi) e nell’attuale collegio di S. Carlo col Chelli.
Massone già da prima della Rivoluzione, durante il periodo napoleonico fece parte della loggia milanese Amalia Augusta, e fu anche guardasigilli del Grande Capitolo generale della massoneria ital
Con l’intero corpo insegnante dell’Accademia di Brera fu chiamato dal Piermarini a collaborare alle decorazioni per la “festa della Federazione” del 21 messidoro dell’anno VI (9 luglio 1797), che con eccezionale magnificenza inaugurò la Repubblica cisalpina. Nello stesso anno Napoleone gli regalò una casa sul Naviglio di S. Marco, già di quei frati, valutata quarantamila lire milanesi. Del 1799 è il capolavoro di questo periodo: gli afrreschi con le Storie di Apollo in casa Sannazzaro poi Prina (conservati in parte a Brera e nella Gall. Civica d’Arte moderna). Fu nominato ai comizi di Lione e nel 1801 si recò a Parigi ad assistere in qualità di membro dell’Istituto all’incoronazione di Napoleone, ricevendo accoglienze trionfali; a Parigi e Versaffles dipinse numerosi ritratti della famiglia dell’imperatore e di personalità della corte. Nel 1802 venne nominato commissario generale delle Belle Arti con 1.500 lire annue, di cui nel 1809 chiederà l’aumento (in qualità di commissario, nel luglio 1802, richiamò l’attenzione delle autorità sulla necessità di restaurare il Cenacolo di Leonardo). Per la festa nazionale della Repubblica italiana, del 26 giugno 1803, l’A. progettò un circo romano, che fu eseguito in legno nel Foro Bonaparte. Sempre nel 1803 eseguì i ritratti per casa Melzi e forse iniziò la vasta creazione dei trentacinque monocromi coi Fasti napoleonici già in Palazzo reale (ora distrutti). Del 1804 è il cartone dell’Apoteosi di Napoleone, che fu molto lodato dalla commissione (Traballesi, Monti e Bossi) che gliene aveva affidato l’incarico; la vasta attività e la grande fama raggiunta lo fecero nominare primo pittore del re d’Italia con 15.000 lire annue, cavaliere della Legion d’Onore e della Corona ferrea e membro dell’Accademia di Brera, preposto alla creazione di quella Pinacoteca.
Andrea Appiani
Nonostante le molte cariche e l’intensa attività nel Palazzo reale di Milano (affreschi nelle sale del Trono, dei Principi, delle Cariatidi e nella sala rotonda, oggi in gran parte perenti), l’A. dipinse in quegli anni quadri per i Litta, per G. B. Sommariva, per casa Galetti, per la chiesa di Oggiono, e ritratti aulici e di privati. Il Parnaso, nella volta di una sala della Villa reale di Milano, del 1812, è la sua ultima opera di grande respiro. Colpito da insulto apoplettico nell’aprile del 1813, vegetò sino all’8 nov. 1817.
Riconoscendone la grandezza, la critica ha concluso per un A. giovanile ancora legato alle grazie del Settecento e successivamente vivo solo quando riesce a mantenerle operanti sotto i castigati ritmi neoclassici con la sincerità dell’impegno decorativo e la dolcezza dei trapassi di colore, per aggiungere subito che, fuori da quell’influsso, egli irrimediabilmente decade. Tale giudizio, profondamente errato e frutto dei paradigmi dellaJeazione romantica, va radicalmente rivisto. L’A. dipende dagli schemi pittorici settecenteschi soltanto perché li rinnova e li trascende profondamente, senza per questo indulgere a quelle forme che teorie e dottrine, dal Mengs al Winckehnann, suggerivano agli artisti del suo tempo. Egli rimane sempre fuori della polemica neoclassica; il suo neoclassicismo non si forma su teorie oltremontane, del resto non ancora giunte a Milano agli inizi della sua attività, o su bianchi calchi di antica statuaria, ma sui meditati esempi del primo Rinascimento padano, risolvendo con essi i propri modemi problemi. Già nelle quattro tempere del Ratto di Europa (Milano, raccolta Biandrà di Reaglie), sobrie e pur cantanti negli sfondi, con le figure di una maniera un poco secca ma viva, dai netti profili, dal colore campito, tenero ma sicuro, è in nuce l’A. migliore e si fanno palesi nel ritmo, nell’atmosfera, nel soggetto stesso quei suggerimenti, specie da Bemardino Luini, accolti e rinnovati da uno spirito originale e moderno. Su questa via nasceranno gli affreschi con le Storie di Psiche e di Giove (Monza, Villa reale), le Storie di Apollo (Milano, già in casa Sannazzaro), il Parnaso (Milano, Villa reale), e le tele dell’Olimpo (Milano, Pinacoteca di Brera) e della Toeletta di Giunone (Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo): le molte mitologie in cui egli persegue un sogno di bellezza che sia insieme nella natura e nella tradizione artistica. Mitologie che non esprimono, né lo vogliono, sentúnento, pensiero, passione alcuna né moto, ma semplicemente manifestano un classico stato di grazia. Su questa linea di depurata armonia e di nitore compositivo, appaiono meno decantate, meno neoclassiche starei per dire, le mitologie ove il vibrare dei sentimenti preme sulla serenità del núto, come l’Ercole e Deianira (Milano, raccolta Albasini Scrosati), e più aperte, più piacevoli e in un certo senso più vive, ma anche più illustrative e meno sublimate altre come il Carro di Apollo (Milano, Brera).
Andrea Appiani
Quest’ultimo ha un’affinità ritmica più che strettamente compositiva con l’Apoteosi di Napoleone già nella volta della sala del trono nel Palazzo reale di Milano. Pittura encomiastica e perciò regolarmente bistrattata, nella quale, viceversa, l’A. fuse in lirica e sincera creazione la sua lunga esperienza e i suggerimenti che la sua arte aveva via via appreso, dopo che dal Luini, da Leonardo e Correggio e Raffaello. Come, del resto, egli sapesse trascendere l’incarico ufficiale era anche palese nelle trentacinque tele a tempera monocroma che tomo tomo il salone delle Cariatidi rievocavano i Fasti napoleonici da Montenotte a Friedland in una specie di fascia continua, ove il ritmo compositivo del finto bassorilievo, l’armonica fusione di antico e modemo, il compenetrarsi della cronaca vissuta, del costume e della vita attuali con la dignità epica, col senso eroico e con le reminiscenze classiche avevano una modulazione alta come in David, ma più armonicamente italiana. Di queste tempere, distrutte come la volta della sala del trono, dalle incursioni aeree del 1943, restano precise e vive incisioni, eseguite intorno al 1810 da Giuseppe Longhi, Francesco e Giuseppe Rosaspina, Michele Bisi e Giuseppe Benaglia.
La celebre tela con l’Incontro di Giacobbe e Rachele (Alzano Maggiore, basilica di S. Martino 1795-1805 ca.) rivela equilibrio trala biblica e solenne monumentalità della storia sacra e la tenerezza rattenuta dell’idillio; gli Evangelisti e i Dottori nei pennacchi e nelle lunette della cupola di Santa Maria presso San Celso, un centinaio di figure solide e grandiose in cui i ricordi del Rinascimento e del manierismo primo sembrano giungere sino alle soglie di una severa eloquenza barocca, costituiscono la più alta pittura sacra del neoclassico italiano.
Sull’eccellenza dei ritratti dell’A. concordarono antichi e moderni per la perfetta aderenza, il disegno preciso e pur morbido e i rari trapassi di colore. Ritrattistica della quale, però, sfuggì il merito maggiore, quello di averci dato per prima e senza enfasi lo specchio di quella società, un modulo di vita nuovo che si traduce in pittura, come appare evidente confrontandola coi notevoli, ma ancora irrimediabilmente settecenteschi ritratti di un Knoller o di un Mengs. P, la luce del nobile volto di G. B. Bodoni sorgente dall’uliva e nero del busto (Parma, Pinacoteca nazionale), è la testa arruffata e viva di P. Landriani (Milano, Museo teatrale alla Scala); sono i ritratti di Napoleone Primo Console, del Melzi, della Belgioioso d’Este (Bellagio, villa Melzi), del Vallardi, (Milano Accademia di Brera) e del Monti (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Modema), che ci danno la misura della potenza espressiva dell’A., della sua capacità di fare di un volto un tipo, di riflettere in un viso un’epoca.
Andrea Appiani
Se, concludendo, l’A. non fu un genio, egli non fu comunque mai un accademico. Per lui il canone è termine vivo di un linguaggio e non pura dottrina, e la mitologia sostanza intima dell’arte, ed egli la porta nella sua opera con straordinaria forza di convinzione e assoluta sincerità. Per questo la conquista del suo linguaggio neoclassico fu personale e autonoma, frutto di una sua visione della bellezza, di un suo concetto delle necessità dì uno stile. Unico pittore italiano dell’epoca di fama europea, dominatore indiscusso della pittura neoclassica, non lasciò né allievi né seguaci, ma solo un’altissima fama, che l’ondata romantica volle sommergere. Innovatore vero dell’arte, ma non per le apparenze che i contemporanei elogiarono, egli ci dà la misura della pittura neoclassica non secondo la dottrina, ma secondo la sua vitale essenza, come solo oggi si può capire. I contemporanei lo dissero riccamente umano, di vasta cultura e musicista finissimo.
Altre opere: Corteo di Bacco fanciullo (bozzetto di sipario), Milano, Museo teatrale alla Scala; Venere e Imeneo, Pavia, Civica Pinacoteca Malaspina; Autoritratto, Firenze, Uffizi; Autoritratto, Wano, Brera; Ritratto della contessa Maria di Castelbarco Visconti Litta (l’inclita Nice), Milano, raccolta Castelbarco Albani; Ritratto di Ugo Foscolo, Milano, Pinacoteca di Brera; Ritratto del generale Desaix, Ritratto della signora Regnault, Versailles, Musée National; Ritratto di Anna Maria Porro Lambertenghi, Milano, Civica Galleria d’Arte Moderna; Ritratto della cantante Catalani, Firenze, raccolta Galletti di S. Ippolito; Ritratto della contessa Margherita Grimaldi Prati, Treviso, Museo Civico; Ritratto della signora Angiolini, Ritratto di una signora Rua, Milano, Ambrosiana; Ritratto di Marianna di Santa Cruz, Roma, Accademia di S. Luca; Ritratto di Sigismondo Ruga e di Paola Ruga detta la Rugabella, Crema, raccolta Vimercati Sanseverino.
Era suo nipote l’omonimo pittore nato nel 1817 dal figlio Costanzo. Allievo dal 1833 al 1837 in Roma del purista Tommaso Minardi e successivamente, a Milano, dello Hayez all’Accademia di Brera, fu mediocre artista e, per di più, schiacciato dall’ombra del grande avo. Stilisticamente oscillò tra un purismo di maniera e un manierato romanticismo. Il suo nome sopravvive in opere povere e in fuggevoli cenni dei contemporanei. Dipinse gli immancabili quadri storici (Corradino di Svevia sul patibolo, il Ritrovamento di Mosè alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna in Roma), freddi ritratti e decorò a fresco palazzi e la chiesa di Bolbeno. Morì a Milano il 18 dic. 1865.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Cartella Pittori: Appiani; Descrizione dell’opera a fresco eseguita nel 1795 nel tempio di S. Maria presso S. Celso in Milano dal pittore A. A., Milano 1803; L. Lamberti, Descrizione dei dipinti a buon fresco eseguiti dal pittore A. A. nella sala del trono del Palazzo Reale di Milano, Milano 1809; A. Brucellini, Carme per gli egregi dipinti a buon fresco nel Palazzo Reale di Milano, Milano 1809; L. Lamberti, Descrizione dei dipinti a buon fresco eseguiti dal pittore A. A. nella sala dei Principi…, Milano 1810; Descrizione del dipinto a buon fresco eseguito nella Villa Reale di Milano dal sig. Cavalier A. A., Parma 1811; G. Berchet, Allocuzione ai funerali di A. A., Milano 1817; G. P. [Giulio Perticari?], Sulla morte del Cavalier A. A., Milano 1818; A. Lissoni, Dialogo di Parini e A. agli Elisi, Milano 1818; D. Anesi, Le glorie pittoresche: Dialogo dei celebri pittori Bossi e A., Milano 1818; I. Fumagalli, Elogio di A. A., Milano 1818; Catalogo delle pitture, dei cartoni e dei disegni più ragguardevoli del defunto cavalier A. A. e di varie altre Pitture, stampe e libri figurati esistenti presso gli eredi, Milano 1818; F. Martini-R. Bonfadini, I fasti del primo Regno Italiano. Dipinti di A. A. incisi da vari, Milano s. d.; G. Longhi, Elogio storico di A.A., Milano 1818; M. Bisi, Incisioni delle opere del Pittore A. A., Milano 1820; B. Parea, Epitome delle vite dei dieci sommi italiani illustri nelle arti e nelle scienze tolti ai viventi nel corrente secolo, Milano 1827; G. Berretta, Le opere di A. A. Commentario, Milano 1848; Id., Battaglie e Fasti di Napoleone, composti e dipinti a chiaroscuro dal celebre cav. A. A., Milano 1848; G. De Castro, Il mondo segreto, VI, Milano 1864, p. 105; F. Martini-R. Bonfadini, Battaglie e fasti di Napoleone dipinti a bassorilievo in tela dal cav. A. A., Milano 1896; L. Auvray, Inventaire de la collection Custodi conservée à la Bibliothèque Nationale, in Bulletin Italien, III(1903), pp. 308 ss.; IV (1904), pp. 152 ss.; C. Ricci, La Pinacoteca di Brera, Bergamo 1907, pp. 13, 14, 30, 34, 36, 55, 75, 92, 162 (per l’opera dell’A. come commissario delle Belle Arti); G. Nicodemi, La pittura milanese dell’età neoclassica, Milano 1915, pp. 88-126; A. Zappa, A. A. e l’arte neoclassica, Milano 1921; G. Nicodemi, Ritratti di Napoleone, in Rass. d’arte, VIII (1921), pp. 145-151; A. Neppi, A. A., Bergamo 1932; R. Soriga, Le società segrete, l’emigrazione politica, i primi moti per l’indipendenza, Modena 1942, pp. 30, 48 s.; G. Nicodemi, A.: trentaquattro disegni, Milano 1944; M. Borghi, I disegni di A. A. nell’Accademia di Brera, Milano 1948; G. Natali, Il Settecento, Milano 1950, p. 89; E. Lavagnino, L’arte moderna, Torino 1956, I, pp. 229-237; A. Ottino Della Chiesa, L’età neoclassica in Lombardia (catalogo della mostra), Como 1959, pp. 33-39, 94-113; G. Allegri Tassoni, Una fraterna amicizia: A. A. e G. Bodoni, in Aurea Parma, XLIII (1959), pp. 22-28; A. Rameri, Una lettera dell’A. e la datazione di un celebre ritratto, in La Martinella di Milano, XIII (1959) (in estratto pp. 3-7); S. Samek Ludovici, La pittura neoclassica, in Storia di Milano, XIII, Milano 1959, pp. 548 ss. e Passim; U.Thieme-F. Becker, Allgem. Lexikon der bildenden Künstler, II, pp.40 s.; Encicl. Ital., III, pp. 757-759. Per A. A. iunior v.: A. Caimi, Arti del disegno in Lombardia, Milano, 1862, p. 60; L. Malvezzi, Le glorie dell’arte lombarda, Milano 1882, p. 284; G. De Sanctis, T. Minardi e il suo tempo, Roma 1900, p. 155; E. Ovidi, Tommaso Minardi e la sua scuola, Roma 1902, pp. 107, 265-67; G. Nicodemi-M. Bezzola, La Galleria d’Arta Moderna di Milano, Milano 1935, I, pp. 16-17; P. Pecchiai, I ritratti dei benefattori dell’Ospedale Maggiore di Milano, Milano 1927, nn. 227, 250; U. Thieme-F.,Becker, Allgem. Lexikon der bildenden Künstler, II, p. 42.
– Matilde SERAO Le più belle pagine scelte da Alberto Consiglio -Treves Editore Milano1934-
Articolo di Giulio MARZOT scritto per la Rivista PAN n°12 del 1935-
Breve biografia di Matilde Serao nasce a Patrasso, in Grecia, il 7 marzo del 1856. Matilde Serao,Scrittrice di prestigio, tra le più prolifiche di sempre della letteratura italiana, con oltre settanta opere al suo attivo, è passata alla storia anche per essere stata la prima donna italiana a fondare e dirigere un giornale. Al suo nome infatti, si lega quell’intenso momento di rinnovamento del giornalismo italiano che segna il passaggio dall’Ottocento al Novecento, ossia da un modo di fare informazione ancora tutto sommato artigianale, ad un altro tipo più efficace e impegnato, oltre che tecnologicamente avanzato. La città nella quale lavorò più intensamente e con risultati migliori è Napoli, dopo l’iniziale esperienza romana. La rubrica “I mosconi”, prima chiamata “Api, vespe e mosconi”, inventata proprio da lei sul foglio di Edoardo Scarfoglio, “Il Mattino”, è senza ombra di dubbio una delle trovate più acute e di prestigio della storia del giornalismo italiano.
Matilde SERAO
Trascorre i primi anni della sua vita in Grecia, assorbendo però la cultura italiana di suo padre, Francesco Serao, avvocato e giornalista antiborbonico mandato in esilio negli anni tumultuosi dell’Unificazione. Sua madre, Paolina Borely, è invece una nobile greca, appartenente però ad una famiglia ormai in declino .Con l’Unità d’Italia la famiglia Serao ritorna in patria, prima a Ventaroli, vicino Carinola, e poi a Napoli, dove Matild-e compie i propri studi, per quanto in modo del tutto singolare. Il rientro in patria in realtà è datato 1860: le voci di un’imminente vittoria contro i Borboni hanno raggiunto anche il padre della piccola Matilde, che dal 1848, anno del suo allontanamento forzato, si guadagna da vivere come insegnante in terra greca.
Dal 1861, Francesco Serao inizia la sua attività di giornalista per “Il Pungolo”, foglio d’ispirazione liberale e molto apprezzato dal popolo napoletano. Pur nelle ristrettezze economiche nelle quali si trovano a vivere, che impediscono alla futura scrittrice di compiere studi scolastici ordinari, la giovanissima Serao frequenta e apprezza sin dagli anni dell’infanzia e della prima adolescenza l’ambiente che più le sarà familiare: quello della redazione di un giornale.
All’età di quindici anni, dopo essersi data da fare negli studi soprattutto da autodidatta si presenta in qualità di semplice uditrice alla Scuola Normale “Eleonora Pimentel Fonseca”, in Piazza del Gesù, a Napoli. Sono anni di svolta per lei e l’anno dopo, infatti, nel 1872, Matilde abiura la confessione ortodossa, trasmessale dalla madre, e si converte al cattolicesimo. Nell’arco di poco tempo allora, ottiene anche il diploma di maestra, pur continuando ad aiutare le finanze della famiglia. Vince, infatti, un concorso come ausiliaria ai Telegrafi di Stato: professione che la impegna per ben quattro anni, nei quali però matura in lei definitivamente l’amore per la letteratura e per l’impegno giornalistico. Nel 1878, dopo aver scritto qualche articolo per il Giornale di Napoli, spesso con lo pseudonimo di “Tuffolina”, a ventidue anni porta a termine la sua prima novella, dal titolo “Opale”. Questa viene pubblicata dal Corriere del Mattino. Nel 1882 allora, si trasferisce a Roma, dove prende parte all’avventura editoriale del “Capitan Fracassa”, trattando con disinvoltura argomenti diversi, dalla cronaca rosa alla critica letteraria. In questo periodo, il suo pseudonimo è “Ciquita”.
Ad aprirle le porte della narrativa italiana a tutti gli effetti è “Fantasia”, pubblicato nel 1883 e, non a caso, aspramente criticato proprio dall’uomo che ben presto diventerà suo marito, Edoardo Scarfoglio. Il giornalista, animatore culturale e versato poeta, commenta in modo molto negativo l’opera della Serao, stroncando di fatto, sul giornale letterario “Il libro Don Chisciotte”, l’allora giovane scrittrice. Tuttavia, il loro incontro segna anche l’inizio di una delle vicende d’amore più tormentate e turbolente della storia della letteratura e del giornalismo italiano.
Già nel 1885 i due si sposano, forti dell’esperienza giornalistica che condividono in quei mesi al “Corriere di Roma”, altro foglio molto importante in questo periodo, fondato proprio dallo stesso Scarfoglio. Intanto la Serao non rinuncia né al suo ruolo di madre né a quello di scrittrice. Nascono Antonio, Carlo, Paolo e Michele, dall’unione con Scarfoglio, ma vedono la luce anche “Il ventre di Napoli”, nel 1884, “La conquista di Roma”, del 1885, “Il romanzo della fanciulla”, del 1886, e il libro che Benedetto Croce non esita a definire “il romanzo del giornalismo italiano”, ossia “Vita e avventure di Riccardo Joanna”, pubblicato nel 1887.
È un momento florido dal punto di vista letterario questo che vive la scrittrice, e la letteratura nazionale se ne avvarrà sempre, aumentando la sua fama nel corso degli anni e soprattutto dopo la sua morte.
Tra “Il paese di cuccagna” e “La virtù di Cecchina” però, datati rispettivamente 1891 e 1906, opere non meno importanti delle summenzionate per quanto minori, si colloca l’idillio e la fine tragica della relazione tra la Serao e suo marito. I due infatti, chiuso il foglio romano, si recano a Napoli, dove danno vita al “Corriere di Napoli”. Il foglio ha problemi economici ma segna una svolta nel panorama meridionale, almeno dal punto di vista della libertà di informazione. Sulle pagine dirette dalla scrittrice poi, quelle culturali, compaiono firme illustri, come quelle di Giosuè Carducci e Gabriele D’Annunzio.
L’esperienza dura poco ma permette ai due compagni di vita e di lavoro di dare vita, nel 1891, al ben noto “Il Mattino”, che vede Scarfoglio come direttore e la Serao come co-direttrice. Da questo momento però, all’ascesa del foglio partenopeo fa da contraltare la caduta della coppia, soprattutto a causa del marito dell’autrice. Scarfoglio, infatti, è un uomo poco tranquillo sul piano sentimentale.
Nell’estate del 1892 conosce Gabrielle Bessard, una cantante di teatro. Tra loro nasce una relazione, per giunta agevolata dalla fuga, a causa di un litigio, della Serao, la quale si reca da sola in villeggiatura, presso una località della Val d’Aosta. Passano due anni e Gabrielle rimane incinta. Scarfoglio allora la abbandona, e torna dalla moglie. Ma il 29 agosto del 1894 la Bessard si presenta sulla porta della casa di Scarfoglio e della Serao e, dopo aver posato a terra la piccola figlioletta nata dalla loro unione, si spara un colpo mortale alla tempia.
Matilde Serao, nonostante il clamore suscitato dalla notizia comparsa su tutti i giornali, non esita a prendersi cura dalla piccola Paolina, decidendo di allevarla comunque. Tuttavia, esasperata dai comportamenti del marito, decide di lasciarlo e di lasciare, con lui, anche quella che è la sua vera creatura, il quotidiano “Il Mattino”.
Il giornale, come se non bastasse, rimane coinvolto anche nello scandalo dell’amministrazione Sulmonte che finisce per tirare dentro, tra polemiche e calunnie, anche la stessa scrittrice, accusata di aver goduto di certi privilegi economici in cambio di favori. Scarfoglio coglie la palla al balzo e se la difende, sua moglie, lo fa solo ed esclusivamente con il doppio fine di umiliarla e di salvare la propria reputazione. Tra il 1902 e il 1903, l’abbandono del giornale è ufficiale: la Serao è disoccupata a tutti gli effetti.
Nello stesso periodo però entra nella sua vita un altro giornalista, l’avvocato Giuseppe Natale. Con questi allora, senza perdersi d’animo, Matilde fonda e dirige, unica nella storia del giornalismo italiano, il giornale “Il Giorno”, diretta emanazione delle sue idee politiche e culturali. Dall’unione con Natale, Nasce anche Eleonora, di lì a poco, chiamata così dalla scrittrice per dimostrare il suo affetto per l’attrice Eleonora Duse. Il giornale, più pacato del concorrente “Mattino”, ottiene un buon successo di vendite.
Nel 1917, morto Scarfoglio, Matilde Serao sposa Giuseppe Natale, ufficializzando così la loro unione sotto ogni punto di vista, per giunta solo qualche anno prima della morte di lui. Nel 1926, l’autrice riceve la candidatura a premio Nobel per la Letteratura, che verrà poi assegnato a Grazia Deledda, altra grande voce della letteratura italiana al femminile.
Il 25 luglio del 1927, all’età di 71 anni, Matilde Serao muore a Napoli, sulla sua scrivania, durante l’ennesimo momento di scrittura della sua esistenza. Di lei si ricorda il carattere profondamente sanguigno, sottolineato da una grande napoletanità. Nella città di Napoli era considerata un personaggio tanto popolare che si dice che quando passava in carrozzella, i monelli gridavano a gran voce: “Sta panno a signurì!” (Sta passando la signora!). Sebbene non avesse basi culturali tali da raggiungere un’importante profondità linguistica fu senza dubbio una grande figura nel campo del giornalismo: va ricordata in tal senso la sua idea, creativa e precorritrice, di trovare nuovi abbonati ai suoi giornali attraverso concorsi e cadeaux di varia natura.
Articolo di Giulio MARZOT scritto per la Rivista PAN n°12 del 1935-
– Matilde SERAO Le più belle pagina scelte da Alberto Consiglio– Matilde SERAO Le più belle pagina scelte da Alberto Consiglio– Matilde SERAO Le più belle pagina scelte da Alberto Consiglio– Matilde SERAO Le più belle pagina scelte da Alberto ConsiglioBiblioteca DEA SABINA- Rivista PAN- Matilde SERAO Le più belle pagina scelte da Alberto Consiglio
Biografia di Matilde Serao- Patrasso 1856 – Napoli 1927-
Matilde SERAO
Matilde Serao nasce a Patrasso, in Grecia, il 7 marzo del 1856.Scrittrice di prestigio, tra le più prolifiche di sempre della letteratura italiana, con oltre settanta opere al suo attivo, è passata alla storia anche per essere stata la prima donna italiana a fondare e dirigere un giornale. Al suo nome infatti, si lega quell’intenso momento di rinnovamento del giornalismo italiano che segna il passaggio dall’Ottocento al Novecento, ossia da un modo di fare informazione ancora tutto sommato artigianale, ad un altro tipo più efficace e impegnato, oltre che tecnologicamente avanzato. La città nella quale lavorò più intensamente e con risultati migliori è Napoli, dopo l’iniziale esperienza romana. La rubrica “I mosconi”, prima chiamata “Api, vespe e mosconi”, inventata proprio da lei sul foglio di Edoardo Scarfoglio, “Il Mattino”, è senza ombra di dubbio una delle trovate più acute e di prestigio della storia del giornalismo italiano.
Trascorre i primi anni della sua vita in Grecia, assorbendo però la cultura italiana di suo padre, Francesco Serao, avvocato e giornalista antiborbonico mandato in esilio negli anni tumultuosi dell’Unificazione. Sua madre, Paolina Borely, è invece una nobile greca, appartenente però ad una famiglia ormai in declino .Con l’Unità d’Italia la famiglia Serao ritorna in patria, prima a Ventaroli, vicino Carinola, e poi a Napoli, dove Matild-e compie i propri studi, per quanto in modo del tutto singolare. Il rientro in patria in realtà è datato 1860: le voci di un’imminente vittoria contro i Borboni hanno raggiunto anche il padre della piccola Matilde, che dal 1848, anno del suo allontanamento forzato, si guadagna da vivere come insegnante in terra greca.
Dal 1861, Francesco Serao inizia la sua attività di giornalista per “Il Pungolo”, foglio d’ispirazione liberale e molto apprezzato dal popolo napoletano. Pur nelle ristrettezze economiche nelle quali si trovano a vivere, che impediscono alla futura scrittrice di compiere studi scolastici ordinari, la giovanissima Serao frequenta e apprezza sin dagli anni dell’infanzia e della prima adolescenza l’ambiente che più le sarà familiare: quello della redazione di un giornale.
All’età di quindici anni, dopo essersi data da fare negli studi soprattutto da autodidatta si presenta in qualità di semplice uditrice alla Scuola Normale “Eleonora Pimentel Fonseca”, in Piazza del Gesù, a Napoli. Sono anni di svolta per lei e l’anno dopo, infatti, nel 1872, Matilde abiura la confessione ortodossa, trasmessale dalla madre, e si converte al cattolicesimo. Nell’arco di poco tempo allora, ottiene anche il diploma di maestra, pur continuando ad aiutare le finanze della famiglia. Vince, infatti, un concorso come ausiliaria ai Telegrafi di Stato: professione che la impegna per ben quattro anni, nei quali però matura in lei definitivamente l’amore per la letteratura e per l’impegno giornalistico. Nel 1878, dopo aver scritto qualche articolo per il Giornale di Napoli, spesso con lo pseudonimo di “Tuffolina”, a ventidue anni porta a termine la sua prima novella, dal titolo “Opale”. Questa viene pubblicata dal Corriere del Mattino. Nel 1882 allora, si trasferisce a Roma, dove prende parte all’avventura editoriale del “Capitan Fracassa”, trattando con disinvoltura argomenti diversi, dalla cronaca rosa alla critica letteraria. In questo periodo, il suo pseudonimo è “Ciquita”.
Ad aprirle le porte della narrativa italiana a tutti gli effetti è “Fantasia”, pubblicato nel 1883 e, non a caso, aspramente criticato proprio dall’uomo che ben presto diventerà suo marito, Edoardo Scarfoglio. Il giornalista, animatore culturale e versato poeta, commenta in modo molto negativo l’opera della Serao, stroncando di fatto, sul giornale letterario “Il libro Don Chisciotte”, l’allora giovane scrittrice. Tuttavia, il loro incontro segna anche l’inizio di una delle vicende d’amore più tormentate e turbolente della storia della letteratura e del giornalismo italiano.
Già nel 1885 i due si sposano, forti dell’esperienza giornalistica che condividono in quei mesi al “Corriere di Roma”, altro foglio molto importante in questo periodo, fondato proprio dallo stesso Scarfoglio. Intanto la Serao non rinuncia né al suo ruolo di madre né a quello di scrittrice. Nascono Antonio, Carlo, Paolo e Michele, dall’unione con Scarfoglio, ma vedono la luce anche “Il ventre di Napoli”, nel 1884, “La conquista di Roma”, del 1885, “Il romanzo della fanciulla”, del 1886, e il libro che Benedetto Croce non esita a definire “il romanzo del giornalismo italiano”, ossia “Vita e avventure di Riccardo Joanna”, pubblicato nel 1887.
È un momento florido dal punto di vista letterario questo che vive la scrittrice, e la letteratura nazionale se ne avvarrà sempre, aumentando la sua fama nel corso degli anni e soprattutto dopo la sua morte.
Tra “Il paese di cuccagna” e “La virtù di Cecchina” però, datati rispettivamente 1891 e 1906, opere non meno importanti delle summenzionate per quanto minori, si colloca l’idillio e la fine tragica della relazione tra la Serao e suo marito. I due infatti, chiuso il foglio romano, si recano a Napoli, dove danno vita al “Corriere di Napoli”. Il foglio ha problemi economici ma segna una svolta nel panorama meridionale, almeno dal punto di vista della libertà di informazione. Sulle pagine dirette dalla scrittrice poi, quelle culturali, compaiono firme illustri, come quelle di Giosuè Carducci e Gabriele D’Annunzio.
L’esperienza dura poco ma permette ai due compagni di vita e di lavoro di dare vita, nel 1891, al ben noto “Il Mattino”, che vede Scarfoglio come direttore e la Serao come co-direttrice. Da questo momento però, all’ascesa del foglio partenopeo fa da contraltare la caduta della coppia, soprattutto a causa del marito dell’autrice. Scarfoglio, infatti, è un uomo poco tranquillo sul piano sentimentale.
Nell’estate del 1892 conosce Gabrielle Bessard, una cantante di teatro. Tra loro nasce una relazione, per giunta agevolata dalla fuga, a causa di un litigio, della Serao, la quale si reca da sola in villeggiatura, presso una località della Val d’Aosta. Passano due anni e Gabrielle rimane incinta. Scarfoglio allora la abbandona, e torna dalla moglie. Ma il 29 agosto del 1894 la Bessard si presenta sulla porta della casa di Scarfoglio e della Serao e, dopo aver posato a terra la piccola figlioletta nata dalla loro unione, si spara un colpo mortale alla tempia.
Matilde Serao, nonostante il clamore suscitato dalla notizia comparsa su tutti i giornali, non esita a prendersi cura dalla piccola Paolina, decidendo di allevarla comunque. Tuttavia, esasperata dai comportamenti del marito, decide di lasciarlo e di lasciare, con lui, anche quella che è la sua vera creatura, il quotidiano “Il Mattino”.
Il giornale, come se non bastasse, rimane coinvolto anche nello scandalo dell’amministrazione Sulmonte che finisce per tirare dentro, tra polemiche e calunnie, anche la stessa scrittrice, accusata di aver goduto di certi privilegi economici in cambio di favori. Scarfoglio coglie la palla al balzo e se la difende, sua moglie, lo fa solo ed esclusivamente con il doppio fine di umiliarla e di salvare la propria reputazione. Tra il 1902 e il 1903, l’abbandono del giornale è ufficiale: la Serao è disoccupata a tutti gli effetti.
Nello stesso periodo però entra nella sua vita un altro giornalista, l’avvocato Giuseppe Natale. Con questi allora, senza perdersi d’animo, Matilde fonda e dirige, unica nella storia del giornalismo italiano, il giornale “Il Giorno”, diretta emanazione delle sue idee politiche e culturali. Dall’unione con Natale, Nasce anche Eleonora, di lì a poco, chiamata così dalla scrittrice per dimostrare il suo affetto per l’attrice Eleonora Duse. Il giornale, più pacato del concorrente “Mattino”, ottiene un buon successo di vendite.
Nel 1917, morto Scarfoglio, Matilde Serao sposa Giuseppe Natale, ufficializzando così la loro unione sotto ogni punto di vista, per giunta solo qualche anno prima della morte di lui. Nel 1926, l’autrice riceve la candidatura a premio Nobel per la Letteratura, che verrà poi assegnato a Grazia Deledda, altra grande voce della letteratura italiana al femminile.
Il 25 luglio del 1927, all’età di 71 anni, Matilde Serao muore a Napoli, sulla sua scrivania, durante l’ennesimo momento di scrittura della sua esistenza. Di lei si ricorda il carattere profondamente sanguigno, sottolineato da una grande napoletanità. Nella città di Napoli era considerata un personaggio tanto popolare che si dice che quando passava in carrozzella, i monelli gridavano a gran voce: “Sta panno a signurì!” (Sta passando la signora!). Sebbene non avesse basi culturali tali da raggiungere un’importante profondità linguistica fu senza dubbio una grande figura nel campo del giornalismo: va ricordata in tal senso la sua idea, creativa e precorritrice, di trovare nuovi abbonati ai suoi giornali attraverso concorsi e cadeaux di varia natura.
Luciano Canfora, Eric Hobsbawm, Marx e i suoi scolari-Stilo Editrice
Descrizione del libro di Luciano Canfora, Eric Hobsbawm-Circa venti anni addietro, il grande storico britannico Eric Hobsbawm pubblicò un’ampia voce biografica su Karl Marx nell’Oxford Dictionary of National Biography. Questo scritto, che rispecchia la riflessione più matura di Hobsbawm sulla figura e sul pensiero di Marx , segna, nonostante la brevità, un passo avanti e, si potrebbe dire, conclusivo nell’ambito della riflessione di lunga durata dedicata da Hobsbawm alla figura di Marx. Il testo è preceduto da una ricerca di Luciano Canfora incentrata sulle indicazioni politiche operative lanciate in modo discontinuo da Marx durante la sua lunga militanza, e soprattutto durante il lungo esilio. Ciò che viene qui messo in evidenza è il peso costituito dalla rilettura che Engels diede di quelle indicazioni sommarie e discontinue: rilettura che determinò il modo di essere e di condurre la propria azione politica da parte della socialdemocrazia europea e tedesca in particolare. Al termine di questa vicenda vi è lo scontro durissimo tra gli eredi di Engels e l’emergente leninismo. Un’attenzione particolare viene dedicata all’esito italiano di questo scontro, imperniato sulla originalità, sanamente eretica dei maggiori esponenti del marxismo italiano Gramsci e Togliatti.
Biografia degli autori
Luciano Canfora è professore emerito dellʼUniversità di Bari. Dirige i «Quaderni di storia» e collabora con il «Corriere della Sera». Tra le sue pubblicazioni più recenti ricordiamo: La meravigliosa storia del falso Artemidoro (Sellerio, 2011); Il mondo di Atene (Laterza, 2011); Gramsci in carcere e il fascismo (Salerno, 2012); Spie, URSS, antifascismo. Gramsci 1926-1937 (Salerno, 2012); La guerra civile ateniese (Rizzoli, 2013); La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone (Laterza, 2014); Augusto. Figlio di dio (Laterza, 2015); Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio (Laterza, 2016); La schiavitù del capitale (il Mulino, 2017).
Eric Hobsbawm (1917-2012), già docente a Cambridge (King’s College, Birkbeck College), è stato il maggiore storico del socialismo e dell’Europa otto e novecentesca. Tra le sue pubblicazioni: Il secolo breve (Rizzoli, 1995), Storia d’Europa, vol. I, L’età contemporanea. Secoli XIX-XX (Einaudi, 1996), Gente che lavora. Storie di operai e contadini (Rizzoli, 2001), Imperialismi (Rizzoli, 2007), La fine della cultura (Rizzoli, 2013). Ha diretto l’ampia e polifonica Storia del marxismo per Einaudi.
Irena Sendler: Eroina della Resistenza ai nazisti in Europa
Irena Sendler, nata nel 1910 e morta nel 2008, è stata una delle più grandi eroine della Resistenza ai nazisti in Europa. Donna libera, socialista, ha salvato più di 2.500 bambini ebrei durante l’occupazione tedesca della Polonia.
“La ragazza dei fiori di vetro” è la sua biografia di Tilar J. Mazzeo (Piemme) che racconta la sua straordinaria vita. Il libro è ricco di dettagli anche sulla Polonia in quegli anni. Sendler è il cognome assunto col matrimonio. Lei si chiamava Krzyzanowska, nata a Otwock , cittadina polacca abitata da moltissimi ebrei. Suo padre, medico, morì di tifo, e le locali comunità ebraiche che consideravano il dottore un loro benefattore, le offrirono le spese dell’Università.
Irena nel periodo tra le due guerre mondiali combattè l’antisemitismo che regnava nelle università polacche. Si innamorò di due uomini: il primo Mieczyslaw Sendler che sposò, il secondo Adam Celniker che amò, sposò successivamente e che venne rinchiuso nel ghetto di Varsavia perché ebreo.
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Come assistente sociale riuscì a lavorare nel ghetto relazionando ai tedeschi che temevano l’epidemia di tifo e le insurrezioni. Quando diventò palese che nel 1942 i nazisti volevano deportare l’intera popolazione del ghetto nel campo di sterminio di Treblinka, Irena decise di far uscire dal campo almeno i bambini nascondendoli in sacchi di iuta, nelle cassette di attrezzi… Non era sola in questa operazione. Oltre all’organizzazione Zegota, guidata dal socialista Jan Grobelny, personaggi di destra, cattolici, persone che con “scopo salvifico” pensavano di salvare i bambini, battezzarli, e sottrarli al “perfido giudaismo”. Fu grazie a Sendler, che annotò scrupolosamente i nomi dei piccoli che alla fine della guerra vennero restituiti alla loro identità.
Dopo la guerra divorziò dal marito e sposò Adam tornato dalla prigionia. Morto Adam nel 1961, risposò il suo primo marito Mieczyslaw. Il che è anche una risposta a chi si chiede se è possibile amare due uomini contemporaneamente e durante il corso della propria vita se si riesca a tenerli legati a sé.
Nel 1965 le fu conferita dagli israeliani la medaglia di Giusta tra le nazioni.
Irena Sendler nel 2005Irena_Sendlerowa_2005.Warschau, Bettelnde KinderIrena Sendler Scultura nella scuola di Amburgo-Germania
Ricordo di Elena Gianini Belotti- scrittrice e pedagogista-
Elena Gianini Belotti – Pedagogista e scrittrice italiana (Roma 1929 – ivi 2022). Cofondatrice e direttrice (1960-80) del Centro Nascita Montessori di Roma, in cui ha formato le gestanti all’accudimento e allo sviluppo relazionale del neonato, ha fornito imprescindibili contributi alle teorie delle diseguaglianze di genere, denunciando i condizionamenti di ruolo su base sessuale impliciti nei paradigmi educativi tradizionali. Autrice del saggio Dalla parte delle bambine (1973), pietra miliare negli studi di genere, qui ha denunciato la natura culturale delle diversità caratteriali tra maschio e femmina, riconducendole all’imposizione di modelli coercitivi in grado di ridurre l’identità individuale ai modelli socialmente condivisi, limitando aspirazioni e prospettive del sesso femminile. Cofondatrice con D. Maraini nel 1992 del gruppo di scrittrici Controparola, tra le sue pubblicazioni occorre citare i saggi Che razza di ragazza (1979), Prima le donne e i bambini (1980), Non di sola madre (1983), Amore e pregiudizio. Il tabù dell’età nei rapporti sentimentali (1988); i romanzi Il fiore dell’ibisco (1985), Pimpì Oselì (1995), Apri le porte all’alba (1999), Pane amaro (2006) e Onda lunga (2013); il testo biografico Prima della quiete. Storia di Italia Donati (2003). Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana (2010). Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani –
Elena Gianini Belotti
Biografia di Elena Gianini Belotti (Roma, 2 dicembre 1929 – Roma, 24 dicembre 2022) è stata una scrittrice, pedagogista e insegnante italiana.
Di origine bergamasca, lavorò a lungo nel campo dell’assistenza all’infanzia. Fu chiamata, nel 1960, a dirigere il primo Centro Nascita Montessori a Roma, che diresse fino al 1980. Nel 1973 pubblicò per Feltrinelli il saggio Dalla parte delle bambine. Il libro, dedicato al condizionamento precoce della donna, ebbe uno straordinario e durevole successo.
Nel 1980 pubblicò, per Rizzoli, Prima le donne e i bambini, sempre sul tema dei condizionamenti sociali di genere.
In Pimpì oselì, edito da Feltrinelli nel 1995, tratteggiò magistralmente la vita quotidiana dei bambini delle valli bergamasche e delle borgate romane durante il periodo fascista, vista con gli occhi di una bambina, ponendo l’accento sulla durezza della povertà e sulla separazione di genere.
Nel 2003 scrisse il romanzo Prima della quiete, in cui raccontò la triste storia di Italia Donati.
Nel 2007 Loredana Lipperini pubblicò sempre per Feltrinelli Ancora dalla parte delle bambine, aggiornamento dei temi trattati 35 anni prima da Elena Gianini Belotti, che pur proseguendo negli anni l’attività di saggista si dedicò con successo alla scrittura per l’infanzia. Con Il fiore dell’ibisco vinse il Premio Napoli; con Prima della quiete il Premio Grinzane Cavour.Fonte Wikipedia
Elena Gianini Belotti
Ricordo di Elena Gianini Belotti– scrittrice e pedagogista- è morta a Roma il 24 dicembre 2022-
Roma- 25 dicembre 2022-È morta ieri. 24 dicembre, a 93 anni la scrittrice e pedagogista italiana Elena Gianini Belotti, nota soprattutto per i suoi saggi sui condizionamenti di genere nella società e nell’educazione, come Dalla parte delle bambine, del 1973, e Prima le donne e i bambini, del 1980. Entrambi negli anni sono stati molto citati da chi si è occupato di questi temi, che Gianini Belotti fu tra le prime ad affrontare. Scrisse anche alcuni romanzi, tra i quali uno dei più noti è Prima della quiete, sulla storia dell’insegnante Italia Donati, morta suicida dopo una storia di diffamazione che la coinvolse. Nel 1960 Gianini Belotti contribuì a fondare il Centro Nascita Montessori di Roma, un’associazione di volontariato che si occupa ancora oggi di fare ricerca e sviluppo in ambito educativo, sociale e sanitario sui neonati. Ne fu direttrice per vent’anni. (da Il Post)
Nel libro “Dalla parte delle bambine” scrisse della tradizionale differenza di carattere tra maschio e femmina, non dovuta a fattori “innati”, bensì ai “condizionamenti culturali” che l’individuo subisce nel corso del suo sviluppo. Questa la tesi appoggiata da Elena Gianini Belotti e confermata dalla sua lunga esperienza educativa con genitori e bambini in età prescolare. Ma perché solo “dalla parte delle bambine”? Perché questa situazione è quasi tutta “a sfavore del sesso femminile”. La cultura alla quale apparteniamo come ogni altra cultura si serve di tutti i mezzi a sua disposizione per ottenere dagli individui dei due sessi il comportamento più adeguato ai valori che le preme conservare e trasmettere: fra questi anche il “mito” della “naturale” superiorità maschile contrapposta alla “naturale” inferiorità femminile. In realtà non esistono qualità “maschili” e qualità “femminili”, ma solo “qualità umane”. L’operazione da compiere dunque “non è di formare le bambine a immagine e somiglianza dei maschi, ma di restituire a ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi nel modo che gli è più congeniale, indipendentemente dal sesso cui appartiene”.
Biografia di Elena Gianini Belotti (Roma, 2 dicembre 1929 – Roma, 24 dicembre 2022) è stata una scrittrice, pedagogista e insegnante italiana.
Di origine bergamasca, lavorò a lungo nel campo dell’assistenza all’infanzia. Fu chiamata, nel 1960, a dirigere il primo Centro Nascita Montessori a Roma, che diresse fino al 1980. Nel 1973 pubblicò per Feltrinelli il saggio Dalla parte delle bambine. Il libro, dedicato al condizionamento precoce della donna, ebbe uno straordinario e durevole successo.
Nel 1980 pubblicò, per Rizzoli, Prima le donne e i bambini, sempre sul tema dei condizionamenti sociali di genere.
In Pimpì oselì, edito da Feltrinelli nel 1995, tratteggiò magistralmente la vita quotidiana dei bambini delle valli bergamasche e delle borgate romane durante il periodo fascista, vista con gli occhi di una bambina, ponendo l’accento sulla durezza della povertà e sulla separazione di genere.
Nel 2003 scrisse il romanzo Prima della quiete, in cui raccontò la triste storia di Italia Donati.
Nel 2007 Loredana Lipperini pubblicò sempre per Feltrinelli Ancora dalla parte delle bambine, aggiornamento dei temi trattati 35 anni prima da Elena Gianini Belotti, che pur proseguendo negli anni l’attività di saggista si dedicò con successo alla scrittura per l’infanzia. Con Il fiore dell’ibisco vinse il Premio Napoli; con Prima della quiete il Premio Grinzane Cavour.
Fonte Wikipedia
Elena Gianini Belotti
chi raccoglierà l’eredità di Elena Gianini Belotti?
Alessandra Fraissinet e Laura Onofri discutono l’eredità lasciata dalla pedagogista romana Elena Gianini Belotti, fra le prime a occuparsi di condizionamenti di genere : chi sta oggi ‘dalla parte delle bambine’?
La direzione del Centro Nascita Montessori di Roma e i saggi Dalla parte delle bambine e Prima le donne e i bambini
Elena Gianini Belotti è morta lo scorso 24 dicembre. Pedagogista, scrittrice, insegnante, era nata a Roma nel 1929, da genitori bergamaschi. Nel 1960 aveva contribuito a fondare il Centro Nascita Montessori di Roma, guidato da lei per vent’anni, supportando molte donne nella preparazione al parto e nella crescita di neonate e neonati. Un’educazione alla cura, al di là dei condizionamenti di genere che limitano il libero sviluppo della persona, come aveva raccontato nei due saggi per cui è più nota: Dalla parte delle bambine, del 1973, e Prima le donne e i bambini, del 1980.
Laura Onofri, presidentessa del comitato torinese dell’associazione Se non ora, quando?: Gianini Belottiha portato consapovolezza sui condizionamenti di genere
«Gianini Belotti ha avuto un ruolo determinante. Quando è uscito Dalla parte delle bambine c’era ancora poca letteratura che parlasse di condizionamenti di genere», spiega Laura Onofri, presidentessa del comitato torinese dell’associazione Se non ora, quando? e componente del Coordinamento nazionale dei comitati. «I modelli culturali che venivano proposti alle bambine, dalla pubblicità ai libri scolastici, dalla scuola alla televisione, erano stereotipati. Le bambine dovevano essere prima di tutto belle, le donne mamme accudenti e contente di occuparsi della casa e della cucina. Modelli considerati come normali, nessuno li metteva in dubbio. Non c’era l’idea che una donna potesse fare qualsiasi lavoro, che non fosse solo angelo del focolare o adatta a svolgere lavori come la maestra, la cuoca, la sarta».
Bambine belle e donne madri e casalinghe: stereotipi che nessuno metteva in discussione
Gianini Belotti ha avuto il merito di evidenziare quanto questi modelli fossero frutto di convenzioni, dimostrando come non esistano, per citarla, qualità maschili o femminili, solo qualità umane. Il suo messaggio è chiaro, ed è il prodotto di una lunga esperienza educativa e degli studi portati avanti in ambito pedagogico: non esistono caratteri femminili o maschili predeterminati. Ruoli e preferenze di genere sono il frutto di costruzioni sociali.
«Ha squarciato il velo. Dal suo libro sono fioriti nuovi studi, ricerche, idee», prosegue Onofri. Nonostante sia scritto da una pedagogista, Dalla parte delle bambine è riuscito a diventare un classico, anche al di là del movimento femminista.
Dal 1973 ad oggi, Dalla parte delle bambine resta un libro rivoluzionario
Un saggio di pedagogia ancora estremamente attuale anche se figlio della propria epoca. «Il libro è scritto con un linguaggio binario, che oggi si sta cercando di superare. Ma la cosa sconvolgente è che per tanti aspetti potrebbe essere stato pubblicato ieri», interviene Alessandra Fraissinet, ideatrice con Annalisa Sirignano del podcast ‘Ti leggiamo una femminista’.
Alessandra Fraissinet, co-ideatrice del podcast Ti leggiamo una femminista
Tra i pregi del libro, quello di mostrare come molti condizionamenti lavorino in noi a livello inconscio. «Un esempio è quello dell’allattamento, descritto bene nel saggio, che analizza la differenza di atteggiamento delle mamme, disposte ad allattare più a lungo i maschi, considerati per natura più voraci. Alle bambine è invece dedicato meno tempo, in loro l’avidità di cibo è mal tollerata», spiega Fraissinet. Grande attenzione va anche prestata a quei modi di dire cui non facciamo caso, ma che in realtà celano un intento discriminatorio. «’Auguri e figli maschi’ è un esempio citato anche da Gianini Belotti. Le parole sono importanti, sono strumenti in grado di modellare il nostro pensiero e la nostra realtà».
Laura Onofri e la società che non abbandona gli stereotipi: «Dispiace ci sia ancora così tanta strada da fare»
Sono passati cinquant’anni dalla pubblicazione di Dalla parte delle bambine. Com’è cambiata la nostra società? «Le cose non sono cambiate molto, purtroppo. Se guardiamo ai giochi, troviamo ancora grandi differenze: bambole e passeggini pensati per le bambine, giochi di azione e sport pensati per i bambini. Anche nei libri di testo adottati nelle scuole permangono modelli stereotipati. Ce ne siamo resi conto facendo un’analisi sulle immagini dei testi adottati per la scuola primaria a Torino nel 2017», interviene Onofri.
Elena Gianini Belotti
La differenziazione nei giochi per maschi e femmine e la letteratura per l’infanzia
Alla scelta dei giochi e alla letteratura per l’infanzia Gianini Belotti dedica un capitolo del libro. Scrive la pedagogista nel 1973: «La differenziazione nei giochi imposta ai maschi e alle femmine è tale che gusti ‘particolari’ in fatto di giochi dopo l’età di quattro-cinque anni cominciano veramente a significare che il bambino o la bambina non hanno accettato i loro ruoli e che quindi qualcosa non ha funzionato». Modelli di genere rigidi e convenzionali continuano a essere trasmessi anche oggi. «Lo vediamo tutti i giorni con la pubblicità. Pur essendo attivo un Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, siamo indietro. Ci vorrebbe una legge affinché certe pubblicità sessiste e piene di stereotipi non vengano neanche mandate in onda o stampate sui cartelloni», commenta Onofri. «Dispiace che dopo tutti questi anni ci sia ancora così tanta strada da fare come società per raggiungere l’equità. Occorre sottolinearlo: la permanenza di stereotipi incide a vari livelli, crea una cultura in cui le donne possono più facilmente subire molestie sessuali e violenze», chiarisce Onofri.
Verso il superamento del sessismo nella lingua italiana: Giornaliste Libere Unite Autonome (GiULiA) e la guida Donne, grammatica e media
Qualche passo avanti è stato fatto. La consapevolezza sull’identità di genere è aumentata, così come anche l’attenzione verso il linguaggio. «Il linguaggio è l’ambito nel quale si è lavorato di più. Qualcosa è cambiato nei media, sui quotidiani, in tv. Un merito lo hanno avuto le giornaliste, specialmente quelle facenti capo a GiULiA Giornaliste Libere Unite Autonome, che nel 2014 presentarono Donne, grammatica e media. Una guida ad uso delle redazioni con indicazioni pratiche e suggerimenti sull’uso dell’italiano», prosegue Onofri.
Alma Sabatini e le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana del 1986
La consapevolezza sull’uso del linguaggio comincia ad affermarsi in Italia nel corso degli anni Ottanta. Nel 1986 vengono diffuse le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana a cura di Alma Sabatini. «Sabatini è stata la prima importante saggista, linguista e femminista a porre in evidenza la connessione tra permanenza degli stereotipi che ostacolano la piena realizzazione delle donne e una lingua italiana maschilista. Tredici anni dopo l’uscita di Dalla parte delle bambine con queste raccomandazioni si puntò il dito su un altro tipo di condizionamento, su quanto il linguaggio fosse importante, su quanto potesse rivelare di quello che siamo. Ancora oggi permangono resistenze sulla declinazione al femminile di alcune cariche, ruoli e professioni, un tempo prettamente maschili. Anche tra le donne, che percepiscono come una deminutio il fatto di farsi chiamare, ad esempio, avvocata», spiega Onofri.
Per una società equa, paritaria e libera da stereotipi
L’obiettivo da raggiungere è chiaro secondo la rappresentante di Se non ora, quando?: «Una società più equa e paritaria, libera da stereotipi, è una società migliore per tutte le persone, indipendentemente dal genere. Questo processo di liberazione va anche a favore di bambini, ragazzi e uomini. Un bambino che viene redarguito perché esprime le proprie emozioni piangendo non è un bambino felice: è represso. Un bambino che vorrebbe iscriversi a un corso di danza ma non gli è consentito perché non confacente al suo sesso biologico non è un bambino felice: è represso nella sua spontaneità». Come scrive Gianini Belotti: «L’operazione da compiere non è quella di tentare di formare le bambine a immagine e somiglianza dei maschi, ma di restituire a ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi nel modo che gli è più congeniale, indipendentemente dal sesso cui appartiene».
Elena Gianini Belotti
Puntare su famiglie, scuole e nuove leggi contro la discriminazione
Su quali elementi lavorare per consentire alla nostra società di evolvere verso una maggiore equità? Onofri ritiene si debba intervenire su due fronti. Il primo fronte è sociale e culturale. «Le associazioni possono fare molto nell’opera di sensibilizzazione, a partire da docenti e genitori, per diffondere una cultura del rispetto e della parità, in assenza di stereotipi. Credo nel fare rete, nel lavorare insieme: abbiamo bisogno di essere più coese». Il secondo fronte è politico. «Occorre incidere con leggi che rimuovano gli stereotipi. Fare pressione sui decisori politici per inserire norme antidiscriminazione». Una sensibilizzazione che parta dal nucleo famigliare e dalla scuola è indispensabile anche secondo Fraissinet. «La parità si insegna a casa. La famiglia è una società in miniatura, la prima esperienza sociale che vive una persona appena nata. Fondamentale che i genitori possano essere un modello di gestione paritaria dei ruoli. Necessario lavorare anche sull’educazione sessuale nelle scuole, a partire dai primi gradi di istruzione. Diffondere un’educazione che spieghi cos’è il genere e perché i ruoli di genere sono qualcosa che non serve e che, anzi, ci limita».
La lotta femminista deve tradursi in tutele reali
Sebbene mai come ora il dibattito sui diritti delle donne e della comunità LGBTQIA+ sia presente nel nostro quotidiano e a tutte le latitudini si alzino voci di protesta, spesso questo boato non si traduce in tutele reali. Le piazze si riempiono ma il diritto all’aborto, per fare un esempio, nei fatti non è ancora garantito e anzi è sempre messo in discussione. Commenta Onofri: «Anche in Italia abbiamo una buona legge 194 sulla interruzione volontaria della gravidanza che spesso però non viene applicata o non viene applicata in modo corretto. C’è il rischio reale di tornare indietro, basta poco. In Piemonte si sono diffusi movimenti antiabortisti che difendono un modello di famiglia tradizionale». Si parla tanto, ma si incide poco sulla realtà o almeno non ovunque allo stesso modo. «Quello che succede in tanti Paesi conservatori, può accadere anche a noi. Nessun diritto può essere dato come acquisito per sempre. Occorre stare all’erta. Ci sono leggi che vengono approvate e che in modo sottile da un giorno all’altro fanno sì che le persone si ritrovino private di un diritto».
L’esempio del diritto all’aborto: l’abolizione della sentenza Roe v. Wade negli Stai Uniti
Pensiamo all’America e all’Europa: nel giugno dello scorso anno la Corte Suprema statunitense ha abolito la sentenza Roe v. Wade del 1973 sul diritto all’aborto, dando facoltà ai singoli Stati di applicare le proprie leggi. In Argentina nel 2020 il Congresso ha riconosciuto il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza durante le prime 14 settimane di gestazione. Il Governo spagnolo lo scorso anno ha approvato un disegno di legge su salute riproduttiva, sessuale e diritto all’aborto che prevede anche il congedo mestruale, l’obbligatorietà dell’educazione sessuale fin dalle scuole dell’infanzia, un permesso pre-parto per le donne incinte. Due passi avanti e uno indietro, sembrerebbe dunque. È per questo che le bambine hanno ancora bisogno di essere difese.
Laura Onofri
Presidente del comitato torinese dell’associazione ‘Se non ora, quando?’, movimento apartitico per i diritti delle donne nato nel 2010. Componente del coordinamento nazionale dei comitati ‘Se non ora, quando?’.
Alessandra Fraissinet
ideatrice con Annalisa Sirignano di Ti leggiamo una femminista, podcast nato nell’ottobre 2020, che ogni primo lunedì del mese mette al centro un libro femminista.
Femminismo, è morta Elena Gianini Belotti: è stata la prima a parlare di sessismo nell’educazione
Autrice del libro ‘Dalla parte delle bambine’, la scrittrice aveva 93 anni: il suo saggio del 1973, una rivoluzione nella pedagogia, è stato un manifesto per generazioni
di LETIZIA CINI-25 dicembre 2022
ddio a Elena Gianini Belotti, aveva 93 anni. Grande protagonista del femminismo italiano: pedagogista, saggista e scrittrice, la prima a parlare del sessismo nell’educazione con il suo famoso libro Dalla parte delle bambine, è morta a Roma nella notte di Natale all’età di 93 anni. Insegnante per molti anni alla Scuola Assistenti Infanzia Montessori, Gianini Belotti nel 1960 partecipò alla fondazione del Centro Nascita Montessori di Roma, assumendone la direzione che conservò fino al 1980: fu il primo in Italia ad occuparsi della preparazione delle future madri al parto e alla cura del bambino nei primi mesi di vita. Nel Centro le gestanti venivano preparate psicologicamente e praticamente al compito di madri rispettose dell’individualità del bambino. Dal lavoro negli asili nidi con i bambini al di sotto dei 3 anni e dall’osservazione dei loro comportamenti precoci, diversificati secondo il genere, è nato il suo primo libro Dalla parte delle bambine, pubblicato da Feltrinelli nel 1973, che, come la stessa autrice sottolinea, analizza “l’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita”, ovvero “come la società vuole che diventiamo donne, fin dalla nascita, o meglio, fin da quando siamo nel grembo materno. Questo testo, che individuava ed analizzava in maniera pionieristica i condizionamenti sociali, culturali cui vengono sottoposti maschi e femmine, ha avuto 57 edizioni per oltre 600.000 copie e traduzioni in 15 lingue, tanto da diventare un testo ‘rivoluzionario’ per l’epoca: nè l’autrice nè l’editore si immaginavano un successo così straordinario. “Rispetto al modello di madre idealizzata, forse le donne stanno diventando pessime madri – scriveva – . Ma per la prima volta nella storia stanno diventando autentiche e reali, perché prima di essere madri vogliono essere persone“. E ancora: “Il maschio spacca tutto è accettato, la femmina no. La sua aggressività, la sua curiosità, la sua vitalità spaventano e così vengono messe in atto tutte le tecniche possibili per indurla a modificare il suo comportamento”.
Elena Gianini Belotti
I suoi libri
Sull’onda del successo di “Dalla parte delle bambine, Elena Gianini Belotti iniziò a collaborare con diversi giornali e riviste, tra cui “Paese sera” e “Noi Donne” e si dedicò alla scrittura di numerose opere, tra saggi e romanzi, ed approfondendo lo studio sulla maternità nella letteratura contemporanea. Tra i suoi libri Che razza di ragazza (Savelli, 1979), Prima le donne e i bambini (Rizzoli, 1980), Non di sola madre (Rizzoli, 1983); Educazione dalla nascita (con Grazia Honegger Fresco, Emme Edizioni, 1983). Il fiore dell’ibisco(Rizzoli, 1985, Premio Napoli) ) è il suo primo romanzo in cui afferma che “i talenti delle donne vanno smarriti nella fatica quotidiana di pensare, organizzare”. Seguono Amore e pregiudizio. Il tabù dell’età nei rapporti sentimentali (Mondadori, 1988); Adagio un poco mosso (Feltrinelli, 1993), una raccolta di sette racconti su “vecchie signore solitarie”; Pimpì oselì (Feltrinelli, 1995), in cui racconta uno scorcio dell’Italia degli anni Trenta, nel periodo fascista, visto con gli occhi di una bambina; Apri le porte all’alba (Feltrinelli, 1999); Voli (Feltrinelli, 2001; Premio speciale della giuria del Premio Rapallo); Prima della quiete. Storia di Italia Donati (Rizzoli, 2003, Premio Grinzane Cavour, Premio Viadana, Premio Maiori), che racconta la storia di una maestra toscana che si suicida a causa delle persecuzioni verbali degli abitanti del luogo in cui vive; Pane amaro. Un immigrato italiano in America (Rizzoli, 2006), romanzo sul diario di suo padre che nel 1913 emigrò in America in cerca di lavoro; Cortocircuito (Rizzoli, 2008); L’ultimo Natale”(Nottetempo, 2012); “Onda lunga” (Nottetempo, 2013).
Ha inoltre scritto la prefazione a Ancora dalla parte delle bambine di Loredana Lipperini (Feltrinelli, 2007), aggiornamento dei temi trattati 35 anni prima da Elena Gianini Belotti. Nata il 2 dicembre 1929 a Roma da genitori di origine bergamasca, Gianini Belotti trascorse l’infanzia e l’adolescenza in parte a Roma e in parte nella provincia di Bergamo, dove la madre era insegnante di scuola elementare. Ha vissuto poi tra Roma e Trequanda, nella campagna senese. – Dattilografa in un magazzino di articoli industriali, a sedici anni, cominciò a scrivere racconti che vennero pubblicati sulle riviste femminili del tempo. Più tardi, l’interesse per i meccanismi dello sviluppo infantile la spinse a diplomarsi alla Scuola Assistenti Infanzia Montessori, allora privata, dove rimane ad insegnare per molti anni la pratica montessoriana dell’osservazione e degli interventi educativi con i bambini. Nel 1960 la svolta della sua vita con la fondazione del Centro Nascita Montessori. L’idea di partenza era di trasformare in azioni concrete le indicazioni teoriche montessoriane sulla precocissima vita psichica del neonato, allora considerato un essere inerte, insensibile, cieco e sordo agli stimoli affettivi e ambientali. Era indispensabile rivedere le modalità del parto e della nascita, intrusive e violente e noncuranti delle necessità della madre e del bambino, e rielaborare, con attenzione e delicatezza, le cure e gli interventi più adeguati, scaturiti dall’osservazione empirica del comportamento neonatale nei primi mesi di vita.
Dai metodi contraccettivi ai corsi di preparazione al parto
A questo scopo con la direzione di Elena Gianini Belotti venne curata la preparazione specifica di assistenti specializzate, iniziarono per le gestanti i corsi di preparazione al parto con il training autogeno e quelli alla cura del neonato, nei quali vennero coinvolti anche i padri, ammessi in sala parto. Vennero organizzati i primi incontri sui metodi contraccettivi e sull’educazione sessuale, consulenze a domicilio sui problemi infantili nei primi tre anni di vita. Più tardi, il Centro Nascita ha assunto la gestione di alcuni asili nido aziendali. Per Elena Gianini Belotti è stato un lavoro appassionante, molto utile per la sua formazione e anche per la sua successiva attività letteraria. La sua passione le consentì peraltro di avviare per il Centro Nascita la raccolta sistematica di testi, saggi, letteratura attorno all’infanzia, nucleo dell’attuale biblioteca che si avvale di oltre 3.000 volumi.
Da ‘Prima le donne e i bambini’ di Elena Gianini Belotti
Ancora dalla parte delle bambine
“Quello che ci siamo sentiti dire da bambini: stai fermo, muoviti, fai piano, sbrigati, non toccare, stai attento, hai fatto la cacca, mangia tutto, lavati i denti, non ti sporcare, ti sei sporcato, stai zitto, parla t’ho detto, chiedi scusa, saluta, vieni qui, non starmi sempre intorno, vai a giocare, non disturbare, non correre, non sudare, attento che cadi, te l’avevo detto che cadevi, peggio per te, non stai mai attento, non sei capace, sei troppo piccolo, ormai sei grande, vai a letto, alzati, farai tardi, copriti, non stare al sole, stai al sole, non si parla con la bocca piena.Quello che avremmo voluto sentirci dire da bambini: ti amo, sono felice di averti, parliamo un po’ di te, troviamo un po’ di tempo per noi, come ti senti, sei triste, hai paura, perché non ne hai voglia, sei dolce, sei morbido e soffice, sei tenero, raccontami, che cosa hai provato, sei felice, mi piace quando ridi, puoi piangere se vuoi, sei scontento, cosa ti fa soffrire, che cosa ti ha fatto arrabbiare, ho fiducia in te, mi piaci, io ti piaccio, quando non ti piaccio, ti ascolto, sei innamorato, cosa ne pensi, mi piace stare con te, ho voglia di parlarti, ho voglia di ascoltarti, mi piaci come sei, è bello stare insieme”.
Dicono di lei
“Donne come Elena Gianini Belotti non scompaiono alla loro morte, il loro lascito è molto più di una eredità, è genealogia, è il tessuto connettivo del nostro pensiero e del nostro agire – scrive la psicologa e psicoterapeuta italo inglese, è esperta di linguaggi e comunicazione di genere Judith Pinnock – . L’abbiamo letta e amata soprattutto con Dalla parte delle bambine, ma ogni suo scritto è una pietra miliare per imparare a smascherare i tranelli del patriarcato e per improntare le relazioni a una pedagogia basata sul rispetto e il riconoscimento reciproco, come nel brano scelto per onorarla che vi invito a tenere come guida per come rivolgerci ai bambini e agli adulti”.
-Claribel Alegrìa poetessa e scrittrice nicaraguense-
Claribel Isabel Alegría Vides, nota semplicemente come Claribel Alegría (12 maggio 1924 – 25 gennaio 2018), era una poetessa, giornalista e scrittrice nicaraguense autrice anche di alcuni saggi, considerata con la connazionale Gioconda Belli la maggiore esponente della letteratura del Centro America. Nata a Estelí, una piccola città del Nicaragua, crebbe tuttavia a Santa Ana, nel Salvador. Nel 1943 si trasferì negli Stati Uniti per studiare e nel 1948 ricevette il B.A. (Bachelor of Arts), cioè la laurea, in Filosofia e Letteratura alla prestigiosa George Washington University di Washington.Tornata in patria, legandosi al Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, d’ispirazione marxista, fu coinvolta nelle proteste nonviolente contro la dittatura del Presidente Anastasio Somoza Debayle. Nel 1979 Somoza cadde e il Fronte prese il potere in Nicaragua, ma Alegría, che nel frattempo aveva iniziato la propria carriera di poetessa, scrittrice, giornalista e saggista, decise di tornarvi solo nel 1985. Attualmente viveva nella capitale Managua. Scrittrice popolare in tutta l’America Latina, riflette uno stile che, a differenza di molti autori americani o europei, non è ripiegato su una lunga tradizione letteraria. Identificata come un’autrice della generación comprometida, poetessa severa e critica, a volte pessimista, in un classico umore mutevole come mutevole è la situazione politica del Centro America, Claribel Alegría usava nelle sue poesie il linguaggio comune, del popolo, e spesso una sua composizione non supera la decina di versi. Ha scritto anche romanzi, racconti e storie per bambini. Nel 1978 ha ricevuto a Cuba il Premio “Casa de las Américas”, il più prestigioso riconoscimento letterario del Centro America, e il “Neustadt International”.
Cuando me mates / muerte / tu te habiás evaporado / para siempre / yo / saltaré sobre mi cuerpo / y seguiré viviendo” (Quando mi ucciderai / morte / tu evaporerai / per sempre / io /
salterò sul mio corpo / e continuerò a vivere“
Quel bacio
Quel bacio di ieri mi ha
aperto la porta
e tutti i ricordi
che credevo fossero fantasmi
si sono ostinati
a mordermi.
La voce del ruscello
Torno verso il mare
è lì che nacqui
mi accolse una roccia
quando saltai sulla terra.
Scendo piano
mi trattengo nel muschio
tra i fiori selvatici
scendo a cercare il fiume
che mi riporti al mare.
Il mio vicino
il torrente
non sa che io esisto
brama
salta
riempie canali
scoppia
anche lui cerca il fiume
dissolversi nel fiume
che mi riporti al mare
perché il mare ci aspetta
perché il mare è la culla
perché siamo il mare.
Io sono un gabbiano
Sono un gabbiano
solitario
con l’ala spezzata
faccio un solco nella sabbia.
Inconfondibile
è la voce
che mi insegue
che non si scolla da me
che tesse insonnie.
Come la pioggia
cade
come il vento
solo questa voce ascolto
mi possiede
lascia cadere avanzi di pane
e fugge via.
(da ‘Voci‘, Samuele Editore, 2015 – Traduzione di Zingonia Zingone)
Claribel Alegria
Claribel Alegría
Cos’è poesia?Ce lo ricorda Claribel Alegría
Di: Mattia Cavadini
Capita a volte, invero raramente, di imbattersi in una successione di frasi o versi di una bellezza e potenza inaudite. Penso ad alcune poesie di Rilke, qualche verso del Montale di Xenia, alcune figurazioni dantesche, brevi illuminazioni rimbaudiane, l’incanto di Wordsworth o i sassolini naif che Walser lascia cadere nel suo camminare in prosa.
Questo catalogo è inviolabile, emana una luce abbacinante, e non sopporta volgarizzazioni. In esso entrano pochi nomi, per cui quando capita di imbattersi in nuovi cristalli verbali che possano essere annoverati nel catalogo, ecco che si sobbalza sulla sedia, si freme, si sorride e si piange di commozione. È quanto mi è successo ultimamente, leggendo la prima parte del poema Amore senza fine (edizioni Fili d’Aquilone) di Claribel Alegría, poetessa nicarguense di cui ignoravo l’esistenza.
Claribel Alegria poetessa e scrittrice nicaraguense
E allora mi sono domandato: come è possibile che determinati autori riescano a generare cristalli verbali così potenti? La sensazione è che questi momenti poetici non appartengano a colui o colei che li ha generati. Essi sembrano piuttosto superare non solo l’autore ma anche la realtà in cui sono nati. Sono, questi cristalli, l’indizio di ciò che può essere fatto senza che l’autore possa rivendicarne il dominio o la paternità. Ma allora, se non è l’autore che parla in questi momenti ieratici, chi sta parlando? Leggendo la sezione La soglia del poema di Claribel Alegría ho avuto la sensazione (come per gli altri cristalli verbali) che i suoi versi custodissero il fiato di una bocca ignota, fossero il riflesso immateriale in cui si specchiano i segreti del mondo.
n questi cristalli verbali si ha la sensazione che lo scrittore non scriva, ma che sia scritto. O meglio, che scriva parole ricevute, parole che provengono da un altro. Non a caso Rimbaud diceva: C’est faux de dire: Je pense; on devrait dire: On me pense. Stessa cosa ribadiva Jung a proposito del pensiero primitivo: La mentalità primitiva si distingue da quella civilizzata soprattutto per il fatto che non si pensa “coscientemente”, ma i pensieri semplicemente “affiorano”. Il primitivo non può dire che pensa, bensì che “in lui si pensa”.
Purtroppo nel mondo odierno questo tipo di scrittura non esiste più. Gli scrittori oggi sembrano poco disposti a farsi da parte e a lasciare che sia l’altro a scrivere al proprio posto. Eppure, come suggeriva Barthes, scrivereimplica necessariamente tacere: scrivere è in un certo modo “farsi muto come un morto”, diventare uno cui non è consentita l’ultima replica; scrivere è dal primo momento offrire all’altro quest’ultima replica. In altre parole: solo facendo olocausto di sé e delle cose stabilite, lo scrittore può servire una realtà sconosciuta ed invisibile (rovina di ciò che egli conosce e meraviglia di ciò che ignora). Solo cercando ciò che si perde, ciò che è al di là dei propri confini, è possibile essere messaggeri dell’infinito.
Perdendosi, il poeta si scopre radunatore di miti, eco dello spirto. Dante lo sapeva bene, quando invocava: entra nel petto mio, e spira tue o quando ribadiva: Amor che ditta dentro. Stessa cosa diceva Platone, allorché affermava che per bocca dei poeti, privati del senno e della volontà, parlava la divintà. Peccato che tale scrittura sia andata scomparendo e grazie a Claribel Alegría per avermi ricordato ciò che è Poesia: la trascrizione di cristalli verbali ricevuti dal cielo, e, in assenza di questi messaggi, il silenzio.
Claribel Alegria poetessa e scrittrice nicaraguense
Claribel Alegría- La poesia è puro amore
Di: Gianni Beretta
Resisterà la poesia in un mondo caotico, sempre più razionale e virtuale, piegato al dio denaro? Per Claribel Alegría, tra i magigiori poeti latinoamericani, assolutamente sì. Per lei, che ci ha lasciti il 25 gennaio 2018, la poesia era qualcosa di antecedente il linguaggio: da quando esiste l’homo sapiens, quando una mamma coccola e canta per il suo bambino, fa poesia; la poesia è nel profondo dell’essere umano, che scriva o no. Il 14 novembre 2017 Claribel ha ricevuto dalle mani della regina emerita Sofia di Spagna la massima onorificenza per la Poesia Iberoamericana 2017 (l’equivalente del Miguel de Cervantes per la letteratura), onorificenza attribuitale dalla prestigiosa Università di Salamanca (che in passato aveva insignito poeti del calibro di Álvaro Mutis, Juan Gelman e María Victoria Atencia).
Nata il 12 maggio 1924 in Nicaragua, da madre salvadoregna e padre nicaraguense, Claribel Alegría trascorre la sua infanzia e adolescenza in El Salvador. Per poi andare a studiare lettere e filosofia alla George Washington University.
Claribel Alegría incomincia a scrivere poesie molto presto, a 14 anni, ispirata dalla lettura di un grande vate: il ceco Rainer Maria Rilke. E il suo primo maestro (severo e rigoroso, dice di lui con gratitudine) è il poeta spagnolo e nobel per la letteratura Juan Ramon Jimenez.
La sua è una poetica eminentemente lirica, in un istmo centroamericano fecondo in quanto a narrativa e poesia, avendo dato i natali a grandi letterati come Rubén Darío (in Nicaragua), Miguel Ángel Asturias (in Guatemala) e Roque Dalton (in El Salvador).
Claribel fin dall’inizio pone al centro della sua opera l’amore, nelle sue diverse manifestazioni, a immagine del suo profondo amore verso la vita intera. La sua poesia non si arresta, infatti, di fronte al negativo ma si dispone con lo stesso amore e con la stessa partecipazione sia alla gioia che al dolore, sia alla nascita che al tramonto, sia alla presenza che all’assenza.
La Rivoluzione Cubana del 1959 le apre gli occhi sulla realtà sociale dei paesi centroamericani, allora oppressi sotto il giogo di dittature oligarchico-militari. La forza della rivoluzione le dimostra che la cogenza storica e sociale (che a prima vista potrebbe sembrare ineluttabile e priva di futuro) può essere cambiata. Cominciai a scrivere oltre il mio ombelico, afferma Claribel, che ciononostante preferisce tenersi alla larga dal poema politico e di denuncia (e, più in generale, dalla letteratura impegnata): la poesiaè scrivere e riscrivere al meglio un poema;non deve fare compromessi né essere al servizio di nessuno. E, a coloro che ritengono che i suoi sarebbero talvolta versi politici, risponde: la mia poesia è puro amore verso la mia gente.
Claribel ha scritto pure diverse novelle insieme al suo compagno di vita: Darwin Flakoll, detto Bud, suo coetaneo, determinante nella sua opera e ispirazione poetica. Insieme hanno vissuto a Città del Messico, Santiago del Cile, Buenos Aires, Montevideo e Parigi. Per poi ritirarsi a Mayorca, a fianco dell’abitazione dello scrittore Robert Graves.
Julio Cortázar, Mario Benedetti, Eduardo Galeano, Vargas Llosa, Carlos Fuentes fra gli altri, erano di casa da loro nell’isola. Così come erano altrettanto di casa a Managua quando Claribel e Bud si trasferirono definitivamente in Nicaragua nel 1982, in piena Rivoluzione Popolare Sandinista.
Con Bud (scomparso nel 1995) aveva un rapporto che, se possibile, veniva prima dei sentimenti che nutrivano verso i loro quattro figli. Mi chiedono spesso, afferma Claribel, quale sia il segreto per un amore duraturo. Rispondo che oltre all’amore ci deve essere una grande amicizia. Senza amicizia l’amore appassisce. Per Claribel Alegría dunque l’amore “eterno” esiste, e lei ha avuto il privilegio di viverlo.
La parola è un’ossessione per Claribel, che considera la poesia un esercizio ben più arduo della prosa: ho passato notti insonni per trovare la parola giusta di un verso. Claribel Alegría ha pubblicato una ventina di libri di poesie, fra cui: Variaciones en clave de mí, Sobrevivo, Umbrales, Saudade, Soltando amarras… In italiano sono stati tradotti Alterità (Incontri Editrice 2012) e Voci (Samuele Editore 2015), oltre alla novella Ceneri d’Izalco (Incontri Editrice 2011) scritta nel 1966 con il marito Darwin Flakoll. E il poemaAmore senza finededicato al suo Bud: sessantuno pagine fitte di versi dove Claribel compie un dolce e misterioso viaggio nell’aldilà, un viaggio che supera il tempo e la morte.
Gertrud Kathe Sara Chodziesner nasce a Berlino nel 1894, in una famiglia ebrea.Lavora come insegnante in una scuola femminile e coi bambini disabili e, nel mentre, scrive varie poesie con lo pseudonimo di Gertrud Kolmar.La poetessa esprime, nelle opere, il suo modo di essere e la struggente richiesta di essere ascoltata dagli altri, lontana da qualsiasi ambizione mondana.Le sue poesie giungono al grande pubblico nel 1938, ma vengono subito cancellate dalle leggi razziali. Gertrud le consegna a familiari emigrati, poi è costretta a prendere la dimora, con il padre, nella “Casa degli Ebrei”.Il padre nel 1941 viene inviato al campo di Theresienstadt, Gertrud il 2 marzo 1943 viene caricata sul treno senza ritorno con Auschwitz come destinazione finale.
L’animale
Vieni qui. E vedi la mia morte e vedi questo
eterno patire,
L’ultima onda che tremando si perde sul mio
pelo,
E sappi che il mio piede con gli artigli fu
debole e sfuggente,
E non chiedere se sono lepre, scoiattolo, o
topo.
Perché non importa. Sempre ti voglio male
o bene;
Sei il tiranno che inventa la legge,
E la misura secondo le sue membra, come fosse il suo mantello,
il suo cappello.
E tra le mura della sua città lo straniero
stringe e offende.
Muto ti adagi sulle tombe degli uomini
Fatti a pezzi da te;
Soffrendo, diventarono santi, cinti d’oro.
Porti la pelle della madre morta e la metti addosso
a tuo figlio,
Regali giochi sbocciati dalla fronte insanguinata
dei martiri.
Perché in vita siamo bestiame e selvaggina; cadiamo:
preda, carne e pasto –
Non rugiada di mare, né raccolto di terra che voi senza riserva
concedete.
Con l’inferno ed il cielo vi addormentate; quando
crepiamo siamo carogne,
Ma il vostro cruccio è che non ci potete più
ammazzare.
A chi un tempo pregasti, io diedi le mie
immagini,
Finché riconoscesti il dio dell’uomo, non più
il dio degli animali,
Ed estirpasti la mia prole e chiudesti tra pietre
la mia fonte
E ciò che scrisse la tua brama chiamasti
una frase dell’Altissimo.
E tu hai la speranza e l’orgoglio, l’al di là, e ancora hai
del soffrire la ricompensa
Che si rifugia inviolabile nella tua anima;
Ma in una veste di piume e squame, io sopporto
mille volte,
E se tu piangi, sono il tappeto, sopra cui s’inginocchia
la tua pena.
Gertrud Kolmar – Das Tier
(Traduzione di Adelmina Albini e Stefanie Golish)
Das Tier
Komm her. Und siehe meinen Tod, und siehe dieses
ewige Ach,
Die letzte Welle, die verläuft, durchzitternd meinen
Flaus,
Und wisse, daß mein Fuß bekrallt und daß er flüchtig
war und schwach,
Und frag nicht, ob ich Hase sei, das Eichhorn, eine
Maus.
Denn dies ist gleich. Wohl bin ich dir nur immer böse
oder gut;
Der Willkürherrscher heißest du, der das Gesetz erdenkt,
Der das nach seinen Gliedern mißt wie seinen Mantel,
seinen Hut.
Und in den Mauern seiner Stadt den Fremdling drückt
und kränkt.
Die Menschen, die du einst zerfetzt: an ihren Gräbern
liegst du stumm;
Sie wurden leidend Heilige, die goldnes Mal verschloß,
Du trägst der toten Mutter Haut und hängst sie deinem
Kinde um,
Schenkst Spielwerk, das der blutigen Stirn Gemarteter
entsproß.
Denn lebend sind wir Vieh und Wild; wir fallen:
Beute, Fleisch und Fraß –
Kein Meerestau, kein Erdenkorn, das rückhaltlos ihr
gönnt.
Mit Höll und Himmel schlaft ihr ein; wenn wir
verrecken , sind wir Aas,
Ihr aber klagt den Gram, daß ihr uns nicht mehr
morden könnt.
Einst gab ich meine Bilder her, zu denen du gebetet
hast,
Bis du den Menschengott erkannt, der nicht mehr
Tiergott blieb,
Und meinen Nachwuchs ausgemerzt und meinem Quell
in Stein gefaßt
Und eines Höchsten Satz genannt, was deine Gierde
schrieb.
Und hast die Hoffnung und den Stolz, das Jenseits, hast
noch Lohn zum Leid,
Der, unantastbar dazusein, in deine Seele flieht;
Ich aber dulde tausendfach, im Federhemd, im
Schuppenkleid,
Und bin der Teppich, wenn du weinst, darauf dein
Jammer kniet.
“La città è per me un vino colorato in un levigato
calice di pietra
che sta e brilla
davanti alla mia bocca
e specchia la mia immagine nella sua cavità.
Esso riflette il suo cerchio
più profondo che ognuno conosce, ma nessuno sa perché, ciechi,
ci colpiscono tutte le cose
a noi quotidiane e usuali.
Davanti a me
la rigida parete
delle sagge case con il suo «Qui da noi…» sicuro di sè;
il volto di vetro
della piccola bottega
si chiude riservato:
«Io non t’ho chiamata.»
II selciato ascolta
e cerca a tentoni
il mio passo
pieno di sospetto e di curiosità
e dove il legno
si unisce con la colla,
là si parla una lingua
che non è mia.
La luna palpita rossastra
come un assassinio
sopra il corpo lontano,
sopra la parola smarrita, quando, la notte,
contro il mio petto
s’infrange il respiro
d’un mondo straniero.”
L’ABBANDONATA
A K. J.
Ti sbagli. Credi di esser lontano,
e che ti cerchi ansiosamente e non riesca più a trovarti?
Ti tocco con i miei occhi,
con questi occhi, che sono buio e una stella.
Ti trascinai sotto questa palpebra,
la chiusi e sei per sempre prigioniero.
Come credi di poter fuggire ai miei sensi,
alla rete del cacciatore, a cui mai sfuggì una preda?
Non mi lasci più cadere dalle tue mani
come un mazzo di appassiti fiori,
per strada gettati, e sulle soglie
calpestati e da tutti infangati.
Ti ho voluto bene. Tanto bene.
Ho pianto tanto…con preghiere ardenti…
E ti amo ancora di più, perché per te soffrii,
quando la tua penna non scrisse più lettere, non più lettere per me.
Ti chiamavo amico e signore e guardiano del faro
sul sottile tratto d’isola,
tu, il giardiniere del mio frutteto,
e ce n’erano mille buoni, e nessuno era quello giusto.
Non mi accorsi che mi si infranse il vaso
che conteneva la mia giovinezza – e piccoli soli,
gocce ch’essa stillava, si dispersero nella sabbia.
Ero in piedi e ti fissavo.
Il tuo passaggio rimase nei miei giorni,
come profumo sta attaccato ad un abito,
che inconsapevolmente lo accoglie solo
per portarlo sempre addosso.
*
DIE VERLASSENE
Du irrst dich. Glaubst du, dass du fern bist
Und dass ich dürste und dich nicht mehr finden kann?
Ich fasse dich mit meinen Augen an,
Mit diesen Augen, deren jedes finster und ein Stern ist.
Ich zieh dich unter dieses Lid
Und schliess es zu und du bist ganz darinnen.
Wie willst du gehen aus meinen Sinnen,
Dem Jägergarn, dem nie ein Wild entflieht?
Du lässt mich nicht aus deiner Hand mehr fallen
Wie einen welken Strauss,
Der auf die Strasse niederweht, vorm Haus
Zertreten und bestäubt von allen.
Ich hab dich liebgehabt. So lieb.
Ich habe so geweint…mit heissen Bitten…
Und liebe dich noch mehr, weil ich um dich gelitten,
Als deine Feder keinen Brief, mir keinen Brief mehr schrieb.
Ich nannte Freund und Herr und Leuchtwächter
Auf schmalen Inselstrich,
Den Gärtner meines Früchtegartens dich,
Und waren tausend weiser, keiner war gerechter.
Ich spürte kaum, dass mir der Hafem brach,
Der meine Jugend hielt – und kleine Sonnen,
Dass sie vertropft, in Sand verronnen.
Ich stand und sah dir nach.
Dein Durchgang blieb in meinen Tagen,
Wie Wohlgeruch in einem Kleide hängt,
Den es nicht kennt, nicht rechnet, nur empfängt,
Um immer ihn zu tragen.
NOI EBREI
Solo la notte è in ascolto: ti amo, ti amo popolo mio,
voglio abbracciarti forte,
come una donna fa col suo compagno alla gogna, nella fossa,
la madre non lascia il suo figlio ingiuriato precipitare da solo.
E se un bavaglio ti soffoca in gola il grido straziato,
e – crudeli – ti legano le braccia tremanti,
lasciami essere la voce che cade nell’abisso dell’eternità,
la mano che si tende a toccare Dio in cielo.
Dalle rocce delle montagne il Greco trascinò giù i suoi pallidi dei,
e Roma lanciò sulla terra uno scudo di ferro,
un turbinio vorticoso dal cuore dell’Asia, orde di mongoli si sollevarono,
gli imperatori da Aquisgrana seguivano il sud con lo sguardo.
E la Germania e la Francia portano un libro e una spada fiammeggiante,
sulle navi l’Inghilterra percorre un sentiero d’argento e d’azzurro,
e la Russia è un’ombra che incombe, una fiamma arde sul suo focolare,
e noi, noi siamo nati dal patibolo e dalla forca!
Questo cuore che scoppia, trasudare di morte, senza lacrime gli occhi,
e al palo della tortura il gemito eterno che il vento, ululando, consuma,
e la mano scarna – le vene come vipere verdi – la povera mano
che lotta contro la morte fra roghi e capestri.
L’inferno ha bruciato la barba canuta, gli artigli del diavolo l’han fatta a brandelli,
l’orecchio mutilato, le ciglia strappate; gli occhi, velati, si offuscano:
Oh, voi ‘ Quando giunge l’ora fatale, qui ed ora, io voglio alzarmi,
voglio essere il vostro arco trionfale attraverso il quale passano le pene e i tormenti!
Non bacerò la mano che agita il turgido scettro dei pieni poteri,
non bacerò il ginocchio di bronzo, ne il piede d’argilla del dio d’un tempo crudele;
Oh, potessi – io, fiaccola ardente – levare la voce
nell’oscuro deserto del mondo: giustizia! giustizia! giustizia!
Caviglie. Ho trascinato catene, risuona il mio passo di prigioniero.
Labbra. Serrate, sigillate da cera incandescente.
Cuore. Una rondine in gabbia che supplica di volare.
E sento la mano che trascina su un mucchio di cenere il mio viso piangente.
Solo la notte è in ascolto: ti amo popolo mio, vestito di stracci:
come il figlio di Gea, terra dei pagani, si trascina spossato verso la madre,
tu ora buttati in basso, sii debole, abbraccia il dolore,
un giorno il tuo piede di viandante, stanco, calpesterà il capo dei potenti!
15.9.1933
Traduzione Germana Carlino
Tratta dall’opuscolo GERTRUD KOLMAR. LA STRANIERA 1894 – 1943 che trovate qui
Wir Juden
Nur Nacht hört zu. Ich liebe dich, ich liebe dich, mein Volk,
Und will dich ganz mit Armen umschlingen heiß und fest,
So wie ein Weib den Gatten, der am Pranger steht, am Kolk
Die Mutter den geschmähten Sohn nicht einsam sinken lässt.
Und wenn ein Knebel dir im Mund den blutenden Schrei verhält,
Wenn deine zitternden Arme nun grausam eingeschnürt,
So lass mich Ruf, der in den Schacht der Ewigkeiten fällt,
Die Hand mich sein, die aufgereckt an Gottes hohen Himmel rührt.
Denn der Grieche schlug aus Berggestein seine weißen Götter hervor,
Und Rom warf über die Erde einen ehernen Schild,
Mongolische Horden wirbelten aus Asiens Tiefen empor,
Und die Kaiser in Aachen schauten ein südwärts gaukelndes Bild.
Und Deutschland trägt und Frankreich trägt ein Buch und ein blitzendes Schwert,
Und England wandelt auf Meeresschiffen bläulich silbernen Pfad,
Und Russland ward riesiger Schatten mit der Flamme auf seinem Herd.
Und wir, wir sind geworden durch den Galgen und das Rad!
Dies Herzzerspringen, der Todesschweiß, ein tränenloser Blick
Und der ewige Seufzer am Marterpfahl, den heulenden Wind verschlang.
Und die dürre Kralle, die elende Faust, die aus Scheiterhaufen und Strick,
Ihre Adern grün wie Vipernbrut dem Würger entgegenrang.
Der greise Bart, in Höllen versengt, von Teufelsgriff zerfetzt,
Verstümmelt Ohr, zerrissene Brau und dunkelnder Augen Fliehn:
Ihr! Wenn die bittere Stunde reift, so will ich aufstehn hier und jetzt,
So will ich wie ihr Triumphtor sein, durch das die Qualen ziehn!
Ich will den Arm nicht küssen, den ein strotzendes Zepter schwellt,
Nicht das erzene Knie, den tönernen Fuß des Abgotts harter Zeit;
O könnt ich wie lodernde Fackel in die finstere Wüste der Welt
Meine Stimme heben: Gerechtigkeit! Gerechtigkeit! Gerechtigkeit!
Knöchel. Ihr schleppt doch Ketten, und gefangen klirrt mein Gehn.
Lippen. Ihr seid versiegelt, in glühendes Wachs gesperrt.
Seele. In Käfiggittern einer Schwalbe flatterndes Flehn.
Und ich fühle die Faust, die das weinende Haupt auf den Aschenhügeln mir zerrt.
Nur Nacht hört zu. Ich liebe dich, mein Volk im Plunderkleid:
Wie der heidnischen Erde, Gäas Sohn entkräftet zur Mutter glitt,
So wirf dich zu dem Niederen hin, sei schwach, umarme das Leid,
Bis einst dein müder Wanderschuh auf den Nacken des Starken tritt!
(Das Lyrische Werk S.101)
Gertrud Kolmar (pseudonimo di Gertrud Käthe Chodziesner, Berlino 1894 – Auschwitz 1943?), nata in una famiglia ebrea, studiò da maestra e lavorò come insegnante e istitutrice tra Germania e Francia. Nel 1915 l’amore infelice per un militare la condusse a un aborto e a un tentativo di suicidio, esperienza che segnò profondamente la sua vita e la sua scrittura. Costretta a trasferirsi nel 1939 in una “casa per ebrei” e nel 1941 al lavoro forzato in una fabbrica di armi, nel marzo 1943 fu deportata ad Auschwitz, da dove non fece ritorno. La sua opera, già apprezzata dal cugino Walter Benjamin, fu conosciuta soprattutto a partire dagli anni Novanta del Novecento. Il 27 febbraio del 1943 a Berlino anche Gertrud Kathe Sara Chodziesner subisce l’Azione nelle fabriche: migliaia di ebrei come lei vengono prelevati dai posti di lavoro e ‘smistati’ in campi di raccolta. da qui, il 2 marzo parte il ‘ 32° trasporto all’est’: è il convoglio della deportazione finale a Auschwitz dell’autrice, nota con lo pseudonimo di ‘Gertrud Kolmar’, dove ‘Kolmar’ è la germanizzazione del polacco ‘Chodziesen’, città d’origine della famiglia paterna.
Gertrud Kolmar
Poesia. Gertrud Kolmar: il silenzio in versi salva inizio e fine
Morì ad Auschwitz nel 1943. Rimase sconosciuta ai più fino al 1947, quando uscì la raccolta “Mondi” ora tradotta in italiano: un insieme di “sinfonie” dove le pause giocano un ruolo decisivo-
Della poetessa ebrea tedesca Gertrud Kolmar, pseudonimo di Gertrud Käthe Chodziesner (1894-1943), si sono conservate solo poche tracce: alcune fotografie dell’infanzia, una fotografia ritratto del 1928, una foto con un’amica, una con la famiglia scattata nel 1937, e poco altro, oltre alle sue opere, la maggior parte delle quali edite solo dopo la sua morte. Walter Benjamin, cugino da parte di madre, ebbe molta considerazione dei suoi componimenti e tentò in più occasioni di favorirne la pubblicazione, perché le sue erano tonalità, scrisse, che «non sono più state percepite nella poesia femminile tedesca dopo Annette von Droste». Dopo che il padre nel 1917 si era speso per l’uscita di una prima raccolta, Benjamin riuscì a far pubblicare su rivista solo alcune sue poesie, perché Kolmar era aliena da qualsiasi avanguardia e nulla nei suoi componimenti era concessione ai parametri dettati da mode e sensibilità artistiche contemporanee.
Del resto l’indifferenza verso la sua opera rimase praticamente intatta anche quando nel 1947 venne pubblicata da Suhrkamp la raccolta Mondi. Un’indifferenza motivata certo dalla sua adesione alla tradizione letteraria, ma anche dalla sua decisione di rimanere accanto al padre malato, un ebreo convintamente assimilato, finché quello, nel 1942, non venne rinchiuso nel lager di Theresienstadt, dove sarebbe morto un anno dopo. Nell’estate 1941 Kolmar accettò il lavoro forzato nelle fabbriche berlinesi di Lichtenberg e Charlottenburg, perché perfettamente consapevole del suo destino. «Voglio andare incontro al mio destino, che sia alto come una torre, o che sia scuro e gravoso come una nuvola», scrisse allora alla sorella Hilde, esule in Svizzera.
Arrestata in fabbrica il 27 febbraio 1943, alcuni giorni dopo venne trasportata ad Auschwitz, dove morì. Scritto nel 1937, il ciclo poetico Mondi (Mondadori, pagine 112, euro 16,00) è una grande sinfonia di componimenti consistente ciascuno per lo più di quattro parti, nelle quali un ruolo significativo è giocato dal silenzio, proposto in forma di pausa. Kolmar apprezzava molto il silenzio, il suo come quello degli altri, anche nella vita, tanto che nelle lettere a Hilde ripete spesso che il silenzio è quanto vi è di più vicino al suo cuore.
La conclusione di ogni sinfonia è silenzio che si fa vuoto. I suoi mondi respirano una vacuità che significa inizio e fine: il mondo inizia nel vuoto e finisce in esso. Come un suono dalle profondità, da quel vuoto sorge una natura incomprensibile: le isole Mergui. Il loro potere nascosto fa nascere il desiderio di altri mondi. Meglio, di due mondi, quello dell’uomo e quello della natura, popolato da animali e piante. Le parole della poesia (ed ogni parola è per lei una scoperta) sono per Kolmar lo strumento per ricercare il primordiale dell’umanità, cioè del proprio io. Attraverso la memoria e l’evocazione dell’infanzia cerca tracce, ma è un evento vissuto da giovane donna a rappresentare la traccia evidente e dominante del suo poetare.
In Mondi, come anche in altri componimenti, ricorre ed è evocata con frequenza la figura di un bambino, evidentemente quel bambino desiderato e amato, ma mai partorito, abortito all’età di 21 anni per volontà dei genitori. La sua intera opera poetica palpita del desiderio di riempire quel vuoto rimasto nel suo grembo: «Con le mie piccole opere, mi sento come una madre con il suo bambino appena nato; una madre che certo è felice dell’entusiasmo del padre e dei nonni, delle congratulazioni dei parenti, ma la gioia più grande è averlo partorito ». Così scrisse alla sorella, a motivo della raccomandazione di prendersi cura dei suoi componimenti.
Articolo di Vito PUNZI –Fonte Avvenire del 14 aprile 2023-
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