Camillo Brezzi-L’ultimo viaggio nei lager. Dalle leggi razziste alla Shoah.
Editore il Mulino
Camillo Brezzi-L’ultimo viaggio nei lager.
L’ultimo viaggio nei lager di Camillo Brezzi, il Mulino-Tre citazioni brevi vi danno subito l’idea telegrafica del saggio di cui vi parleremo “
Il viaggio verso Auschwitz – pochi ne parlano perché pochi sono tornati- è uno dei capitoli più terribili della shoah.Il mio è durato sei giorni” (Liliana Segre).
“Nessuno però ci aveva detto che la nostra idea di peggio era uno scherzo in confronto all’inferno che ci attendeva (Sami Modiano).
“Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo (Primo Levi ).
Camillo Brezzi ha insegnato storia contemporanea all’Università Siena-Arezzo,ha al suo attivo numerosi saggi ed è direttore scientifico della Fondazione Archivio Diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. In meno di 200 pagine l’autore ha sintetizzato, pensando soprattutto agli studenti, la più grande tragedia umanitaria, rappresentata dalla shoah, della seconda guerra mondiale. Non c’è nulla di nuovo, rispetto all’ampia letteratura sulla tragedia ebraica esistente. L’autore si è assunto però il difficile compito di realizzare una sintesi dei documenti,di una parte importante delle testimonianze e,in generale, della lo storia della shoah. Si ripercorrono anche i percorsi di alcuni deportati, a partire dalle fasi iniziali della “soluzione finale”. E poi ,l’arresto, il viaggio, l’arrivo ad Auschwitz-Birkenau. Cominciava così la discesa all’inferno, che abbiamo visto (nei tanti film e documentari) e letto in numerosi libri. Per ricordarcelo vengono riportate le testimonianze di Primo Levi, Liliana Segre, le sorelle Tatiana e Andrea Bucci, Shlomo Venezia, Pietro Terracina. Un libro fondamentale per capire- senza la necessità di consultare migliaia di volumi – un orrore troppo spesso dimenticato o sottovalutato.
La deportazione degli ebrei nei campi di sterminio rappresenta l’atto più drammatico della Seconda guerra mondiale. Un atto che fu messo in pratica dai nazisti con il solerte aiuto degli italiani, che si trattasse di militari della Repubblica Sociale o di comuni delatori. Il volume ripercorre le storie di alcuni deportati, concentrandosi sulle fasi iniziali della «soluzione finale»: l’arresto, poi il viaggio e l’arrivo sulla Judenrampe, la banchina di Auschwitz-Birkenau dove avveniva la prima selezione. È questa la prima tappa di una discesa all’inferno in cui i prigionieri cominciano a perdere lo status di esseri umani. Nei vagoni (usati solitamente per il trasporto di animali) viaggiano stretti, pressati uno all’altro, utilizzando un bidone per i bisogni corporali; i giorni e le notti si susseguono e si rischia di perdere la nozione del tempo; la fame e la sete si fanno sempre più crudeli, così come le urla dei comandi, pronunciati in una lingua incomprensibile ai più. Intrecciando le testimonianze di Liliana Segre, Primo Levi, le sorelle Tatiana e Andra Bucci, Shlomo Venezia, Pietro Terracina e Sami Modiano con quelle di altri sopravvissuti, il libro spalanca la porta su un orrore che non saremo mai in grado di comprendere fino in fondo, di cui è però necessario tramandare la memoria e mantenere salda la coscienza collettiva. Le impressioni, le sensazioni, le percezioni, che i salvati hanno restituito nelle loro memorie sono una preziosa fonte per ricostruire quell’indicibile tragedia, una ricchezza per gli studiosi, una grande pagina di letteratura civile.
Shakespeare and Company a Parigi: la libreria più affascinante del mondo
Nel cuore di Parigi, a pochi passi dalla cattedrale di Notre Dame, esiste la libreria storica più famosa del mondo: la Shakespeare and Company.
Parigi-Shakespeare and Company-Hemingway-e-Sylvia-
A Parigi esiste un posto speciale, teatro di incontro di grandi scrittori come Hemingway, Joyce e Fitzgerald: la libreria storica Shakesperare and Company, al civico 37 di Rue de la Bucherie. Entrare in questo magico luogo equivale a fare un salto indietro nel tempo, tra luci soffuse e libri che riempiono gli scaffali.La libreria Shakespeare and Company, a partire dagli anni Venti del secolo scorso, è stata luogo d’incontro di famosissimi scrittori, come Hemingway e Ezra Pound. La sua storia ebbe infatti inizio nel 1919, quando Sylvia Beachdecise di aprire un luogo dedicato alla cultura al numero 8 di rue Dupuytren.
Parigi-Shakespeare and Company-James Joyce-with Sylvia Beach-at-Shakespeare-&-Co-Paris-1920
Nel 1941, la libreria fu costretta a chiudere i battenti a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale ma riaprì un decennio dopo, per volontà di George Whitmanche, tra l’altro, mise a disposizione dei posti letto da offrire a chi aveva necessità, secondo il motto: be not ihospitable to strangers lest they be angels in disguise (non essere ospitale verso gli estranei potrebbero essere angeli sotto mentite spoglie). Egli chiamava i suoi inquilini “trumbleweed”, ossia “rotolacampi” e li ospitava a patto che essi promettessero di leggere un libro ogni giorno e di svolgere qualche piccolo lavoretto, come per esempio spolverare i volumi.
Parigi-Shakespeare and Company-
George considerava la sua libreria alla stregua di un’opera letteraria: «Ho creato questa libreria nel modo in cui un uomo scriverebbe un romanzo, costruendo ogni stanza come se fosse un capitolo», raccontò. «Voglio che le persone aprano la porta nello stesso modo in cui aprono un libro; un libro che porta nel mondo magico della loro immaginazione».Oggi come ieri, la libreria Shakesperare and Company è il punto di riferimento di intellettuali e viaggiatori che non possono fare a meno di fare tappa tra i suoi scaffali pieni di libri. C’è ancora posto per i tumbleweed, purché essi accettino di scrivere una piccola autobiografia di una pagina su carta celeste e servendosi di una macchina da scrivere.
Parigi-Shakespeare and Company
La libreria Shakespeare and Companya Parigi si trova al N.37 di Rue de la Bûcherie ed è aperta tutti i giorni dalle 10 del mattino alle 23.00. La libreria si trova proprio nelle vicinanze del Quartiere Latino a Parigi e proprio a pochi passi a piedi dalla fermata Saint-Michel della Linea 4 della metro oppure anche dalla RER: Linea B e C con fermata a Saint-Michel – Notre-Dame da qui sono circa 300 metri a piedi per raggiungere la libreria.
Unseen. Le foto mai viste di Vivian Maier al Belvedere della Villa Reale di Monza-
Articolo di Paola Martino-Artuu Magazine
Monza-Le foto mai viste di Vivian Maier al Belvedere della Villa Reale- Vedere le mostre alla Villa Reale di Monza regala sempre grandi emozioni: il Belvedere poi offre una vista che vale tutta la visita, da una parte lungo il cannocchiale dei Giardini Reali, idealmente verso Vienna, e dall’altra parte lungo il grande Viale Cesare Battisti verso Milano. Ad impreziosire questo gioiello la mostra dedicata a Vivian Maier considerata, e a ragione, una delle pioniere e massime esponenti della street photography.
Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY
Unseen. Le foto mai viste di Vivian Maier è il titolo della mostra che la Villa Reale di Monza dedica, sino al 26 gennaio 2025 a questa straordinaria fotografa. Realizzata da Vertigo Syndrome in collaborazione con diChroma photography, è la più importante esposizione mai fatta in Italia su questa straordinaria, riservatissima artista. 220 opere, divise in nove sezioni.
Con la scatto silenzioso della sua Rolleiflex Vivian Maier ha immortalato per quasi cinque decenni il mondo che la circondava. Dai banchieri di Midtown ai senzatetto addormentati sulle panchine dei parchi, alle coppie che si abbracciavano o, molto spesso, riprendendo sé stessa.
Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY
Vivian Maier è oggi riconosciuta come una delle più importanti fotografe del XX secolo, nonostante il suo lavoro sia rimasto sconosciuto fino a poco prima della sua morte. Nata nel 1926, a New York, ha documentato con incredibile meticolosità la vita quotidiana nelle città americane, in particolare a Chicago e New York, per quasi quattro decenni, dagli anni Cinquanta agli anni Novanta. I suoi oltre 150.000 negativi coprono una vasta gamma di soggetti, spaziando dai ritratti di strada agli scatti di architettura, dai paesaggi urbani agli interni domestici, catturando con un occhio unico e sensibile le sfumature della vita ordinaria.
La storia misteriosa di Vivian Maier è un elemento cruciale che contribuisce al fascino senza tempo della sua figura. Non è solo la straordinaria qualità delle sue fotografie a catturare l’immaginazione del pubblico, ma anche la sua vita segreta e il contrasto tra la sua esistenza quotidiana e il suo talento nascosto.
Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY
Vivian ha lavorato per decenni come bambinaia, conducendo una vita apparentemente comune e anonima. Era descritta come una donna severa, riservata e solitaria. Tuttavia, nel silenzio e nella privacy, sviluppava un ineguagliabile talento fotografico, documentando con cura ogni aspetto del mondo che la circondava.
Ciò che rende ancora più intrigante la sua storia è che, durante la sua vita, nessuno era a conoscenza della vastità e della qualità della sua opera. Conservava gelosamente i suoi scatti in scatole e bauli, apparentemente senza mai cercare riconoscimento o pubblicazione. Questo “segreto” ha reso la sua scoperta nel 2007 ancora più sorprendente. Quando lo scrittore John Maloof acquistò casualmente i suoi negativi in un’asta, il mondo fu introdotto a un’artista completa che, fino a quel momento, non aveva lasciato traccia della sua immensa produzione fotografica.
Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY
La vicenda di Vivian Maier tocca corde emotive profonde, perché rappresenta il classico archetipo dell’artista incompreso e invisibile, che realizza opere d’arte straordinarie nel silenzio, senza clamore o riconoscimenti. È una storia di talento, ma anche di mistero e solitudine, che ha colpito l’immaginario collettivo e ha contribuito a trasformarla in un’icona. Questa combinazione di segretezza personale e la forza visiva delle sue fotografie ha dato vita a una leggenda affascinante, dove l’arte e la vita si intrecciano in modo unico, facendo di Maier una delle figure più enigmatiche e celebrate del mondo della fotografia contemporanea.
Uno degli aspetti più straordinari dell’arte di Maier è la sua capacità di combinare il realismo umanista europeo con lo stile dinamico della street photography americana. Cresciuta in parte in Francia, ha portato con sé l’influenza del vecchio continente, fondendo questa sensibilità con l’energia e la modernità delle città americane. Le sue opere sono paragonate a quelle di maestri come Robert Frank, Diane Arbus, Robert Doisneau e Henri Cartier-Bresson, che come lei hanno saputo cogliere l’essenza dell’umanità attraverso la fotografia di strada.
In questa esposizione, curata da Anne Morin, si passa da una sala all’altra come in una sorta di racconto della percezione del mondo dell’artista.
Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY
Si va dagli autoritratti che esplorano la sua identità attraverso soluzioni visive innovative, come il riflesso in uno specchio, una vetrina o la silhouette proiettata della sua ombra, mostrando la sua abilità di raccontarsi attraverso lo spazio che la circonda. L’attenzione per le persone comuni, in particolare alle donne che Vivian incontrava per strada. Lo sguardo sull’America del dopoguerra dove racconta il contrasto tra l’utopia del Sogno americano e la realtà vissuta dalle persone ai margini della società, mostrando la disuguaglianza sociale, il malessere e le contraddizioni nascoste dietro l’apparente prosperità. E poi i suoi bambini, quelli che Vivian Maier ha fotografato durante la sua carriera di bambinaia. Le fotografie a colori dei quartieri operai di Chicago, la raccolta di filmati in Super 8, dove Maier continua la sua esplorazione della vita cittadina, questa volta in movimento.
Fonte articolo -Artuu Magazine
Vivian Maier
Insomma, ognuna delle nove sezioni mostra uno spaccato del lavoro dell’artista e ci permette di scoprire una straordinaria fotografa che con le sue immagini profonde e mai banali racconta la “vita americana” della seconda metà del Ventesimo Secolo.
Paola Martino
Paola Martino-Giornalista – Artuu Magazine
Paola Martino Giornalista, appassionata di lingua araba e di arte, vive a Milano. Per focusmediterranee.com e ultimabozza.it scrive per la sezione Culture, soffermandosi su artisti, mostre, eventi e progetti culturali che non hanno confini. Per lei, infatti, la cultura è un mezzo per migliorare il dialogo e la conoscenza reciproca, anche tra le due sponde: Sud Europa e Nord Africa. Si è diplomata in lingua e cultura araba all’Ismeo di Milano e ha lavorato come giornalista radiofonica.
Inge Müller è nata a Berlino il 13 marzo 1925. Sopravvissuta miracolosamente ai furiosi bombardamenti su Berlino che hanno chiuso la seconda guerra mondiale, sarà lei stessa a estrarre i corpi dei genitori dalle macerie della loro casa. È morta suicida il 1° giugno 1966. Solo vent’anni dopo le sue poesie saranno pubblicate nella raccolta Wenn ich schon sterben muss. Come exergo al libro, il marito, Heiner Müller, ha scritto parole che danno tutta la dimensione della distanza, della solitudine della donna che aveva sposato: «… Più di una volta ho letto le poesie contenute in questa raccolta; alcune mi erano estranee, alcune mi irritavano, molte le ho capite solo dopo il suicidio della donna che le ha scritte in tredici anni accanto a me…».
Inge Muller, poetessa tedesca
Giunge un giorno
Inviato da noi
L’uomo
Annunziato.
Vantatevi voi,
voi che ci conficcate nel selciato
calpestandoci.
Per ridere non ho bisogno di un motivo
Per piangere di nessun dolore
Sono come voi e da voi ferita
Non sono nessuna oppure solo una bocca.
Dodecafonica e terza.
Siamo piantati nella terra
Da entrambi i lati
Ci consuma la pioggia
Dalla radice spunta
Una gialla talea, che
Il sole più non raggiunge.
Quando ci incontrammo
Quando ci incontrammo
In una strada laterale delle nostre vie
Sentivi paura della vita
Sentivo paura della morte
Che era vicina e vedemmo il cielo rosso
Avvolgerci soffice come una coperta di lana
E ci riscaldammo per un attimo
L’attimo
durò sette estati. Quando levammo gli occhi
Il tempo era già trascorso.
Eugenia Huici Arguedas de Errázuriz mecenate cilena e leader del modernismo a Parigi-
Eugenia Huici Arguedas de Errázuriz (15 settembre 1860 – 1951)a Parigi è stata una mecenate cilena del modernismo e un leader dello stile di Parigi dal 1880 al XX secolo, che ha aperto la strada all’estetica minimalista modernista che sarebbe stata ripresa di moda da Coco Chanel . La sua cerchia di amici e protetti comprendeva Pablo Picasso, Igor Stravinsky, Jean Cocteau e il poeta Blaise Cendrars. Era di origine basca.
Eugenia era famosa fin dalla tenera età per la sua bellezza; Le suore francesi hanno supervisionato l’educazione della ragazza. La giovane donna accrebbe la sua eredità nella miniera d’argento sposando José Tomás Errázuriz; un giovane e facoltoso paesaggista di una nota famiglia di produttori di vino.
La coppia si stabilì a Parigi, dove Eugenia attirò un seguito di alto profilo. Nell’autunno di quell’anno, incontrarono John Singer Sargent mentre erano in visita a Venezia, forse in luna di miele, e vedevano il fratello di José che aveva preso uno studio con Sargent a Palazzo Rezzonico. Descritta come una bellezza straordinaria, con un naso sottile e capelli corvini, è stata dipinta da Sargent che divenne molto affezionato a Madame Errázuriz e l’avrebbe dipinta diverse volte. Oltre a Sargent, è stata dipinta anche da Jacques-Emile Blanche (pittore francese 1861-1942), Giovanni Boldini, Paul Helleu, Augustus John, Ambrose McEvoy e Pablo Picasso.
Dopo che gli Errázuriz si stabilirono a Parigi, divennero amici di molti nella stessa cerchia dei Subercaseaux (Juan Subercaseaux Errázuriz, Pietro Suber, Tora Suber, Luis Subercaseaux, “Esuberanza”.) : l’ereditiera americana Winnareta Singer; il compositore francese Gabriel Fauré; I pittori francesi Joseph Roger-Jourdain, Ernest Duez e Paul Helleu; e l’artista italiano Giovanni Boldini.
Eugenia da Picasso 1918
Eugenia era un’appassionata sostenitrice delle arti e cercò artisti, sostenendo sia Stravinsky che Diaghilev a un certo punto, e stabilendo amicizie con scrittori e musicisti famosi come W. R. Sickert, Baron de Meyer, Jean Cocteau e Cecil Beaton.
La sua villa, La Mimoseraie, era il laboratorio di design in cui elevava la semplicità a forma d’arte. Nel 1910, scriveva Richardson, “si distingueva già per la scarsità non convenzionale delle sue stanze, per il suo disprezzo per i pouf e le palme in vaso e per la troppa passamaneria …. Apprezzava le cose molto belle e semplici, soprattutto i tessuti di lino cotone, arredi in abete o pietra, la cui qualità migliorava con il lavaggio o lo sbiadimento, lo strofinamento o la lucidatura. Ha curato il più piccolo dettaglio nella sua casa “. Per lei Elegance significa eliminazione. Errazuriz ha appeso tende di lino sfoderato e ha imbiancato le pareti come una casa di contadini – un approccio di decorazione scioccante nel 1914. Amo la mia casa perché sembra molto pulita e umile! lei si vantava di questo.
Cecil Beaton notò i pavimenti di piastrelle rosse che erano privi di moquette ma perfettamente puliti. Ha anche scritto di lei in The Glass of Fashion: Il suo effetto sul gusto degli ultimi cinquant’anni è stato così enorme che l’intera estetica della moderna decorazione d’interni, e molti dei concetti di semplicità … generalmente riconosciuti oggi, possono essere a fronte della sua straordinaria sobria eleganza. Il suo tavolo da tè offriva piatti semplici (niente torte “volgari”), secondo Beaton, che notò che il suo toast “era un’opera d’arte”. Sua nipote era entusiasta, tutto in casa di zia Eugenia aveva un odore così buono. È stato riferito che gli asciugamani odoravano di lavanda e che si è lavata i capelli con l’acqua piovana. Errazuriz detestava i set di mobili, soprammobili e cimeli abbinati. Spietata in materia di disordine, anche nei cassetti dell’ufficio, ha ordinato: gettando via e continuando. Questa era un’estensione della sua convinzione nella necessità di un cambiamento costante: una casa che non cambia, amava dire, è una casa morta. Errazuriz ha proiettato il suo stile purista in ogni angolo della sua vita. Se la cucina non è ben tenuta come il salone. . . non puoi avere una bella casa, ha dichiarato.
Eugenia Huici Arguedas de Errázuriz
Il designer Jean-Michel Frank è diventato il suo discepolo più dotato. Jean Cocteau le presentò Blaise Cendrars, che si dimostrò un mecenate solidale, anche se a volte possessivo. Intorno al 1918 visitò la sua casa e fu così preso dalla semplicità degli arredi, fu ispirato a scrivere la sequenza di poesie D’Oultremer à Indigo (From Ultramarine to Indigo). Alloggia con Eugenia nella sua casa di Biarritz, in una stanza decorata con murales di Pablo Picasso.
Una delle amicizie più importanti e durature di Eugenia è stata con il pittore americano espatriato John Singer Sargent a un passaggio nelle memorie del pianista Arthur Rubinstein che ha ricordato l’alta lode di Sargent per Eugenia:
“Non ho mai conosciuto nessuno con il gusto immancabile e misterioso di questa donna. Che si tratti di arte, musica, letteratura o decorazione d’interni, vede, sente, odora, il vero valore, la vera bellezza.”
Eugenia Huici Arguedas de Errázuriz
In tarda età, Eugenia Errázuriz divenne una francescana terziaria (una suora laica), vestita con un semplice abito nero disegnato da un altro minimalista, Coco Chanel. Un ambiente adatto per questo guardaroba non è mai stato costruito. Sebbene Le Corbusier sia stato incaricato di progettare la sua casa sulla spiaggia in Cile, lasciò scadere il progetto prima di morire a Santiago nel 1951, investita da un’auto mentre attraversava una strada all’età di 91 anni. Villa Eugenia, fu infine costruita in Giappone.
(Web & M.F.)
*Eugenia da Picasso 1918
*William Orpen – En rouge Mme Errázuriz
Eugenia Huici Arguedas de ErrázurizEugenia Huici Arguedas de ErrázurizEugenia Huici Arguedas de ErrázurizEugenia Huici Arguedas de Errázuriz
Dorothea Lange ha scattato Foto fra il 1930 e il 1950
che l’hanno resa tra le più importanti fotografe del Novecento
Dorothea Lange nacque a Hoboken, in New Jersey, nel 1895 e morì di cancro a 70 anni, nel 1965. È stata una delle più importanti e famose fotografe del Novecento, conosciuta soprattutto per il suo lavoro al progetto fotografico della Farm Security Administration (FSA) – l’agenzia federale statunitense fondata nel 1937 dal presidente Franklin Delano Roosevelt per contrastare la povertà nelle zone rurali degli Stati Uniti, aggravata in quegli anni dalla Grande Depressione – con l’obiettivo di documentare la povertà di alcune fasce della popolazione americana.
Dorothea LangeEx-Slave with a Long Memory, Alabama, 1937 (Dorothea Lange)
Lange fotografò soprattutto i contadini che avevano abbandonato la campagna a causa del cosiddetto “Dust Bowl”, la siccità e le tempeste di sabbia che negli anni Trenta desertificarono grandi zone del Texas, del Kansas, dell’Oklahoma e delle aree attorno. Una delle sue foto è tra le più famose del Novecento: si intitola Migrant Mother e fa parte di una serie di ritratti a Florence Owens Thompson e ai suoi figli che Lange scattò tra febbraio e marzo nel 1936 a Nipomo, in California. Negli anni successivi continuò a occuparsi di reportage a sfondo sociale viaggiando in diversi paesi con il marito, l’economista Paul Taylor.
Migrant Worker on California Highway, 1935 (Dorothea Lange)
«La macchina fotografica è uno strumento che insegna alle persone come vedere senza la macchina»
Dorothea Lange fu una delle più importanti e famose fotografe del Novecento, tra i fondatori dell’agenzia Magnum. Lavorò al progetto fotografico della Farm Security Administration (FSA) – l’agenzia federale statunitense fondata nel 1937 dal presidente Franklin Delano Roosevelt per contrastare la povertà nelle zone rurali degli Stati Uniti, aggravata in quegli anni dalla Grande Depressione – con l’obiettivo di documentare la miseria di alcune fasce della popolazione americana. Lange fotografò soprattutto i contadini che avevano abbandonato la campagna a causa del cosiddetto Dust Bowl, la siccità e le tempeste di sabbia che negli anni Trenta desertificarono grandi zone del Texas, del Kansas, dell’Oklahoma e dalle aree attorno. Negli anni successivi continuò a occuparsi di reportage a sfondo sociale, raccontando la vita di operai, immigrati e senzatetto.
Migrant Mother, Nipomo, San Luis Obispo County, California, 1936 (Dorothea Lange)
Almeno una sua foto la conoscete tutti: si intitola Migrant Mother e fa parte di una serie di ritratti a Florence Owens Thompson e ai suoi figli che Lange scattò tra febbraio e marzo nel 1936 a Nipomo, in California. La donna aveva 32 anni e sette figli. Nel 1960 Lange raccontò che:
Newspaper Boy, California, 1944 (Dorothea Lange)
«Vidi quella madre affamata e disperata e mi avvicinai, come attratta da un magnete. Non ricordo come le spiegai perché ero lì e che ci facevo con la macchina fotografica, ma ricordo che non mi fece domande. Feci cinque scatti, avvicinandomi sempre di più nella stessa direzione. Non le chiesi come si chiamava, né qual era la sua storia. Lei mi disse la sua età, aveva 32 anni. Mi raccontò che vivevano mangiando verdura gelida dai campi vicini, e uccelli catturati dai bambini. Aveva appena venduto le gomme dell’auto per comprarsi il cibo. Se ne stava seduta con i suoi figli accovacciati attorno a lei, e sembrava consapevole che la mia fotografia l’avrebbe potuta aiutare, e per questo lei aiutò me. Ci fu una sorta di equo scambio».
La vita e la carriera della grande fotografa americana Dorothea Lange con le immagini che scattò fra il 1930 e il 1950, per cui è considerata tra le più importanti fotografe del Novecento.
La mostra Dorothea Lange. Racconti di vita e lavoro, che si compone di 200 immagini ed è curata dal direttore artistico di CAMERA Walter Guadagnini e dalla curatrice Monica Poggi, presenta la carriera di Dorothea Lange (Hoboken, New Jersey, 1895 – San Francisco, 1965), autrice che è stata, come scrisse John Szarkowski, “per scelta un’osservatrice sociale e per istinto un’artista”.
Il percorso di mostra, visitabile dal 19 luglio all’8 ottobre , si concentra in particolare sugli anni Trenta e Quaranta, picco assoluto della sua attività, periodo nel quale documenta gli eventi epocali che hanno modificato l’assetto economico e sociale degli Stati Uniti. Fra il 1931 e il 1939, il Sud degli Stati Uniti viene infatti colpito da una grave siccità e da continue tempeste di sabbia, che mettono in ginocchio l’agricoltura dell’area, costringendo migliaia di persone a migrare. Dorothea Lange fa parte del gruppo di fotografi chiamati dalla Farm Security Administration (agenzia governativa incaricata di promuovere le politiche del New Deal) a documentare l’esodo dei lavoratori agricoli in cerca di un’occupazione nelle grandi piantagioni della Central Valley: Lange realizza migliaia di scatti, raccogliendo storie e racconti, riportati poi nelle dettagliate didascalie che completano le immagini.
È in questo contesto che realizza il ritratto, passato alla storia, di una giovane madre disperata e stremata dalla povertà (Migrant Mother), che vive insieme ai sette figli in un accampamento di tende e auto dismesse.
La crisi climatica, le migrazioni, le discriminazioni: nonostante ci separino diversi decenni da queste immagini, i temi trattati da Dorothea Lange sono di assoluta attualità e forniscono spunti di riflessione e occasioni di dibattito sul presente, oltre a evidenziare una tappa imprescindibile della storia della fotografia del Novecento.
La mostra offre quindi ai torinesi e ai turisti un’occasione imperdibile per conoscere meglio l’autrice di una delle immagini simbolo della maternità e della dignità del XX secolo e interrogarsi sul presente.
È considerata la prima architetta della Cina moderna. Suo marito era il famoso Liang Sicheng, conosciuto come il padre dell’architettura cinese moderna. Insieme hanno lavorato alla riscoperta e al restauro di siti archeologici cinesi, hanno collaborato alla creazione del dipartimento di architettura della Northeastern University di Shenyang nel 1928 e, dopo il 1949, hanno insegnato come docenti alla Università Tsinghua di Pechino. L’artista americana Maya Lin è sua nipote, figlia di Henry Lin, fratello minore di Huiyin.[2][3]
Primi anni
Lin Huiyin nacque ad Hangzhou, nella provincia di Zhejiang, il 10 giugno 1904. Era figlia di Lin Changmin, un importante funzionario del governo Beiyang, e di sua moglie He Xueyuan.[4][5][6]
Nei primi anni 1920 viaggiò con il padre a Londra, dove conobbe il poeta cinese Xu Zhimo, con il quale ebbe una breve relazione, e successivamente negli Stati Uniti. Nel 1924 sia Lin che il suo futuro marito Liang Sicheng, il cui matrimonio insieme era già stato organizzato dalle rispettive famiglie, si iscrissero all’Università della Pennsylvania. Lin avrebbe voluto frequentare la facoltà di architettura come Liang, ma non venne ammessa in quanto considerata non adatto ad una ragazza: infatti per completare i loro progetti talvolta gli studenti dovevano lavorare anche di notte, e per una ragazza era considerato sconveniente farlo senza la presenza di un accompagnatore. Si laureò così nel 1927 alla facoltà di belle arti, riuscendo nel frattempo a seguire alcuni corsi di architettura. In seguitò trascorse un semestre all’Università Yale, studiando scenografia.[3][5][6][7]
Il matrimonio con Liang Sicheng e il ritorno in Cina
Nel 1928 Lin Huiyin e Liang Sicheng si sposarono in Canada, e da quel momento lavorarono sempre insieme. Tornati in Cina quello stesso anno, contribuirono alla creazione del dipartimento di architettura dell’Università Nordorientale di Shenyang, al tempo la seconda scuola di architettura del paese, e Lin progettò una stazione ferroviaria nella città di Jilin.[5][6][8][9]
Nei primi anni 1930 si trasferirono a Pechino e iniziarono a organizzare spedizioni nell’entroterra per studiare e preservare esempi dell’antica architettura cinese. Tra le loro scoperte più notevoli vi fu il tempio di Foguang, che datarono come risalente al tempo della dinastia Tang, inserito nel 2009 tra i siti patrimonio dell’umanità dell’UNESCO come parte del Monte Wutai. Le difficili condizioni degli studi sul campo minarono però la salute di Huiyin, che si ammalò di tubercolosi.[6][10]
Nel 1937, a causa dello scoppio della seconda guerra sino-giapponese, Lin e Liang dovettero interrompere le loro spedizioni e si ritirarono con i due figli in un cottage vicino a Kunming. A partire dal 1949 insegnarono architettura alla Università Tsinghua di Pechino, ma Lin morì a causa della tubercolosi nel 1955.[6][7][11]
L’inverno ha una sua ragione il freddo è come un fiore – un fiore ha il suo profumo, l’inverno un pugno di ricordi. L’ombra di un ramo secco, come un esile fumo azzurro, dipinge una sola pennellata sulla finestra del pomeriggio. Al freddo, la luce del sole diventa pallida e lentamente si inclina. E così bevo il mio tè in silenzio come in attesa che un ospite parli.
1936
Lin Huiyin, la prima architetta della Cina moderna che amava scrivere poesie
Mentre firmava progetti e pianificava Pechino, si dilettava con la letteratura
(da ‘The collected poems of Lin Huiyin‘, 1985)
Lin Huiyin (林徽因, Lín Huīyīn),conosciuta anche come Phyllis Lin o Lin Whei-yin durante il periodo trascorso negli Stati Uniti (Hangzhou, 10 giugno 1904 – Pechino, 1 aprile 1955)
[ Poetessa, scrittrice, architetto e storica dell’architettura cinese, autrice di poesie, saggi, racconti e opere teatrali apprezzati per la loro sottigliezza, bellezza e creatività. ]
In Italia, Anna Achmatova è conosciuta, da quei pochi che la conoscono, più che altro per via dei bellissimi ritratti realizzati da Kuzma Petrov-Vodkin, Amedeo Modigliani, Jurij Annenkov, Nathan Al’tman – forse il dipinto più celebre, esposto al Museo di Stato di San Pietroburgo –, Olga Kardovskaja, opere che godono di un nuovo rinascimento grazie alla forza capillare dei mezzi di comunicazione sociale della nostra epoca.
Assai meno conosciuti sono i versi della Achmatova – il materiale per il quale dovrebbe essere principalmente famosa – a causa delle scarse pubblicazioni attualmente in commercio nel nostro Paese. Digitando il nome del poeta – come preferiva farsi chiamare –, infatti, si trovano appena due sillogi Einaudi abbastanza datate e una manciata di raccolte pubblicate negli ultimi anni da qualche illuminato medio editore.
A coprire, in parte, questo vuoto ci ha pensato Paolo Nori, saggista e studioso di letteratura russa, che in Vi avverto che vivo per l’ultima volta (Mondadori) racconta la vita inquieta e infelice e incantevole di Anna Achmatova, intrecciando le sorprendenti vicende della poeta russa con il suo vissuto personale.
Sorprendenti fin dalla più tenera età. Nata a Bol’šoj Fontan, nei pressi di Odessa, nel 1889 da Andrej Gorenko, Anna Achmatova fu “costretta” a cambiare il cognome perché il padre non voleva che lo disonorasse con un’attività equivoca come la poesia; secondo Iosif Brodskij, suo discepolo, Anna realizzò con la scelta dello pseudonimo Achmatova – preso da un’ava, una principessa tartara discendente di Gengis Khān – “il suo primo verso di successo”.
Tra i più grandi poeti di tutti i tempi, la Achmatova era amante della lirica italiana – da Dante, autentico poeta del cuore, a Leopardi – e di quella pittoresca lingua che l’amico e collega Osip Mandel’štam definiva “la più dadaista delle lingue romanze”.
Donna fragile di salute – soffrì di tisi per buona parte della sua esistenza – ma di grande temperamento e carisma, Anna Achmatova ha rivestito perfettamente il ruolo tragico del poeta. Moglie dello sventurato poeta Nikolaj Gumilëv, fucilato nel 1921 come nemico del popolo per le sue idee controrivoluzionarie, la vita della Achmatova è stata distinta da continui scontri e repressioni da parte del regime di Stalin, dalla critica e dagli altri scrittori e intellettuali del suo tempo perché “rappresentante di una poesia priva di idee e estranea al popolo”.
Scomunicata dal Piccolo Padre georgiano, la Achmatova vide i suoi componimenti proibiti circolare clandestinamente per il territorio dell’URSS, copiati a mano (il famoso fenomeno dei samizdat), battuti a macchina o imparati a memoria e tramandati per via orale. Su tutti Requiem, nato tra il ’35 e il ’40, nel periodo segnato dal terrore delle Grandi Purghe in cui la Achmatova si trasformò in icona di resistenza, trascorrendo intere giornate, per lunghissimi mesi, in fila, assieme a tantissime altre madri, le donne dalle “labbra bluastre”, fuori dal famigerato carcere delle Croci di Leningrado, in attesa di avere notizie del figlio Lev – il delfino dato alla luce algida di Pietroburgo nell’autunno del ’12, pochi mesi dopo la pubblicazione della prima raccolta di poesie dal titolo Sera – arrestato in quanto erede di una sì scomoda madre.
Citando ancora Brodskij, parlare della vita di una persona è sempre un’attività delicata, difficoltosa quanto “per un gatto cercare di prendersi la coda”. E così Paolo Nori alterna gli episodi della vita della grande poeta della cosiddetta Età d’argento della letteratura russa ai suoi: dai ricordi della nonna agli studi alla biblioteca Lenin di Mosca nella Russia post perestrojka, glasnost e disfacimento del sogno sovietico, passando per la cronaca e la febbre antirussa dei nostri giorni, per le crociate volte ad appendere testa in giù tutto quello che può essere ricondotto alla Russia di oggi e di ieri.
I temi legati alla stretta attualità aleggiano per tutto il volume e Nori li affronta con sguardo lucido e profonda afflizione, ma con la certezza che se la letteratura russa ha resistito alla Rivoluzione, al terrore sovietico, alla guerra e ai gulag, non si piegherà certamente dinanzi all’arroganza dei burocrati e benpensanti d’Occidente: “La letteratura è più forte di qualsiasi censura e di qualsiasi dittatura”.
Ovviamente, poi, impossibile da immaginare per chi è solito leggere l’autore emiliano, non manca un pensiero per l’amato Velimir Chlebnikov, poeta di punta del futurismo russo – quello della “crosta di pane”, del “ditale di latte”, del cielo e delle nuvole, per intenderci – e per tal ragione, se vogliamo, anche rivale della Achmatova, in gioventù di tendenza acmeista, movimento dalla incerta foggia di cui era leader il marito Gumilëv.
Aggiungendo ai suoi versi una espressività e un aspetto abbaglianti – slanciata, col celebre naso aquilino e la frangia scura, simboli della sua bellezza classica, d’altre epoche – e financo la sua spiritualità, la Achmatova emerse presto su tutti.
“Era una di quelle donne che, quando sono presenti in una sala, sembra che non ci sia altro, solo lei.”
Un’altra icona della poesia russa del primo Novecento, Aleksandr Blok, scrisse che l’autrice era in possesso di “una bellezza terrificante”.
In Vi avverto che vivo per l’ultima volta Paolo Nori ci accompagna in ogni angolo e in ogni piega della parabola artistica ed esistenziale di Anna di tutte le Russie – soprannome imperiale costruitole dalla collega, poeta anche lei, Marina Cvetaeva.
Dalla giovinezza a Carskoe Selo alle amicizie con i più grandi scrittori del suo tempo – Majakovskij, Pasternak, Bulgakov –, dalla casa leningradese sul lungofiume Fontanka, la Fontannyi dom – oggi Museo Achmatova –, al ricetto di Taškent durante la Guerra patriottica, raggiungendo anche l’Italia con quel viaggio del 1964, due anni prima di morire, in Sicilia per ricevere il premio Etna-Taormina.
Un ritorno agrodolce in quell’Italia baciata dal boom economico che agli occhi grigi di Anna Achmatova pareva però oramai irrimediabilmente compromessa, corrotta culturalmente. In quell’ultimo soggiorno italiano la poeta non avvertì quella avidità di cultura ancora presente in Russia, ma percepì con dispiacere che per gli italiani – i discendenti diretti di Dante, Petrarca e Boccaccio – la poesia era soltanto un aspetto di secondo piano, ben lungi da quanto poteva essere ancora centrale nella vita dei sovietici del tempo.
Qui si potrebbe aprire un altro capitolo, ma si andrebbe, forse, drammaticamente fuori tema. Dopo essersi immerso nel passaggio in terra e nel mito di Fëdor Dostoevskij con Sanguina ancora – entrato nella cinquina del Campiello 2021 –, Paolo Nori fonde la sua vita con quella della grande autrice russa, riportandoci il ritratto di una donna irrequieta, talvolta altera in certe fasi della vita, attitudine da interpretare più come umano strumento di autodifesa dinanzi alle tante offese ricevute.
Oltre alla fucilazione del primo marito e all’incarcerazione del figlio, nella vita di Anna Achmatova si annoverano altre dolorose tappe: la morte di tre fratelli in circa quindici anni, quella degli amici Modigliani e Mandel’štam, le angosce e le fughe del periodo del cosiddetto “comunismo di guerra” post-rivoluzione e della Seconda guerra mondiale, l’esclusione dall’Unione degli scrittori per la sua intollerabile poesia da “mezza suora e mezza prostituta”, il susseguente ostracismo e bavaglio, i matrimoni sbagliati, il rapporto disastroso col figlio negli ultimi anni di vita. Snodi di una esistenza meravigliosamente infelice; la vita intensa di un poeta, una persona buona e cattiva, come un po’ tutti noi.
Attraverso il vissuto di Anna Achmatova, Paolo Nori, con la sua prosa semplice e divertente e coinvolgente, ci fa riflettere su una civiltà e un modo di pensare e interpretare la vita che a noi, per quanto vogliamo sforzarci, restano comunque conosciuti per metà. Vi avverto che vivo per l’ultima volta è un libro sul rapporto tra gli achmatoviani e la loro poeta favorita e per tutti gli appassionati di letteratura russa e del popolo russo, quella “gente con delle teste che non le mangiano neanche i maiali”.
Anna Achmatova
Breve Biografia diAnna Andreevna Achmatova pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko (Bol’soj Fontan, 23 giugno 1889 – Mosca, 5 marzo 1966) è stata una poetessa russa; non amava l’appellativo di poetessa, perciò preferiva farsi definire poeta, al maschile.
«Lascio la casa bianca e il muto giardino. / Deserta e luminosa mi sarà la vita»
Figlia di Andreij Antonovich Gorenko, funzionario pubblico, e di Inna Erazmovna Stogova, entrambi di nobile famiglia, fu moglie dal 1910 al 1918 di Nikolaj Gumilëv, dal quale ebbe il figlio Lev. Fece parte della Corporazione dei poeti, un gruppo acmeista fondato e guidato dal marito. Compose la prima opera, “La sera”, nel 1912, alla quale seguì “Il rosario” nel 1914, caratterizzate entrambe da un’intima delicatezza. “Lo stormo bianco” (1917), “Piantaggine” (1921), “Anno Domini MCMXXI”(1922) sono raccolte di versi ispirate dal nostalgico ricordo dell’esperienza biografica, che spesso assumono quasi la cadenza di una preghiera.
Dopo la fucilazione del primo marito, Nikolaj, nel 1921, seguì una lunga pausa indotta dalla censura, che la poetessa ruppe nel 1940 con “Il salice” e “Da sei libri”, raccolte dalle quali emerge un dolore derivato dalla costante ricerca della bontà degli uomini. Il figlio Lev fu imprigionato fra il 1935 e il 1940 nel periodo delle grandi purghe staliniane.
Espulsa dall’Unione degli Scrittori Sovietici nel 1946 con l’accusa di estetismo e di disimpegno politico, riuscì tuttavia ad essere riabilitata nel 1955, pubblicando nel 1962 un’opera alla quale lavorava già dal 1942, il “Poema senza eroe”, un nostalgico ricordo del passato russo, rielaborato attraverso la drammaticità che la nuova visione della Storia comporta, e attraverso una trasfigurazione dello Spazio e del Tempo in una concezione di puro fine.
Sulla sua poetica ebbe molta influenza la conoscenza delle opere di Dante Alighieri, come anche testimonia il filosofo Vladimir Kantor: «Quando chiesero ad Anna Achmatova, la matriarca della poesia russa, “Lei ha letto Dante?”, con il suo tono da grande regina della poesia rispose: “Non faccio altro che leggere Dante”».
Le astrazioni poetiche di Helen Frankenthaler una delle più importanti artiste americane del XX secolo-Andare oltre i canoni stabiliti, alla costante ricerca di una nuova libertà espressiva. È il mondo creativo di Helen Frankenthaler (1928-2011), una delle figure più influenti del movimento artistico americano del XX secolo, celebre per il suo innovativo approccio all’arte e per il ruolo fondamentale nella transizione dall’Espressionismo astratto alla pittura Color Field.
In occasione della mostra Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole, organizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi e dalla Helen Frankenthaler Foundation, aperta al pubblico dal 27 settembre 2024 al 25 gennaio 2025, Marsilio Arte pubblica il catalogo a cura di Douglas Dreishpoon, direttore dell’Helen Frankenthaler Catalogue Raisonné.
Celebre tra la seconda generazione di pittori astratti americani del dopoguerra, Frankenthaler è emersa sulla scena artistica americana, con un approccio alla pittura senza regole e una capacità di improvvisazione che hanno ridisegnato la narrazione del genere pittorico stesso. Con la sua innovativa tecnica a macchie, Frankenthaler ha esplorato un nuovo rapporto tra colore e forma, ampliando il potenziale della pittura astratta in modi che, ancora oggi, continuano a ispirare gli artisti. Lavorando con il colore e lo spazio, l’astrazione e la poesia, l’artista si è distinta per la sua capacità unica di combinare tecnica e immaginazione, ricerca e improvvisazione, espandendo la sua pratica al di là dei canoni stabiliti, perseguendo una nuova libertà nella pittura.
L’esposizione offre un’ampia panoramica della produzione artistica di Frankenthaler, indagando a fondo l’evoluzione del suo percorso personale e stilistico attraverso i diversi periodi della sua carriera. Una selezione di dipinti e di sculture, prodotti tra il 1953 e il 2002, dialoga con le creazioni di artisti coevi, tra cui Anthony Caro, Morris Louis, Robert Motherwell, Kenneth Noland, Jackson Pollock, Mark Rothko, David Smith, Anne Truitt.
Il catalogo Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole, che accompagna la grande retrospettiva, esamina le affinità artistiche, le influenze e le amicizie della pittrice. Il cuore del volume sono i contributi di Douglas Dreishpoon con interessanti accostamenti tra opere di Frankenthaler e di altri artisti con cui aveva rapporti, in particolare David Smith, Anne Truitt e Anthony Caro.
Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole – Marsilio Arte
Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole · Editore Marsilio Arte –
Marsilio Arte Santa Marta, Fabbricato 17, 30123 – Venezia info@marsilioarte.it – tel. +39 041 2406511
La pittura “senza regole” di Helen Frankenthaler in mostra a Firenze
Racconti da Marte di Arturo Galansino
Negli ultimi anni le istituzioni culturali hanno cercato di colmare il divario che ancora oggi colpisce la rappresentanza femminile nel mondo dell’arte.
Anche a Palazzo Strozzi abbiamo dedicato una particolare attenzione ad artiste come Barbara Kruger, Cindy Sherman, Louise Nevelson, che hanno utilizzato il loro talento per sfidare le norme e aprire nuove strade nell’arte contemporanea, ponendo interrogativi cruciali sulla rappresentazione e sul ruolo delle donne nella società. Figure di spicco quali Paola Pivi, Marinella Senatore, Goshka Macuga, Vanessa Beecroft hanno animato il cortile con i loro lavori e nelle mostre sono state messe in evidenza opere di artiste di fama internazionale come Kara Walker, Lynette Yiadom-Boakye, Shirin Neshat, Rosemarie Trockel, Katharina Fritsch.
Ma, soprattutto, si sono distinte per il loro impatto e successo le monografiche che abbiamo dedicato a Marina Abramović e Natalia Goncharova.
Altro tema a noi caro è l’arte americana, anche a motivo dello stretto rapporto con la Palazzo Strozzi Foundation USA di New York: così a Peggy Guggenheim, che nel 1949 ha inaugurato la Strozzina come spazio espositivo con la sua rivoluzionaria raccolta d’arte, abbiamo riservato un tributo con la rassegna La grande arte dei Guggenheim (2016) che, insieme ad Americani a Firenze (2012) e American Art 1961-2001 (2021), ha costituito la trilogia da noi consacrata a momenti fondamentali della storia, non solo artistica, statunitense.
Ancora, abbiamo organizzato importanti mostre di Bill Viola e Jeff Koons, artisti americani dai forti legami con l’Italia.
È adesso la volta di Helen Frankenthaler, una delle artiste più importanti del XX secolo, la cui rivoluzionaria ricerca in pittura viene esplorata attraverso una selezione di trenta tele e sculture eseguite tra il 1953 e il 2002, in dialogo con opere di suoi contemporanei.
La grande mostra Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole non ha precedenti in Italia e con prestiti da celebri musei e collezioni internazionali quali il Metropolitan Museum of Art di New York, la Tate Modern di Londra, il Buffalo AKG Art Museum, la National Gallery of Art di Washington, la ASOM Collection e la Levett Collection oltre a quelli della Helen Frankenthaler Foundation, permette al pubblico di scoprire un’artista che con il suo approccio innovativo e controcorrente si è distinta come figura pionieristica nel campo della pittura astratta, ampliandone le potenzialità con modalità che continuano a ispirare nuove generazioni.
L’esposizione, curata da Douglas Dreishpoon, direttore dell’Helen Frankenthaler Catalogue Raisonné, che desidero ringraziare insieme alla Helen Frankenthaler Foundation, alla presidente Lise Motherwell, alla direttrice esecutiva Elizabeth Smith e a tutto il gruppo di lavoro, tende a esaltare la pratica innovativa di questa artista anche attraverso il filtro di affinità, influenze e amicizie che hanno segnato la sua vita personale e artistica. Nella mostra viene assegnato per la prima volta un ruolo significativo alla collezione privata di Frankenthaler, che include opere di artisti diventati suoi amici, esposte nella sua casa di Manhattan. Alcune di queste opere sono protagoniste adesso a Palazzo Strozzi.
Rilevante è la volontà di far immergere il pubblico nella biografia e nella pratica artistica di Frankenthaler attraverso documenti d’archivio, fotografie e corrispondenze, restituendo quel mondo affascinante, incantevole nel suo glamour e straordinario nell’eleganza.
Arturo Galansino
Testo tratto dal catalogo della mostra Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole, Marsilio Arte, Venezia 2024.
Nota – Arturo Galansino (Nizza Monferrato, 1976) dal 2015 è il direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi a Firenze. In precedenza ha maturato una serie di importanti esperienze curatoriali al Musée du Louvre di Parigi, alla National Gallery e alla Royal Academy of Arts di Londra.
Fonte-Marsilio Arte Santa Marta, Fabbricato 17, 30123 – Venezia info@marsilioarte.it – tel. +39 041 2406511
Il 5 febbraio 2004 all’età di 85 anni ci lasciava Nuto Revelli. Ha saputo scrivere della guerra come pochi in Italia, una guerra vissuta sia da ufficiale dell’esercito che da partigiano. Ha passato il resto della vita a lavorare sulla memoria e a raccogliere le testimonianze di vita di quella che riteneva la sua gente. Questo articolo riflette su una parte della sua eredità.
Sono rimasto sull’uscio per qualche minuto. Entrando mi pareva di disturbare. Anche se in quel piccolo studio con le pareti rivestite di legno, non c’era nessuno.
Non ero mai stato prima nella casa di Nuto Revelli in corso Brunet 1 a Cuneo. Oggi è la sede della fondazione che porta il suo nome. Laddove c’era la camera da letto condivisa con l’amata Anna, sono ora conservati i documenti di una vita che compongono l’archivio in fase di riordino. La stanza del figlio Marco si è invece trasformata in un ufficio. Mentre il salotto non sembra aver mutato destinazione d’uso: gli amici di un tempo lo ricordano come luogo di lunghe chiaccherate.
Se una persona l’hai conosciuta esclusivamente attraverso le parole dei suoi libri, fa un certo effetto essere a un paio di metri dalla sua macchina da scrivere. Per questa ragione tentenno sull’uscio, osservo da lì le foto in bianco e nero, i tanti libri riposti nella libreria sulla destra. Molti dei titoli rimandano al chiodo fisso, probabilmente la ragione principale per cui Nuto Revelli ha dovuto scrivere: la guerra, in tutte le sue forme.
Rimango lì, a quella che ritengo essere la giusta distanza.
Le tante vite di Nuto
Revelli è stato prima un ufficiale dell’esercito italiano, convinto alla guerra da un’educazione in anni di fascismo. Poi partigiano, convinto dalla guerra, quella combattuta, e dalla ritirata nel ghiaccio della Russia. Nella vita in borghese degli anni ‘50 è diventato commerciante di ferro, inizialmente per necessità, dopo come “scusa” per evitare di essere definito intellettuale, storico, scrittore. Ritrosia tutta cuneese da una parte, consapevolezza profonda da un’altra: la sua scrittura – più che vocazione o vezzo – è stato uno strumento, l’unico, con cui provare a estinguere il debito contratto. Una cambiale da onorare, un «pagherò»: «Ricorda – mi dicevo – ricorda tutto di questo immenso massacro contadino, non devi dimenticare niente».
I creditori di Nuto erano i tanti soldati che aveva visto morire al fronte, i partigiani in battaglia con lui nelle valli cuneesi e i loro genitori ad attendere notizie nelle povere case. Per lo più contadini i primi, i secondi e i terzi. Solo così si può capire perché Nuto arrivi a intraprendere, dopo i libri in cui racconta la guerra e la resistenza, il viaggio nel “mondo dei vinti”. Di come, a un certo punto, il suo chiodo fisso sia testimoniare le conseguenze di una guerra inedita, combattuta senza clamore né armi ma così intensa da mettere a rischio un’intera civiltà, un’intera cultura: quella contadina. Il debito contratto si poteva estinguere solo alimentando una memoria negata, solo concedendo voce e assicurando «un nome e un cognome ai testimoni».
Duecentosettanta storie di vita. Sette anni di ricerca. E poi il secondo viaggio, altri anni, il ritornare per sentire le voci al femminile: “l’anello forte” silenzioso ma sempre presente.
E una fortissima sensazione d’urgenza, quella che ricorda Marco Revelli pensando a suo padre negli anni a cavallo tra il decennio sessanta e tutti gli anni settanta. Le sere quasi sempre rintanato nel suo studio ad ascoltare le voci dei suoi testimoni e prendere annotazioni. E poi tutti i fine settimana vederlo prender l’auto armato solo del suo fidato magnetofono: «la scatola che ascolta e scrive tutto». Le valli, le colline e la pianura cuneese battute palmo a palmo per fotografare con parole ciò che per Nuto aveva tutte le caratteristiche di un «genocidio». Laddove non erano riusciti i due conflitti mondiali e la continua emigrazione, erano arrivate la modernizzazione e l’industrializzazione. Un «esodo» che dalle montagne e dalle aree più marginali spingeva le persone verso la città e la fabbrica. Interi territori abbandonati, le case lasciate lì ferme nel tempo come dopo un terremoto.
Era facile nel 1977 quando per i tipi di Einaudi uscì Il mondo dei vinti, ed è facile ora, liquidare Nuto Revelli col ritratto del nostalgico, del cantore dei “bei tempi andati”. È una scorciatoia per evitare il confronto con ciò che ha scritto e le storie che ha portato fuori dall’oblio. Nuto però non era contro l’industria di per sé, non ha mai creduto alla «libertà dei poveri» ma era preoccupato dall’«industria che aveva stravinto», dall’imposizione di una monocultura economica e dall’assenza del limite: «La terra gialla, intristita dai diserbanti, mi appariva come il simbolo dei vinti. Il mio chiodo fisso era che si dovesse salvare un equilibrio tra l’agricoltura e l’industria prima che fosse troppo tardi».
Resistenze, lucciole e masche
Prima erano serviti i fucili e le bombe. Dopo solo un registratore e delle parole da mettere in fila le une alle altre. Una resistenza che continua in altre forme, per certi versi molto più complessa. Il Nuto comandante partigiano a capo di un gruppo di ragazzi nascosti nelle montagne, è diventato il Nuto cercatore che si avvale di una brigata di mediatori: gente in grado di portarlo a conoscere uomini come in esilio nelle proprie valli. Con loro Nuto arrivava in luoghi sperduti a parlare con testimoni autentici ‘dl’aut secul. I mediatori, figure che meriterebbero romanzi, erano conoscitori eccellenti del proprio territorio e della sua gente, garantivano a Nuto il lasciapassare: quella fiducia iniziale senza la quale al forestiero non si confessava alcunché.
Non è eccessivo raccontare questo lavoro di ascolto e di emersione come una diversa forma di resistenza. Ha senso se si crede che la modernizzazione e la civiltà dei consumi siano arrivate su quelle persone con la stessa violenza di un’imposizione e con la conseguenza di un lento annichilimento. Riecheggiano le argomentazioni di Pier Paolo Pasolini e la sua critica a un’ideologia dello sviluppo che definiva, senza mezzi termini, come un «nuovo fascismo». Una tendenza all’omologazione culturale e all’erosione di qualunque residuo di autonomia che, secondo il poeta friulano, nemmeno il fascismo storico o la chiesa erano riusciti a minare.
Il mondo dei vinti di Revelli può essere anche raccontato come un resoconto in presa diretta di questo processo. Però con l’attenzione, e l’attitudine, a evitare astrazioni e il rischio di scivolare nel mito: «Sapevo che la stagione antica delle lucciole e delle cinciallegre era felice soltanto nelle pagine scritte dagli “altri”, dai letterati, dai “colti”».
Anche per questo Nuto predilige le testimonianze dirette con la loro forza di vita raccontata. Nonostante si distanzi dalla nostalgie delle «lucciole» di Pasolini, Nuto trova in realtà nelle baite e nei ciabot il paesaggio umano degli Scritti corsari e delle Lettere luterane. Nelle storie di quei montanari e di quei contadini emerge come il fascismo era passato da quelle parti senza lasciare traccia, di fatto subito nell’indifferenza. La Chiesa era il vero potere storicamente rispettato, anche se un potere esterno, anch’esso accettato più per necessità che per sincera adesione. Prova ne è l’autonoma religiosità e spiritualità di quel mondo popolato di masche, le streghe delle credenze popolari piemontesi.
E poi il dialetto, di cui proprio in quegli anni i giovani hanno iniziato a provare vergogna perché simbolo di arretratezza. Io mi ricordo quando mia nonna si sforzava di parlare con me in italiano: non voleva passare per ignorante. Quella lingua rappresentava invece un codice esclusivo e protetto di una propria rappresentazione delle cose, la garanzia di una biodiversità culturale. Certo era anche una barriera capace di escludere: «chi non parla piemontese è straniero».
Ci ha pensato la «modernizzazione», con il ruolo centrale della televisione, a indebolire, sino quasi alla completa scomparsa, quella cultura millenaria. Ha promosso nuovi, vincenti, modelli antropologici (che poi siamo noi).
Nuto Revelli
La diserzione
Nuto Revelli aveva paura che il «testamento di un popolo» emerso anche con le sue interviste, venisse considerato con il distacco del «documento antropologico» quando invece era, ed è, una «requisitoria urlante e insieme sommessa». Non un materiale buono solo per farci convegni ma un atto di accusa che meritava risposte e nuove consapevolezze. Nuto se la prendeva con chi aveva praticato la «diserzione», con chi stava lasciando quel mondo al suo destino senza fare nulla. Se alle destre e alla Democrazia Cristiana imputava le responsabilità per essere i garanti degli equilibri di quello sviluppo così ineguale e dannoso; dalle forze della sinistra esigeva risposte e linfa nuova perché anche loro «non capivano o fingevano di non capire». Si rendeva conto che anche in quella parte, la sua parte, la forza persuasiva dell’industrializzazione e di quel modello di sviluppo a crescita infinita aveva fatto breccia. I comunisti così come le forze della nuova sinistra dei gruppi extraparlamentari sembravano condividere in quegli anni l’euforia produttivista. È sempre Marco Revelli, all’epoca militante di Lotta Continua, a offrire uno spaccato: «io non capivo l’ostinazione di mio padre, quel dedicare così tanto tempo a un mondo in declino. A me sembrava positivo allora che quelle persone se ne andassero via da quei posti per scendere in fabbrica, da militanti di sinistra poi pensavamo che una volta operai avremmo potuto parlarci mentre diversamente i nostri discorsi non facevano breccia».
In un’intervista a «Nuova Società», Nuto rivolgeva nel settembre del 1977 il suo appello: «Oggi anche un politico di sinistra non sa cosa fare. Ma, se il PCI non risolve certi problemi, in Italia non li risolve nessuno. […] Le parole d’ordine d’allarme non sono state sentite da chi deteneva il potere, ma anche all’interno della sinistra il discorso ha sempre privilegiato l’industria. L’interesse per la discussione sui problemi delle campagne è sempre stato flebile». E in un dialogo su «Ombre Rosse» nel dicembre dello stesso anno spronava: «Un cordone ombelicale la mantiene (la manodopera della Michelin, della Ferrero ndr) collegata alla terra in cui è nata e cresciuta. Se un sindacalista, se il sindacato non conosce questo contesto, tutto quello che sta fuori e prima della fabbrica, parla a questi operai con un linguaggio sconosciuto, e non deve poi stupirsi della sindacalizzazione che non c’è, degli scioperi che non riescono. […] questi operai invece di andare a cercarli davanti alle porte della Michelin, dove escono storditi che cercano d’arrivare a casa prima che sia notte, andateli a trovare in campagna, dove lavorano ancora. Capirete che sono rimasti dei contadini. […] È in campagna che potete parlare della fabbrica».
Parole che ricordano quelle del 2001 di Paolo Rumiz, in La secessione leggera, in cui racconta il fenomeno leghista nel nord Italia: «Le radici non sono affatto una cosa di destra, ma lo diventano eccome quando la sinistra ne ha orrore». E diventa difficile non collegare, non mettere insieme le cose: quanto c’entra a sinistra la subalternità a un modello economico con la fuga dei «naufraghi dello sviluppo» dal proprio popolo?
È tutta qui l’attualità del messaggio di Nuto Revelli, dei suoi appelli urlanti e insieme sommessi alla sinistra perché cambiasse approccio, acquisisse nuove consapevolezze sul modello di sviluppo che stava vincendo. C’era da mettere in discussione un’impostazione, provare a guardare il mondo oltre le lenti dell’operaio della “grande fabbrica”.
Una lezione inascoltata, con il senno di poi, evidente anche nel come a sinistra l’ambientalismo sia arrivato come un oggetto estraneo. Ed è continuata quella difficoltà a parlare a quel mondo che non fosse città, ha pesato su questo una tara della cultura “ufficiale” comunista: l’avversità ai piccoli proprietari terrieri che la vulgata marxista avrebbe voluto veder presto proletarizzati per ingrossare le file del proprio blocco sociale. Negli anni ‘50 una polemica intercorsa tra alcuni intellettuali del PCI e figure come Ernesto De Martino, Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Manlio Rossi Doria e lo stesso Pasolini, testimoniava il perdurare del pregiudizio e del fastidio rispetto ai temi del mondo contadino.
Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food, ricorda quell’indifferenza quando era militante della sinistra extraparlamentare: «ricordo una riunione del gruppo del Manifesto in cui Lucio Magri disse: “Cos’ha Petrini che parla sempre di cibo?”. Io parlavo di cibo perché condividevo i ragionamenti di Revelli, avevo visto ciò che scriveva frequentando la gente di una Langa allora ancora povera e il mangiare era il punto d’attacco per parlare con quelle persone».
Nuto Revelli
Un’eredità senza testimoni?
Viene da chiedersi cosa sia rimasto oggi di quell’eredità che quel «testamento di un popolo», rappresentato da Il mondo dei vinti, ha lasciato. Di certo ci sono oggi nuove consapevolezze sui limiti dello sviluppo e sugli squilibri sociali e territoriali. Cresce, seppur troppo lentamente, una coscienza ambientale che impone una revisione delle nostre priorità. Nel senso comune affiora l’idea che un modello economico sempre destinato a crescere sia qualcosa di irrazionale.
D’altra parte il mondo rurale e contadino gode di un rinnovato interesse. Siamo nel bel mezzo di un revival della campagna, dei suoi prodotti e dei suoi protagonisti. Il cibo è al centro della scena.
È la riscossa dei «vinti»?
Chissà cosa penserebbe Nuto di questo cibo diventato spettacolo, di fabbriche contadine e di reality dove ai contadini si cerca moglie. Riderebbe, forse, pensando ai bacialè conosciuti nei suoi giri. Veri e propri mediatori di matrimoni contadini che giravano le cascine con un “campionario” di ragazze con fotografie e indirizzi, che combinavano matrimoni tra i contadini scapoli dell’alta Langa e le ragazze calabresi in cerca di marito, e di nuove vite.
Più che un inedito rispetto per la diversità del mondo contadino, sembra di assistere a un processo di assimilazione. Non proprio il riscatto che immaginava Nuto. Anche se c’è speranza in alcuni giovani che ritornano nelle case abbandonate dei propri nonni, in nuovi stili di vita e in tanti esperimenti che raccontano una diversa possibilità.
C’è da chiedersi infine se quella civiltà contadina abbia preservato o meno alcuni dei suoi caratteri di autonomia culturale su cui era possibile innestare percorsi di sviluppo alternativi. C’è che da chiedersi, insomma, se quel popolo c’è ancora. O se forse «manca».
Un’autonomia e una cultura di cui non bisogna dimenticare anche gli aspetti negativi, gli elementi di arretratezza che nessuno rimpiange. Ma ci sono tratti di quel mestiere di vivere da riscoprire nel nostro mondo zeppo di nevrosi. E servirebbe anche un progetto politico e culturale capace di farsene carico, valorizzando, come in qualche modo chiedeva Nuto, il buono che si scorge in controluce nelle testimonianze dei vinti.
Ci vorrebbe un poco della saggezza inconsapevole dei tanti testimoni di Nuto, come quel montanaro preso ad esempio da Alessandro Galante Garrone in una recensione del luglio 1977. La sua è una domanda, pensata in qualche borgata nascosta nelle nostre Alpi, che oggi ci fa sospirare: «se le fabbriche si fermano a forza di far macchine, che cosa succederà?»
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