Diego Dilettoso-La Parigi e la Francia di Carlo Rosselli
Editore Biblion
Descrizione-Questo saggio ripercorre gli ultimi otto anni della biografia di Carlo Rosselli (1929-1937), che il militante antifascista trascorre principalmente in Francia e, più precisamente, a Parigi. Gli anni dell’esilio non costituiscono per Rosselli soltanto un momento cruciale della lotta antifascista, con la fondazione di Giustizia e Libertà, la pubblicazione del saggio “Socialisme libéral” (Parigi, 1930), la partecipazione in prima persona ai combattimenti della guerra civile spagnola, fino al tragico assassinio, con il fratello Nello, a Bagnoles-de-l’Orne. L’esperienza d’oltralpe permette a Roselli – in misura senz’altro maggiore rispetto agli altri dirigenti dell’antifascismo in esilio – di entrare in contatto con i milieux politici ed intellettuali locali, lasciando tracce significative del suo passaggio e allargando i propri orizzonti culturali sulla Francia, paese al cuore di quella civilizzazione europea che Rosselli concepiva come naturalmente contrapposta alla barbarie fascista.
Uomo politico (Roma 1899 – Bagnoles de l’Orne 1937); antifascista, allievo di G. Salvemini; prof. (fino al 1926) all’univ. Bocconi di Milano e all’Istituto superiore di commercio di Genova, dopo il delitto Matteotti aderì al Partito Socialista Unitario. Fondatore, con G. Salvemini, E. Rossi e il fratello Nello, del foglio clandestino Non mollare!, poi (1926) con P. Nenni della rivista Il quarto stato, fu uno degli organizzatori dell’emigrazione politica antifascista clandestina; per aver aiutato l’evasione di F. Turati, fu confinato a Lipari, dove scrisse Socialismo liberale (pubbl. in Francia nel 1930), revisione teorica del marxismo in funzione di un socialismo democratico. Evaso da Lipari con F. S. Nitti e E. Lussu (1929), riparò in Francia, dove costituì il movimento Giustizia e Libertà, di cui fu la guida fino alla morte. Combattente (1936) nella guerra civile spagnola a fianco delle truppe repubblicane, venne ferito in battaglia; tornato convalescente in Francia, fu assassinato con il fratello Nello (v.) da cagoulards assoldati dal SIM. Le lettere dei due fratelli alla madre, Amelia Pincherle R. (n. 1870 – m. 1937), autrice di commedie e di libri per ragazzi, sono raccolte in Epistolario familiare. Carlo e Nello Rosselli alla madre (1914-1937), a cura di Z. Ciuffoletti (1979)
Articolo di Federico GIUSTI-Associazione”La Città Futura”
L’antifascismo di cui abbiamo, scrive Federico Giusti ,bisogno è quello delle lotte sociali e sindacali contro i fascisti alleati di agrari e industriali, contro il fascismo che mandava le giovani generazioni a morire nelle guerre imperialiste e coloniali, contro le leggi razziali e la limitazione delle libertà individuali e collettive. Il fascismo che metteva all’indice libri scomodi per ottenebrare le menti dei giovani.
ROMA 14/04/2023 –La Repubblica fondata dalla Resistenza non ha mai fatto i conti fino in fondo con il Ventennio e da anni ormai, indebolito il movimento sindacale e comunista, i revisionisti hanno avuto la strada spianata per operare, indisturbati, a tutto campo.
Fare i conti con il fascismo è ormai una priorità assoluta. Forse siamo fuori tempo massimo dopo anni di operazioni culturali, mediatiche e politiche improntate a una rilettura del passato per giustificare le scelte del presente.
Molti testi scolastici sono riscritti a uso e consumo dello sdoganamento soft del fascismo, in un paese nel quale si leggono meno libri e giornali in confronto con la stragrande maggioranza delle nazioni europee.
Ma cosa intendiamo, quando si parla di fare i conti con il fascismo ?
Liberiamo subito il campo da alcuni equivoci di fondo. Non parliamo dell’antifascismo retorico e istituzionale diventato, con linguaggi e pratiche idonei allo scopo, un corpo ideologico giustificazionista delle politiche di austerità. Non ce ne voglia l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ma per troppi anni sono stati silenti e complici con governi di centro-sinistra ed esponenti politici che hanno contribuito a sdoganare il fascismo nella cosiddetta seconda Repubblica.
E oggi il Piano di Rinascita democratica di Licio Gelli è caduto nell’oblio quando invece permetterebbe di conoscere la lunga scia nera dal fascismo ai nostri giorni. Quel Piano non era il libro dei sogni di vecchi nostalgici ma un progetto di revisione costituzionale e della forma Stato, di profonda trasformazione della società in senso autoritario per sposare le tesi padronali che, fin dalla sua nascita, hanno attraversato il fascismo storico e politico.
Se il fascismo prima della Marcia su Roma venne foraggiato da agrari e industriali per spezzare le reni al movimento sindacale, oggi il governo Meloni vuole spezzare le reni (usiamo volutamente il loro linguaggio) ai movimenti per la casa presentando una proposta di legge che prevede fino a 9 anni di pena per gli occupanti.
Proviamo allora ad aprire tra i nostri pochi lettori una riflessione certi di attirarci critiche e antipatie.
L’amnistia di Togliatti liberò migliaia di fascisti. Molti fecero ritorno ai loro posti di lavoro nello Stato, nelle prefetture, nelle forze armate e in quelle dell’ordine. L’amnistia nasceva come intento di pacificazione in un paese uscito frantumato dalla guerra (non solo quella tra Stati ma una guerra interna civile della quale per trent’anni la storiografia ufficiale non ha mai parlato). Quella pacificazione, giudicata necessaria dai vertici dell’allora Pci, determinò la prima insanabile frattura con la Resistenza antifascista. Già nell’estate del 1946 migliaia di fascisti uscivano dalle galere ritornando ai loro vecchi posti di lavoro. Molti partigiani vennero allora epurati e altri incarcerati con accuse pesanti, trattati alla stregua di delinquenti comuni. Nelle questure, nelle prefetture, nelle forze armate e dell’ordine fecero ritorno ex repubblichini e fascisti dichiarati, parte dei quali ritroveremo anni dopo nella strategia della tensione o protagonisti delle repressioni di piazza contro gli scioperi, le occupazioni di terre.
Anche la storiografia resistenziale solo in tempi recenti ha scoperto pagine di storia occultate per troppo tempo, emblematica l’esperienza della Volante Rossa, partigiani dipinti come criminali comuni che decisero di resistere, armati, agli attentati contro sedi di partito, circoli ricreativi comunisti e socialisti che bande di repubblichini portavano a segno nei mesi successivi alla Liberazione. Molti di quei partigiani furono costretti a espatriare per sfuggire ad anni di carcere e in Italia fecero ritorno negli ultimi mesi della loro esistenza. La cacciata dei partigiani e la loro sostituzione con personaggi collusi con il fascismo è stata la prima grande ferita subita dalla Resistenza.
L’amnistia di Togliatti permise a ex repubblichini di dare vita anni dopo all’Msi e ad altre organizzazioni nostalgiche del fascismo e nuovamente alleate con agrari e industriali (e al servizio della Nato o tra le fila di Gladio) che fin dai mesi successivi alla Liberazione portarono avanti l’epurazione dei comunisti dalle fabbriche, comunisti che davano, allora, vita a scioperi e proteste a tutela del potere di acquisto salariale e per migliorare le condizioni di lavoro e di vita.
Che dire poi della rapida liquidazione dei tribunali promossi dal Cnl e sostituiti dalla giustizia ordinaria, non prima di avere riammesso in servizio cancellieri e magistrati dell’epoca fascista?
A giudicare i crimini dei fascisti la Repubblica antifascista chiamò giudici pochi anni prima conniventi con il fascismo e magari iscritti al partito, un conflitto di interessi evidente eppure tacitato in nome della pacificazione nazionale.
Questi fatti storici, se debitamente analizzati, sono a nostro avviso determinanti anche per analizzare e comprendere il presente. Prendiamo per esempio alcune frasi (“che c’entriamo noi col fascismo?”, “il fascismo in fondo ha anche fatto buone cose”), autentici stereotipi diventati, anche grazie a martellanti campagne mediatiche, una sorta di senso comune.
Nell’immaginario collettivo il fascismo è diventato fautore delle pensioni, dello Stato sociale e di utili interventi pubblici. Libri come quelli di Filippi andrebbero discussi nelle scuole italiane di ogni ordine e grado, nei luoghi di lavoro e nelle sedi sindacali, avremmo molto da imparare anche per i tempi presenti.
Rimettere mano alla storia dell’antifascismo italiano, rivisitarne alcune pagine dimenticate, è un’operazione non solo storica ma politica. Non avere fatto i conti con il fascismo ci ha fatto prendere cantonate su innumerevoli questioni e soprattutto ha spianato la strada all’avvento della sinistra liberal attenta ai diritti civili ma non a quelli sociali. E studiare il fascismo consentirebbe di appurare le cause del suo successo, gli errori commessi da comunisti e socialisti nell’avversare gli Arditi del Popolo. Un’operazione culturale indispensabile per comprendere le ragioni del successo di Fratelli d’Italia alle ultime elezioni politiche e iniziare a contrastare il governo Meloni senza attendere i sonnacchiosi e concertativi sindacati rappresentativi che in Italia non muovono foglia mentre in altri paesi europei ci sono scioperi e proteste di piazza.
Non serve solo rinsaldare gli anticorpi dell’antifascismo – meglio di noi lo fanno alcuni storici di ultima generazione contro i quali si inveisce dalle pagine di alcuni giornali con una campagna di odio che ci riporta al passato fino a ostacolarne la presenza nelle scuole e nelle università –, è una priorità insopprimibile interrogarci sul perché il fascismo sia stato sdoganato e riproposto in altre forme.
Prendiamo il caso delle battaglie fascistissime o coloniali dipinte come atti eroici, le visite delle scolaresche in caserma, lo stage scuola-lavoro nei centri di addestramento militare, la presenza di multinazionali di armi negli atenei italiani nel ruolo di disinteressati mecenati.
Non accusiamo certo di fascismo i militari e i produttori di armi, ma crediamo che i valori da loro propugnati (la sicurezza nazionale, l’esaltazione della patria…) attingano da quel brodo di coltura da cui è nato anche il fascismo storico.
Non si capisce la ragione per la quale si debbano celebrare con ragazzi di 10 o 14 anni le battaglie combattute dall’esercito italiano alleato dei nazisti, presentandole come atti di eroismo e di italianità. Il nostro paese non ha fatto i conti con la passata esperienza coloniale (e solo alla fine degli anni Sessanta sono arrivati i primi studi critici con la pubblicazione di tanti documenti occultati da storici conniventi ideologicamente con il passato coloniale e fascista); per questo ci siamo imbattuti in azioni disumane come quelle ai danni di detenuti somali da parte di soldati italiani. Oppure pensiamo che Faccetta nera sia solo un’allegra canzonetta della quale non conosciamo le parole o peggio ancora le riteniamo neutre e inoffensive?
Non avere fatto i conti con il passato coloniale ha spianato la strada alle missioni di guerra all’estero sotto l’egida Onu o Nato. Quel passato coloniale fu un tratto distintivo del fascismo alla ricerca di terre al sole, per conquistare le quali non lesinò l’utilizzo di gas contro l’inerme popolazione civile. E i bombardamenti “umanitari” all’uranio impoverito degli ultimi anni non sono dissimili da quelli in Etiopia.
Le ultime esternazioni del ministro La Russa trovano un terreno fertile e già arato da anni di revisionismo storico e di pratiche diseducatrici, di rimozione delle profonde ragioni dell’antifascismo dipinto ormai come un retaggio ideologico del passato. Il vittimismo della destra dei nostri giorni trasforma i fascisti in patrioti assegnando al concetto di patria una valenza positiva per giustificare il sostegno alla guerra, alla lotta senza quartiere contro i salariati, alimentando la logica dei nemici interni di turno (vedi i 9 anni di carcere proposti per gli occupanti di casa).
Sulle Fosse Ardeatine e sull’attentato di via Rasella menzioniamo integralmente una nota redatta dagli storici dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri che smentisce la propaganda repubblichina di La Russa:
“In merito alle dichiarazioni del presidente del Senato Ignazio La Russa l’Istituto nazionale Ferruccio Parri – Rete degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea –, per rispetto alla verità storica, dichiara:
1) L’ attacco partigiano di via Rasella fu un legittimo atto di guerra condotto contro una pattuglia di poliziotti altoatesini appartenenti al terzo battaglione Bozen.
2) Il Polizeiregiment Bozen comprendeva tre battaglioni, si era formato nel settembre 1943, subito dopo che i tedeschi, a seguito dell’armistizio, avevano costituito l’Operationszone Alpenvorland, (zona di operazione delle Prealpi), che comprendeva le province di Belluno, Trento e Bolzano.
3) La maggior parte dei suoi membri, a seguito dell’opzione del 1939, avevano preso la cittadinanza tedesca.
4) Il battaglione Bozen non era una banda musicale ma un battaglione di polizia armato di pistole mitragliatrici e bombe a mano, che stava ultimando il suo addestramento.
5) L’età media dei componenti era sui 35 anni (avevano un’età dai 26 ai 42 anni), quindi certamente non delle giovani reclute ma neppure dei semipensionati.
6) È bene ricordare che gli altri due battaglioni del reggimento Bozen erano stati subito impiegati in funzione antipartigiana in Istria e nel Bellunese, dove si erano resi autori di stragi.
7) Il battaglione oggetto dell’attacco di via Rasella è stato successivamente impiegato in Italia in funzione antipartigiana.
8 ) A seguito dell’attacco i tedeschi fucilarono alle Fosse Ardeatine 335 fra antifascisti, partigiani, ebrei, detenuti comuni. Le liste furono compilate con l’aiuto della questura di Roma. L’ordine di fucilazione fu eseguito prima della pubblicazione del comunicato emanato dal comando tedesco della città occupata di Roma alle 22.55 del 24 marzo 1944.
9) Per tale atto il questore di Roma, Pietro Caruso, fu condannato a morte dall’Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il fascismo. La sentenza fu eseguita il 22/9/1944.”
La stessa Anpi, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ha innumerevoli responsabilità nell’avere trasformato l’antifascismo in un retaggio del passato o in un messaggio alle giovani generazioni senza riferimenti alla odierna realtà limitandosi magari a ricordare la bontà di una Carta costituzionale che la tecnocrazia del centro-sinistra ha prima svilito e poi affossato tra pareggi di bilanci e ricorso strutturale alla guerra. E l’antifascismo non può essere riesumato due giorni l’anno o per giustificare alleanze elettorali di centro-sinistra, con programmi di austerità contro le classi popolari che combatterono il fascismo identificandolo con la guerra, la miseria, la violenza dei padroni e l’assenza di democrazia e libertà.
L’antifascismo di cui abbiamo bisogno è quello delle lotte sociali e sindacali contro i fascisti alleati di agrari e industriali, contro il fascismo che mandava le giovani generazioni a morire nelle guerre imperialiste e coloniali, contro le leggi razziali e la limitazione delle libertà individuali e collettive. Il fascismo che metteva all’indice libri scomodi per ottenebrare le menti dei giovani.
Ma questo antifascismo, che un tempo avremmo definito militante, è un antifascismo inviso a larghi settori della cosiddetta sinistra, la stessa che pensava all’amnistia di Togliatti come un atto necessario per pacificare il paese e per ricostruirlo nella democrazia, salvo poi accorgersi che i fascisti si erano solo riciclati nelle istituzioni ed erano sempre pronti a organizzare colpi di Stato, attentati contro i lavoratori e a partecipare attivamente alla strategia della tensione.
E gli eredi politici dei fascisti di ieri si definiscono oggi italiani, ma hanno bisogno di riscrivere la storia del Novecento per trovare giustificazioni all’operato dei loro padri e poter restringere gli spazi di libertà e di democrazia oggi.
L’antifascismo militante e di classe non potrà ridursi a una memoria storica astratta, per questo indagare il passato significa coglierne i collegamenti con il presente.
Fonte-Ass. La Città Futura -Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi
Biografia di Patrizia Cavalli. – Poetessa italiana (n. Todi, Perugia, 1947). La sua lirica, limpida e diretta, rivela spesso intensa drammaticità. Ha scritto: Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974); Il cielo (1981); Poesie 1974-1992 (1992); Sempre aperto teatro (1999), con il quale ha vinto il premio Viareggio-Repaci; La Guardiana (2005); Pigre divinità e pigra sorte (2006); Flighty matters (2012); Datura (2013). C. si è dedicata anche a traduzioni per il teatro, e nel 2012 ha pubblicato, con la musicista D. Tejera, Al cuore fa bene far le scale, CD e libro con poesie e musiche originali nate dalla collaborazione tra le due artiste. Nel 2019 C. ha pubblicato la raccolta di prose Con passi giapponesi, finalista al Premio Campiello 2020; è dello stesso anno la raccolta di versi Vita meravigliosa.-Fonte Enciclopedia Treccani
Adesso che il tempo sembra tutto mio
Adesso che il tempo sembra tutto mio e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena, adesso che posso rimanere a guardare come si scioglie una nuvola e come si scolora, come cammina un gatto per il tetto nel lusso immenso di una esplorazione, adesso che ogni giorno mi aspetta la sconfinata lunghezza di una notte dove non c’è richiamo e non c’è piú ragione di spogliarsi in fretta per riposare dentro l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta, adesso che il mattino non ha mai principio e silenzioso mi lascia ai miei progetti a tutte le cadenze della voce, adesso vorrei improvvisamente la prigione.
Quante tentazioni attraverso
nel percorso tra la camera
e la cucina, tra la cucina
e il cesso. Una macchia
sul muro, un pezzo di carta
caduto in terra, un bicchiere d’acqua,
un guardar dalla finestra,
ciao alla vicina,
una carezza alla gattina.
Così dimentico sempre
l’idea principale, mi perdo
per strada, mi scompongo
giorno per giorno ed è vano
tentare qualsiasi ritorno.
Addosso al viso mi cadono le notti
e anche i giorni mi cadono sul viso.
Io li vedo come si accavallano
formando geografie disordinate:
il loro peso non è sempre uguale,
a volte cadono dall’alto e fanno buche,
altre volte si appoggiano soltanto
lasciando un ricordo un po’ in penombra.
Geometra perito io li misuro
li conto e li divido
in anni e stagioni, in mesi e settimane.
Ma veramente aspetto
in segretezza di distrarmi
nella confusione perdere i calcoli,
uscire di prigione
ricevere la grazia di una nuova faccia.
E’ tutto così semplice,
sì, era così semplice,
è tale l’evidenza
che quasi non ci credo.
A questo serve il corpo:
mi tocchi o non mi tocchi,
mi abbracci o mi allontani.
Il resto è per i pazzi.
Note: da “Amore non mio e neanche tuo” – Patrizia Cavalli
Per questo sono nata, per scendere
Per questo sono nata, per scendere da una macchina dopo una corsa in una strada qualunque e trafficata e guidata dagli angeli piegarmi attraverso il finestrino sopra quei capelli e in silenzio sentire l’odore di quel viso dove poco prima avevo visto come la bocca e gli occhi si passavano un sorriso che non si apriva mai e correndo veloce scompariva in un attimo e tornava.
Questa sfusa felicità che assale
Questa sfusa felicità che assale
le facce al sole,
i gomiti e le giacche
– quante dolcezze
sparse nel mercato,
come son belli
gli uomini e le donne!
E vado dietro all’uno
e guardo l’altra,
sento il profumo
inseguo la sua traccia,
raggiungo il troppo
ma il troppo non mi abbraccia.
Sempre aperto teatro
Indietro, in piedi, da lontano,
di passaggio, tassametro in attesa
la guardavo, i capelli guardavo,
e che vedevo? Mio teatro ostinato,
rifiuto del sipario, sempre aperto teatro,
meglio andarsene a spettacolo iniziato.
O amori – veri o falsi
siate amori, muovetevi felici
nel vuoto che vi offro.
Tutto mi appare in bella superficie
e poi scompare. Perché ritorni
la figura io mi sfiguro, offro
i miei pezzi in prestito o in regalo,
bellezza sia visibile, formata,
guardarla da lontano, anche sfocata,
purché ci sia, purché ci sia, anche non mia.
Note: Patrizia Cavalli, Sempre aperto teatro
Poesie per colazione -153
Era alla luce terribilmente sabato,
quel sole infimo che annunzia svogliatezze
mentre nella piazza fin dentro le mie finestre
chiuse si muoveva il mercato prolungato.
L’ultima offerta e poi si chiude. Poi la festa
untuosa e il silenzio. Già si smontavano
i banchetti con la ferocia trasandata
della fine. Forse era possibile
una corsa per prendere qualcosa, forse
restava qualche cassetta ancora non riposta.
Ma non mi decidevo a quella corsa.
Quando scendevo ormai era tardi
tra i mucchi di foglie di carciofi
e i pomodori sfatti dove una vecchietta china
correva rapace alla riscossa di mezze mele
di peperoni buoni per tre quarti.
Ma io non cercavo frutta marcia o fresca,
io volevo soltanto la certezza
della settimana che finisce,
dell’occasione persa.
Note: Patrizia Cavalli, “L’io singolare proprio mio” in Poesie, Einaudi, 1992.
Pure scoprendo che quello che vedevo,
e lo vedevo in te amore amato
in verità non c’è, non c’è mai stato,
forse per questo è meno vero? No,
continua ad essere vero, e non perché
così mi era sembrato, non si tratta
di soggettività. Nessuno infatti
avrebbe in sé alcuna qualità
se non fosse per quel sentire che spinge
a concepire mischiandosi all’oggetto
un pensiero commosso per cui la nostra mente
intenerita fa che la morte venga differita,
almeno per un po’, giocando a questo
o a quello, prestando al giocatore
opaco il suo fervore, anche inventato.
Note: da “Pigre divinità e pigra sorte” – Patrizia Cavalli
Essere animale per la grazia
di essere animale nel tuo cuore.
Mi scorge amore, mi scorge quando dormo.
Per questo io dormo. Di solito io dormo.
Mi ero tagliata i capelli, scurite le sopracciglia,
aggiustata la piega destra della bocca, assottigliato
il corpo, alzata la statura. Avevo anche regalato
alle spalle un ammiccamento trionfante. Ecco ragazza
ragazzo
di nuovo, per le strade, il passo del lavoratore,
niente abbellimenti superflui. Ma non avevo dimenticato
il languore della sedia, la nuvola della vista.
E spargevo carezze, senza accorgermene. Il mio corpo
segreto intoccabile. Nelle reni
si condensava l’attesa senza soddisfazione; nei giardini
le passeggiate, la ripetizione dei consigli,
il cielo qualche volta azzurro
e qualche volta no.
Note: tratta da “Poesie”,Patrizia Cavalli, Einaudi, 1999)
Patrizia Cavalli-Foto del 1985
Biografia di Patrizia Cavalli. – Poetessa italiana (n. Todi, Perugia, 1947). La sua lirica, limpida e diretta, rivela spesso intensa drammaticità. Ha scritto: Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974); Il cielo (1981); Poesie 1974-1992 (1992); Sempre aperto teatro (1999), con il quale ha vinto il premio Viareggio-Repaci; La Guardiana (2005); Pigre divinità e pigra sorte (2006); Flighty matters (2012); Datura (2013). C. si è dedicata anche a traduzioni per il teatro, e nel 2012 ha pubblicato, con la musicista D. Tejera, Al cuore fa bene far le scale, CD e libro con poesie e musiche originali nate dalla collaborazione tra le due artiste. Nel 2019 C. ha pubblicato la raccolta di prose Con passi giapponesi, finalista al Premio Campiello 2020; è dello stesso anno la raccolta di versi Vita meravigliosa.-Fonte Enciclopedia Treccani
Isabella Insolvibile La prigionia alleata in Italia 1940-1943
Collana dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri
Viella Libreria Editrice-ROMA
Descrizione del libro di Isabella Insolvibile –Tra il 1940 e il 1943 circa 70.000 soldati alleati furono prigionieri in Italia. Catturati sui fronti africani, vennero detenuti in quasi tutte le regioni italiane, in campi che rappresentarono uno specifico universo di cattività, indagato qui per la prima volta nella sua interezza.
L’Italia della seconda guerra mondiale non fu in grado di rispettare i suoi doveri di potenza detentrice, e la miseria patita dai suoi cittadini ebbe serie conseguenze anche sui prigionieri. In alcuni casi, poi, le autorità dei campi si resero responsabili di veri e propri crimini di guerra nei confronti dei nemici detenuti.
La prigionia alleata nel nostro paese, che questo libro ricostruisce, è dunque un altro dei “luoghi” della storia in cui si infrange il mito degli italiani brava gente.
Introduzione
La cattura e la prima detenzione
Le modalità e le caratteristiche della cattura dei soldati nemici al fronte
La detenzione nei campi provvisori e di transito nella zona di operazioni
Il trasferimento in Italia
La gestione dei prigionieri alleati
Gli organismi italiani addetti alla gestione dei prigionieri
Il ruolo della potenza protettrice e della Croce Rossa Internazionale
La British Red Cross
La Santa Sede e gli altri organismi di tutela e cura
I campi in Italia
Il quadro generale
I campi di transito
I campi di concentramento
I campi di lavoro
Fame, freddo e malattie. Le condizioni materiali della prigionia
La fame
Il freddo
Le malattie
Essere prigionieri in Italia
La corrispondenza
La vita di prigionia: «the challenge of the day»
L’istruzione
La nostalgia di casa e la comunità del campo
Autorappresentazione e rappresentazione del nemico
La fraternizzazione
Reati, punizioni e fughe
Reati e punizioni: prigione e isolamento
«NO P.O.W. must escape alive»: le fughe
Tornare a casa, e non tornarci
Gli scambi di prigionieri fino all’armistizio
L’8 settembre: il mancato “tutti a casa” dei prigionieri alleati
La colpa e il dolo: violazioni della Convenzione di Ginevra e crimini di guerra
Le violazioni della Convenzione di Ginevra
I crimini di guerra
Conclusioni
Appendice
Abbreviazioni e sigle
Bibliografia
Indice dei nomi
Indice dei luoghi
L’Autrice-Isabella Insolvibile insegna Storia contemporanea all’Università telematica Mercatorum e collabora con la Fondazione Museo della Shoah. Si occupa di Resistenza, prigionia e crimini di guerra. Tra i suoi libri, ricordiamo Cefalonia. Il processo, la storia, i documenti (Viella 2017, con M. De Paolis); Wops. I prigionieri italiani in Gran Bretagna (1941-46) (ESI 2012); Kos 1943-1948. La strage, la storia (ESI 2010).
DESCRIZIONE del libro di Ann Mark-Vita di Vivian Maier-Nella periferia di Los Angeles, il 17 luglio 1955, apriva per la prima volta i suoi cancelli Disneyland. Quasi trentamila persone si riversarono nei viali mai calpestati prima, un fiume in piena di bambini pronti a lasciarsi meravigliare. Lì, tra famiglie, figuranti e pupazzi, c’era Vivian Maier, una tata di origine francese da poco trasferitasi sulla West Coast in cerca di un nuovo incarico. La donna girovagava da sola tra la folla con una macchina fotografica in mano: dopo anni di scatti in bianco e nero, aveva deciso di passare al colore per immortalare gli attori travestiti da nativi americani e i castelli di cartapesta, per rendere giustizia a quell’atmosfera sognante e un po’ finta. Ma conclusa la gita, quelle foto non furono viste da nessuno, come le altre decine di migliaia di immagini che Vivian Maier scattò e tenne nascoste agli occhi del mondo per decenni. La storia del loro ritrovamento è già leggendaria: montagne di rullini chiusi in scatole di cartone fino al 2007, quando per un caso fortunato John Maloof, il figlio di un rigattiere di Chicago, acquistò in blocco il contenuto di un box espropriato. All’interno trovò un archivio brulicante di autenticità e umanità, il patrimonio di una fotografa sconosciuta che in pochi anni sarebbe stata celebrata in tutto il mondo. Ma mentre le sue opere diventavano sempre più popolari, la sua biografia restava un segreto impenetrabile, perché Vivian aveva sepolto il suo talento con la stessa cura e riserbo con cui aveva protetto la sua vita. Adesso, grazie alla meticolosa ricerca investigativa di Ann Marks, che ha avuto accesso a documenti personali e fonti di primissima mano, quelle vicende personali finora oscure vengono sottratte all’oblio, al mistero e alla leggenda. “Vita di Vivian Maier” rivela in tutta la sua complessità la storia di una donna fuggita da una famiglia disfunzionale, fra illegittimità, abuso di sostanze, violenza e malattia mentale, per poter finalmente vivere alle sue condizioni. Nessuno, neanche le famiglie presso cui prestava servizio, aveva idea che quella bambinaia di provincia nascondesse uno dei maggiori talenti fotografici del periodo, in grado di ritrarre le disparità e le ingiustizie degli Stati Uniti del boom economico, le persone comuni, i bambini, la semplice vita urbana. In questo, che trabocca di foto (anche inedite), l’opera e la vita finalmente si intrecciano in un’unica storia: il ritratto che emerge è quello di una sopravvissuta, fiduciosa nel suo talento nonostante le sfide della malattia mentale, una donna socialmente consapevole, straordinariamente complessa e soprattutto libera.
Ann Mark
Ann Marks spent thirty years as a senior executive in large corporations and served as chief marketing officer of Dow Jones/The Wall Street Journal.After retirement, she put her research and analysis skills to use as an amateur genealogist and became inspired to unlock the mysterious life of photographer Vivian Maier. She has dedicated years to studying Maier’s archive of 140,000 images and is an internationally renowned resource on Vivian Maier’s life and work. Her research has been featured in major media outlets, including the Chicago Tribune, The New York Times, and the Associated Press. Marks lives in Manhattan with her husband and three children.
Ann Mark-Vita di Vivian MaierVivian MaierVivian MaierVivian MaierVivian MaierVivian MaierVivian MaierVivian MaierVivian MaierVivian MaierVivian MaierVivian MaierVivian MaierVivian MaierVivian MaierVivian Maier
Vivian Maier- Una fotografa ritrovata-Vivian Maier
Nadia Maria Filippini- “Mai più sole” contro la violenza sessuale
– Viella Libreria Editrice-
Sinossi del libro di Nadia Maria Filippini- Il libro ricostruisce una vicenda che ha segnato uno snodo cruciale nella lotta contro la violenza sulle donne. È la prima manifestazione femminista in un processo per stupro, a Verona nel 1976, che vede il movimento, d’intesa con la parte civile, chiedere il dibattimento a porte aperte e trasformare il processo in un’azione di denuncia contro la parzialità dei giudici, la vittimizzazione secondaria e la cultura solidale con lo stupro.
Nadia Maria Filippini-In copertina: Manifestazione femminista nell’aula del Tribunale di Verona, 1976. Archivio Lucas Uliano.
Il valore emblematico e l’impatto mediatico della vicenda, seguita per la prima volta in diretta anche dalla Rai, portano il tema della violenza di genere al centro del dibattito pubblico e inaugurano una stagione di mobilitazioni e iniziative delle donne, con l’apertura di centri antiviolenza e la modifica del codice Rocco, che ancora derubricava lo stupro come reato contro la morale.
La ricca documentazione, per la maggior parte inedita, di cui si è avvalsa la ricerca, ha consentito di mettere in luce le figure delle protagoniste, i contenuti e le sfaccettature di questa battaglia, le sue ripercussioni sociali e politiche, collocandola nel contesto della storia delle donne degli anni Settanta.
2. La violenza carnale nei codici e nella tradizione giuridica
3. Il femminismo italiano alla metà degli anni Settanta
4. Il contesto veronese
5. Lo spartiacque del delitto del Circeo
2. «Ogni processo per violenza carnale è un processo politico»
1. L’incontro con il movimento femminista
2. Rompere il silenzio!
3. L’antecedente del processo per aborto di Padova
4. La mobilitazione delle donne
5. La strategia processuale: l’istruttoria di parte civile
6. Per un processo a porte aperte!
3. La contestazione in Tribunale
1. La scelta di Tina Lagostena Bassi e Maria Magnani Noya
2. La ricusazione della Corte
3. La conclusione del processo
4. La risonanza mediatica
5. L’impossibile rientro nel paese
4. «Non è che l’inizio!»: la lotta contro la violenza sulle donne nella seconda metà degli anni Settanta
1. Il proliferare delle manifestazioni
2. Nascita dei centri antiviolenza autogestiti
3. Verso una nuova legge sulla violenza contro le donne
Appendice
Indice dei nomi
L’Autrice-Nadia Maria Filippini ha insegnato Storia delle donne presso l’Università di Ca’ Foscari di Venezia. Ha fatto parte del direttivo della Società italiana delle storiche, di cui è fra le socie fondatrici, e della redazione della rivista «Genesis». Per i nostri tipi ha già pubblicato: Corpi e storia. Donne e uomini dal mondo antico all’età contemporanea (2002), Donne dentro la guerra. Il primo conflitto mondiale in area veneta (2017) e Generare, partorire, nascere. Dal mondo antico alla provetta (2017; trad. ingl. Pregnancy, Delivery, Childbirth. A Gender and Cultural History from Antiquity to Test Tube, Routledge, 2020).
In copertina: Manifestazione femminista nell’aula del Tribunale di Verona, 1976. Archivio Lucas Uliano.
Viella Libreria Editrice-
Via delle Alpi 32 – 00198 Roma
Tel. 06.8417758 – Fax 06.85353960
Emily Brontë ed Emily Dickinson: “Tra di noi l’oceano” di Mattia Morretta-Gruppo Editoriale Viator
La modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson: “Tra di noi l’oceano” di Mattia Morretta-
Descrizione-Emily Brontë ed Emily Dickinson–Vite parallele delle due Emily più note e ineffabili del panorama letterario, una narrazione biografica arricchita dall’approfondimento tematico dell’opera e da traduzioni più aderenti al testo originario, ricostruendo i collegamenti esistenziali e artistici, le consonanze dei profili di personalità e dell’ispirazione. Una singolare rilettura che svela perché la loro scelta di votarsi alla scrittura, rimanendo latenti e dietro le quinte del mondo, si sia tradotta in libertà morale e solida eredità culturale. Si scopre infatti che per i contenuti e gli accenti sono nostre contemporanee e che ci rianimano con un vocabolario dotato di eccezionale energia. Maestre di consapevolezza con domande sul dolore, la malattia e la morte, l’identità personale e sessuale, le prove dell’amore e della solitudine, la conoscenza dei fenomeni mentali e il rapporto con la natura. Storie esemplari, fondate sulla qualità della vita interiore e sulla distanza critica indispensabile per dialogare con sé stessi e gli altri. Un viaggio nel passato e nel futuro con tre parole chiave: poesia, memoria, eternità.
Tra di noi l’oceano – Modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson (Gruppo Editoriale Viator 2021 – pagg. 304, euro 18,00)
Articolo di di Simone Bachechi-Fra le due sponde dell’oceano del nostro atlante occidentale si staglia da pochi mesi (il volume è uscito lo scorso maggio per i tipi di Viator) il sorprendente e affascinante studio di Mattia Morretta sulle due Emily più celebri della letteratura moderna: Emily Brontë ed Emily Dickinson sono le protagoniste di questo bel saggio dello psichiatra e sessuologo milanese, il quale ha già all’attivo altri titoli che spaziano dalla biografia d’artista all’analisi sociologica con attinenza alle tematiche più vicine alla nostra contemporaneità.
In Tra di noi l’oceano – Modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson (Gruppo Editoriale Viator 2021 – pagg. 304, euro 18,00) le due donne e poetesse, la Dickinson è universalmente conosciuta come tale, mentre la Emily di Haworth è meno nota per la sua opera poetica (sono circa duecento le poesie pervenuteci, svettando nella sua produzione il capolavoro della letteratura vittoriana Cime tempestose), sono tratteggiate nella comunanza della loro debordante e allo stesso tempo schiva e al limite del monacale personalità, del loro temperamento tormentato, del loro apparente disadattamento sociale e disagio psichico, tutte caratteristiche che non impediscono di riconoscere in loro il ruolo di «integre amazzoni antesignane del femminismo», non fosse altro per l’epoca storica nella quale si è svolta la loro parabola umana e artistica, per «la maestosa sacerdotessa di Amherst», come è stata definita la Dickinson, il New England puritano delle seconda metà dell’Ottocento, per l’altra, la seconda delle sorelle in lettere Brontë, il contesto rurale e isolato di un villaggio perduto nelle lande dello Yorkshire ai piedi dei Monti Pennini, all’interno del presbiterio di campagna di una famiglia povera e numerosa in cui il padre era curato perpetuo. Per loro vale quanto citato nel volume dal Don Giovanni di Byron:
Molti alberi solitari crescono in altezza/maggiormente quelli pigiati nel labirinto della foresta (Canto XVII, 1, 1823).
A dispetto dell’isolamento la loro vocazione artistica diviene strumento di inclusione sociale e allo stesso tempo rivendicazione del ruolo della donna fuori dallo stereotipo e ruolo obbligato imposto dalla società ottocentesca che la vorrebbe relegata alle domestiche occupazioni, magari svenevole, pudica, docile, oggetto della narrazione maschile e non soggetto attivo dedito a “pericolose” attività intellettuali che avrebbero potuto minare la supremazia dell’uomo disposto a un riconoscimento della femminilità basato solo sull’esteriorità.
La Dickinson, la quale ci dice Morretta con la sua «vista telescopica, snobbando esami di abilitazione e quote rosa, aveva già concluso di nascosto la scalata della metafisica», la Brontë decisa a non prendere in considerazione il copione del gentil sesso e che anche con la sua celebre prova romanzesca riesce a scardinare i classici stereotipi femminili. La confusione e compenetrazione dei sessi è un dato costante nelle due Emily senza che questo conflitto arrivi a una sintesi in un ipotetico terzo sesso ma trovando espressione nella corporeità dilaniata che si fa parola poetica nella Dickinson come nei vari personaggi e “tipi” psicologici di Cime tempestose.
Il relativo provincialismo delle due autrici non impedisce di lasciar affiorare nei loro scritti «esempi di sorprendente modernità per l’esercizio di lucida introspezione e osservazione minuziosa del funzionamento mentale, metà protestantesimo e metà insegnamento dei classici, una pagina della Bibbia e una di Shakespeare, filosofia remota e piscoanalisi a venire».
Troppo spesso studiate (soprattutto la Dickinson) a partire dal dato clinico, mettendole così a distanza di sicurezza, accettando il genio solo se inquadrabile in una sindrome, le due Emily sono anche accomunate dall’«astrattezza e strumentalizzazione tipica dell’industria culturale», «ingessate in letture riduttive e abbozzate» dice Morretta, e quindi vittime dell’omologazione. Il successo per molti versi tardivo della Dickinson, il pubblico riconoscimento relativamente recente, frutto di letture spesso superficiali ne è la testimonianza.
Le due Emily sono osservate dall’autore sotto diversi punti di vista: bibliografico, non mancando un’attenta analisi filologica sulle loro opere partendo da estratti delle loro poesie tradotte dallo stesso per una maggiore aderenza al testo originario e nel caso della Brontë facendo riferimento oltre alle liriche anche al celebre romanzo, biografico, scandagliando le loro vicende private (ma cosa c’è di privato nella poesia che vuole farsi voce dell’assoluto?) e allo stesso tempo offrendoci un quadro sociologico delle epoche e degli spazi geografici che le due si sono trovate ad attraversare, focalizzando l’attenzione (forse per deformazione professionale dell’autore?) su una loro caratterizzazione di tipo psicologico che quanto mai come nel caso della Dickinson risente del linguaggio provocatorio del filtro psicanalitico. Non mancano accurate riflessioni sul sentimento che “move il sole e l’altre stelle”. Le due Emily sono fra le grandi cantrici dell’amore che in poche come loro è dimensione ideale, immagine stessa del distacco, ferita, distanza ben espressa in alcuni versi della sacerdotessa di Amherst:
Così dobbiamo incontrarci separati/tu là – io qui/con la porta appena socchiusa/ che Oceani sono – e Preghiera – /e bianco sostentamento – /Disperazione – (n. 640, 1862).
Un costante processo di smaterializzazione, spiritualizzazione dell’eros: «La loro eccitazione è nella calotta cranica», «Emily and Emily sono interamente psichiche». È questo il grande messaggio lasciatoci, l’attenzione, il credo e fedeltà nella forza taumaturgica della parola e dell’influenza divina della poesia come già espresso nell’esergo al volume costituito da alcuni versi di Kavafis:
A te mi volgo/Arte della Poesia, che un poco sai di farmachi,/e del dolore una narcosi tenti/nella parola e nella Fantasia.
Un richiamo alla potenza dell’interiorità, alle “voci di dentro” che ha del religioso, quel sentimento così vivo soprattutto nella Emily di Amherst, perché vivere è sentire, amare, sperare e tanto meno questi beni si trovano nel mondo reale quanto maggiore è la capacità di sentire; un elogio della ricchezza della vita interiore a dispetto della morte che incombe e sulla quale la poesia di Emily Elizabeth è una grande meditazione. Scrive la Dickinson in una lettera a Thomas Higginson, il critico con il quale avrà una pluriennale corrispondenza: «Trovo estasi nell’atto di vivere – il semplice senso di vivere è gioia sufficiente» e ancora «Vi è sempre una cosa di cui sentirsi grati: essere se stessi e non qualcun altro». Un percorso di indagine e autoanalisi che trova espressione nella forma letteraria; scendere dentro se stessi per far maturare lentamente la propria anima, solennemente, in modo nascosto, distillato, in maniera che passi in lei solo il meglio:
Non conosciamo la nostra altezza
Finché non siamo chiamati ad alzarci
(n. 1176, 1870)
È la meraviglia nel constatare la grandezza nella piccola misura, l’immensità nella finitezza, tutte cose rese dalla Dickinson con mirabili metafore che rimandano all’incanto della natura, «la casa stregata» alla quale è dedicata così ampio spazio nelle sue poesie, a partire dai fiori, coltivati con amorevole cura da Emily Elizabeth nel suo giardino, i «nostri piccoli parenti» che svettano in verticale, simbolo spirituale, emblema della bellezza e allo stesso tempo della caducità, la stessa natura osservata dalla Emily di Haworth sia in Cime tempestose che nelle sue liriche, il cui spettacolo di armonia e sacralità ci fa dimenticare (almeno per un po’) la sua crudeltà.
Una lettura quella di Morretta che va ben oltre la semplice biografia d’artista, quasi un piccolo trattato di psicologia o psicanalisi per tramite del medium letterario. Ne nascono vere e proprie tipizzazioni delle due Emily, tanto da arrivare a parlare di processo di ermafroditizzazione in Emily Brontë e facendo ricorso parlando della Dickinson tramite altrui studi doverosamente citati sulla sacerdotessa di Amherst di « voyueurismo, vampirismo, necrofilia, lesbismo, sadomasochismo».
Quale che sia l’apporto della malattia o del semplice disagio psichico all’opera delle due Emily, ben rappresentato in una delle brevi e fulminanti espressioni per sentenze dickinsoniane: «Da un grande male un grande bene» o volendo accreditare in tal senso la somma aritmetica di Roberto Bolaño «Letteratura+malattia=malattia», è innegabile lo svettare della personalità (e Morretta lo mette bene in evidenza) di due «dissenzienti e dissidenti poco decifrabili», refrattarie ai tentacoli della moltitudine, felici interpreti del motto ovidiano Bene qui latuit, bene vixit o del Lathe biosas epicureo, tanto da divenire celebri per la ritrosia a pubblicare i propri scritti, le quali con il loro atteggiamento, non una posa o un vezzo ma una scelta artistica e esistenziale, riescono ancora oggi a parlare «a coloro che insistono nel forgiare la pietra filosofale in un laboratorio sotterraneo nell’era della visibilità e delle creature digitali».
Due autrici nascoste e stanziali, che non si sono mai mosse dalle rispettive dimore e che hanno fatto della staticità fisica e del sostare nel luogo natio l’occasione per la loro crescita mentale e morale, due zitelle solitarie, monacali, quasi ascetiche, votate anima e corpo all’arte, alla poesia, che dalla loro prospettiva a suo modo selvaggia sono riuscite a parlarci dalle stanze di alabastro delle loro dimore del mistero della morte, della natura, dell’amore, di trascendenza, di religione o del suo sentimento. Una, la monaca ribelle del New England osservando il mondo dalla finestra della sua camera, l’altra da un villaggio nel piovoso Yorkshire, entrambe chiamate a dialogare tra di loro nel volume di Morretta e a riconoscersi in un percorso dell’anima avanti e indietro sull’Oceano in un ping pong continuo che è la più forte rivendicazione delle ragioni più esose della letteratura.
Fonte – minima&moralia-
Tra di noi l’oceano – Modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson (Gruppo Editoriale Viator 2021 – pagg. 304, euro 18,00)
Un mito greco, nella Mitologia, attribuisce ad Atena la creazione del primo Olivo che sorse nell’Acropoli a protezione della città di Atene.
La leggenda racconta che Poseidone ed Atena, disputandosi la sovranità dell’Attica, si sfidarono a chi avesse offerto il più bel dono al Popolo. Poseidone, colpendo con il suo tridente il suolo, fece sorgere il cavallo più potente e rapido, in grado di vincere tutte le battaglie ; Atena, colpendo la roccia con la sua lancia , fece nascere dalla terra il primo albero di Olivo per illuminare la notte, per medicare le ferite e per offrire nutrimento alla popolazione.
Atena la creazione del primo Olivo
Zeus scelse l’invenzione più pacifica ed Atena divenne Dea di Atene. Un figlio di Poseidone cercò di sradicare l’albero creato da Atena, ma non vi riuscì, anzi si ferì nel commettere il gesto sacrilego e morì. Al British Museum di Londra si può ammirare una scultura del frontone occidentale del Partenone, dove l’artista Fidia ha rappresentato questo episodio mitologico. Secondo una leggenda riferita da Plinio e da Cicerone, sembrerebbe che sia stato Aristeno lo scopritore dell’Olivo e l’inventore del modo di estrarre l’olio all’Epoca fenicia. Lo stesso Plinio, invece, su altri suoi scritti, parlando dell’Italia, racconta che l’Olivo fu introdotto da Tarquinio Prisco quinto Re di Roma, questa ipotesi è la più verosimile visto che le più antiche tracce archeologiche finora raccolte sull’olivicoltura in Etruria risalirebbero al VII sec. a.C., descrivendo ben 15 metodi di coltivazione di questa pianta, che, ai suoi tempi, rappresentava già la base di importanti attività economiche e commerciali. L’olivicoltura era molto diffusa al tempo di Omero; l’Iliade e l’Odissea narrano spesso dell’Olivo e del suo Olio. A Roma l’Olivo era dedicato a Minerva e a Giove. I Romani, pur nella loro praticità di considerare l’Olio d’Oliva come merce da esigere dai vinti, da commerciare, da consumare, mutuarono dai Greci alcuni aspetti simbolici dell’olivo. Onoravano i Cittadini illustri con corone di fronde di Olivo; così pure gli sposi il giorno delle nozze e della loro prima notte nunziale; ed infine i morti venivano inghirlandati per significare di essere dei vincitori nelle lotte della vita umana. Nell’area islamica molte leggende fanno riferimento all’Olivo e al suo prodotto; tra le tante storie si vuole ricordare quella di Alì Babà ed i suoi 40 ladroni nascosti negli otri che dovevano contenere Olio di Oliva.
Atena la creazione del primo Olivo
Il quadro allegato rappresenta Dispute de Minerve et de Neptune, (1748)-Louvre,Parigi-
“… e Atena ottenne di governare sull’Attica, poiché aveva fatto a quella terra il dono migliore, quello dell’ulivo……”
Atena la creazione del primo OlivoULIVOAtena la creazione del primo OlivoAntico Frantoioolio extravergine di olivaolio extravergine di oliva
Lo scambio di lettere tra Albert Einstein e Sigmun Freud sul “perché la guerra?” (la versione a cui faccio riferimento è quella Bollati Boringhieri del 1989, con la prefazione di Ernesto Balducci), avvenuto tra il luglio e l’agosto del 1932 – ossia quattordici anni dopo “l’inutile strage” (Benedetto XV) della Grande guerra e sette anni prima della Seconda guerra mondiale – ci aiuta ancora a riflettere sul tragico ritorno della guerra in Europa e sul suo necessario superamento. Albert Einstein scrisse la celebre lettera a Sigmund Freud, su invito della Società delle Nazioni, ponendo al padre della psicoanalisi la domanda cruciale: «C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?». Mentre rimando al carteggio tra i due per l’articolata risposta di Freud e agli psicoanalisti per i relativi approfondimenti, metto a fuoco qui alcune delle questioni poste da Einstein che contengono già alcune risposte, su un piano politico-filosofico, che rivestono un particolare interesse anche in riferimento alle nostre urgenti domande sulla guerra nella quale siamo, qui ed ora, pericolosamente immersi. Del resto già allora Einstein era consapevole del fatto che «col progredire della tecnica moderna rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta». La quale, infatti, pochi anni dopo sarebbe stata travolta dalla barbarie nazifascista e dalla nuova catastrofica guerra, che avrebbe lasciato come eredità le armi nucleari, spada di Damocle permanente sull’umanità, con la quale anche la generazione presente è costretta a fare i conti. Non a caso si attribuisce allo stesso Einstein il noto aforisma, pronunciato dopo Hiroshima e Nagasaki, secondo il quale dichiara di non sapere con quali armi sarebbe stata combattuta la terza guerra mondiale, ma di certo la quarta lo sarebbe stata con le pietre e con le clave.
La prima risposta che fornisce Einstein alla sua stessa domanda è quella propria del “pacifismo giuridico”, che prevede la costituzione di un’autorità internazionale capace di mediare i conflitti: «Gli Stati creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i conflitti che sorgano tra loro». È la visione kantiana della “pace perpetua” come frutto della federazione degli Stati che rinunciano agli eserciti permanenti, la quale – impossibile da realizzare per la Società delle nazioni – avrebbe dovuto trovare la sua concretezza nelle Nazioni Unite che nel 1945 nascono proprio con il fine di «liberare l’umanità dal flagello della guerra», costruendo la pace con «mezzi pacifici» (Carta dell’ONU). Eppure, continua Einstein, con grande realismo, siamo lontanissimi dalla realizzazione di questa possibilità perché «la sete di potere della classe dominante è in ogni Stato contraria a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale». E, nella sua accusa, Einstein non rimane nel generico ma entra nello specifico, puntando il dito contro quel sistema che il presidente USA Dwight D. Eishenhower, nel discorso di addio alla nazione del 1961, avrebbe definito il «complesso militare-industriale». «Penso soprattutto» – scrive Einstein – «al piccolo ma deciso gruppo di coloro che attivi in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un’occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale autorità». È tema di stringente e drammatica attualità: se facciamo l’operazione di dividere le spese militari globali del 2022, che il SIPRI di Stoccolma ha indicato nella cifra, mai raggiunta prima, di 2.240 miliardi di dollari – 130 miliardi in più del 2021 e 500 miliardi in più di dieci anni prima – per il numero dei giorni dell’anno, risulta che i governi spendono in armamenti 6,13 miliardi di dollari al giorno, mentre finanziano le Nazioni Unite per un bilancio di 3,4 miliardi di dollari all’anno. Impossibile preparare credibili mezzi di pace con questa abissale sproporzione rispetto alla preparazione e al finanziamento dei mezzi di guerra. Non a caso, un illustre fisico dei giorni nostri, Carlo Rovelli ha denunciato – come Einstein – esattamente questo scandalo dal palco del Primo Maggio a Roma, in diretta televisiva. Suscitando lui grande scandalo, anziché il fatto denunciato.
Ma, si chiede ancora Einstein, com’è possibile che questa minoranza che fa affari con le guerre «riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e perdere?». Ed anche su questo lo scienziato delinea nella lettera a Freud una risposta che ha pienamente valore – o addirittura maggiore – anche per i nostri tempi: «La minoranza di quelli che di volta in volta sono al potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica». Salvo che per la chiesa cattolica, che papa Francesco ha posto decisamente dalla parte del pacifismo anziché del bellicismo, per il resto la lettera di Einstein del 1932 anticipa e spiega il meccanismo della “violenza culturale”, oggi dispiegata attraverso mezzi di comunicazione di massa estremamente più potenti, che, secondo Johan Galtung fondatore negli anni ‘60 dei peace studies, sta alla base e fonda tanto la legittimazione ideologica della guerra (violenza diretta) che delle strutture – spese militari, armi, eserciti, commercio di armamenti (violenza strutturale) – che la preparano e la rendono possibile.
Verso la fine della lettera Einstein aggiunge di essere consapevole di avere messo a fuoco nel suo testo le guerre, in quanto conflitti armati internazionali, trascurando i conflitti interpersonali, nel quale opera l’istinto aggressivo (1) – ambito nel quale è esperto il suo interlocutore Freud – «ma» – spiega – «la mia insistenza sulla forma più tipica, crudele e pazza di conflitto tra uomo e uomo era voluta, perché abbiamo qui l’occasione migliore per scoprire i mezzi e le maniere mediante i quali rendere impossibili i conflitti armati». Ponendo così il tema cruciale sul quale Einstein avrebbe continuato a lavorare per tutta la vita, in particolare dopo l’invenzione e l’uso delle atomiche da parte degli USA, anche con l’estremo appello scritto insieme a Bertrand Russell nel 1955, qualche mese prima di morire. Ossia la costruzione dei mezzi alternativi alla guerra per la risoluzione dei conflitti, principio alla base non solo del “pacifismo strumentale” – secondo l’articolazione che ne ha fatto Norberto Bobbio – di cui è parte la teoria e la pratica della nonviolenza, ma anche a fondamento della Costituzione italiana che «ripudia la guerra», non solo «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», ma anche come «mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», indicando così alle generazioni successive la necessità di costruire mezzi alternativi ad essa per affrontare le controversie. È introduzione dell’etica della responsabilità – in quanto etica per la politica nell’età della tecnica (Hans Jonas) – nella Carta costituzionale, seppur disattesa e, addirittura, ormai sempre più spesso ripudiata.
Oggi che siamo all’interno di una crisi sistemica globale – contemporaneamente climatica, energetica, idrica, alimentare e pandemica – che genera infiniti conflitti, al punto che, secondo il monitoraggio internazionale dell’Uppsala conflict data program dell’Università di Uppsala, oltre alla guerra in Ucraina sono attivi sul pianeta contemporaneamente 170 conflitti armati – a bassa, media e alta intensità – di cui alcune decine classificabili come vere e proprie guerre, è necessario recuperare integralmente il messaggio di Albert Einstein, altrimenti – con 13.000 testate nucleari puntate contro le teste di tutti – non ne usciremo vivi. Ciò significa fuoriuscire, in maniera definitiva, dal pensiero magico e falso secondo il quale si vis pacem para bellum – se vuoi la pace prepara la guerra – ed entrare, finalmente e decisamente, anche nel campo dei conflitti internazionali, all’interno del pensiero logico e razionale, con il ribaltamento operato e indicato da Aldo Capitini: se vuoi la pace prepara la pace.
L’articolo riprende l’intervento svolto al Maggio filosofico 2023
Nota:
(1) «Il piacere di odiare e di distruggere» scrive Einstein, «passione» che in circostanze eccezionali «è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva*, per esempio con la propaganda di guerra. Su questo cfr. Pasquale Pugliese, Alle radici della pericolosa deriva bellicista che dilagava già prima del 24 febbraio 2022, Left: https://left.it/2023/04/13/alle-radici-della-pericolosa-retorica-bellicista-che-dilagava-gia-prima-del-24-febbraio/
Pasquale Pugliese, nato a Tropea, vive e lavora a Reggio Emilia.Di formazione filosofica, si occupa di educazione, formazione e politiche giovanili. Impegnato per il disarmo, militare e culturale, è stato segretario nazionale del Movimento Nonviolento fino al 2019. Cura diversi blog ed è autore di “Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini” e “Disarmare il virus della violenza” (entrambi per le edizioni goWare).
Descrizione del libro di Carmen Laterza :Qui troverai storie di donne che hanno superato gli stereotipi del loro tempo, hanno vinto i pregiudizi di genere, hanno sfidato le aspettative della famiglia e della società. Donne più famose e meno famose, ma non per questo meno intrepide.
Con uno stile fluido e incalzante, in poche pagine per ogni personaggio, Carmen Laterza riesce a far emergere gli eventi salienti della vita di queste donne eccezionali, alternandoli a episodi apparentemente minori, che però dimostrano perché queste donne sono state speciali e perché ancora oggi costituiscono un modello da seguire per le donne moderne che vogliono sfidare il proprio destino e cambiare la propria vita.
Attenzione, però! Non si tratta di donne perfette. Le protagoniste di queste pagine sono donne vere, donne con pregi e difetti, donne a volte difficili, spesso solitarie e controcorrente. In fondo sono donne che hanno agito come avrebbe fatto un uomo al loro posto. E proprio per questo sono Donne Intrepide.
Donne Intrepide – Vol. 1 Regine & Imperatrici
Regine e imperatrici: donne che conquistano il potere, amministrano popoli, guidano eserciti, gestiscono imperi
Elisabetta I di Inghilterra
Livia Drusilla
Caterina II di Russia
Suiko
Maria Teresa d’Austria
Olimpiade
Elisabetta di Baviera
Hatshepsut
Isabella di Castiglia
Agrippina Minore
Cleopatra
Maria Stuarda
Wu Zetian
Elisabetta Farnese
Zenobia
Caterina de’ Medici
Galla Placidia
Maria Antonietta
Teodora di Bisanzio
Vittoria di Inghilterra
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Carmen Laterza
CARMEN LATERZA è nata e cresciuta a Pordenone, dove vive tuttora. Nota sui social con il nome di Libroza, ha lavorato a lungo come editor e ghostwriter. Ora si dedica esclusivamente ai propri libri e podcast, che pubblica in modo indipendente.
★ Per essere aggiornato in anteprima su nuovi libri in uscita, sconti ed eventi, iscriviti alla Newsletter di Libroza. Potrai subito scaricare gratis un libro di Carmen Laterza: https://libroza.com/newsletter
LIVIA DRUSILLA
Ambiziosa, intelligente, astuta ma anche spietata e perspicace, LIVIA DRUSILLA, la prima imperatrice di Roma, esercitò una libertà senza precedenti raggiungendo una posizione impensabile per le donne del suo tempo. Nata nel 58 a.C , dopo un matrimonio con il cugino dal quale ebbe Tiberio e Druso, nel 38 a.C si unì ad Ottaviano che per lei abbandonò la moglie Scribonia. Non accettò il ruolo classico delle donne del tempo, voleva avere un posto ben preciso a fianco del marito per il quale divenne indispensabile e anche quando, dopo un aborto, non potrà avere più figli, farà di tutto perché lui non l’abbandoni, perdonando anche le sue scappatelle e assecondandolo nell’adozione di uno stile di vita più parsimonioso. Onnipresente, non potendo emergere politicamente, Livia trovò uno spazio tutto suo, quello religioso, sostenendo il culto della dea Cibele e viaggiando in Oriente dove vennero costruiti templi in suo onore mentre nell’impero furono collocate ovunque statue che la riproducevano. Come una first lady, sapeva bene come muoversi, niente era lasciato al caso e tutto per uno scopo ben preciso: fare in modo che il marito nominasse l’unico figlio rimastole, Tiberio, suo successore. Ma in questa scalata verso il vero obiettivo doveva prima di tutto togliere di mezzo Giulia, figlia di Ottaviano e madre vedova di 5 figli designati eredi, ed obbligò Tiberio a separarsi dalla moglie per sposarla. L’unione fu un fallimento e il giovane si ritirò a Rodi. Quando Giulia fu incolpata di aver organizzato un attacco al padre, Ottaviano la salvò dalla condanna a morte esiliandola con l’accusa di adulterio e Livia lo appoggiò fermamente. L’imperatrice riuscì poi ad allontanare anche il piccolo Agrippa, ultimogenito di Giulia.
L’imperatore Ottaviano Augusto morì nel 14 d. C. e l’imperatrice, che gli fu accanto fino alla fine, ottenne che tutta la sua eredità passasse al figlio che divenne imperatore . Ma Tiberio non volle al suo fianco una madre tanto invadente e vietò al Senato di conferirle il titolo di “madre della patria”. Livia morì all’età di 86 anni e il suo corpo sepolto dopo 8 giorni. Il figlio, trasferitosi a Capri, tornò più tardi e impedì la sua deificazione che avverrà solo con il nipote Claudio, anche lui imperatore.
Da: C. Laterza C., Donne intrepide, regine e imperatrici, vol.1, Libroza, 2021
Dennison M., Livia, trad. di Musilli S., Lit Edizioni, 2013
Immagine: Statua di Livia Drusilla, I sec. d.C., da Paestum. Conservata al Museo Archeologico Nazionale di Madrid. Dal web.
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