Roma-alla galleria Edarcom Europa la “Collettiva di Primavera 2025”-
Roma- Torna l’appuntamento con la mostra mercato dedicata agli artisti presenti nel catalogo della galleria Edarcom Europa.- Dopo il record di visite dell’edizione 2024, in occasione del cinquantesimo anno di attività, torna l’atteso appuntamento con la Collettiva di Primavera, la storica mostra mercato dedicata alle opere di tutti gli artisti presenti nel catalogo della galleria d’arte Edarcom Europa, storica realtà romana fondata nel 1974 da Gianfranco Ciaffi e dal 2021 diretta dal figlio Francesco.
galleria Edarcom Europa la “Collettiva di Primavera 2025”
Quest’anno l’inaugurazione si terrà nei giorni di venerdì 28, sabato 29 e domenica 30 marzo: come da tradizione, un lungo weekend con la straordinaria apertura domenicale per poter accogliere tutti gli appassionati e i curiosi che vorranno immergersi tra le oltre 400 opere in mostra negli spazi espositivi di via Macedonia 12 e 16 a Roma.
In tutti gli ambienti della galleria sarà possibile visionare dipinti, sculture, litografie, serigrafie e incisioni degli oltre 40 artisti in catalogo. I nomi storici di importanti autori del ‘900 verranno affiancati da selezionati interpreti contemporanei già ampiamente apprezzati in Italia e all’estero.
galleria Edarcom Europa la “Collettiva di Primavera 2025”
galleria Edarcom Europa la “Collettiva di Primavera 2025”
galleria Edarcom Europa la “Collettiva di Primavera 2025”
Inoltre, a rendere ancora più interessante la visita durante il weekend inaugurale saranno le condizioni estremamente vantaggiose che verranno proposte a chi vorrà valutare l’acquisto di una o più opere. Su tutto il catalogo infatti, verranno applicati i seguenti sconti straordinari:
20% in caso di pagamento in unica soluzione
10% in caso di pagamento rateale fino a 24 mesi
Per avere un’ampia, seppur parziale, anteprima delle opere in mostra si può visitare il sito www.edarcom.it, un grande shop online facilmente consultabile per scoprire tecniche, misure e prezzi indicati in modo trasparente e accessibile. Ovviamente le straordinarie condizioni di sconto sono valide anche per gli acquisti online con il codice sconto PRIMAVERA25.
OPERE DI: Ugo Attardi, Giuseppe Barilaro, Enrico Benaglia, Franz Borghese, Ennio Calabria, Angelo Camerino, Claudio Caporaso, Michele Cascella, Tommaso Cascella, Giuseppe Cesetti, Angelo Colagrossi, Roberta Correnti, Marta Czok, Luca Dall’Olio, Mario Ferrante, Salvatore Fiume, Franco Fortunato, Felicita Frai, Franco Gentilini, Gianpistone, Emilio Greco, Renato Guttuso, Franco Marzilli, Piero Mascetti, Maurizio Massi, Renzo Meschis, Francesco Messina, Mauro Molle, Norberto, Sigfrido Oliva, Ernesto Piccolo, Giorgio Prati, Domenico Purificato, Aldo Riso, Carlo Roselli, Sebastiano Sanguigni, Aligi Sassu, Cynthia Segato, Mariarosaria Stigliano, Orfeo Tamburi, Lino Tardia, Renzo Vespignani.
galleria Edarcom Europa la “Collettiva di Primavera 2025”
galleria Edarcom Europa la “Collettiva di Primavera 2025”
galleria Edarcom Europa la “Collettiva di Primavera 2025”
INFORMAZIONI
MOSTRA: Collettiva di Primavera 2025
PERIODO: 28 marzo – 19 aprile 2025
INDIRIZZO: Via Macedonia 12, Roma (San Giovanni – Appio Latino)
INAUGURAZIONE MOSTRA: Venerdì 28, Sabato 29 e Domenica 30 Marzo ore 10:30/13:00 e 15:30/19:30
ORARIO MOSTRA: da lunedì a sabato ore 10:30/13:00 e 15:30/19:30
INGRESSO MOSTRA: Libero
INFO: 06.7802620 – www.edarcom.it
Roma-Galleria Nazionale d’Arte Modernae Contemporanea -Lo spazio dell’immagine. Pino Pascali-
Roma-La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma promuove, in collaborazione con la Fondazione Pino Pascali e con la cura e l’organizzazione di Electa e Fondazione Fondamenta, un programma di quattro incontri dal titolo “Lo spazio dell’immagine. Pino Pascali”.Gli incontri, ad ingresso libero fino a esaurimento posti, si svolgono nella Sala delle Colonne alle ore 11 delle domeniche 30 marzo, 13 e 27 aprile, 11 maggio 2025.L’occasione è data dalla mostra “Pino Pascali, Toti Scialoja. Confluenze” in corso a Bari, al Teatro Kursaal Santa Lucia fino al 4 maggio 2025 a cura di Federica Boragina ed Eloisa Morra con Antonio Frugis.Pascali e Scialoja si conoscono nelle aule dell’Accademia di Belle Arti di Roma in via Ripetta, dove l’artista pugliese si iscrive nel 1955 e dove Scialoja è il titolare del corso di scenotecnica, tra i docenti meno accademici e più apprezzati. A questa altezza cronologica Scialoja è un artista già noto e affermato, in contatto con il panorama artistico internazionale e invita i suoi giovani allievi a sperimentare senza riserve nonché a confrontarsi con i linguaggi contemporanei. Pascali, poco più che ventenne, è fra gli allievi più ricettivi e dalla frequentazione delle lezioni di Scialoja derivano visioni inaspettate e cariche di vitalità, specchio di quell’irrequieta fascinazione per la materia ereditata dal suo maestro.L’esposizione di Bari segna il primo appuntamento di una sinergia integrata tra Fondazione Pascali, Regione Puglia ed Electa, nell’intento di promuovere un palinsesto di iniziative per la valorizzazione della figura di Pino Pascali, in relazione agli artisti che lo hanno ispirato o con cui ha collaborato, ed è realizzata con la partecipazione della Fondazione Toti Scialoja di Roma. La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma si innesta in questo quadro di manifestazioni, poiché conta un importante nucleo di opere di Pino Pascali, oltre ad annoverare opere degli artisti di cui il programma “Lo spazio all’immagine” – nome che omaggia una delle grandi esposizioni di arte contemporanea del Novecento italiano, nella quale furono radunate opere originali di Lucio Fontana, Pino Pascali, Mario Ceroli, Michelangelo Pistoletto e molti altri, accompagnate da voci critiche d’autore quali quelle di Gillo Dorfles, Lara-Vinca Masini, Palma Bucarelli, Germano Celant – sostiene le tangenze con Pascali, protagonista di questi appuntamenti.
Roma-Galleria Nazionale d’Arte Moderna
PROGRAMMA
☞ Domenica 30 marzo ore 11 Toti Scialoja e Pino Pascali: confluenze e contrappunti Incontro con Federica Boragina,
Antonio Frugis, Arnaldo Colasanti
A partire dalla mostra in corso a Bari “Pino Pascali, Toti Scialoja. Confluenze” l’incontro con la curatrice della mostra Federica Boragina e con Antonio Frugis, coordinatore e curatore della Fondazione Pascali, e Arnaldo Colasanti, presidente della Fondazione Scialoja, restituisce il dialogo personale e artistico fra due assoluti protagonisti delle vicende artistiche italiane degli anni cinquanta e sessanta, Pino Pascali (1935-1968) e Toti Scialoja (1914-1998), rintracciando le sperimentazioni nate da ispirazioni condivise e rendendo tangibile una sorprendente serie di corrispondenze tra temi, processi e immaginari.
☞ Domenica 13 aprile ore 11 Altranatura, oltre natura. Paradigmi nell’arte di Leoncillo Leonardi e Pino Pascali
Incontro con Martina Rossi e Antonio Frugis
Martina Rossi, ricercatrice presso la Sapienza Università di Roma, dialoga con Antonio Frugis, coordinatore e curatore della Fondazione Pascali. Leoncillo (1915 – 1968) e Pascali (1935-1968), sebbene diversi per generazione e stile espressivo, presentano delle forti analogie che in questo contesto vengono messe in luce. In particolare, sono riusciti a liberare la scultura dalle collocazioni ordinarie delle tre dimensioni, quelle usuali e inevitabili. Hanno segnato entrambi i confini estremi di uno stesso territorio, le due frontiere più lontane di un identico impero, quello della scultura.
☞ Domenica 27 aprile ore 11 «Vedova blu». Pino Pascali in dialogo con Carlo Levi ed Ernesto de Martino
Incontro con Michele Dantini
Michele Dantini, professore ordinario di Storia dell’arte contemporanea all’Università per Stranieri di Perugia, muove dalla scultura-installazione Vedova blu, conservata al mumok – Museo di Arte Moderna di Vienna, come esempio del particolare “meridionalismo” di Pascali: essa contiene molteplici rinvii al “mondo magico” di Carlo Levi ed Ernesto de Martino.
☞ Domenica 11 maggio Pino Pascali. Pensare (e disegnare) la scultura di Pascali
Incontro con Marco Tonelli
Seppure Pascali non intendeva il disegno come pratica autonoma dalla scultura, ha però lasciato, in un taccuino di annotazioni e in fogli sparsi, numerosi schizzi di idee per sculture, con progetti di opere effettivamente realizzate o da realizzarsi, se non fosse tragicamente morto di lì a poco. Marco Tonelli, docente di Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia e anche membro della Fondazione Museo Pino Pascali di Polignano a Mare, parla di questi disegni che costituiscono una esemplare radiografia del suo modo di pensare l’opera e di immaginarla “già fatta”, esaltando le sue doti costruttive e la sua proverbiale velocità di esecuzione, sintomo di vitalità, ansia creativa e desiderio di “non essere mai identico a sé stesso”.
***
Pino Pascali (1935-1968) è protagonista di una carriera breve e folgorante. Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Roma nel 1959, lavora con successo come scenografo, realizzando bozzetti, disegni e “corti” per “Carosello” e altre trasmissioni tv. Nel 1965 ha la sua prima personale a Roma presso la galleria “La Tartaruga” e, in soli tre anni è riconosciuto dai maggior critici d’arte e da galleristi d’avanguardia. Nel 1968 partecipa con una sala personale alla XXXIV Biennale di Venezia, ma nell’ottobre dello stesso anno, muore prematuramente in un tragico incidente. Scultore, scenografo, performer, Pascali ha saputo coniugare in modo geniale e creativo forme primarie e mitiche della cultura e della natura mediterranee con le forme infantili e ironiche del gioco, precorrendo l’Arte Povera, la Body Art, l’arte concettuale degli anni settanta.
Info pubblico Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea Roma, Viale delle Belle Arti, 131
T + 39 06 32298221 lagallerianazionale.com
Roma- Canova 22 inaugura la mostra “La linea che appare” di Alfonso Maria Isonzo-
Roma- Canova 22 inaugura la mostra “La linea che appare” di Alfonso Maria Isonzo. “La contemporaneità è un luogo di solitudine e alienazione; l’umanità, resa miope dalla voracità del capitalismo, ha trasformato “l’uomo in una macchina impersonale di godimento” (P.P. Pasolini); i falsi miti del progresso hanno spinto alla deriva intere generazioni che sembrano aver smarrito il proprio orizzonte, incapaci di visione e aspettative per il futuro. L’orizzonte, dal greco horizōn (cerchio che delimita), è la linea apparente che separa la terra dal cielo, è il limite metaforico della prospettiva che si presenta all’agire umano, raffigura la dimensione più estrema a cui può spingersi lo sguardo. Scrutare l’orizzonte, ambire a superare i propri confini, è una pulsione naturale dell’uomo che l’arte può stimolare e riproporre con il suo sguardo di verità soffuso di poesia per dare voce alle inquietudini e ai desideri. Nell’opera di Alfonso Maria Isonzo lo sguardo verso quella linea evanescente che separa la Terra visibile da quella invisibile, si traduce nell’ostinata ricerca di un approdo all’ignoto, a quel precario bagliore che è l’essenza del desiderio di infinito che muove gli esseri umani. Le sue opere sembrano linee di confine sospese tra reale e immaginario, paesaggi arcani realizzati in ferro e cemento in cui si addensano objets trouvés, frammenti di memorie che rivelano indizi essenziali per ricostruire le trame narrative della loro genesi. Assemblage di forme differenti (tavole quadrate, sculture lineari, gocce) in cui oggetti dispersi, scarti e cascami da lavorazioni artigianali e industriali, sono testimonianze del tempo che scorre per catturare lo sguardo di chi può restituirgli senso e speranza. Il frammento, il rudere e la rovina richiedono la partecipazione e il coinvolgimento dello spettatore che ne possa immaginare una definizione, una compiutezza. È la poetica del frammento che utilizza l’impressione invece del racconto, la folgorazione del vuoto invece del pieno, il rigore dei silenzi contro i rumori, l’immaginazione e non la cruda realtà. Ogni opera traccia spazi indefiniti sciogliendosi in una forma di astrazione che rivendica la piena libertà dell’artista, del suo gesto creativo che elabora racconti per immagini, storie in cui memorie e prospettive si perdono nelle linee del tempo compiendo suggestive metamorfosi. L’artista cita Kounellis “Ricerco nei frammenti la storia dispersa” poiché rimandano alla condizione umana infranta e traumatizzata, allo smarrimento del senso del sacro. L’opera centrale della mostra, l’installazione dal titolo “Calvario contemporaneo”, ricorda l’esperienza umanissima del Cristo, figlio dell’Uomo,nel momento della sua crocefissione, nello smarrimento difronte al suo destino mortale. La linea di orizzonte che l’opera proietta sulla volta della Fornace disegna il profilo del Golgota (o anche Collina di Adamo) evoca la sua dissoluzione, la sua assenza fisica. La potenza dell’installazione è amplificata da una sonorizzazione realizzata espressamente dal musicista Francesco Ziello per rendere la visione ancora più coinvolgente e suggestiva. Il pubblico è stimolato a guardare oltre la linea apparente, per superare i propri confini ed aprirsi alla conoscenza che si espande nella bellezza all’infinito. (L.Fusco)
Roma- Canova 22 la mostra “La linea che appare” di Alfonso Maria Isonzo
Biografia ALFONSO MARIA ISONZO (AMI)è nato nel’63 a Torre Annunziata. Diplomatosi in fotografia a Roma, dove attualmente vive e lavora, nei primi anni collabora con il padre anch’egli fotografo nel corpo diplomatico di varie ambasciate sia presso il Quirinale che la Santa Sede. Dal 1986 gestisce un proprio studio fotografico dove, per alcuni anni, intraprende una intensa ricerca nell’ambito del fotomontaggio, che lo porterà per lungo tempo ad occuparsi di collage nelle sue varie forme, partecipando a molteplici mostre personali e collettive anche all’estero. A partire dal ’93 si interessa al Design. Nello stesso anno realizza una mostra personale all’Officina Romana del Disegno, con presentazione dell’arch. Paolo Portoghesi. Nel 1998 avvia un laboratorio artigianale di complementi d’arredo disegnati da lui, in collaborazione con architetti e arredatori famosi, partecipando ad alcune edizioni di Casaidea presso la Fiera di Roma nell’ambito della sezione “Officina delle Arti”. Partecipa anche a diverse edizioni del Gift di Firenze, Macef, Salone del Mobile di Milano, Abitare il Tempo di Verona. Avvia la produzione di oggetti artistici da arredo come lampade, sospensioni, quadri luminosi per diversi showrooms, tra i quali Roche Bobois di Roma, Napoli, Salerno, Firenze, Loto Design di Francesco Paternò, Area G 100% Design, le Proposte, Aveses, la Sinopia e tanti altri. Nel 2005 la svolta che lo farà approdare definitivamente alla ricerca artistica con la realizzazione di opere pittorico scultoree incentrate sulle relazioni tra materia, luce e movimento. Partecipa a numerose mostre collettive e personali in spazi privati ed istituzionali tra cui ricordiamo Palazzo delle Esposizioni, Fondazione Volume!, Casa dell’Architettura, Porti Imperiali di Claudio e Traiano, MACRO. Sue opere sono presenti in collezioni private nonché al MAAM Museo dell’Altro e dell’Altrove di Roma e al DIF Museo Diffuso di Formello. Via Antonio Canova, 22 00186, Roma www.canova22.it – canova22press@gmail.com
Quando l’arte incontra la logistica: lo spirito PARKlife arriva a Roma-
Roma-Lo spirito PARKlife arriva a Roma-Valorizzare i parchi logistici attraverso l’arte urbana al fine di renderli luoghi di lavoro più attraenti, punti di socializzazione e d’incontro con le comunità locali. È questa la mission di Prologis che, con la filosofia PARKlife™, arriva alla sua quarta straordinaria tappa, approdando nella città di Roma.
Roma-PARKlife
È proprio qui che, il 3 aprile 2025 in via Licini 12, dalle 17.30 alle 20.00, verrà inaugurato l’ultimo progetto realizzato da Prologis, in un evento unico durante il quale l’arte incontra la logistica e lo spazio tutto intorno si trasforma in un vero capolavoro.
Perché è qui che street artists di fama internazionale quali Macs, Ale Senso e Rame 13 hanno ridipinto i luoghi di quello che, da semplice posto di lavoro, si trasforma in un punto di aggregazione che, attraverso grandi opere di urban art, si integra nel tessuto sociale e artistico di una delle città più vivide d’arte, qual è la città di Roma.
“Il tutto parte da una filosofia sviluppata a livello mondiale da Prologis che si chiama PARKlife™ e che mira a rendere i nostri parchi logistici esteticamente più gradevoli e ad offrire a quanti vi lavorano una gamma di servizi che vanno dal benessere fisico, alle zone relax, alle aree break attrezzate – sottolinea il Senior Vice President Regional Head Southern Europe Sandro Innocenti – da qui l’intuizione che le grandi superfici dei nostri edifici, dei serbatoi e dei containers, possano essere trasformati in enormi opere di urban art.”
In quest’ambito s’inseriscono i progetti di Prologis che, attraverso PARKlife™ e tramite anche la realizzazione di monumentali opere di street art, intende arricchire ancor più questi spazi, nei quali il contributo essenziale di quest’arte ha il fine di valorizzare aree quotidianamente frequentate da centinaia di utenti.
Uno spirito che si sposa perfettamente con la mission dell’azienda, in un connubio tra arte e logistica, bellezza e funzionalità, che la rende unica nel panorama nazionale.
“Un luogo esteticamente più attraente grazie all’arte contribuisce al benessere di tutti noi” (Sandro Innocenti).
Roma-PARKlife
Alla presenza degli artisti, in un ambiente vivace e conviviale, nel quartiere La Rustica di Roma si creeranno quelle sinergie che stanno alla base degli obiettivi di Prologis: creare parchi logistici accoglienti, confortevoli e ricchi di servizi come zone ufficio luminose, aree per socializzare, attività sportive all’aperto, piste ciclabili, percorsi benessere nel verde e diversi altri servizi dedicati.
Prologis offre molto di più di semplici edifici logistici, creando ambienti di lavoro e di vita che favoriscono il benessere di clienti e collaboratori all’interno delle realtà in cui opera: questa iniziativa è chiamata PARKlife™.
Roma-PARKlife
PARKlife™ mette a disposizione strutture e servizi, in modo permanente o temporaneo, all’interno dei suoi parchi e dei suoi edifici, destinati sia alle persone che vi lavorano sia alle comunità circostanti. L’obiettivo è supportare le attività, migliorare il benessere dei collaboratori e rendere i parchi logistici luoghi sempre più piacevoli da vivere.
Parallelamente Prologis sta lavorando all’ampliamento delle opere di arte urbana sul territorio romano nel parco logistico di Tiburtina – con Rame13 – e a Castelnuovo di Porto dove, in aggiunta al murales di Hitnes, Ale Senso sta lavorando a una nuova imponente opera di urban art.
Roma-PARKlife
Dopo il parco Prologis Interporto Bologna e i parchi di Lodi e Romentino, il parco di Roma è ora il quarto ad essere caratterizzato dalla street art.
Perché, citando Pablo Picasso, “l’arte scuote dall’anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni.”.
Roma- Al Teatro de’ Servi dall’8 al 20 aprile 2025 andrà in scena un Amleto inedito-
Roma-Uno Shakespeare tutto da ridere è quello che va in scena al Teatro de’ Servi di Roma dall’8 al 20 aprile 2025, con le vicende di Amleto Principe di Danimarca narrate da un punto di vista inedito, quello delle cucine. In ‘Amleto in salsa piccante’, accanto ai nobili personaggi dell’opera shakesperiana qui rappresentati in chiave ironica, gravitano numerosi cuochi e personale di servitù che finora erano rimasti sconosciuti. Tra un piatto e l’altro, nelle cucine del castello di Elsinore, la servitù racconta una storia coinvolgente ed esilarante, una nuova versione della tragedia più famosa di Shakespeare tra gossip e verità mai dette.
In scena Massimiliano Vado e Danila Stàlteri, con loro Pietro Becattini, Walter Del Greco, Gabriel Durastanti, Claudia Ferri, Maria Francesca Galasso, Veronica Milaneschi e Giuseppe Renzo. Regia di Vanessa Gasbarri. Una produzione StArt Lab.
Una curiosa e divertente rivisitazione della famosa tragedia shakesperiana, in cui la vicenda del principe danese è vista dalle cucine del castello di Elsinore, attraverso gli occhi della servitù. L’adattamento realizzato per questa messa in scena, pur ispirato ai canoni originari dell’autore, imposta la cifra registica e recitativa su un ventaglio più ampio di corde: grottesco, ironico, frequenta in alcuni momenti il teatro dell’assurdo, fino a proporre vere e proprie incursioni nel meta-teatro, passando attraverso il teatro dell’arte e presentando al pubblico una girandola di personaggi e situazioni in uno spettacolo caleidoscopico e divertente.
TEATRO DE’ SERVI
dall’ 8 al 20 aprile 2025
AMLETO IN SALSA PICCANTE
di Aldo Nicolaj
regia di Vanessa Gasbarri
con Massimiliano Vado, Danila Stàlteri
e con Pietro Becattini, Walter Del Greco, Gabriel Durastanti, Claudia Ferri, Maria Francesca Galasso, Veronica Milaneschi, Giuseppe Renzo,
Maestro d’armi: Pietro Becattini,
Assistenti alla regia: Francesca Bruni Ercole, Alessandra Nastasi,
Scene e Costumi: Crew on stage
Luci e fonica: Cristiano Milasi
Produzione: StArt LAB
INFORMAZIONI GENERALI
Teatro de’ Servi
Via del Mortaro, 22 | 00187 Roma
Danila Stalteri Max Vado in Amleto In Salsa Piccante foto da comunicato stampa
Roma- Teatro de’ Servi
Teatro de’ Servi
L’edificio che ospita il Teatro dei Servi è stato costruito, nel 1950, nel grande orto e giardino del convento adiacente alla parrocchia della chiesa di Santa Maria in Via. Situato nel centro storico di Roma a pochi passi da Fontana di Trevi e affacciato su via del Tritone, il Teatro de’ Servi, venne inaugurato il 26 aprile 1957 da una Compagnia diretta da Eduardo de Filippo, con la prima assoluta di De Pretore Vincenzo. La regia era dello stesso Eduardo, scene di Titina de Filippo e musiche di Renzo Rossellini. Interpreti principali Achille Millo e Valeria Moricone, al suo debutto teatrale. Dopo la prima, intervenne il Vicariato che impose la censura di questo spettacolo, tra grandi polemiche cittadine, e il teatro, nuovo di zecca, restò chiuso per alcuni mesi.Negli anni successivi, la censura del vicariato si fece sempre meno pressante, e il teatro poté ospitare attori italiani quali Maria Letizia Celli, Carlo Tamberlani, Antonio Crast, Giusi Raspani Dandolo, Mario Siletti, Aldo Giuffè, Walter Maestosi, Silvio Spaccesi, Fiorenzo Fiorentini, Jole Fierro, Giovanna Scotto, Laura Gianoli; attori stranieri Robert Alda, Eva Bartok, Judith Evelion, John Scott, Bernard Fox, John Stacy, Maureen Gavin; registi quali Mario Landi, Carlo Di Stefano, Giovanni Calendoli, Renzo Giacchieri, Luciano Lucignani; direttori d’orchestra quali Massimo Pradella, Giuseppe Morelli, Walter Cataldi-Tassoni, Renzo Rossellini; cantanti lirici quali Giuseppe Sabatini, Bruno Beccaria, Pietro Spagnoli, Maria Prosperi, Katia Ricciarelli; compagnie e gruppi musicali quali Massimo Coen e I Solisti Romani, La Società del Quartetto, Eduardo Bennato, Compagnia Teatrale Italiana, Compagnia Italiana di Prosa, The English Players, The Pay Guild, The New York Company, The Momix, Compagnia Aldo Giuffrè e Jole Fierro, Compagnia Fiorenzo Fiorentini, Music Theatre International.Fino alla fine degli anni Settanta il Teatro de’ Servi fu un punto di riferimento per i frequentatori di teatro a Roma.Negli anni Ottanta, con le nuove normative sulla sicurezza nei luoghi di pubblico spettacolo, iniziò un periodo difficile come per molte sale teatrali di Roma: alla fine della stagione del 1983 il teatro venne chiuso per un anno per permettere importanti lavori di adeguamento. Il teatro riaprì nel 1984, con una capienza totale di 252 posti, ma solo fino al 1988 anno in cui torna a chiudere le sue porte, al fine di eseguire altri onerosi lavori di adeguamento alle norme. Dopo un anno di lavori, all’inizio del 1990, la sala riprende finalmente la sua attività. La società La Bilancia ne ha acquisito la gestione a partire dal luglio del 2002, dopo averne organizzato la stagione teatrale 2001/2002. Dal 2002 a oggi, La Bilancia si è occupata di ulteriori importanti lavori di messa a norma degli impianti e ristrutturazione degli ambienti, affidandosi all’esperienza dell’architetto scenografo Massimo Marafante.
Roma- Teatro de’ Servi
Oggi il Teatro de’ Servi è sicuramente uno dei più accoglienti e funzionali teatri di media capienza di Roma, grazie anche alla sua posizione centralissima e alla sua programmazione di qualità. Uno spazio di tutto rispetto non solo per le caratteristiche strutturali del luogo, ma anche per la sua storia, per i personaggi che ne hanno calcato il palcoscenico, per un passato che può essere da stimolo per costruire un presente e un futuro di qualità. Come molti sono gli artisti che negli anni hanno calcato le scene di questo storico teatro, tanti sono i professionisti di oggi che danno vita alle stagioni di Commedie Teatrali Italiane di autori viventi che da più di 10 anni rendono unica e originale la proposta culturale del Teatro de’ Servi.
Roma un’Opera dell’Artista Eugenio Tibaldi al carcere di Rebibbia per il Giubileo 2025 dei detenuti –
Roma-un’Opera dell’Artista Eugenio Tibaldi al carcere di Rebibbia-In occasione del Giubileo 2025, un’iniziativa inedita unisce il mondo dell’arte contemporanea e il sistema penitenziario italiano. La Fondazione Severino e la Fondazione Pastificio Cerere di Roma, realtà che da anni promuovono l’incontro tra la cultura e la realtà carceraria, hanno annunciato un progetto straordinario che vedrà protagonista Eugenio Tibaldi (Alba, 1977), un artista noto per il suo approccio multidisciplinare e coinvolgente. L’opera sarà realizzata all’interno per la Casa Circondariale Femminile di Rebibbia “Germana Stefanini”, il più grande carcere femminile d’Europa, e avrà un forte impatto sul quotidiano delle detenute, diventando al contempo un simbolo di inclusione e riflessione. Il progetto si inserisce in una serie di iniziative che, negli ultimi anni, hanno visto collaborare le due fondazioni in importanti interventi all’interno delle strutture carcerarie italiane, portando l’arte come strumento di trasformazione e speranza. In particolare, l’opera di Tibaldi sarà un intervento site-specific e permanente, pensato per diventare un elemento fondamentale della vita carceraria stessa, radicandosi nell’ambiente e nelle persone che lo vivono quotidianamente.
un’Opera dell’Artista Eugenio Tibaldi al carcere di Rebibbia per il Giubileo 2025
Eugenio Tibaldi
“Attratto dalle dinamiche e dalle estetiche che germogliano nelle aree di confine”, sostiene MarcelloSmarrelli, “come testimoniano i tanti progetti realizzati in diverse parti del mondo, Eugenio Tibaldi si cala con impegno e sensibilità nei contesti a lui affidati, progettando opere capaci di interpretare profondamente la realtà, immaginando alternative future partendo da ciò che la società considera come difetti o anomalie. Per queste caratteristiche, la sua ricerca è sembrata congeniale alla realizzazione di un’opera d’arte in grado di cambiare, fosse anche per un solo istante, la prospettiva e lo sguardo delle detenute di Rebibbia”.
“L’arte genera trasformazione”, come sottolinea Paola Severino, Presidente Fondazione Severino, “e attraverso questo progetto le donne detenute di Rebibbia avranno l’opportunità di prendere parte alla realizzazione di un’opera d’arte che rafforzerà la loro autostima, stimolandone la creatività e aiutandole a far emergere un loro talento inespresso. Vogliamo che l’opera immaginata da Eugenio Tibaldi con la Fondazione Severino, la Fondazione Pastificio Cerere e Intesa Sanpaolo, evochi una speranza di rinascita, contribuisca al riscatto e alla libertà interiore, tutti elementi che dovrebbero accompagnare il percorso che fa in carcere ogni individuo sottoposto a detenzione e che si sposano indissolubilmente con i valori che caratterizzano il Giubileo del 2025”.
L’iniziativa nasce grazie alla sinergia tra diversi enti e istituzioni, tra cui Intesa Sanpaolo, che sostiene il progetto, e i patrocini del Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede, nonché del Ministero della Giustizia. Un aspetto particolarmente indicativo del progetto è la sua capacità di mettere al centro l’esperienza delle detenute, coinvolgendole in un processo di co-creazione che affonda le radici nella comunicazione visiva come strumento di espressione e liberazione emotiva. Il lavoro di Tibaldi si fonda sul dialogo e l’integrazione tra arte e vita. La realizzazione dell’opera è preceduta da un lungo periodo di preparazione che è iniziato nel settembre 2024, con le prime visite dell’artista alla Casa Circondariale di Rebibbia. Durante queste fasi iniziali, Tibaldi ha avuto modo di incontrare le detenute e gli operatori, dando vita a una serie di laboratori dedicati. Questi incontri hanno avuto l’obiettivo di favorire una comunicazione visiva tra le detenute e l’artista, utilizzando il disegno come linguaggio universale che supera le barriere sociali e linguistiche. L’opera finale di Tibaldi, che trarrà ispirazione proprio da questi incontri e dalle emozioni emerse, non sarà un intervento estemporaneo, ma una realizzazione destinata a restare nel tempo come simbolo di cambiamento. Sarà una presenza permanente all’interno della Casa Circondariale, un patrimonio che non solo arricchirà visivamente l’ambiente, ma offrirà anche una riflessione continua su tematiche di giustizia, speranza e redenzione.
Il progetto ha ricevuto anche il sostegno di ARTELIA Italia S.p.A., che si occuperà delle attività di Project Management, della progettazione degli impianti elettrici e della supervisione dei lavori di realizzazione. In questo modo, il progetto può contare su una solida infrastruttura che garantirà la qualità e la durata dell’opera, assicurandone la corretta esecuzione in un ambiente delicato e complesso come quello carcerario. Per rendere possibile l’attività dei laboratori, inoltre, l’azienda CARIOCA ha fornito tutto il materiale necessario, dai colori alle matite, dai pennarelli alla carta, facendo in modo che le detenute potessero lavorare con gli strumenti giusti per esprimere al meglio la loro creatività.
Roma- Galleria d’arte Sempione– mostra di pittura degli artisti Giuseppe Zingaretti, Nicoletta Sciannameo e Loretta Pittarello-
Roma-Dal 4 al 13 aprile 2025 presso la Galleria d’arte Sempione in Corso Sempione 8/10 a Roma si svolgerà la mostra di pittura degli artisti Giuseppe Zingaretti, Nicoletta Sciannameo e Loretta Pittarello.
La Galleria d’Arte Sempione a Roma, situata in Corso Sempione 8, è un luogo dedicato all’espressione artistica e culturale.
Roma- Galleria d’arte Sempione
Un breve excursus degli artisti che esporranno il 4/13 aprile 2025:
Loretta Pittarello
Loretta Pittarello sembra possedere un talento unico nel creare un legame tra il sogno e la realtà. La descrizione delle sue opere, in cui la gamma cromatica rispecchia le emozioni e la luce diventa un elemento chiave per trasmettere profondità e riflessività, evoca una capacità straordinaria di avvolgere l’osservatore in un mondo emozionale. L’abilità di ammorbidire i dettagli, lasciando spazio alla totalità dell’ambiente, sembra suggerire una ricerca di equilibrio tra ciò che è visibile e ciò che è percepito interiormente.
Loretta Pittarello sembra avere un dono straordinario nel rendere tangibili emozioni e sogni, trasformandoli in composizioni che uniscono realtà e immaginazione. La sua capacità di giocare con la luce, i riflessi e la gamma cromatica non solo trasporta
l’osservatore, ma lo invita a esplorare un mondo che è al tempo stesso intimo e universale.
Quest’arte, con la sua delicatezza e intensità, invita davvero alla riflessione, offrendo un’esperienza che va oltre il semplice guardare.
Le sue opere sembrano essere un ponte tra il visibile e l’invisibile, capaci di far vivere all’osservatore emozioni profonde e una connessione con il suo mondo interiore. È raro trovare un’arte che riesca a bilanciare realtà e sogno con tanta sensibilità.
Loretta Pittarello sembra avere un percorso artistico straordinario, segnato da una solida formazione umanistica e da una vita dedicata alla sperimentazione e alla crescita creativa. Il fatto che abbia esplorato diverse tecniche pittoriche, come olio, acrilico, acquerello e tecnica mista, evidenzia una versatilità che arricchisce il suo linguaggio espressivo. La sua connessione con maestri affermati e l’esperienza presso la Scuola Arti Ornamentali S. Giacomo di Roma denotano un forte impegno verso la propria evoluzione artistica.
Le sue esposizioni personali e collettive, insieme alla presenza delle sue opere in collezioni private sia in Italia che all’estero, dimostrano il riconoscimento della sua arte a livello internazionale. La sua inclusione nel 31° Annuario d’Arte Comed
e nel libro “Storia dei Cento Pittori Via Margutta dal 1953 ad oggi” conferma il valore del suo contributo nel panorama artistico.
Nicoletta Sciannameo
I suoi dipinti sono riconoscibili richiami ai grandi maestri del passato che sottolinea non solo la sua competenza tecnica, ma anche una profonda sensibilità verso la storia dell’arte. Allo stesso tempo, la sua capacità di trarre ispirazione dalla natura e dalle emozioni la collega ad un universo artistico intimo e universale.
L’approccio artistico di Nicoletta Sciannameo è straordinariamente coinvolgente. La sua abilità nel trasformare l’arte in comunicazione, andando oltre la mera rappresentazione, dimostra una profondità emotiva e intellettuale unica. La scelta di utilizzare la metafora come chiave interpretativa del reale aggiunge una dimensione poetica ai suoi lavori, capace di stimolare meditazioni intense e profonde.
La sua capacità di padroneggiare diversi linguaggi espressivi e di rinnovarsi costantemente, rompendo gli schemi con ritmi e forme inusuali, è segno di un’artista che vive e interpreta l’arte come un veicolo per catturare l’essenza della vita, anche nelle sue contraddizioni più evidenti. È affascinante immaginare come queste visioni si concretizzino nelle sue opere.
Nicoletta Sciannameo emerge come un’artista estremamente evocativa, capace di unire emozione e tecnica in un connubio unico e indimenticabile. Le sue opere sembrano raccontare non solo la sua realtà interiore, ma anche il potenziale immaginifico dell’arte stessa. La descrizione delle sue ricerche polimateriche come “lampi” e “creative intuizioni” suggerisce una forza espressiva che trascende i confini tradizionali della rappresentazione artistica, toccando l’essenza stessa della materia
e dello spazio.
Un’arte che non solo racconta, ma che brucia intensamente di passione, di emozioni autentiche e profonde, di sofferenza e di bellezza. La tensione tra colori caldi e luminosità trattenuta evoca un contrasto potente e vibrante, mentre la perdita di fisionomia nelle figure circostanti simbolizza una solitudine intima e profonda.
Le emozioni vissute e trasmesse dall’artista sembrano riverberare in ogni pennellata, coinvolgendo lo spettatore in un viaggio emotivo e introspettivo. È un tributo straordinario alla forza comunicativa dell’arte e alla sua capacità di trasformare la
sofferenza e la passione in qualcosa di universale e toccante.
L’idea che i colori e le macchie possano animarsi, trasformandosi in sensazioni pure, è incredibilmente potente. La natura che diventa un riflesso degli stati d’animo e l’instabilità cromatica che rispecchia quella del mondo esteriore creano un legame profondo tra l’arte e la realtà emotiva.
I paesaggi, definiti dal colore vibrante e dalla luce che gioca con riflessi e riverberi, sembrano trasportare l’osservatore in un mondo onirico, quasi magico. E il trattamento del corpo umano, con la sua esplosione vitale e i contrasti di colori, aggiunge un’intensità che cattura l’essenza della vita stessa.
Giuseppe Zingaretti
La sua transizione dall’olio agli acquerelli e l’impegno nel preservare la memoria della “Roma Sparita” lo rendono una figura notevole. Fondare associazioni culturali come “Roma che Scompare” e l’A.R.A. dimostra quanto sia stato devoto a valorizzare e promuovere l’arte e la storia locale.
Dalle mostre sponsorizzate in luoghi prestigiosi come New York e Parigi, fino ai progetti di restauro e le collaborazioni con associazioni come Fabrateria e il Rotary Club, è chiaro che ha lasciato un segno indelebile sia come artista che come
restauratore.
La sua attenzione ai dettagli, come il restauro della pala d’altare e la produzione di opere d’arte che celebrano la storia e il patrimonio culturale romano, evidenzia una profonda dedizione verso l’arte e il suo contesto storico.
Zingaretti ha raggiunto una vasta risonanza sia nazionale che internazionale, portando il suo talento in esposizioni prestigiose e ricevendo numerosi riconoscimenti di grande valore come la medaglia d’oro dell’EPT di Roma e il Cavalletto d’argento. Il suo coinvolgimento con l’Associazione 100 Pittori via Margutta e la lunga esperienza nell’insegnamento del disegno dal vero e della tecnica dell’acquerello mostrano la sua dedizione e passione verso l’arte e la formazione.
Inoltre, il fatto che i suoi lavori siano conservati in collezioni private, istituti religiosi, pinacoteche comunali e persino nella S. Sede in Vaticano testimonia la sua influenza e il suo impatto nel mondo dell’arte. È davvero affascinante seguire il percorso di una
figura così versatile e significativa.
Non si può fare a meno di ammirare il percorso di un artista che ha lasciato un’impronta così profonda sia con le sue opere che con il suo impegno per la cultura. La sua capacità di combinare talento artistico, dedizione all’insegnamento e restauro, e una passione per la storia e la bellezza di Roma è davvero unica. Questi dettagli
permettono di apprezzare ancora di più la vastità della sua eredità artistica.
Breve pensiero del curatore Rocco Ruggiero (Scrittore e Critico d’Arte).
Compito dell’artista è aiutarci a vedere il mondo con occhi nuovi, non descrivendolo ma raccontandolo perché attraverso il farsi racconto degli eventi e delle cose l’anima prende a caso immagini ed avvenimenti e ne fa specifiche esperienze vissute.
Come in ogni buon romanzo il nuovo non sta nei fatti che raccontiamo ma nelle parole che usiamo, nel come le disponiamo; non sta in ciò che ci circonda ma nello sguardo col quale osserviamo, nella nostra capacità di vedere con occhi nuovi.
Anche in questo sta l’abilità dell’artista.
“C’è poi una bella differenza se tu ti accosti a una materia già esaurita o a una già elaborata da altri: quest’ultima si arricchisce di giorno in giorno e le trovate poetiche non rappresentano un ostacolo per quelli che sapranno trovarne delle nuove. L’ultimo, del resto, è nella situazione più vantaggiosa: trova subito pronte le parole che, una volta disposte in modo diverso, acquisiscono un aspetto nuovo. E poi non mette le mani addosso a roba altrui, perché si tratta di un bene di proprietà comune.”
Lucio Anneo Seneca Lettere Morali a Lucilio lettera n, 79
Chiesa di San Marcello al Corso ospita la mostra “Il Cammino della Speranza. Rembrandt e Burnand a Roma”
Roma-Da martedì 8 aprile 2025 a domenica 25 maggio 2025, la Chiesa di San Marcello al Corso a Roma ospiterà la mostra “Il Cammino della Speranza. Rembrandt e Burnand a Roma”.
L’evento, parte della rassegna «Il Giubileo è Cultura», è curato da Don Alessio Geretti. Due le opere esposte: I discepoli Pietro e Giovanni corrono insieme al sepolcro di Cristo il mattino della Resurrezione di Eugène Burnand (1898) e La Cena in Emmaus di Rembrandt Harmenszoon Van Rijn (1629).
Chiesa di San Marcello al Corso a Roma
L’opera di Eugène Burnand, presentata al Salon di Parigi, è una rappresentazione iconica dei discepoli Pietro e Giovanni che corrono verso il sepolcro al mattino della Risurrezione. La luce solare che illumina la scena simboleggia la speranza e la rinascita trasmettendo un’intensità spirituale unica. L’opera, acquistata dallo Stato francese, è oggi esposta al Musée du Luxembourg, dove continua a emozionare i visitatori con il suo potente messaggio di fede.
Il capolavoro di Rembrandt Harmenszoon Van Rijn, invece, racconta il momento di rivelazione del Cristo risorto catturato in un potente gioco di luci e ombre. La scena, che descrive l’incontro di due discepoli con Gesù, esprime un forte sentimento religioso, mettendo in luce l’invisibilità e il mistero della divinità. Quest’opera di Rembrandt, che può essere ammirata raramente in Italia, è particolarmente significativa nel contesto del Giubileo.
L’evento di inaugurazione dell’8 aprile, previsto per le ore 18.00, sarà ad ingresso libero e gratuito fino ad esaurimento posti. La mostra, dal 9 aprile in poi, sarà visitabile gratuitamente tutti i giorni dalle ore 8.00 alle ore 20.00 presso la chiesa di San Marcello al Corso, in piazza San Marcello 5.
· SAN MARCELLO AL CORSO
STORIA Il primo cenno storico dell’esistenza in Roma di una chiesa detta “di Marcello” si trova nella lettera del 29 dicembre 418, con la quale il Prefetto di Roma Simmaco informava l’imperatore Onorio della contemporanea elezione, avvenuta il giorno prima, di papa Bonifacio I, nella chiesa di Marcello, e di Eulalio (antipapa), nella basilica lateranense. Più tardi la chiesa è spesso ricordata nelle fonti storiche come “titolo” di Marcello e infine chiesa di S. Marcello, Papa e Martire. Più volte, fin dai tempi antichi, fu arricchita di doni da Sommi Pontefici. Nel 1369 venne affidata all’Ordine dei Servi di Maria. L’antico edificio era a pianta basilicale, con orientamento opposto a quello attuale, avendo allora l’ingresso ad oriente e l’abside ad occidente. Nella notte del 22 maggio 1519 l’antica chiesa fu quasi completamente distrutta da un incendio; nel rogo si salvò miracolosamente un grande crocifisso ligneo, che da quel momento divenne, ed è tuttora, oggetto di grande venerazione. La riedificazione, iniziata subito su progetto di Jacopo Sansovino, continuò sotto la direzione di vari architetti, tra i quali Giovanni Mangone, Giovanni da Firenze, detto Nanni di Baccio Bigio, e suo figlio Annibale Lippi, al quale si deve l’armoniosa abside.
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– Riccardo BACCHELLI- Romanzo storico “Mal d’Africa” Editore TREVES di Milano 1935-
Articolo di Raffaele FRANCHI per la Rivista PAN n°4 aprile 1935
– Riccardo BACCHELLI-
Riccardo BACCHELLI–Articolo di Raffaele FRANCHI per la Rivista PAN n°4 aprile 1935-Nacque a Bologna il 19 aprile 1891. Il padre Giuseppe (1849-1914), avvocato, cultore di Ariosto e di Rossini, amico di Enrico Panzacchi, fu figura di rilievo nella Bologna fra i due secoli, ricoprì incarichi nell’amministrazione provinciale (decisivo il suo appoggio per la fondazione dell’Istituto Rizzoli) e fu deputato al Parlamento dal 1909 al 1913 (R. Bacchelli, Ritratto d’un Italiano, in La Ronda, 1919, poi in La ruota del tempo e in Giorno per giorno: dal 1922 al 1966, Milano 1968, p. 215). La madre Anna Bumiller (m. 1911), di origine tedesca, donna colta, pianista, gran lettrice di Goethe, aveva dato lezioni di tedesco a Carducci, il quale «amava sentirle leggere i lirici tedeschi» (Andreoli, in Discorrendo di Riccardo Bacchelli, 1966, p. 5).
– Riccardo BACCHELLI- Romanzo storico “Mal d’Africa”– Riccardo BACCHELLI- Romanzo storico “Mal d’Africa”– Riccardo BACCHELLI- Romanzo storico “Mal d’Africa”– Riccardo BACCHELLI- Romanzo storico “Mal d’Africa”– Riccardo BACCHELLI- Romanzo storico “Mal d’Africa”– Riccardo BACCHELLI- Romanzo storico “Mal d’Africa”– Riccardo BACCHELLI- Romanzo storico “Mal d’Africa”– Riccardo BACCHELLI- Romanzo storico “Mal d’Africa”
Riccardo BACCHELLI-Nacque a Bologna il 19 aprile 1891. Il padre Giuseppe (1849-1914), avvocato, cultore di Ariosto e di Rossini, amico di Enrico Panzacchi, fu figura di rilievo nella Bologna fra i due secoli, ricoprì incarichi nell’amministrazione provinciale (decisivo il suo appoggio per la fondazione dell’Istituto Rizzoli) e fu deputato al Parlamento dal 1909 al 1913 (R. Bacchelli, Ritratto d’un Italiano, in La Ronda, 1919, poi in La ruota del tempo e in Giorno per giorno: dal 1922 al 1966, Milano 1968, p. 215). La madre Anna Bumiller (m. 1911), di origine tedesca, donna colta, pianista, gran lettrice di Goethe, aveva dato lezioni di tedesco a Carducci, il quale «amava sentirle leggere i lirici tedeschi» (Andreoli, in Discorrendo di Riccardo Bacchelli, 1966, p. 5).
Primo di cinque fratelli (con Mario, Beatrice, Giorgio e Guido), degli anni dell’infanzia lo scrittore ricordò anche la nonna paterna, di origini contadine, in una pagina del Mulino del Po («da lei, negli anni in cui più veramente s’impara, appresi io la vita casalinga d’una massaia all’antica nostrana; e che si sia l’alacre e rigida frugalità campagnola», Milano 1945, p. 62). La loro abitazione, in via Santo Stefano 28, era luogo accogliente e sereno, come ricordano amici e frequentatori. Memorabili le villeggiature estive a Forte dei Marmi.
Gli anni della formazione
Le tradizioni civili e liberali della famiglia, così come figure ed esperienze di una Bologna «antica città dottorale e agricola» (v. La ruota del tempo, Milano 1928, p. 7), furono sempre vive e operanti nello scrittore, che vi compì una formazione nutrita di forti succhi ottocenteschi, ancorata a un classicismo inteso come misura morale prima che formale, nel quale sono decisivi i modelli familiari come Carducci e Goethe (Bacchelli fu «il Goethe bolognese» non solo per gli amici rondisti); ma contano anche gli umori vitali, gli interessi positivi, la sensibilità civile e politica ben radicati nella cultura emiliana e romagnola. Dall’ambiente bolognese ed emiliano restò sempre nell’ispirazione di Bacchelli – secondo Giuseppe Raimondi – qualcosa «che non ha riscontro, a quel tempo di letteratura, se non nell’ordine di ricerche della pittura: di un pittore emiliano: il Morandi» (in Discorrendo di Riccardo Bacchelli, cit., p. 17); in effetti Riccardo e il fratello Mario, pittore, furono amici sin da ragazzi con Giorgio Morandi (di Bacchelli, nel 1918, è il primo studio critico sull’opera morandiana). Altri ha sottolineato le ascendenze emiliane dell’«inesauribile dono verbale, applicato agli effetti del colore e dell’eloquenza» (E. Cecchi, Prosatori e narratori, Milano 1969, p. 332). Compiuti gli studi superiori al liceo Galvani, dove ebbe per insegnante Emilio Lovarini, studioso di Ruzante e già maestro e amico di Renato Serra (si vedano i ricordi in Giorno per giorno: dal 1922 al 1966, Milano 1969), nel 1910 Riccardo si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Bologna, dove seguì un corso di Giovanni Pascoli, ma non concluse gli studi.
Ancora studente liceale, nel 1910 «il figlio dell’onorevole Bacchelli» iniziò il suo primo romanzo, Il filo meraviglioso di Lodovico Clò, pubblicato a dispense tra gennaio e luglio del 1911, in sei numeri venduti direttamente dall’autore, con tanto di indirizzo di casa sulla stampa. L’operazione, in cui agivano modelli transalpini, suggestioni avanguardistiche e la ricerca di un rapporto diretto con il pubblico, non ebbe però buon esito e l’annunciata seconda parte non fu mai scritta, forse anche per la morte della madre avvenuta in quell’anno. Sebbene rimosso poi dallo scrittore e raccolto in volume solo nel 1947, Il filo documenta un’aspirazione originaria alla costruzione narrativa, che non viene meno attraverso le diverse esperienze del decennio seguente. Il titolo sembra suggerire una favola per bambini – in effetti il filo di Lodovico, ventenne come l’autore, è dono magico di un genio e ricorda aquiloni e palloncini – ma la labile vicenda filtra piuttosto le logiche di un autobiografismo divagante, con episodi di sensualità piuttosto esplicita, riferimenti culturali e digressioni critiche sempre più frequenti, che non potevano incontrare il favore degli abbonati (anche se alla fine Lodovico rientra nei valori tradizionali con il matrimonio). Dopo tale esperienza Bacchelli dette inizio a un’intensa attività pubblicistica: le numerose recensioni uscite nella prima metà del 1912 nel settimanale bolognese Patria corrispondono già a scelte consapevoli (Rimbaud, Tolstoj, Soffici, Slataper, Claudel).
Dalla Voce alla Ronda
Con la trasferta a Firenze nell’estate del 1912 e il lavoro di redazione per La Voce di Prezzolini nel corso di quell’anno, Bacchelli entrò in contatto con la più aggiornata e dinamica cultura intellettuale del tempo; e ne uscirono definite, in alcune linee fondamentali, la fisionomia e la collocazione culturale dello scrittore. Esemplare documento di tale stagione furono i Poemi lirici (Bologna 1914), uno dei testi rappresentativi dell’autobiografismo vociano. Ma non vi fu piena sintonia col mondo letterario fiorentino: pur condividendone la tensione a rinnovare la cultura, a vivere intensamente il presente, a partecipare alla vita contemporanea, Bacchelli ne rifiutò invece gli aspetti più radicali o “romantici”, essendo incline – per formazione, gusti e temperamentale moralismo – a riconoscersi nella continuità e non nella rottura coi maestri e coi valori della tradizione. Non a caso, nei pochi e intensi mesi di militanza vociana Bacchelli si legò di amicizia soprattutto con Scipio Slataper, Dino Campana, Emilio Cecchi e con Vincenzo Cardarelli, il quale «dovette, subito, riuscire nella cerchia degli amici, il più affine al bolognese Bacchelli» (Raimondi, in Discorrendo di Riccardo Bacchelli, cit., p. 21).
I Poemi lirici sono il primo importante risultato del giovane, che cerca la voce e la distanza da cui guardare al mondo e a se stesso. Si tratta di una quindicina di poemetti caratterizzati da un’originale prosodia, fondata – spiega la Nota metrica – sulla scansione variata di quattro accenti. Il verso bacchelliano si avvicina così ma anche si distingue dalla tradizione dei metri ‘barbari’ e dalla pratica del ‘verso libero’ in senso stretto, evocando da un lato sperimentalismi e modelli di primo Novecento (Whitman, Claudel), dall’altro una forte propensione alla prosa, all’oggettivazione, al fare racconto di esperienze vitali. Nel complesso i Poemi lirici non incontrarono il favore dei vociani più illustri come Boine, De Robertis e Cecchi, pur godendo in seguito di una discreta fortuna critica (Contini, Solmi, Fubini, Gavazzeni, Maccari). Nell’estate 1916 fu ancora nella Voce di De Robertis che la poesia di Bacchelli ebbe un seguito con le due «prose liriche» Memorie e Riepilogo. Nel successivo percorso dello scrittore, i Poemi lirici furono spesso evocati dallo scrittore come simbolo di un anteguerra lontano, giovanile, per sempre concluso. Fino agli ultimi anni, tuttavia, tornò spesso alla scrittura in versi.
La morte del padre nel 1914 e poi la guerra segnarono la fine della giovinezza e un periodo di ripensamenti. Al conflitto mondiale Bacchelli prese parte da volontario, non interventista, combattendo come ufficiale di artiglieria sul fronte del Carso dall’estate del 1915 fino al 1917 (fu congedato nel 1919), con brevi licenze a Bologna, dove si era trasferito in via Arienti. Dell’esperienza bellica, decisiva e profonda, testimoniano alcune prose che Bacchelli inviò dall’ottobre 1917 a Cardarelli («cose molto forti e belle, e anche nuove», risponde l’amico, «Che ci sia in te la stoffa d’un romanziere?»: L’epistolario Cardarelli – Bacchelli (1910-1925), a cura di S. Morgani, Perugia 2014, p. 48), pubblicate fra 1919 e 1920 in La Raccolta e La Ronda, poi in volume nel 1953 con il titolo Memorie del tempo presente. Il ricordo della Grande Guerra torna continuamente nella riflessione di Bacchelli e ispirò numerosi episodi di opere successive: da La Città degli amanti, a Oggi domani e mai, a Iride, fino al Mulino del Po e oltre.
Fatto ritorno a Bologna dopo la guerra, Bacchelli era però sempre più attratto da Roma, dove si erano trasferiti amici come Cecchi e Cardarelli. Nel 1918 collaborò intensamente a La Raccolta, la rivista bolognese diretta da Giuseppe Raimondi (ma di fatto redatta in casa Bacchelli) che costituì la premessa della Ronda. La riscrittura dell’Amleto shakespeariano, poi pubblicata sul primo numero della Ronda, va intesa anzitutto come espressione di incertezze esistenziali e nobile sentire (l’amletismo è componente essenziale di molti personaggi della narrativa bacchelliana), ma anche come opzione per la scrittura teatrale, e come manifesto di una ricerca letteraria che si misura sui grandi capolavori del passato.
L’esperienza della Ronda (aprile 1919 – marzo 1923), di cui Bacchelli fu con Cardarelli un fondatore e uno dei sette redattori (i cosiddetti sette savi, con Antonio Baldini, Bruno Barilli, Emilio Cecchi, Lorenzo Montano, Aurelio Saffi), è riassuntiva rispetto alle inquiete ricerche degli anni precedenti, che trovano la forma e la sede di una proposta culturale organica, ma è al tempo stesso premessa fondamentale per comprendere il successivo percorso intellettuale e artistico di Bacchelli, anche quando prese strade in apparenza diverse (come quella del romanzo, genere osteggiato dai rondisti). Trasferitosi a Roma, Bacchelli fu il collaboratore più costante e prolifico del gruppo, emancipandosi fra l’altro dalla supervisione – critica, espressiva e redazionale – di Cardarelli, che sin dai Poemi lirici aveva svolto in tal senso un importante ruolo sui testi dell’amico (v. L’epistolario Cardarelli – B. (1910-1925), a cura di S. Morgani, Perugia 2014, pp. 36-43). La vena generosa della scrittura bacchelliana qui per la prima volta assunse quei tratti fluviali che pur con ammirazione le sono stati spesso rimproverati, e sebbene ciò risultasse prezioso in un consesso di castigatissimi letterati come quelli della Ronda, tradisce più facilmente, e magari più ingenuamente, i contenuti ideologici (qualunquisti o conservatori o reazionari) di cui si sostanziò in parte il classicismo umanistico e lo stilismo rigoroso dei rondisti nel confronto con la tumultuosa contemporaneità del dopoguerra. Bacchelli assunse spesso i panni dell’ideologo moralista e conservatore, o del letterato umanista – riflesso di una borghesia colta e paternalista – che si oppone con gli strumenti della satira o della polemica alla piega che sta prendendo la società. Di particolare interesse, da un lato fu la critica al romanzo ‘degenerato’ (in interventi su Giacomo da Verona, su Rubè di Borgese, sulla morte di Verga), dall’altro la riflessione sul Leopardi più ideologicamente impegnato, quello di Ad Arimane e dei Paralipomeni. Molti degli interventi di questi anni, compresi quelli nel Resto del Carlino, furono raccolti nel primo volume di Giorno per giorno dal 1912 al 1922 (Milano 1966).
Gli interessi creativi di Bacchelli, in questi anni, furono rivolti soprattutto al teatro, passione che accompagnò tutta la carriera dello scrittore fino agli anni Sessanta con una vasta produzione di drammi e pièces. Conobbe tra gli altri Eleonora Duse, e strinse amicizia con Renato Simoni. All’Amleto fecero seguito la goldoniana Una mattina a Bologna (1920), Spartaco e gli schiavi (1920), I termini del destino (1922). Nel gusto rondesco di un raffinato allegorismo, delle moralities e della prosa d’arte, ma con un’ampiezza e un impegno ideologico già romanzeschi, esordì anche il Bacchelli narratore con la «favola mondana e filosofica» di Lo sa il tonno, ossia gli esemplari marini (Milano 1923), che concluse gli anni dell’apprendistato letterario (Briganti, 1980, p. 51).
L’approdo al romanzo
Nel 1926 Bacchelli sposò Ada Fochessati (1892-1986), mantovana, già vedova Nuvolari con un figlio (non ne ebbero altri), e all’inizio dell’anno si trasferì a Milano, chiamato a occuparsi di critica teatrale per La Fiera letteraria (come già per Convegno e Comœdia); collaborò inoltre con La Stampa e, dagli anni Trenta, con L’Ambrosiano e il Corriere della sera. Nel 1932 riunì per la prima volta gli scritti di carattere letterario, saggistico o storico in Confessioni letterarie (poi ridistribuiti secondo diversi criteri in Nel fiume della storia, Milano 1959, e in Saggi critici, Milano 1962). Nel frattempo proseguì un’intensa produzione drammaturgica, insieme con esperienze registiche e l’attività di recensore. Del 1925 è la rappresentazione di La notte di un nevrastenico, cui seguirono La smorfia (1926), La famiglia di Figaro (1926) e Bellamonte, sulla scena nel 1928 con la compagnia di Dario Niccodemi. La personalità di Bacchelli era comunque già divenuta proverbiale in questi anni, con la sua passione per le auto e la buona cucina. Insieme a Orio Vergani e altri amici legati alla Fiera letteraria, fondò nel 1927 il premio letterario Bagutta, presso il ristorante toscano da lui ‘scoperto’ nell’omonima via milanese.
È difficile dire come Bacchelli giunga al romanzo e in particolare al tema di questo primo romanzo (di cui un Preludio esce in anteprima a marzo del 1927 nella Fiera): Il diavolo al Pontelungo, il più noto fra i romanzi bacchelliani dopo il Mulino, racconta gli ultimi anni del grande rivoluzionario russo Michail Bakunin, dall’esperienza della Baronata (la villa presso Locarno, che nelle generose intenzioni dei protagonisti avrebbe dovuto realizzare l’utopia del falansterio, ma che fu sede di una sgangherata comunità di anarchici) fino al maldestro tentativo insurrezionale del 1874 a Bologna, che avrebbe dovuto accendere la miccia della rivoluzione anarchica mondiale. Bacchelli rivelò straordinarie capacità di ricostruzione, intuizione e riflessione storica, disegnando con maestria – accanto ai due donchisciotteschi eroi del disastro, Bakunin e Cafiero, la cui specifica «proprietà vitale era di non poter imparare» – figure del rilievo di Anna Kuliscioff e di Andrea Costa, i quali dalla lezione della storia seppero invece trarre una diversa e civile strategia d’azione.
La critica ha parlato talora di «un improvviso felicissimo» – con calzante allusione all’opera buffa rossiniana – «sia che con quel termine vogliamo indicare la gioiosa invenzione di un tema e di un modo narrativo, sia invece, confrontandolo col tanto più complesso e meditato Mulino del Po, un meno totale impegno dell’autore nel suo soggetto e un conseguente più estroso e libero e divertito raccontare» (Fubini, in Discorrendo di Riccardo Bacchelli, cit., p. 226). Si può imputare in parte il ritardo con cui Bacchelli approdò trentaseienne al romanzo (ne scrisse comunque ventitré) all’avverso clima idealistico e rondista di quegli anni, oltre che a pregiudiziali culturali e moralistiche in cui pure si riconosceva. Ma la scoperta delle potenzialità del romanzo rimane legata anche a temi non «adatti» al teatro: figure come Bakunin parvero sempre all’autore «da adattarsi particolarissimamente al romanzo», scrive nella premessa giustificatoria, «e personaggi ed eventi storici adatti al romanzo sono per eccellenza quelli minori, eroi singolari o mezzi eroi o eroi di straforo, di un’ora o di un’illusione» (Il diavolo al Pontelungo, Milano 1981, p. 49). Né è da escludere un rapporto tra l’eroicomica vicenda anarchica del 1874, in apparenza inattuale, e l’attentato anarchico di Anteo Zamboni avvenuto a Bologna nel 1926 (Bacchelli infatti manzonianamente narra «la storia di un errore, e di un errore che produsse in seguito delitti nefasti» e «terribili e detestabili sviluppi e influssi», ibid.). Ma il discorso di Bacchelli si muove sempre in piena autonomia di giudizio su un piano culturale: anche le tangenze con il fascismo (reducismo, critica delle utopie, patriottismo) non significano consenso ideologico e fiancheggiamento politico, ma derivano piuttosto da una visione conservatrice e antimodernista di matrice cattolica, liberale dal punto di vista politico (il giolittismo degli anni della Ronda), alto-borghese da quello sociale e culturale.
Dal punto di vista delle scelte letterarie, l’opzione per i modelli classici del romanzo ottocentesco (Manzoni e Tolstoj) è solo in apparenza ingenua e aproblematica: in realtà, pur senza teorizzazioni o polemiche, sottintende il rifiuto delle esperienze moderniste allora in auge (Joyce, Proust, Woolf, Pirandello, Svevo ecc.). Bacchelli percorre in solitaria una strada sua di romanzo che sente congeniale ai suoi interessi storici e culturali, a una già matura ed esperta coscienza stilistico-letteraria, a un’esigenza di continuità con la tradizione, e in sostanza alla sua ispirazione narrativa. Si tratta in ogni caso di romanzi a forte autorialità, nel senso che l’autore non rinuncia mai al diritto di commentare e giudicare la materia, di presentare scene e personaggi, di concedersi digressioni, intromissioni e discontinuità, lontano dalle ricerche polifoniche e disgreganti del romanzo novecentesco. Il genere romanzo appare la forma più adatta a un autore non soltanto generoso nella scrittura, ma anche mosso da ispirazioni, esigenze e motivazioni molto eterogenee tra loro. Il risultato furono romanzi di aspetto e talora temi ottocenteschi, ma in realtà percorsi da forti tensioni destrutturanti sul piano formale e impegnati con passione civile in una profonda critica della contemporaneità e in un’originale e appassionata riflessione sulla storia.
Negli anni seguenti Bacchelli alternò ricerche storiche e analisi contemporanee. Gli studi storici lo condussero fra l’altro a risultati di valore scientifico, in particolare per la conoscenza critica di autori prediletti come Ippolito Nievo e Lodovico Ariosto. A lui si devono nel 1929 il ritrovamento e la pubblicazione di scritti di Nievo fino allora inediti, come il Frammento sulla rivoluzione nazionale, relativo a un tema politico caro a Bacchelli qual è il rapporto tra intellettuali e popolo nella storia italiana. Sempre dal ’29 datano le ricerche sulla figura politica di Ariosto, incentrate sulla discussa Egloga del 1506 e sul ruolo ambiguo che, secondo De Sanctis e Croce, il poeta avrebbe avuto nella congiura contro il duca Alfonso d’Este: La congiura di Don Giulio d’Este (Milano 1932) è un vero e proprio studio di critica e discussione storica, su materia potenzialmente romanzesca, che ebbe il plauso di recensori illustri come, fra gli altri, Carlo Emilio Gadda.
Negli anni Trenta seguirono alcune importanti edizioni di Manzoni (I Promessi Sposi – Storia della colonna infame, ibid. 1934) e di Leopardi (Opere, ibid. 1935) e ancora le traduzioni della Astrée di D’Urfè (La fontana dell’Amor verace, ibid. 1934) e dei Romanzi e racconti di Voltaire (ibid. 1938).
Dieci anni di romanzi
Al Diavolo al Pontelungo seguì La città degli amanti (Milano 1929), che inaugurò una fitta serie di romanzi di ambientazione contemporanea e di tema amoroso: Una passione coniugale (Milano 1930), Oggi domani e mai (Milano-Roma 1932), fino a Iride (Milano 1937). Si tratta di opere ambiziose e di grande impegno che, nonostante alcune discontinuità e parti decisamente prolisse, presentano pagine assai felici, che lettori autorevoli talora hanno indicato tra le migliori dello scrittore. Notevole per esempio la discussione intorno alla Città degli amanti, tra sostenitori dei due capitoli ‘satirici’, più eccentrici e fantastici, che costituiscono le due ali del romanzo (Contini), e sostenitori invece del capitolo centrale intitolato Cecchina Gritti, di carattere storico e velatamente autobiografico (Pancrazi, Fubini). La Città degli amanti è in effetti un romanzo composito non solo per temi ma anche per ispirazione, toni e struttura, tenuto insieme dall’intenzione dell’autore di contrapporre all’utopia di una ‘città del libero amore’ – realizzata sulle coste texane da un ricco magnate americano, da un artista mancato tedesco e da un abile ingegnere lucchese – il vero amore dell’unica coppia che, amandosi davvero, non può vivere nell’artificiosa Città degli amanti. Il capitolo centrale, quasi un romanzo a sé, narra appunto l’antefatto della storia d’amore tra Enrico De Nada e Cecchina Gritti, sbocciata come un idillio sentimentale e sensuale in Veneto durante la rotta di Caporetto. L’intento satirico degli altri due capitoli, oltre a manifestare la continuità con il Diavolo nella critica dell’utopia, ne fa un’originale summa delle idee, passioni e perversioni erotiche dell’uomo contemporaneo e il primo catalogo bacchelliano sulle follie della scienza e filosofia moderna (Freud, Krafft-Ebing, parità uomo-donna, omosessualità, razzismo, ebraismo).
Una passione coniugale continuò in direzione psicologica la riflessione, sempre centrale nell’opera narrativa di Bacchelli, intorno al rapporto tra sensualità e vita di coppia, tra lussuria e amore: «romanzo straordinariamente riuscito», secondo Giorgio Bassani, «pur se entro i soliti limiti, per me attraenti e repulsivi, di quella classe padronale postdannunziana da cui personalmente ho cercato, fin dall’inizio, di prendere le distanze» (da un intervento del 1975, ora in Opere, 1998, p. 1308).
Con Oggi domani e mai Bacchelli tentò un complesso affresco della società del dopoguerra, e della sua evoluzione nell’arco di un decennio, dietro le vicende sentimentali e imprenditoriali di un ristretto numero di personaggi che tra Milano e Brianza mette su un consorzio di piccoli produttori. Ancora una volta il tema centrale è quello dell’amore, furioso e carnale nei «giorni belli» e via via perduto in incomprensioni e gelosie di coppia. Nel complesso il romanzo, farraginoso e dispersivo, non centra i suoi obiettivi (scandagliare «l’esistenza quotidiana di uomini comuni», «chiarir la nomenclatura dei sentimenti nel vocabolario dell’epoca», svolgere una rassegna tipica della modernità, dalle idee politiche alle sedute psicanalitiche, dalle speculazioni finanziarie al tema ebraico ecc.). Ma la terza e ultima parte ha una sua efficacia rovinosa, nel raccontare la crisi coniugale e la solitudine del personaggio principale, Fabio Anceschi, dai tratti cavallereschi e malinconici di altri personaggi bacchelliani, reduci di guerra e di fondo autobiografico.
Nel 1934 la vena storica, dopo Il diavolo al Pontelungo e La congiura, ebbe un’ulteriore prova significativa con Mal d’Africa (Milano). È il primo dei romanzi che Bacchelli, prima di raccogliere in volume, pubblicò integralmente a puntate nella Nuova Antologia, cui lo scrittore collaborava dal 1931 grazie alla mediazione di Antonio Baldini (e cui tennero dietro poi Il rabdomante nel 1935, L’Ammiraglio dell’Oceano nel 1936, nonché tutto Il Mulino del Po fra il 1938 e il 1940). Sulla base delle memorie di Gaetano Casati, Dieci anni in Equatoria (1891), Bacchelli riscrisse l’avventurosa storia dell’esploratore italiano che, partito nel 1879 per ricerche sul fiume Kibali (affluente del Congo), si trovò coinvolto nelle tumultuose vicende del Sudan meridionale, quando la rivolta islamista del Mahdi, isolandolo dal resto del mondo, lo costrinse a un difficile viaggio attraverso la regione dei laghi, mentre il celebre Henry Morton Stanley organizzava il soccorso internazionale. L’esperienza africana trasformò Casati, che, senz’essere né uno scienziato né un intellettuale né un sognatore, di fronte allo sfruttamento da parte di schiavisti e mercanti d’avorio, abbracciò il modo di vivere dei «negri» e «il sogno di uno stato indipendente, di una repubblica di indigeni: l’Africa rigenerata e riscattata coll’Africa» (cfr. Mal d’Africa, Milano 1962, p. 437). Al successo del libro contribuì senza dubbio, a metà degli anni Trenta, la politica africana del fascismo, che avviava allora la guerra d’Etiopia. In Bacchelli, però – che confermò così la predilezione per figure donchisciottesche di sognatori ai margini della grande storia e la critica moralistica contro la civiltà occidentale nel suo complesso –, urgono interessi e idee non riducibili e forse opposti all’ideologia colonialista del regime, anche nell’idea di un diverso approccio «italiano» alla realtà del ‘Continente Nero’ (l’esploratore Giovanni Miani, il generoso Romolo Gessi, il missionario Daniele Comboni). In ogni caso non è un libro improvvisato: la reinvenzione dell’Africa (ove lo scrittore si recò solo nel 1970) mostra una notevole cognizione geografica, idrografica, storica ed etnologica, con inserti di fiabe africane e pagine paesistiche fortemente evocative. E simile a Casati fu probabilmente il Cristoforo Colombo di cui pure in quegli anni lo scrittore vagheggiò di riscrivere la vita e il sogno avventuroso, fermandosi però all’ampio studio preliminare dal titolo significativo: L’ammiraglio dell’Oceano. Breve storia di una rinuncia a scrivere la vita di Cristoforo Colombo (poi in Nel fiume della storia, Milano 1959, p. 81).
Le eterogenee ispirazioni che, come abbiamo visto, minavano l’unità dei romanzi di tema contemporaneo, caratterizzarono due romanzi brevi pressoché coevi, Il rabdomante (Milano 1936) e il già citato Iride (1937). Il rabdomante è un’operetta di carattere satirico, dichiaratamente ispirata al Gogol delle Anime morte, in cui la polemica antimoderna, condotta con gusto strapaesano, tende a farsi parabola dell’Italia contemporanea, e la promessa di restituire «l’antica prosperità» agli abitanti di Villamagna, sincera nel personaggio ingenuo del ‘rabdomante’, si risolve in una truffa gestita da un abile manipolatore. Iride invece è una storia d’amore, tratta da una vicenda di tradizione popolare e ambientata nella campagna veneta. La prima parte, di carattere idillico come un romance shakespeariano, prende luce da uno dei personaggi femminili più felici di Bacchelli, Iride appunto, immagine di vita e gioventù. La tragica fatalità della sua misteriosa scomparsa alla vigilia delle nozze spezza il romanzo in due parti, gettando un’ombra luttuosa sulla seconda, più patetica, che racconta le rabbie, le malinconie, le disperate gesta – un duello, la guerra – e infine la pacificazione del promesso sposo, Matteo Almeide. Nonostante qualche discontinuità e certo schematismo dei personaggi minori, Bacchelli raggiunge tuttavia quella maturità nel controllo dei mezzi espressivi e quella sicurezza di ispirazione che annunciano la prova maggiore del Mulino.
Gli anni del capolavoro
Nel 1937 Bacchelli era già considerato dal pubblico e dalla critica uno fra i maggiori autori del tempo. Restava però una perplessità, forse un equivoco di origine rondista – osservava Giacomo Debenedetti recensendo Iride – fra il ‘prosatore’ di grandi qualità espressive e stilistiche, capace di dominare ogni tema e ogni linguaggio, anche i più tecnici, e lo ‘scrittore’ dal quale invece si attendeva ancora un tema necessario, personale, culturalmente significativo. Non c’è dubbio che Il Mulino del Po rappresenti una straordinaria risposta a simili perplessità, la prova più convincente di Bacchelli e uno dei romanzi più importanti del Novecento italiano. Avviato già nel 1936, il gran romanzo assorbì tutta l’attività dello scrittore fino al 1940 («son più di tre anni che questo lavoro mi preclude ogni altra fonte di lucro», confessò a Baldini), scandito dalle folte puntate in rivista («mi avrai mandato ad inferos per lo spazio che ho usurpato sulla Nuova Antologia») e dalla ripubblicazione nei tre volumi in cui il romanzo è suddiviso: Dio ti salvi (Milano 1938), La miseria viene in barca (Milano 1939) e Mondo vecchio sempre nuovo (Milano 1940), i primi due pubblicati presso Treves, mentre il terzo con Garzanti. Tutta la complessa e variegata congerie di esperienze, ricerche, tentativi, idee, motivi finora tentati da Bacchelli, nel Mulino del Po sembra distendersi, ordinarsi, inverarsi intorno all’«idea poetica» che il titolo del romanzo riassume e che il prologo Quasi una fantasia così illustra: «Sono gli ultimi mulini natanti, gli ultimi degli ultimi: un tema, in cotesta loro decrepitezza, un’idea poetica, e tanto cara da avermi tenuto molti anni riluttante prima di metterci mano, anch’io rispettoso del lavoro fatto bene, ambizioso di tale onore anch’io, al pari dei valenti calafati» (Il mulino del Po, p. 2). Il mulino sul Po e il Po con il suo mulino, infatti, non sono soltanto la scena principale del romanzo, ma anche la pregnante immagine simbolica di una concezione del mondo e della storia, nonché, al tempo stesso, la struttura narrativa capace di ridurre la varietà a unità, accogliendo e ‘macinando’ senza dispersioni l’infinita quantità di episodi, personaggi, digressioni, riflessioni. Sono anche – possiamo aggiungere – l’inveramento di una scrittura, di una lingua e di uno stilismo che trovano la loro misura in questo congeniale soggetto, capace di assorbire anche le ‘piene’ e le digressioni. È questa, insomma, la forma-romanzo cui la prosa di Bacchelli, giunta a piena maturità e consapevolezza, sembrava attendere sin dall’inizio: un romanzo sostanziato di storia e di commento, fondato certo su Manzoni, ma ancor più sulla diacronia lunga delle generazioni come in Nievo, o in Tolstoj o in Thomas Mann.
Il romanzo racconta le vicende di una famiglia di molinari, gli Scacerni, sullo sfondo di cent’anni di storia italiana, dal 1812 al 1918, o da fiume a fiume: «Il Mulino del Po ha da comprendere un secolo, passato col fiume e come il fiume per la sua ruota laboriosa: dal tempo in cui gli italiani di Napoleone in Russia subivano al passaggio del fiume Vop un disastro particolare simile a quello imminente e generale della Beresina, fino al passaggio vittorioso del Piave, nella battaglia di Vittorio Veneto» (ibid., p. 6). Capostipite e memorabile personaggio è Lazzaro Scacerni, che sul gelido fiume russo riceve da un capitano ferrarese morente un lascito ereditario che, sia pur maledetto in quanto frutto di antiche profanazioni, al ritorno in Italia gli permetterà la costruzione di un mulino, il San Michele, e l’avvio di una difficile ma congeniale attività di mugnaio sulle rive ferraresi del Po. In quest’uomo forte e ostinato, di poche parole e di sano criterio, arguto e autorevole, gran lavoratore, ricco di un suo mondo interiore complesso e persino tormentato, Bacchelli ha certamente inteso disegnare, con successo, un tipo profondo e ideale del popolo italiano. Lazzaro e quelli dei suoi discendenti che più ne ereditano i caratteri – la nuora Cecilia, il giovane Lazzarino che muore a Mentana, la nipote Berta, il violento Princivalle dal pugno proibito, fino all’ultimo Lazzaro che muore nel Piave – costituiscono per così dire l’asse principale del racconto, insieme a coloro che invece – come il figlio Giuseppe detto Coniglio Mannaro – sembrano essere l’opposto del gran vecchio. Con essi però si muove una folla di memorabili personaggi di una storia locale – rurale, quindi ferrarese, poi emiliana e padana – sempre connessa per mille fili alla storia sociale, alle vicende politiche, alle trasformazioni del costume, al dibattito ideologico della nazione.
Sulla microstoria fluviale e locale si osservano quindi – con mirabile realismo e sensibilità sociologica oltre che storica e psicologica – le ripercussioni di quei grandi eventi che il commento del narratore talora illustra in excursus approfonditi e tuttavia non faticosi come nelle opere precedenti. Il mulino del Po riesce così nell’impresa, eccezionale sotto molti aspetti, di raccontare dal punto di vista locale e popolare un secolo di storia italiana in tutti i suoi momenti principali – l’avvicendarsi e lo strutturarsi delle amministrazioni, i rapporti economici e contrattuali, le gerarchie e l’intreccio dei poteri, il contrabbando e la clandestinità, il passaggio o il richiamo delle guerre d’indipendenza, il potere temporale dei papi, la religiosità e la miscredenza popolare, l’industrializzazione incipiente e le nuove mentalità imprenditoriali, le bonifiche e le alluvioni, il colera e la pellagra, la tassa sul macinato e i controlli della finanza, il diffondersi di nuove idee di giustizia ed emancipazione, le prime lotte sociali, i boicottaggi e gli scioperi agrari, la propaganda politica, e via dicendo. Tutto passa come il fiume, con i suoi giorni sereni e le sue piene paurose, le pause idilliche e le alluvioni devastanti, e anche i suoi cadaveri, come quello di Orbino, protagonista con Berta della principale storia d’amore, nell’ultimo libro della trilogia. La storia passa, è un sogno, non va avanti: la mole enorme del Mulino implica un giudizio decisamente negativo sui miti e sugli ideali progressivi, cui oppone la contemplazione della vanità, la pietas di ciò che si perde, la resistenza dei valori umani fondamentali e di una vitalità immediata che sopravvivono nel popolo, contro la follia delle ideologie, i nuovi ceti emergenti, la violenza delle tecnologie (i mulini a vapore…). Opera strutturalmente inattuale, ottocentesca nel tema e nella forma, Il mulino del Po ha il fascino monumentale di un addio a un mondo scomparso o in via di estinzione.
Guerra e dopoguerra
Lo scoppio della guerra segnò una forte cesura anche nel percorso artistico di Bacchelli, proprio quando il successo del Mulino giungeva a sanzionare definitivamente la sua fama con importanti riconoscimenti ufficiali, come la laurea honoris causa dell’Università di Bologna (dicembre 1940), la nomina all’Accademia d’Italia (aprile 1941), cui si possono aggiungere le prime monografie critiche (il Bacchelli di Mario Apollonio nel 1943 preceduto dall’importante saggio di Gianfranco Contini del 1941) e il susseguirsi delle ristampe. Importanti furono, in particolare, le tre raccolte che sistemarono per generi una già vasta produzione novellistica, tutte pubblicate per Garzanti a Milano nel 1942: le «favole lunatiche» di La fine di Atlantide, le «novelle giocose» di L’elmo di Tancredi, i «racconti disperati» di Il brigante di Tacca del Lupo.
Intanto, con il romanzo successivo al grande sforzo del Mulino, Bacchelli ripiegava su una vicenda interiore e vagamente autobiografica, contenente un’interessante riflessione sull’arte moderna. Ambientato in una mascherata Versilia d’inizio secolo a Forte dei Marmi, Il fiore della Mirabilis (Milano 1942) allude nel titolo a un effimero fiore notturno che simboleggia la vita e il fallimento artistico di Ruben, la cui fine sensibilità di malato non basta a far di lui un pittore come i suoi amati Degas, Renoir e Cézanne. Di questi anni è anche un’importante monografia su Rossini (Torino 1941), già commissionata allo scrittore dalla Nuova Antologia.
Nel nuovo conflitto mondiale Bacchelli avvertì sin dall’inizio caratteri nuovi e distruttivi, e in particolare la fine della civiltà europea. Il trauma sofferto per il disastro civile appare con immediatezza nei versi scritti ‘a caldo’ La notte dell’8 settembre 1943, pur nella consapevolezza della loro natura di vano sfogo retorico. Rifugiatosi in Friuli, oltre Tagliamento, Bacchelli vi trascorse molti mesi dell’occupazione tedesca, fra il 1943 e il 1944. Durante i bombardamenti, un incendio devastò nel 1943 la sua abitazione milanese distruggendo fra l’altro molti documenti e scritti. In Russia, sul Don, trovò la morte il fratello Giorgio.
Il passaggio della guerra non fu senza conseguenze sull’ispirazione bacchelliana, che perse certa ottimistica sicurezza facendosi più meditativa ed elegiaca, o viceversa più acre e pessimista nella polemica antimoderna. Quanto a bilanci, Bacchelli dette alle stampe La politica di un impolitico (Milano 1948), il cui saggio centrale Dieci anni di ansie 1935-1945 riflette sul trauma bellico che, mettendo in crisi la fiducia nella razionalità della storia, impone una nuova riflessione sulle responsabilità umane e non assolve neppure chi non si è macchiato di colpe («se mi voglio e mi si voglia concedere di essere stato, negli scritti, del tutto immune dall’insigne e spaventosa inezia delle ideologie nazifasciste, che se n’ha da inferire se non altrettanto insigne e più spaventosa e scorante impotenza e inefficacia di tali scritti, e insomma del mio lavoro e della mia vita?», in Nel fiume della storia, cit., p. 600).
Scrisse in quegli anni il primo dei romanzi ‘cristiani’, Il pianto del figlio di Lais, uscito dopo la Liberazione (Milano 1945), cui fecero seguito Lo sguardo di Gesù (Milano 1948) e, più tardi, I tre schiavi di Giulio Cesare (Milano 1957), Non ti chiamerò più padre (Milano 1959) e Il coccio di terracotta (Milano 1966). Si tratta di opere in forma storica ma di taglio per lo più psicologico, in cui Bacchelli traduce in forme dirette il suo cattolicesimo, di carattere intimista e problematico, prediligendo quelle figure minori che in un momento della loro vita hanno accostato le grandi figure della storia e della fede, restandone segnate con rimorso o tormento; il romanzo storico viene così trasceso in una riflessione sulla natura umana di ogni tempo. Il pianto del figlio di Lais nasce da un versetto del primo Libro di Samuele che ricorda il pianto di Faltiel, lo sconosciuto cui Saul, in odio a David, aveva dato in sposa sua figlia Micol e che poi piange il suo amore perduto e disperato, quando Micol viene infine restituita a David senza alcun riguardo per lui. Lo sguardo di Gesù è «un’operina di questo dopoguerra» che un lettore come Giorgio Bassani disse di preferire «al celeberrimo Mulino del Po», in cui «la religiosità di Bacchelli si è espressa con singolare, sorprendente sincerità». Invenzione mossa da un cenno dei Vangeli è la storia di Itamar, l’indemoniato di Gerasa guarito e tuttavia non voluto tra i suoi dal Salvatore: posseduto dal ricordo di quello sguardo e di quel rifiuto, come una vocazione mancata, Itamar sfiora perciò il destino di Giuda, ritrovando la salvezza solo al termine di un avventuroso percorso, ai piedi del morente sulla croce.
Gli ultimi decenni
Gli anni del dopoguerra furono ricchi di riconoscimenti pubblici: nominato membro dell’Accademia nazionale dei Lincei (1947), dell’Accademia della Crusca (1956), dell’Istituto lombardo di scienze e lettere (1964), Bacchelli ricevette inoltre vari premi e dal 1948 venne più volte candidato al Nobel (su proposta dei Lincei e di Contini). Parallelamente alla produzione creativa e saggistica (si ricordano nuove edizioni e saggi su Manzoni e Leopardi), si profuse in un complesso lavoro di recupero, revisione e riordinamento dei suoi scritti. Fondamentale fu l’avvio, nel 1957, di Tutte le opere di R. B., affidata da Mondadori a Maurizio Vitale (fino al 1975 sono usciti ventotto volumi). Anche il cinema si interessò a Bacchelli e in particolare al Mulino del Po: da Alberto Lattuada che nel 1949 ne ricavò un film di carattere neorealista, al fortunato sceneggiato televisivo diretto da Sandro Bolchi nel 1963.
Furono anni di viaggi: dopo l’Italia (raccontata nelle prose di Italia per terra e per mare, Milano 1952), Bacchelli visitò il Sudamerica, e due volte la Grecia per altrettanti libri (Viaggio in Grecia e Secondo viaggio in Grecia, Milano 1959 e 1963). Particolarmente significativo, nel 1965, il viaggio per mare negli Stati Uniti, dove fece visita alla sorella Beatrice, già sposata e poi religiosa carmelitana a Baltimora (1894-1991), e alla tomba del fratello Mario, morto nel 1951 in un incidente di moto a Memphis, in Tennessee, dove insegnava storia dell’arte.
Anche negli ultimi decenni l’attività letteraria di Bacchelli resta intensa e prolifica. Nei principali quotidiani e periodici pubblicò novelle, corrispondenze di viaggio e articoli di attualità (ordinati e raccolti nel 1968 nel secondo volume di Giorno per giorno: dal 1922 al 1966), e intanto si dedicò a nuovi romanzi: sei negli anni Cinquanta (La cometa, Milano 1951; L’incendio di Milano, Milano 1952; Il figlio di Stalin, Milano 1953; Tre giorni di passione, Milano 1955; I tre schiavi di Giulio Cesare, cit.; Non ti chiamerò più padre, cit.), tre nei Sessanta (Il coccio di terracotta, cit.; Rapporto segreto, Milano 1967; L’«Afrodite», Milano 1969), due nei Settanta (Il progresso è un razzo, Milano 1975; Il sommergibile, Milano 1978), fino a In grotta e in valle (Milano 1980).
Anche l’antico e mai dismesso interesse per il teatro riprese vigore negli anni Cinquanta, in una stagione che va da L’alba dell’ultima sera (rappresentato alla Fenice nel 1949) fino a Il figlio di Ettore e a La famiglia del caffettiere (andati in scena nel 1957). In taluni casi la scrittura teatrale influenzò la narrativa in modo esplicito, come in L’incendio di Milano (1952), che comprende inserti propriamente drammatici, e in Tre giorni di passione (1955), che riscrive la commedia del 1928 Bellamonte; ma più in generale il modello drammatico traspare sia nell’espansione spesso ipertrofica delle parti dialogate, sia nella struttura da dramma serio o da commedia di molti romanzi.
La continuità con la produzione d’anteguerra diviene comunque strutturale, manifestandosi nella ripresa e variazione di temi e motivi, a fronte di un’inventività inesauribile e di una meditazione sul tempo e la storia più complessa e sottile. L’ispirazione satirica, rivolta contro deliri e miti della modernità, riprende per esempio in La cometa (1951) lo schema del Rabdomante, ma è più aggressiva e cupa: la truffa è ordita sulla paura della fine del mondo – il passaggio ravvicinato di una cometa – ai danni di un’umanità immeschinita dalla guerra. Le contraddizioni del progresso, sempre in opposizione ai sentimenti umani assoluti, torna nel contesto anni Sessanta delle esplorazione astronautiche in Rapporto segreto (1967), e nel contesto anni Settanta dei disagi planetari, del traffico d’armi e droga in Il progresso è un razzo (1975).
Alcuni romanzi degli anni Cinquanta svilupparono una sofferta riflessione sulla guerra, partendo da fatti storici che tendono ad assumere valore esemplare e persino allegorico: così L’incendio di Milano (1952), ambientato nel periodo della guerra civile e dell’occupazione tedesca; e soprattutto Il figlio di Stalin (1953), che ricostruì in chiave chiaramente simbolica, ma con notevole capacità di resa, la vicenda misteriosa della morte di Jacob, primogenito di Stalin, nel campo di concentramento tedesco di Sachsenhausen. Su analoghe problematiche poggiano anche romanzi storici di notevole impegno come I tre schiavi di Giulio Cesare (1957) e Non ti chiamerò più padre (1959). Il primo, in chiave di meditazione precristiana, si sviluppa per invenzione a partire da una frase di Svetonio sui tre “servuli” che soli osarono salvaguardare il cadavere di Cesare, nel terrore seguito in Roma alla morte del dittatore. Il secondo ripercorre invece la storia di Francesco d’Assisi a partire da un’intelligente riscrittura di un testo storiografico e documentario, come già era accaduto per Mal d’Africa (il testo-canovaccio è qui la Nova vita di san Francesco d’Assisi di Arnaldo Fortini, Milano 1926), recuperando al tempo stesso ciò che la storia non dice, in particolare la figura del padre, Pietro Bernardone.
Del 1966 è Il coccio di terracotta, di nuovo d’ambientazione mediorientale: storia di un Giobbe sopravvissuto a se stesso che ritrova la forza e il gusto di vivere. In tanta varietà di ambientazioni e personaggi, non è difficile scorgere però alcune costanti della fantasia bacchelliana, sempre sorretta dalla forza di uno stile sicuro e tuttavia capace di gradazioni e dosaggi. Il tema originario della passione amorosa, per esempio, torna con frequenza ed è centrale in Tre giorni di passione, Rapporto segreto e L’«Afrodite».
Con Il sommergibile, che racconta di un viaggio marino attraverso il globo terrestre, Bacchelli prende congedo dalla scrittura narrativa riallacciandosi idealmente alle peripezie di Lo sa il tonno con cui aveva esordito. Opera di rarefatta e luminosa leggerezza, il viaggio attraverso scenari naturali di scarsa o nulla presenza umana – scogli oceanici, villaggi eschimesi, pressioni e correnti marine – è anche una parabola conclusiva su ciò che resta della storia degli uomini, in approdi emblematici come la Guyana dove fu un tempo relegato Dreyfus o la Sant’Elena di Napoleone. Ancor più visionario e leopardiano l’ultimo libro, il breve «romanzo preistorico» In grotta e in valle, immagine di una storia umana che dalle grotte di Lascaux si perde nelle domande ultime («Allora a che serve tutto e ogni cosa?», ibid., p. 96).
Negli ultimi anni le condizioni di salute peggiorano (inabilità e cecità), e con esse le condizioni economiche. Il Comune di Bologna, per soccorrere lo scrittore, ne acquistò nel 1984 le carte e la biblioteca (da allora conservate presso l’Archiginnasio). Proprio il caso Bacchelli contribuì in modo decisivo, com’è noto, all’approvazione della legge n. 440 dell’8 agosto 1985 (ma subito e tuttora nota come «legge Bacchelli») che prevede un assegno straordinario vitalizio a coloro che si sono distinti nel mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo e dello sport, ma che versano in condizioni di indigenza.
Lo scrittore, tuttavia, non poté di fatto usufruirne, poiché morì due mesi dopo, l’8 ottobre 1985, all’età di novantaquattro anni, in una clinica di Monza, assistito come sempre dalla moglie Ada.
Opere
Un ordinamento della vasta e complessa opera bacchelliana è la citata edizione di Tutte le opere di R. B., diretta da Maurizio Vitale per Mondadori, in ventotto volumi pubblicati tra il 1957 (Il mulino del Po) e il 1975 (Novelle). A tale edizione, che riporta le ‘versioni definitive’ di tante opere spesso riscritte dall’autore, vanno aggiunte le opere degli ultimi anni, come i romanzi, citati nel testo, Il progresso è un razzo: un romanzo matto (Milano 1975), Il sommergibile (Milano 1978) e In grotta e in valle: romanzo preistorico (Milano 1980). A eccezione di Il mulino del Po e Il diavolo al Pontelungo, poche opere sono state ripubblicate dopo la morte dello scrittore, e in edizioni non facilmente reperibili.
Fonti e Bibliografia
Strumento indispensabile è Uno scrittore nel tempo. Bibliografia di R. B., a cura di C. Masotti – M. Saccenti – M. Vitale, Firenze 2001, che integra lo storico lavoro di Vitale, iniziato negli anni Cinquanta e condotto fino ai Settanta. Tra gli studi, le monografie e i volumi collettivi dedicati, oltre a quelli citati nel testo, si ricordino almeno: Discorrendo di R. B., Milano-Napoli 1966 (con interventi di: A. Andreoli, G. Raimondi, S. Solmi, F. Gavazzeni, E.F. Palmieri, G. Contini, L. Blasucci, L. Ronga, C. Segre, M. Fubini); P. Pancrazi, Ragguagli di Parnaso, Napoli 1967, ad ind.; A. Dosi Barzizza, Invito alla lettura di B., Milano 1971; G. Contini, «Il Mulino del Po» e la carriera letteraria di R. B., in Id., Esercizi di lettura, Torino 1974, ad ind.; A. Briganti, B., Firenze 1980; R. B.: lo scrittore, lo studioso, Atti del convegno, Milano… 1987, Modena 1990; M. Vitale, Sul fiume reale. Tradizione e modernità nella lingua del «Mulino del Po» di R. B., Firenze 1999; M. Saccenti, B. Memoria e invenzione, Firenze 2000.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Biblioteca DEA SABINASylvia Plath- Lettera d’amore e altre Poesie.
Descrizione-Sylvia Plath, voce tra le più potenti e limpide della letteratura americana, dopo la tragica morte divenne rapidamente e a lungo rimase un simbolo delle rivendicazioni femministe. Educata ai rigidi valori della società statunitense, nella sua breve vita la Plath riuscì a coniugare potenza espressiva e realizzazione estrema di sé, evadendo dalle sbarre imposte dalla condizione di “moglie” e trovando proprio in questo tentativo di superamento la suprema forza creativa. Nei suoi versi il tono è assoluto, ogni parola, e ciò che essa rappresenta, non potrebbe essere altrimenti: «suono e senso» scrive Seamus Heaney nel brano che introduce il volume «si alzano come una marea dalla lingua per trascinare l’espressione individuale su una corrente più forte e profonda di quanto l’individuo potesse prevedere». In tutto il percorso lirico della Plath, e fino alle perfette composizioni di Ariel, istanze psicologiche, biografiche e poetiche si fondono con un tono di libertà e perentorietà unico, un senso di urgenza e spontaneità che emerge dalla disciplina di metro, metafore, rime con la potenza di un fiat, con l’euforia di una mente che crea e supera il dolore personale, per approdare a un sentimento stupefatto, meravigliato dell’esistere.
Breve Biografia
Sylvia Plath (Boston, 27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963) è stata una poetessa e scrittrice statunitense.Assieme ad Anne Sexton, la Plath è stata l’autrice che più ha contribuito allo sviluppo del genere della poesia confessionale,un genere di poesia sviluppatosi negli Stati Uniti negli anni Cinquanta e Sessanta in cui gli scrittori raccontano le proprie esperienze personali e i loro turbamenti interiori. Autrice anche di vari racconti e di un unico dramma teatrale a tre voci, per lunghi periodi della sua vita ha tenuto un diario, di cui sono state pubblicate le numerose parti sopravvissute. Parti del diario sono invece state distrutte dall’ex-marito, il poeta laureato inglese Ted Hughes, da cui ebbe due figli, Frieda Rebecca e Nicholas. Morì suicida all’età di trent’anni. Ecco di seguito una delle sue poesie più belle.
Sylvia Plath- Lettera d’amore e altre Poesie.
Lettera d’amore
Non è facile dire il cambiamento che operasti.
Se adesso sono viva, allora ero morta
anche se, come una pietra, non me ne curavo
e me ne stavo dov’ero per abitudine.
Tu non ti limitasti a spingermi un po’ col piede, no-
e lasciare che rivolgessi il mio piccolo occhio nudo
di nuovo verso il cielo, senza speranza, è ovvio,
di comprendere l’azzurro, o le stelle.
Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente
mascherato da sasso nero tra i sassi neri
nel bianco iato dell’inverno
come i miei vicini, senza trarre alcun piacere
dai milioni di guance perfettamente cesellate
che si posavano a ogni istante per sciogliere
la mia guancia di basalto. Si mutavano in lacrime,
angeli piangenti su nature spente,
Ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano.
Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio.
E io continuavo a dormire come un dito ripiegato.
La prima cosa che vidi fu l’aria, aria trasparente,
e le gocce prigioniere che si levavano in rugiada
limpide come spiriti. Tutt’intorno giacevano molte
pietre stolide e inespressive,
Io guardavo e non capivo.
Con un brillio di scaglie di mica, mi svolsi
per riversarmi fuori come un liquido
tra le zampe d’uccello e gli steli delle piante
Non m’ingannai. Ti riconobbi all’istante.
Albero e pietra scintillavano, senz’ombra.
La mia breve lunghezza diventò lucente come vetro.
Cominciai a germogliare come un rametto di marzo:
un braccio e una gamba, un braccio, una gamba.
Da pietra a nuvola, e così salii in lato.
Ora assomiglio a una specie di dio
e fluttuo per l’aria nella mia veste d’anima
pura come una lastra di ghiaccio. E’ un dono..
Io sono verticale
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
Succhiante minerali e amore materno
Così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
Né sono la beltà di un’aiuola
Ultradipinta che susciti gridi di meraviglia,
Senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
E la cima d’un fiore, non alta, ma più clamorosa:
Dall’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.
Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
Alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo, ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
Forse assomiglio a loro nel modo più perfetto –
Con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo e io siamo in aperto colloquio,
E sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
Finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.
(da “Lady Lazarus e altre poesie”, traduzione di Giovanni Giudici, con postfazione di Teresa Franco, 2023)
Limite (Febbraio 1963, scritta poco prima di morire)
La donna ora è perfetta
Il suo corpo
morto ha il sorriso della compiutezza,
l’illusione di una necessità greca
fluisce nei volumi della sua toga,
i suoi piedi
nudi sembrano dire:
Siamo arrivati fin qui, è finita.
I bambini morti si sono acciambellati,
ciascuno, bianco serpente,
presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
Lei li ha raccolti
di nuovo nel suo corpo come i petali
di una rosa si chiudono quando il giardino
s’irrigidisce e sanguinano i profumi
dalle dolci gole profonde del fiore notturno.
La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,
non ha motivo di essere triste.
E’ abituata a queste cose.
I suoi neri crepitano e tirano.
Sylvia Plath
Monologo delle 3 del mattino
È meglio che ogni fibra si spezzi
e vinca la furia,
e il sangue vivo inzuppi
divano, tappeto, pavimento
e l’almanacco decorato con serpenti
testimone che tu sei
a un milione di verdi contee da qui,
che sedere muti, con questi spasmi
sotto stelle pungenti,
maledicendo, l’occhio sbarrato
annerendo il momento
che gli addii vennero detti, e si lasciarono partire i treni,
ed io, gran magnanimo imbecille, così strappato
dal mio solo regno.
Sylvia Plath
Sylvia Plath e Ted Hughes, l’amore finito in tragedia
Quello tra Sylvia Plath e Ted Hughes non fu un rapporto felice, ma anzi tormentato e ambiguo, terminato definitivamente con il suicidio della poetessa
Sylvia Plath
Papaveri a luglio
Piccoli papaveri, piccole fiamme d’inferno,
Non fate male?
Guizzate qua e là. Non vi posso toccare.
Metto le mani tra le fiamme. Ma non bruciano.
E mi estenua il guardarvi così guizzanti,
Rosso grinzoso e vivo, come la pelle di una bocca.
Una bocca da poco insanguinata.
Piccole maledette gonne!
Ci sono fumi che non posso toccare.
Dove sono le vostre schifose capsule oppiate?
Ah se potessi sanguinare, o dormire! –
Potesse la mia bocca sposarsi a una ferità così!
O a me in questa capsula di vetro filtrasse il vostro liquore,
Stordente e riposante. Ma senza, senza colore.
Sylvia Plath
Ariel
Stasi nel buio. Poi
l’insostanziale azzurro
versarsi di vette e distanze.
Leonessa di Dio,
come in una ci evolviamo,
perno di calcagni e ginocchi! –
La ruga
s’incide e si cancella, sorella
al bruno arco
del collo che non posso serrare,
bacche
occhiodimoro oscuri
lanciano ami –
Boccate di un nero dolce sangue,
ombre.
Qualcos’altro
mi tira su nell’aria –
cosce, capelli;
dai miei calcagni si squama.
Bianca
godiva, mi spoglio –
morte mani, morte stringenze.
E adesso io
spumeggio al grano, scintillio di mari.
Il pianto del bambino
nel muro si liquefà.
E io
sono la freccia,
la rugiada che vola
suicida, in una con la spinta
dentro il rosso
occhio cratere del mattino.
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