La poesia di Elsa Morante rappresenta un unicum nel panorama dell’opera dell’autrice e in quello del Novecento italiano. Il volume, concentrandosi in particolare su Alibi e Il mondo salvato dai ragazzini, ne analizza, per la prima volta monograficamente, temi, stili e proposte, dimostrandone l’importanza non solo per una piena comprensione dell’autrice, ormai un classico del Novecento, ma anche per lo sviluppo della poesia italiana, alla quale la “poetica del positivo” di Morante offre un’interessante via di indagine ed espressione.
Carocci editore Viale di Villa Massimo, 47 00161 Roma
Biografia di Elsa Morante: una scrittrice del Novecento
Elsa Moranteè nata a Roma nel 1912 nel quartiere popolare di Testaccio. Comincia a scrivere fin da giovanissima, iniziando un’intensa attività letteraria che sarà la cifra della sua esperienza di vita. Inizia a comporre filastrocche e fiabe per bambini che vengono pubblicate su varie riviste, mentre nel 1935 inizia la sua collaborazione con i periodiciOggi e l’Eroica.
Il gioco segreto, 1941Una parte di questa grande mole di scritti viene raccolta e pubblicata nel 1941 in quello che è il suo primo libro: Il gioco segreto.
Nel 1941 sposa Alberto MoraviaIl 1941 è anche l’anno del suo matrimonio con Alberto Moravia, altro pilastro della letteratura italiana del XX secolo, che aveva conosciuto tramite l’amico Giuseppe Capogrossi. Grazie a Moravia, la Morante entra in contatto con scrittori di primo piano come Umberto Saba, Giorgio Bassani e, soprattutto, Pasolini, con cui inizia un’amicizia che durerà fino agli anni ’70.
Nel 1948 pubblica “Menzogna e sortilegio” e inizia a collaborare con la RaiDurante l’occupazione nazistadella Capitale, la Morante si rifugia presso Fondi, nel basso Lazio, dove comincia la stesura del suo primo romanzo, Menzogna e sortilegio, che viene dato alle stampe nel 1948 e grazie al quale vince il Premio Viareggio a pari merito con Aldo Palazzeschi. Dopo la pubblicazione del suo primo romanzo, la Morante inizia a collaborare con la Rai e per alcune produzioni cinematografiche, un interesse, quello per il cinema, che contribuisce a rinsaldare il rapporto con Pier Paolo Pasolini.
Morante e Moravia si separano nel 1957 esce il suo secondo romanzo, L’isola di Arturo, un grande successo sia di critica che di pubblico che le fa vincere il Premio Strega. I primi anni ‘60 segnano un momento di svolta nella vita della scrittrice: la separazione da Alberto Moravia segna l’inizio di un periodo d’instabilità cui contribuisce la relazione con il pittore newyorchese Bill Morrow, che muore tragicamente nel 1962.
Fonte: ansa
Elsa si avvicina al mondo della contestazioneSono anche anni di impegno politico: le inquietudini e i timori per un conflitto nucleare sono alla base di Pro e contro la bomba (1965) e della raccolta poetica Il mondo salvato dai ragazzini (1968). In questo periodo entra in contatto con esponenti del mondo della contestazione e guarda con attenzione al mondo delle borgate romane: sarà grazie a questo sguardo che compone La Storia che, pubblicata nel 1974, è la sua opera più discussa e importante.
Nel 1982 pubblica “Aracoeli” e tre anni dopo muore d’infartoDue anni dopo comincia la stesura del suo ultimo romanzo, Aracoeli, che viene pubblicato nel 1982. Nel frattempo, l’ossessione per la vecchiaia e gravi problemi fisici cominciano ad indebolirla sia a livello fisico che emotivo. Impossibilitata a camminare, tenta il suicidio nel 1983, ma viene salvata da una domestica. Viene quindi trasferita in una clinica di Roma dove muore d’infarto il 25 novembre del 1985.
2Lo stile dei primi anni
Stile dei romanzi ottocenteschi La produzione letteraria dei primi anni è caratterizzata da una forte impronta presa dal grande romanzo ottocentesco, in particolare quello francese e russo, in cui elementi reali e favolosi si intrecciano per dare corpo ad una narrazione che dai toni fanciulleschi, in cui gli avvenimenti del racconto sono appigli per l’indagine psicologica sui personaggi. Queste caratteristiche si spingono al massimo nei primi due romanzi della Morante.
2.1Menzogna e sortilegio: trama
Menzogna e sortilegio: la storia di una famiglia del Sud Italia Pubblicato nel 1948 il romanzo ricostruisce, guardandola all’indietro dal presente al passato, l’intricata storia di una famiglia di un paesino del meridione, narrata dalla voce di Elisa, unica superstite di questa saga. Il forte contrasto del romanzo si gioca sull’assoluta mediocrità dei protagonisti della storia, che narra di personaggi comuni, dei loro amori non corrisposti ed infelici, dei loro tradimenti e delle loro bassezze ma con uno stile sfarzoso, eccessivo, che si potrebbe addirittura definire barocco, che dipinge queste storie così comuni in toni grandiosi ed eroici, tingendole di magia.
2.2L’isola di Arturo: trama e analisi
L’isola di Arturo: la storia di un ragazzo che vive sull’isola di ProcidaIl secondo romanzo della Morante è pubblicato nel 1957 e narra la storia del giovane Arturo, un ragazzo nato e cresciuto sull’isola di Procida da cui non si è mai spostato. Figura oscura del racconto è il padre del ragazzo, che passa lunghi periodi lontano dall’isola per motivi misteriosi. Delusione amorosa di Arturo e svelamento della verità su suo padreLa svolta arriva quando il padre di Arturo torna a Procida in compagnia di un nuova e giovanissima moglie, la sedicenne Nunziatina, di cui Arturo s’innamora. La ragazza lo rifiuta e Arturo scopre che il motivo della lontananza del padre sono le sue avventure omosessuali: caduto il mito paterno, Arturo lascia finalmente l’isola per partecipare alla Seconda Guerra Mondiale.
Tema del fantastico e metafora del passaggio all’età adultaIn questo romanzo è il tema del fantastico che domina: fino al disvelamento finale Arturo vive appartato sull’isola, in un’atmosfera quasi da fiaba, mentre è la caduta della figura paterna che spinge il ragazzo all’abbandono definitivo, metafora del passaggio all’età adulta.
3-Il pensiero di Elsa Morante
Scritti modellati sulle esperienze autobiografiche della MoranteI suoi scritti sono modellati sulle sue esperienze autobiografiche, e le vicende biografiche dei protagonisti diventano strumento narrativo per delineare la strada da percorrere; in particolar modo è indagato l’affacciarsi dei ragazzi alla vita adulta e l’amore, che è spesso presente ma come necessità di colmare un vuoto affettivo più che come attaccamento sincero per un’altra persona.
“Infelici Molti” e “Felici Pochi”Nelle sue opere emerge una visione della realtà definita da due categorie di persone, gli Infelici Molti contrapposti ai Felici Pochi, portatori di rivolta e bellezza. Secondo la scrittrice nel linguaggio poetico ci sono gli strumenti per l’autore per combattere l’irrealtà data dalla frenesia e prepotenza della vita quotidiana, perché l’arte deve servire a questo: impedire la disgregazione della realtà e ridefinire i confini di quella nella quale si vuole vivere.
4-La storia: trama, temi e spiegazione
La Storia, 1974L’imponente romanzo, pubblicato nel 1974, risente del lungo processo di crisi personale e di rielaborazione intellettuale attraversato dalla Morante lungo tutto il decennio degli anni ’60. La crisi economica e sociale culminata nella stagione di contestazione del ’68 pone fine al periodo d’incanto italiano che, in qualche modo, aveva ritratto ne l’Isola di Arturo, e l’inizio di una nuova stagione piena d’inquietudini.
Il romanzo racconta la storia tragica di Ida RamundoImprontata al rifiuto del presente e alla contestazione del potere costituito La storia racconta la tragica storia di Ida Ramundo, insegnate di scuola durante gli ultimi anni del fascismo e l’occupazione nazista che, rimasta vedova e senza figli, finisce i suoi giorni in manicomio, un racconto prende le mosse da reali fatti di cronaca.
Fonte: ansa
La storia è narrata dal punto di vista di chi subisceObiettivo della Morante è di narrare la storia dal punto di vista degli ultimi, di chi subisce le decisioni prese dai potenti, e le cui immani tragedie personali non trovano posto nel racconto della Storia ufficiale, con la S maiuscola.
La criticaLa critica rimprovera alla Morante l’uso del registro narrativo in terza persona, che quindi ignora le nuove forme dello sperimentalismo e della neoavanguardia. A ciò si aggiunge il fatto che il desiderio di dipingere questa realtà degli ultimi, spinge la Morante ad accentuare i toni più del necessario, sconfinando quasi in forme narrative manieristiche che dipingono un quadro troppo artificiale. Questa la critica maggiore che viene mossa ad un romanzo che, in alcuni punti tocca vette d’intensità assoluta.
5Aracoeli: trama e significato
Aracoeli, 1982Pubblicato nel 1982, è l’ultimo romanzo scritto da Elsa Morante. Abbandonato il campo politico ed ogni illusione di cambiamento attraverso della realtà attraverso la letteratura, la scrittrice, ormai malata ed incupita dal pessimismo, scrive un romanzo che sembrariprendere, ma rovesciandola in senso negativo l’ambientazione de L’isola di Arturo.
La storia di un anziano omosessuale ossessionato dalla ricerca della madreRitorna al racconto in prima persona e anche qui il protagonista è un personaggio maschile. A differenza del romanzo giovanile però, qui il protagonista è un vecchio omosessuale solo e in avanti con l’età, alla ricerca di Aracoeli, la madre di origini andaluse. Questa ricerca viene continuamente frustrata da un susseguirsi di rivelazioni negative che riflettono tutto il pessimismomaturato dalla scrittrice negli ultimi anni di vita. Il protagonista si ritrova così disilluso e solo, senza alcun entusiasmo ed in attesa della morte, parola che chiude il romanzo.
Nino Pedretti, Poesie- Con un saggio di Giuseppina Di Leo
Nino Pedretti, Giovanni Maria, detto Nino. – Nacque a Santarcangelo di Romagna, il 13 agosto 1923, da Luigi Renato, impiegato comunale noto in paese come cultore di archeologia (sue ricerche del 1936 diedero impulso alla scoperta delle grotte di Santarcangelo) e studioso di storia locale, e da Maria Cola, insegnante di scuola elementare. Trascorse l’infanzia nella casa di via del Tavernello.
da Al Vòuṣi (1975)
Al chèṣi ad campagna
Sbriṣédi da la róspa
maṣèdi dri i garagg
al chèṣi ad campagna
agli à finéi.
I li smana pr’e’ mònd:
i ébi ti ẓardéin
al dvanaróli in mòstra
te salòt.
Dalvólti t’a li vèid
maṣèdi sòtta i cópp,
cmè pavaiòti;
ch’u li zirca i marchènt
par fè d’i albérgh.
Le case di campagna. Sbriciolate dalle ruspe │ nascoste dietro i garage│ le case di campagna │ hanno i giorni contati. │ Le smembrano a pezzetti: │ le vasche di sasso │ nei giardini │ e gli arcolai in mostra │ nel salotto. │ A volte le scorgi │ nascoste sotto i tetti │ come farfalle │ che i mercanti le cercano │ per farne degli alberghi.
I ẓugh
Pòsta che tótt
poeti e nò poeti
a sém te bèl d’l’inféran
u s piṣ a fè di ẓugh
ch’I daga aria.
Mè me mi bidèl
a i dégh ch’u m daga i metar:
déu, tréi, quatar e stènta.
E néun al savém
s’èl ch’e’ vu déi
e’ vó dí mèrda.
Acsè a la matéina
a éintar ti mi pan
cmè t’un scafandar
ch’a vagh ad che pòzz nir
ch’l’è la mi bènca.
I giuochi. Poiché tutti │ poeti e non poeti │ stiamo nel mezzo dell’inferno │ ci piace fare i giuochi │ che un po’ muovono l’aria. │ Al mio bidello │ io chiedo di darmi le misure: │ due, tre, quattro e settanta. │ E noi sappiamo │ che significa, │ significa merda. │ Così la mattina │ entro nei miei panni │ come dentro uno scafandro │ e scendo in quel pozzo di sterco │ che è la mia banca.
La pavunzéla
Mè u m piṣ e’ pasaròt
che quand ch’e’ nèiva
e’ ven tònda ma chèṣa
a saltaréll.
U m piṣ la zèlga
e’ tòurd, e’ culumbazz
e e’ meral stéid ad nir
se su bèch zal.
E u m piṣ e’ varẓléin
ch’l’è pu un burdlín
ad préima elementèra
ch’u s’vólta sempra indrí
par ciacarè.
E una massa u m piṣ e’ rusignul
ch’e’ chènta cumè un rè
tla su varẓéura,
e sinènca e’ stouran pastrouciòun
ch’e’ scaramaza,
mò piò ad tótt
u m piṣ la pavunzéla
ch’la caméina a pass lóngh
cumé una sgnòura.
La pavoncella. A me piace il passero │ che quando nevica │ si avvicina alla casa saltellando. │ E mi piacciono la cincia │ il tordo, il colombaccio │ e il merlo tutto in nero │ col suo becco giallo. │ Mi piace il vergellino │ che è un bambino di prima elementare │ sempre voltato indietro │ a chiacchierare. │ E molto mi piace il rosignolo │ che canta come un re │ chiuso tra il verde; │ e amo persino lo storno fracassone │ ma la mia diletta │ è la pavoncella │ che cammina con passo lungo │ come una signora.
L’òm dal putèni
Léu tla su véita
féina i zinquént’an
u n éva pansè mai
ad mètt so chèṣa.
E stéva te caséin
a lè, bón, a fè i sarvéizi.
«Al putèni – e gévva – sal
n’è te su lavòur
agli è invurnéidi,
mòsci ti su létt
se mèl ad pènza.
U t tòca fè pianín
s’t’vó fè l’amòur
quandè c’al dórma.
E pu, la sèira, mè
a i fazz e’ bagn.
Fa e’ còpp, fa e’ còpp
a i dégh dalvólti
in módi che l’acqua
la i córra zò bén
te mèẓ dla schéina».
L’uomo delle puttane. Lui in vita sua │ fino ai cinquanta │ non aveva pensato mai │ di mettere su casa. │ Stava lì, buono, │ nel casino a fare dei servizi. │ «Le puttane – diceva – se │ non sono impegnate sul lavoro │ sono stordite, │ mosce nel letto │ con il mal di pancia. │ Devi far piano│ se vuoi fare all’amore │ intanto che sono addormentate. │ Poi alla sera │ io faccio loro il bagno. │ Fa il coppo, fa il coppo │ dico delle volte │ in modo che l’acqua │ le corra giù per bene │ nel mezzo della schiena».
Al vòuṣi
Dalvólti da par mè
te lètt, t’un curidéur
t’un treno par Milèn
a sént al vòuṣi.
E alòura a m fazz
piò grand
ch’al sòuna dréinta
ad mè
cumè al campèni.
Le voci. A volte, per conto mio, │ nel letto, in un corridoio, │ in un treno per Milano │ ascolto le voci. │ E allora divento │ più grande │ perché risuonano dentro │ di me │ come campane.
E’ lavadéur
Me lavadéur
al dòni
scavcèdi cmè di
diéval
al sbatéva i pan
cumè dal frósti.
Al scuréva ad travérs
al s’aragnèva
e pu al cantéva insén
e l’éra di rógg d’amòur
cumè dal gati.
Il lavatoio. Al lavatoio │ le donne │ coi capelli scarmigliati come │ diavoli │ picchiavano coi panni │ come fruste. │ Parlavano scurrile │ litigavano │ e poi si mettevano a cantare insieme │ ed erano grida d’amore │ come delle gatte.
La ciòza
La cantéva d’amòur
ma la finestra
la cantéva lòngh, a gòula vérta
e l’éra una vòia ad mas-ci
avnéuda chi lo sa,
da sòtta tèra
so par al gambi, t’i ócc
te fiòur dla pènza.
La cantéva d’amòur:
una zurnèda ch’éurta.
Adés l’è cmè una ciòza
la puléss i burdéll
e la sta zétta.
La chioccia. Cantava d’amore │ alla finestra │ cantava a lungo, a squarciagola │ ed era una voglia di maschio │ venuta chi lo sa │ da sotto terra │ su per le gambe, agli occhi │ al fiore della pancia. │ Cantava per amore │ ed era una giornata corta. │ Ora ha l’aria d’una chioccia │ pulisce i bambini │ e sta in silenzio.
Sesso
Sesso par néun e vléva déi
figa te pógn, scòul,
sburédi tla latréina.
Par néun e vléva déi
la paéura d’l’impregn,
al mói ch’al scapéva de lètt
«Gino, sta bón a m’aracmand»,
senza mai gód, cumè una midizéina.
E pu avemaréi, patérr,
e’ savòun, la praticòuna.
E pansè ch’l’éra acsè dòulz
sal tedeschi te fióm:
a m guardéva cmè déi
«Tóla, tóla, puréin»
e pu al ridéva.
Sesso. Sesso per noi significava │ fica nel pugno, male di scolo │ e vizio di latrina. │ Per noi significava │ terrore di metterle incinte │ la moglie che sfuggiva dal letto │ «Gino, sta buono mi raccomando», │ senza godere mai, come una medicina. │ E poi pianti, preghiere │ sapone, la praticona. │ E pensare che era così spensierato │ farlo giù al fiume con le tedesche: │ mi guardavano come per dire │«Prendila, ragazzo, prendila» │ e poi si mettevano a ridere.
E’ lavòur
«E’ treno e’ pórta véa»
e’ gévva la mi mà
e mè a so andè ẓiréun
par la Germania
in zirca d’un lavòur.
A sémi ch’u l sa l’òs-cia
d’incrécch ad chi vaghéun,
avémi un pansir féss
par tótt e’ viaẓ:
turnè ma chèṣa.
Da par néun, dalòngh,
tra ẓénti furistíri
a s’apuzémi a la mèi
sa cal do trè paróli
cumè chi póri strópi
sòura i su bastéun.
«Ferstehen, ferstehen, polizai»
e lòu i s’guardéva cmè déi:
«Mo quést, da dòu ch’i vén».
Il lavoro. «Il treno porta via lontano» │ diceva mia mamma │ e io in Germania sono andato │ in cerca di lavoro. │ Eravamo una folla │ compressi nei vagoni │ e solo un pensiero │ in tutto il viaggio: │ tornare a casa. │ Soli, lontano │ fra genti forestiere │ ci appoggiavamo alla meglio │ sopra quelle due o tre parole │ come poveri zoppi │ sopra il bastone. │ «Ferstehen, ferstehen, polizai» │ e loro ci guardavano come a dire: │ «Ma questi, da dove vengono?».
Se la lèngua la mòr
Se la lèngua la mòr
se la s’invléna,
se la pérd i parént
cum una vèdva,
se la piénz da par sé
spléida te còr di vécc
tal chèṣi zighi,
alòura e’ paèis l’è andè
u n’à piò stòria.
Se la lingua muore. Se la lingua muore │ se si contamina, │se perde i suoi legami │come una vedova, │se piange in disparte │sepolta nel cuore dei vecchi │nelle case buie, │allora il paese è finito, │non ha più storia.
da Te fugh de mi paèiṣ (1977)
Dedica
Dòni ch’avéi tla bòcca un góst
cumé ad faréina gréiṣa
dòni criscéudi te scéur
cumé un pèn ad fadéiga
dòni de vént e de méur
dòni dla biènca róṣa de sònn
dòni dla brèṣa
dòni ch’avéi cuṣei ti dè
sta mi parlèda antéiga
dòni l’è sòtta e’ vòst zil ch’l’è nèd
tòtt sta fiuréida strèna.
Dedica. Donne che avete in bocca un gusto │ di acida farina │ donne cresciute al buio │ come pane di fatica │ donne del vento e del muro │ donne della bianca rosa del sonno │ donne di brace │ donne che avete cucito i giorni │ della mia parlata antica │ donne è sotto il vostro cielo │ che è nata questa mia fiorita.
La nèiva
Stasèira
ò vòia d’arcurdè
l’udòur dla nèiva
e al préim fróffli
inzèrti te zil
cumé di gazótt furistìr
ch’ì vén ènca da néun.
La neve. Stasera │ mi punge un ricordo: │ l’odore della neve. │E i primi fiocchi │incerti nel cielo │come uccelli forestieri │giunti anche da noi.
Ulisse
Ulisse, un chèn
l’avéva caminé par tótt al strédi
e l’éra avnéu a muréi
t’l’invéran dla su véita.
E adès l’éra e’ mònd
ch’u i scapéva véa
ti su pan ad luce.
Ulisse. Ulisse, un cane │ ramingo per il mondo │ era venuto a morire │ nel colmo del suo inverno. │ Ed ora eran le strade │ che gli correvan via │ in abiti di luce.
Al poeṣéi
Ò scrétt zinquènta poeṣéi par un léibar
zinquènta galéini biènchi te curtéil
e a li guèrd cumè una cuntadéina
che sàbat la li pórta me marchè.
Le poesie. Ho scritto cinquanta poesie per un libro │ cinquanta galline bianche nel cortile │ e le guardo come una contadina │ che sabato le porterà al mercato.
La matéina prèst
A m’arcórd la matéina se cafè
l’udòur di tréni, la nèbia
d’in èlt datònda al chèṣi
e’ sònn ch’e’ pastruciéva s’l’aria
e i ruméur dal curiri
sal pènzi pini ad studént
e e’ sòul ch’lavnéva so pianín
alzènd al brazi e la caméisa
rossa de dè
te zil ch’l’aveva frèdd
ancòura par la nòta.
La mattina presto. Ricordo la mattina col caffè │ l’odore dei treni, la nebbia │ in alto attorno alle case │ e il sonno che si impastava con l’aria │ e il rumore delle corriere │ gremite di studenti │ e il sole si alzava piano │ alzando le braccia e la camicia │ rossa del giorno │ nel cielo ancora infreddolito │ per la notte.
Paróli
A vagh scarabuciand
pruvénd sla vòuṣa
paróli vèci d’un témp
ch’al gévva ad dòni te d’agócc
ch’al mè pasi pianín
sòtta la pèla
e al m’à fiuréi
te sangh, sòtta i cavéll.
Paróli ch’agli à durméi
par an sòtta la zèndra
e adès a tir fura
me fugh de mi paèiṣ.
Parole. Vado scarabocchiando │ provando con la voce │ parole vecchie d’un tempo │ che le donne pronunciavano lavorando a maglia │ che mi sono passate piano piano │ sotto la pelle │ e mi sono fiorite │ nel sangue, sotto i capelli. │ Parole che hanno dormito │ per anni sotto la cenere │ e ora tiro fuori │ al fuoco del mio paese.
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Nino Pedretti
LE VOCI DI SANTARCANGELO DI ROMAGNA NELLA POESIA DIALETTALE DI NINO PEDRETTI*
Il 30 maggio 1981, all’età di 58 anni, veniva a mancare il poeta Nino Pedretti[1], «insegnante e glottologo, che nasce poeta in lingua e muore poeta in dialetto»[2], una delle voci più importanti della poesia dialettale romagnola.
Nino (Giovanni Maria) Pedretti (Santarcangelo di Romagna 1923 – Rimini 1981) faceva parte della generazione dei poeti «nati negli anni ‘20» (Asor Rosa), compagno di strada nonché fraterno amico di Tonino Guerra e Raffaello Baldini, «il singolare terzetto dei poeti di Santarcangelo di Romagna» (Isella)[3].
Il silenzio nel quale sembrava esser stata reclusa la memoria del poeta dopo la sua morte è stato rotto negli ultimi anni grazie alla scrupolosa ricerca che la studiosa Manuela Ricci ha condotto sia sulle carte private – conservate a Pesaro dalla famiglia[4] sia su quelle conservate nel fondo “Archivio Nino Pedretti” presso la Biblioteca Comunale di Santarcangelo di Romagna e nel fondo del padre Luigi Renato, conservato presso la Biblioteca Gambalunga, dove sono state rinvenute le poesie giovanili inedite pubblicate poi (non tutte) nel volume Le pepite d’oro, edito da Raffaelli[5]. Nel 2007, col titolo Al vòusi, e altre poesie in dialetto romagnolo, l’Einaudi pubblicava l’intera produzione dialettale edita di Nino Pedretti: l’opera prima Al vòusi, e le successive raccolte, Te fugh de mi paèis e La chesa de témp. L’edizione era arricchita dalla cura di Manuela Ricci, da una nota di Dante Isella e da uno scritto di Raffaello Baldini.
L’approccio di Nino Pedretti al dialetto è avvenuto non da subito: il contesto familiare (la madre insegnante e il padre non santarcangiolese di origine, scrittore e appassionato di storia locale) gli aveva permesso di potersi esprimere solo ed esclusivamente in italiano; il dialetto, documenta Raffaello Baldini, «lo imparò dagli amici giocando prima a palline e poi a pallone. Ma se per i molti altri della sua generazione il dialetto era, come si dice, la lingua materna, per Nino direi che era la lingua fraterna»[6].
Nell’immediato dopoguerra in Santarcangelo si assiste all’avvio di un’«avventura culturale» (Miro Gori) che andrà sotto il nome di E’ Circal de giudéizi («Il Circolo del giudizio»). Si trattò di un tentativo culturale, passato poi alla storia sotto questo nome per via dell’appellativo che bonariamente qualche compaesano rivolgeva a quel gruppo di giovani intellettuali – “Ve là, e’ circal de giudéizi” – che si riuniva sotto i portici del “Caffè Trieste” per discutere i più svariati temi culturali ed artistici (letteratura, cinema, arte, musica), insieme a quelli politici e sociali, e dove Pedretti avrà modo di esprimere il suo talento poetico e musicale[7].
Nel clima culturale di quegli anni, a partire dal 1946, il poeta santarcangiolese ottiene premi e riconoscimenti nazionali per poesie inedite in lingua, confluite in maggior parte nel volume Gli uomini sono strade[8].
Intorno alla metà degli anni Cinquanta Nino Pedretti parte per la Germania dove trova un impiego e perfeziona la lingua tedesca. In un carteggio con Rina Macrelli emerge, insieme al gusto per la novità verso una città da scoprire (Francoforte), anche una “leggera” «nostalgia»[9] per il paese e per gli amici.
In quello stesso torno di tempo, dopo il rientro in Italia, Pedretti unisce alla carriera di insegnante anche l’attività di traduttore. Se, come abbiamo detto, l’approccio al dialetto è subentrato presumibilmente in età adolescenziale, il passaggio successivo nella formazione poetica di Nino Pedretti, quello della scrittura in dialetto, risale al periodo immediatamente dopo il ’68; un passaggio cruciale in cui egli si fa portavoce degli emarginati e dei “diseredati”, di coloro che, non avendo un ruolo “attivo” nelle vicende della storia di quegli anni, rischiavano di restarne fuori: «Per parlare a loro nome bisognava parlare come loro: in dialetto. E così Nino cominciò a scrivere in dialetto» (Baldini)[10].
Ma, prima ancora che poeta dialettale, Nino Pedretti è valente studioso di questioni linguistiche: «già nel 1967 aveva frequentato un corso di fonologia a Edimburgo; nel 1972 ebbe l’incarico del coordinamento della Commissione docente nei corsi abilitanti per l’area linguistica; nel 1975 l’Università di Urbino gli affidò l’insegnamento di Glottodidattica nella Scuola di perfezionamento»[11].
A seguito dell’indagine linguistica e fonologica, durata diversi mesi, condotta col romanista Friedrich Schürr, Pedretti nota ancor più chiaramente, insieme alle molteplici potenzialità poetiche offerte dal dialetto, anche i limiti in cui esso era costretto. Si trattava cioè di far uscire il santarcangiolese dalle secche dell’«oralità», «per portare, trascinandolo alla legittimità della scrittura, il dialetto nel futuro»: una «scommessa» sulla quale punta anche l’amico Raffaello Baldini.
L’occasione per parlare delle «voci della poesia del dopoguerra» è fornita dal Seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola[12], tenutosi a Santarcangelo nel giugno del 1973 (l’anno prima era stato pubblicato I bu, di Guerra), in cui il nostro, sotto l’impulso di Tonino Guerra, accetta l’incarico di organizzare l’evento in collaborazione con Rina Macrelli.
Il tema sul dialetto resterà per Pedretti un discorso aperto che egli riprenderà a più riprese, fino al suo ultimo libro.
Il passaggio dalla fase di studio del dialetto alla produzione poetica vernacolare è breve.
Poeta «per necessità» (Bo), Nino si propone al pubblico nel 1975 con Al vòusi, perspicuo già nel titolo (‘le voci’), con il quale sembra dare volto alle voci registrate su nastro magnetico nel corso dell’indagine fono-linguistica. I temi trattati per parlare dei purétt sono espressi utilizzando la «lingua brutale» del sotto-proletariato e del proletariato, in una sorta di esperimento linguistico come testimonianza della loro condizione di sofferenza, fisica e morale. Tra rabbia, dolore, disperazione ma, anche, ironia, nella «nota allegra» del gusto di vivere, nella trivialità del sesso a buon mercato, un popolo di sconosciuti – giocatori, prostitute, infermieri, vecchi, matti, barbieri e lavandaie, per non citarne che alcuni – emerge come dal nulla reclamando diritto di identità. L’attenzione al dialetto copre, scopre e scorre dovunque creando qua e là specchi di vera poesia, come in Se la lèngua la mòr (Se la lingua muore).
In quei primi anni Settanta nasce «quella cosa» (Baldini) che andrà sotto il nome di «poesia neodialettale». La poesia in dialetto, ritenuta fino ad allora «ancillare o eccentrica», comunque minoritaria rispetto alla poesia in lingua, acquista dunque dignità di «lingua-poesia» (Pasolini), avviandosi dai piani «bassi ai piani alti» (Sereni). Se in Al vòusi, la poesia in dialetto di Pedretti «ha trovato da sé l’allineamento alle forme elette e alle esperienze della poesia in lingua […] è da notare come in tutta la poesia di Pedretti lo scarto tra originale e versione non è poi così forte, non tale almeno da ottundere l’incisività dell’impianto e la sicurezza di fondo»[13].
Per certi aspetti, Te fugh de mi paèis svolge un ruolo paritetico ad Al vòusi, cambiandone però la prospettiva, nel senso, come in altro modo precisa Pedretti, che le immagini non sono rivolte ‘verso’ il mondo ma esse provengono ‘dal’ mondo, nate da un’aria perduta e germogliate «nell’io profondo dove risuonava una meraviglia nutrita di dialetto». Così, mentre i versi di Al vòusi ricordavano la miseria del pane e recavano un’ansia di riscatto, in Te fugh de mi paèis lo sguardo si fa interiore, come ricerca della bellezza scomparsa, soffermandosi su tutto ciò che è in pericolo di scomparire, piante e animali inclusi:
Ecco, gli animali, mi sembra siano i più esposti, così come i deboli e gli emarginati, alla violenza e al male di vivere. Ogni giorno scompare una specie di volatile, di mammifero, di pesce. Pensare agli animali s’accomuna al sentimento di precarietà in cui da sempre, ma soprattutto oggi, viviamo.
La chèsa de temp (La casa del tempo), rappresenta l’ultima fatica di Pedretti, uscito alle stampe qualche mese dopo la sua morte «grazie alla fraterna cura di Raffaello Baldini» (Ricci). E, come il protagonista del monologo, Il racconto perduto, anche Nino sembra voler dire: «Così come Ulisse posso lanciare le mie pietre contro l’immenso gigante del tempo senza che nessuno se ne avveda». [14]
L’universo letterario di Nino, lo abbiamo visto, si compone di voci, di storie reali e fantastiche al tempo stesso, di paesaggi, oggetti quotidiani, di luce e di silenzi. Anzi, la luce predomina fino a farsi ossimoricamente «luce nira» (Linfoma).
La sua attenzione verso il mondo rimane costante (E’ mònd l’è una palìna ch’la s’incrépa) ed egli si fa partecipe della natura come in questi ultimi versi di Al nóvvli (Le nuvole): «nóvvli a n’e’ savéi che dréinta / a purté quèll di mi nónn / che adès l’è dvént / un udòur d’un pórt, / chissà, d’una furèsta». («nuvole non lo sapete che dentro / portate il mio fiato / e forse quello dei miei nonni / che adesso è diventato / un odore di porto, / chissà, d’una foresta»); la realtà si confonde con l’immaginazione e la fantasia torna a farsi sogno come in questi versi de La pasegièda (La passeggiata), che riporto in lingua: «e lì dove un tempo / chissà mai quali signori / portavano dentro le carrozze / tra siepi di rose, lì / vado guardando perché un cortile / mi faccia vedere attorno ad una statua / una fontana che sogna / d’avere dei capelli: o dei cavalli / davanti un portone verde / fuori dal tempo, come in una pittura»; gli oggetti raccontano storie di vita in un gioco di luci (come in I vasétt) e di ombre (come in E’ pióv, Piove: «Piove, di fuori il mondo / è pieno di bianco / di un’aria di cenere dolce / come di gigli. / La mia vecchia casa / si è fasciata di ombre: / i miei morti sono lì / che stanno seduti»).
Verrebbe da chiedersi, cos’è che fa soffermare l’attenzione del poeta su ciò che sta al limite tra interno ed esterno, al margine della realtà, ai bordi di un mondo? Una risposta potrebbe essere trovata nella ricerca che Pedretti ha condotto da sempre contro il gioco delle apparenze laddove, ad esempio, se un tetto di canne può significare l’inizio e consentire alla fantasia di andare oltre, al tempo stesso quella linea rappresenta punto ad limina di uno spazio privato dove allo sguardo soltanto è consentito addentrarsi per coglierne, per un attimo, il nucleo “intimo” attraverso la mediazione della parola (La pórta). Allo stesso modo, se da una parte troviamo le varietà legate a uno o più elementi eterei o solari del giorno e del sogno, dall’altra, un microcosmo di oggetti ci porta più vicino la gente e il vasto popolo di compaesani, di parenti e amici che hanno fatta propria la memoria di quegli oggetti, di un intero universo ineluttabilmente destinato a perdersi: «Dietro questa poesia c’è un tempo immemorabile che non ha mai avuto voce e qui sta la prima ragione del poeta Pedretti, immettere nel coro della poesia illustre un materiale di vita che stava per venire cancellato per sempre» (Bo).
In Dmanda (Domanda) leggiamo: «Duv’è ch’a s masarà / al poeséi ch’a n so bón ‘d scréiv / ch’a gli zarchédi tént / ch’l’è quèlli ch’a m pis ad piò / ch’a n li pòs lèz / gnénca se desideri?», («Dove si nasconderanno / le poesie che non sono capace di scrivere, / che ho cercato tanto, / che sono quelle che amo di più, / che non posso leggere / neanche col desiderio?».
Alla Dmanda si potrebbe rispondere che forse si sono nascoste in tutte le poesie da lui effettivamente scritte, visibili solo a chi sa guardare oltre le parole; che sono racchiuse nella conchiglia (La cunchéa), nelle piante strane di una stazione (La staziòun), nella bottiglina piena di aria verde (La bucìna), tra le ruotine dei bottoni nella scatola dei ditali (Tla scatla di didèl).
In La chèsa de temp il tempo è l’artefice, l’arciere pronto a scoccare l’ultimo dardo-attimo di silenzio, subissando ogni voce, totalizzante e privativo, uguale a sé soltanto quando entra dappertutto, come nella splendida E’ silénzi (Il silenzio).
Mi scriveva Nino nell’agosto del 1980: «La poesia si fa con tutto il corpo e non solo coi sentimenti. Voglio dire che il corpo e tutto quello che lo muove diventa poroso, filtra, lascia passare odori di cose. Gli occhi, le mani, il ventre, l’arcata del petto sono investiti da questo vento che ci scuote, che ci fa partorire i sogni».
Giuseppina Di Leo
[1] Il presente studio sull’opera del poeta dialettale Nino Pedretti riprende in parte un mio precedente lavoro già pubblicato su: «Incroci. Semestrale di Letteratura e altre scritture, diretta da Raffaele Nigro e Lino Angiuli, n. 20, Mario Adda Editore, luglio-dicembre 2009», 149-153; “Voci dal Novecento”, a cura di Ivan Pozzoni, vol. III, Limina Mentis Editore 2012.
[2] G. MIRO GORI, E’ circal de giudéizi; Santarcangelo di Romagna nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra. Catalogo della mostra: cinema e televisione, Santarcangelo di Romagna, 16 dic. 2000 – 7 genn. 2001, Clueb, Bologna 2000, 13.
[3] R. BALDINI, La nàiva. Versi in dialetto romagnolo. Introduzione di Dante Isella, Einaudi, Torino, 1982, V.
[4] Tra gli inediti conservati nell’Archivio Lina Pedretti Conti, Oggi ho alzato le mie bandiere, autografo, una poesia di cui, tra le carte del poeta, si conserva anche una successiva redazione, «una poesia in seguito ripresa col titolo In risposta all’accusa circa una mia pretesa povertà. Chi sono, non pubblicata. Sorta di autoritratto poetico di Pedretti: «Io sono ricco / perché porto con me / le acque verdi dell’Isar / e gli archi dei suoi grandi ponti. / Nessuno può dire che sono povero / perché ho visto splendere / gli alberi di melo vicino alla tua casa / che tu non conosci. / Io sono forte / perché ho alzato le mie bandiere / e fatto festa, oggi, un giovedì, / un giorno qualunque della settimana. / Io sono ricco / perché ho fiducia nella vita / e posseggo tante case d’amici veri. /Io sono ricco / perché sono me stesso / sono Nino Pedretti», in M. RICCI, E’ circal de giudéizi; Santarcangelo di Romagna nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra. Catalogo della mostra: letteratura, Introduzione di Renzo Cremante, Santarcangelo di Romagna, 16 dic. 2000 – 7 genn. 2001, Clueb, Bologna 2000, 61-62.
[5] N. PEDRETTI, Le pepite d’oro. Poesie 1946-1947, a cura di M. Ricci, Raffaelli Editore, Rimini 2003.
[6] R. BALDINI, Due tre cose su Nino e il dialetto, in N. Pedretti, Al vòusi e altre poesie in dialetto romagnolo, a cura di ; Nota di Dante Isella; Con uno scritto di Raffaello Baldini, Einaudi, Torino 2007.
[7] Fin da giovane, Pedretti aveva coltivato l’interesse per la musica e la danza. La tesi di laurea conseguita nel 1953 a Urbino, relatore Piero Rebora, verteva intorno alla poesia e musica nera d’America.
[8] N. PEDRETTI, Gli uomini sono strade, introduzione di G. Bàrberi Squarotti, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1977.
[9] L’esperienza lavorativa in Germania durerà alcuni anni a partire dal 1954, «tornerà nel ’57, e comincerà a lavorare in Italia insegnando inglese in vari istituti medi e dell’avviamento», in M. RICCI, E’ circal de giudéizi; Santarcangelo di Romagna nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra. Catalogo della mostra: letteratura, cit., 30-31-32.
[12] Cfr. Lingua Dialetto Poesia. Atti del Seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola, Santarcangelo di Romagna, 16-17 giugno 1973, prefazione di T. De Mauro, Edizioni del Girasole, Ravenna, 1976.
[13] V. SERENI, Come canta quel Nino, in «L’Europeo», 7 dicembre 1981, p. 123)
[14] Postume le pubblicazioni degli scritti in prosa: Teatro minimo. Scritto da Nino Pedretti per bambini dai quattro ai dodici-tredici anni, Centro Stampa del Comune, Pesaro [1982]; Nella favola siamo tutti. Fantastorie, a cura di R. Roversi, disegni di R. Vespignani, Maggioli, Rimini 1989; L’astronomo, introduzione di Franco Brevini, nota biografica di G. Fucci, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1992; Monologhi e racconti, con una nota di Manuela Ricci ed Ennio Grassi, Raffaelli Editore, Rimini 2011; Grammatiche. Monologhi e racconti inediti, , a cura di Tiziana Mattioli, trascrizioni di Elena Nicolini, Raffaelli Editore, Rimini 2012.
Nota.
Una versione più ampia di questo saggio è stata pubblicata sul sito di POLISCRITTURE.
Nino PedrettiNino Pedretti
Fonte Enciclopedia TRECCANI- PEDRETTI, Giovanni Maria, detto Nino. – Nacque a Santarcangelo di Romagna, il 13 agosto 1923, da Luigi Renato, impiegato comunale noto in paese come cultore di archeologia (sue ricerche del 1936 diedero impulso alla scoperta delle grotte di Santarcangelo) e studioso di storia locale, e da Maria Cola, insegnante di scuola elementare. Trascorse l’infanzia nella casa di via del Tavernello. Nel 1928 nacque sua sorella Giaele.
Dopo essersi diplomato presso l’Istituto per geometri di Rimini, nel 1942 fu chiamato alle armi a Trieste, da dove fuggì a seguito degli avvenimenti dell’8 settembre 1943 per far rientro a Santarcangelo e trasferirsi poi a San Marino. Ripresi gli studi, conseguì il diploma di maestro all’Istituto magistrale di Forlimpopoli.
È di quegli anni la frequentazione del gruppo di intellettuali santarcangiolesi denominato, con ironia bonaria da parte dei compaesani, E’ circal de giudéizi (Il circolo del senno), che si riunì dapprima in casa di Pedretti e poi al Caffè Trieste e di cui fu inizialmente animatore Tonino Guerra. Questi, fra il 1944 e il 1945, scrisse i testi poi inclusi in I scarabócc (1946), offrendo dignità poetica a un dialetto, quello santarcangiolese, fino a quel momento inedito dal punto di vista della scrittura letteraria.
Del gruppo fecero parte i poeti – a loro volta nel dialetto di Santarcangelo – Raffaello Baldini e Gianni Fucci, lo sceneggiatore e scrittore Flavio Nicolini, i pittori Federico Moroni, Giulio Turci e Lucio Bernardi. Nelle riunioni si discorreva di arti figurative e politica, musica e letteratura; si leggevano Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Éluard, García Lorca, Campana, Ungaretti, Montale, Quasimodo, Kafka, i narratori americani, Moravia. Intorno al 1949 il gruppo conobbe Elio Petri, con il quale collaborarono Fucci e Guerra per la realizzazione del cortometraggio Nasce un campione (1954). Iscrittosi alla facoltà di economia e commercio dell’Università di Ancona, Pedretti la abbandonò quasi subito per passare a quella di lingue straniere dell’Università di Urbino, dove si laureò, nel 1953, discutendo con Piero Rebora una tesi (Poesia e musica negra d’America) sul jazz come punto di arrivo di una tradizione poetico-musicale che ha inizio con i Negro spirituals e le ballades degli schiavi d’America. Agli anni universitari, fra il 1946 e il 1947, risalgono i primi testi poetici che, privilegiando il sermo brevis, risentivano certo delle letture compiute all’epoca, così come di una temperie già postermetica; letti alla cerchia di amici, furono pubblicati postumi con il titolo Le pepite d’oro (a cura di M. Ricci, Rimini 2003).
Dopo aver svolto il ruolo di supplente presso la scuola elementare di Santarcangelo, divenne insegnante alle elementari di Magenta. Abbandonato l’incarico, nel 1954 Pedretti si trasferì in Germania, dove trovò impiego in una banca a Francoforte e poté perfezionare la conoscenza della lingua tedesca.
Rientrato in Italia nel 1957, si recò a Milano, dove collaborò con alcune testate giornalistiche minori. Fece quasi subito rientro a Santarcangelo, ricominciando a fare supplenze nelle scuole. Dopo un breve periodo come addetto alle pubbliche relazioni presso l’Azienda nazionale idrogenazione combustibili (ANIC) di Ravenna, ricoprì provvisoriamente il ruolo di insegnante di inglese a Forlì. Ebbe inizio un periodo di relativa stabilità, cui contribuì anche il matrimonio nel 1959 con Lina Conti, con la quale si trasferì a Rimini. Nel 1960 nacque la figlia Daniela e nel 1961 ottenne la nomina di insegnante di ruolo a Cesena, dove andò a vivere: qui vide la luce la seconda figlia Anna Maria, mentre un terzo figlio, Paolo, nacque nel 1963.
Fra gli anni Cinquanta e Sessanta, insieme con l’approfondimento della lingua inglese, si era dedicato all’attività di curatore e traduttore di testi stranieri. Nel 1963 scrisse la prefazione a un’edizione scolastica del romanzo di J.K. Jerome, Tre uomini in barca (tradotto da Anna Maria Mezzolani Casadei). Assieme a Eloisa Paganelli curò poi l’antologia British children teach Italian children (Bologna 1966): pensato per le scuole medie, il volume raccoglieva testi scritti da bambini britannici, nella convinzione che le esigenze espressive e i contenuti psicologici che danno forma a un linguaggio siano i medesimi durante l’età puberale, in Italia come nel Regno Unito.
Nel 1967 frequentò un corso di fonologia a Edimburgo. L’anno successivo ricoprì l’incarico di insegnante di inglese al liceo di Pesaro, dove nuovamente si trasferì con tutta la famiglia. Nel 1972 ebbe l’incarico per il coordinamento della Commissione docente nei corsi abilitanti per l’area linguistica. A prosecuzione di questo iter didattico, nel 1975 l’Università di Urbino gli affidò l’insegnamento di «glottodidattica nella Scuola di perfezionamento» (Ricci, 2003, p. 12 n.).
Ma gli anni Sessanta e Settanta furono anche quelli della scelta del dialetto come lingua della poesia. Pedretti, che amava definirsi linguista, si impegnò in una ricerca sulla fonologia delle parlate locali, commissionatagli dal Comune di Santarcangelo e registrata su una serie di nastri. In tale percorso è da segnalare l’amicizia con il glottologo Friedrich Schürr, studioso di dialetti romagnoli, che veniva raccogliendo i risultati dei suoi spogli nel volume La voce della Romagna (1974).
Stimolato dalla frequentazione di Guerra e di altri poeti del circal (fra cui Baldini, che esordì nel 1976 con E’ solitèri), anche Pedretti scrisse quindi i suoi primi versi in dialetto, che apparvero nel bimestrale TuttoSantarcangelo fra il 1970 e il 1973: le poesie Trent’an (n. 33), La lèngua dla mi mà, Se la lèngua la mor (n. 60) e I nòm dal strèdi (n. 66). Sempre nel 1973 fu tra i partecipanti al Seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola, ideato da Nicolini e organizzato da Rina Macrelli (anche lei parte del circal), che si tenne il 16 e 17 giugno a Santarcangelo, dove lesse la relazione Poesia romagnola del dopoguerra (poi inclusa negli atti Lingua Dialetto Poesia, usciti nel 1976, con prefazione di Tullio De Mauro, per le Edizioni del Girasole di Ravenna). In un commento a margine della relazione di Augusto Campana toccò il problema della trascrizione del santarcangiolese, oggetto di discussione con Schürr (dalle posizioni del quale si era allontanato, prediligendo piuttosto una riduzione dei segni diacritici, e ricorrendo ai soli accenti acuto e grave).
Ma l’evento più importante fu la pubblicazione della prima raccolta in santarcangiolese, Al vòuṣi (Ravenna 1975), con prefazione di Alfredo Stussi. Le voci del titolo sono quelle della comunità paesana, in un’ottica di poesia civile intesa a dare la parola a chi, per imposizione storica, non l’ha mai avuta; sono voci di personaggi umili e non illustri, veicolo di espressione di una mentalità popolare creativa e fantastica. La scelta del dialetto, idioma letterariamente affrancato dall’oleografia municipalistica pur restando lingua quotidiana e semanticamente concreta, fu tanto più significativa quanto più si consideri che esso era lingua d’elezione a posteriori; in ogni caso non canale di recupero memoriale, né lingua rappresentativa di un’infanzia perduta (nonostante sia definito lèngua dla mi mà). La novità di tale scelta era inoltre in certa autonomia lessicale rispetto a Guerra, e nella semplificazione grafica dei dittonghi (evidenziata dallo stesso Pedretti in una Nota sul dialetto).
Tra febbraio e settembre 1974 Pedretti aveva pubblicato inoltre alcune prose satiriche sul mondo della scuola (La scuola, La carriera, La pensione e Lo stato giuridico finalmente) in TuttoSantarcangelo. Tre anni dopo diede invece alle stampe la raccolta Gli uomini sono strade (Forlì 1977); prefata da Giorgio Bàrberi Squarotti, che rilevava la maggiore ampiezza e distensione di discorso delle liriche in lingua rispetto all’essenzialità di quelle in dialetto, includeva poesie scritte fra il 1946 e il 1977, per alcune delle quali era stato insignito nel 1969 con il Cervo d’argento alla XIII edizione del premio Cervia di poesia.
A pochi mesi di distanza vide la luce la seconda silloge in santarcangiolese, Te fugh de mi paèiṣ (Nel fuoco del mio paese, Forlì 1977), con dedica alle donne ispiratrici della parlata in dialetto, che abbandonava la coralità di Al vòuṣi per farsi ricerca lirica di un senso fuggevole al di là delle cose, intuito in pochi dettagli come una finestra aperta, lo scorrere dell’acqua, un odore, un ricordo improvviso. Proseguendo l’attività di traduttore, pubblicò una versione in italiano del poema di Sylvia Plath, Three women (Tre donne. Un poema per tre voci, Forlì 1978).
Nel 1979 seguì l’organizzazione del Convegno nazionale di studi su Antonio Baldini, che ebbe luogo a Santarcangelo il 16 e 17 giugno. Per l’occasione preparò un’intervista a Marino Moretti, che non fece in tempo a realizzare per la malattia di quest’ultimo, morto poi a luglio. Grazie a una borsa di studio ricevuta dall’Experiment in international living, pochi giorni dopo si recò a Saint Louis per seguire un corso di perfezionamento sulla letteratura americana presso il Webster College. Visitò anche New York, da cui trasse l’immagine della ‘città verticale’. Tuttavia, come emerge da una lettera alla moglie del 25 giugno, gli Stati Uniti gli ispirarono da subito un sentimento di durezza e ostilità.
Al ritorno in patria il suo fisico era già minato dal linfoma che non molto tempo dopo lo avrebbe portato alla morte.
Ebbe comunque la forza di lavorare all’ultima raccolta in santarcangiolese, La chèṣa de témp (La casa del tempo, Milano 1981), in cui si avverte l’imminenza della fine, che uscì postuma, con uno scritto di Carlo Bo, per i tipi di All’insegna del pesce d’oro. Il manoscritto, la cui stesura fu accompagnata da uno scambio epistolare con Baldini sul problema della grafia del dialetto, piacque a Dante Isella (lettera a Pedretti, 3 novembre 1980).
Pedretti morì a Rimini il 30 maggio 1981.
L’anno prima era stato insignito del primo premio al concorso di poesia Romagna. Con una lettera del 12 marzo 1982, Ettore Bonora, ancora ignaro della sua scomparsa, ne elogiava la produzione in santarcangiolese.
Postumi uscirono, oltre a La chèṣa de témp e a Le pepite d’oro, una silloge di pièces per bambini fra i quattro e i tredici anni, Teatro minimo (Pesaro 1982), e una di ‘fantastorie’ risalenti al 1961, Nella favola siamo tutti (Rimini 1989). Videro poi la luce 37 racconti e monologhi con il titolo L’astronomo (a cura di F. Brevini – G. Fucci, Milano 1992), cui seguirono “Al vòuṣi” e altre poesie in dialetto romagnolo, a cura di M. Ricci, nota di D. Isella, postfazione di R. Baldini (Torino 2007); Monologhi e racconti, a cura di M. Ricci – E. Grassi (Rimini 2011) e Grammatiche: monologhi e racconti inediti, a cura di T. Mattioli (Rimini 2012).
Fonti e Bibl.: Archivio Pedretti, donato da Lina Conti alla Biblioteca comunale A. Baldini di Santarcangelo di Romagna.
Pelasgi. I poeti romagnoli in lingua, a cura di D. Argnani – G.R. Manzoni, Rimini 1985, pp. 35-56; G. Fucci, ‘E’ circal de giudéizi’…, in Diverse lingue. Rivista semestrale delle letterature dialettali e delle lingue minori, 1992, n. 11, pp. 37-46; N. Pedretti, L’astronomo, introduzione di F. Brevini, nota biografica di G. Fucci, Milano 1992; E’ circal de giudéizi. Santarcangelo di Romagna nell’esperienza culturale del secondo dopoguerra…, a cura di M. Ricci, Bologna 2000; M. Ricci, Prefazione a N. Pedretti, Le pepite d’oro, Rimini 2003; C. Martignoni, Per non finire. Sulla poesia di Raffaello Baldini, Pasian di Prato 2004, pp. 49-58; Per N. P., Atti del convegno, Urbino… 2012, a cura di G. De Santi et al., Rimini 2013.
Nino Pedretti nasce a Santarcangelo il 13 agosto 1923, figlio di un impiegato comunale e di una maestra elementare.
Dopo essersi diplomato presso l’Istituto per geometri di Rimini, nel 1942 viene chiamato alle armi a Trieste, da dove fugge a seguito degli avvenimenti dell’8 settembre 1943 per far rientro nella città natale e rifugiarsi poi a San Marino.
Ripresi gli studi nel primo dopoguerra, consegue il diploma di maestro presso l’Istituto Magistrale di Forlimpopoli; è in quegli anni che dà vita, assieme ad altri giovani intellettuali santarcangiolesi, al sodalizio che diventerà noto come E’ circal de’ giudéizi.
Decide di continuare gli studi iscrivendosi alla facoltà di lingue straniere dell’Università di Urbino, ove si laurea nel 1953 con una tesi sul jazz.
Successivamente si trasferisce in Germania. Rientra in Italia e insegna lingua inglese nei licei di Cesena e Pesaro. Nel 1975 pubblica Al vòuşi, la sua prima raccolta di poesie in romagnolo. L’opera riscontra un immediato successo.
Del dialetto romagnolo, Pedretti ha lasciato questa definizione:
«A differenza dell’italiano, arrotolato nei codici, levigato ed illustre, il fratello umile, il dialetto, è vissuto all’aperto come un’erba selvatica, bagnato dalla pioggia dei secoli e come un’erba pertinace di gramigna, si è arrampicato sui monti, si è addentrato nei minimi villaggi, ha coperto ogni metro di terra dove viveva la gente comune del lavoro e dei sacrifici.»
Sebbene Pedretti sia principalmente un letterato, l’esigenza di scrivere il dialetto santarcangiolese lo ha indotto ad affrontare l’analisi del proprio dialetto, confrontandosi anche con Friedrich Schürr, che Pedretti incontrò a Costanza. A partire da tale confronto egli definì alcuni criteri grafici che furono poi adottati da altri autori santarcangiolesi, e che trovano un fondamento obbiettivo anche negli studi più recenti[1].
Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne
Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donneè una ricorrenza istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, tramite la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha designato il 25 novembre come data della ricorrenza e ha invitato i governi, le organizzazioni internazionali e le ONG a organizzare in quel giorno attività volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della violenza contro le donne.
La data della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne segna anche l’inizio dei “16 giorni di attivismo contro la violenza di genere” che precedono la Giornata mondiale dei diritti umani il 10 dicembre di ogni anno, promossi nel 1991 dal Center for Women’s Global Leadership (CWGL) e sostenuti dalle Nazioni Unite, per sottolineare che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani. Questo periodo comprende una serie di altre date significative, tra cui il 29 novembre, il Women Human Rights Defenders Day (WHRD), il 1º dicembre, la Giornata mondiale contro l’AIDS e il 6 dicembre, anniversario del quando 14 studentesse di ingegneria furono uccise da un venticinquenne che affermò di voler “combattere il femminismo”.Il colore arancione è utilizzato come colore di identificazione della campagna, ogni anno concentrata su un tema particolare. Dal 2014 ha assunto come slogan “Orange the World”.
In molti paesi, come l’Italia, il colore esibito in questa giornata è il rosso e uno degli oggetti simbolo è rappresentato da scarpe rosse da donna, allineate nelle piazze o in luoghi pubblici, a rappresentare le vittime di violenza e femminicidio. L’idea è nata da un’installazione dell’artista messicana Elina Chauvet, Zapatos Rojos, realizzata nel 2009 in una piazza di Ciudad Juarez, e ispirata all’omicidio della sorella per mano del marito e alle centinaia di donne rapite, stuprate e assassinate in questa città di frontiera nel nord del Messico, nodo del mercato della droga e degli esseri umani.L’installazione è stata replicata successivamente in moltissimi paesi del mondo, fra cui Argentina, Stati Uniti, Norvegia, Ecuador, Canada, Spagna e Italia. La campagna in Italia viene in particolar modo modo portata avanti dal Centri antiviolenza e dalle Associazioni di donne impegnate nell’ambito della Violenza contro le donne.
La risoluzione delle Nazioni Unite del 1999
Nella risoluzione 54/134 del 17 dicembre 1999 viene precisato che si intende per violenza contro le donne “qualsiasi atto di violenza di genere che si traduca o possa provocare danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche alle donne, comprese le minacce di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia che avvengano nella vita pubblica che in quella privata”. La violenza contro le donne è ritenuta una manifestazione delle “relazioni di potere storicamente ineguali” fra i sessi, uno dei “meccanismi sociali cruciali” di dominio e discriminazione con cui le donne vengono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini per impedirne il loro avanzamento.
Richiamando quanto deliberato nella Terza e nella Quarta Conferenze mondiali sulle donne svoltesi a Nairobi nel 1985 e a Pechino nel 1995 con la partecipazione di rappresentanti di 140 nazioni, la risoluzione inserisce questo tema nella più ampia questione dei diritti umani, sottolineando come la violenza contro le donne sia un ostacolo al raggiungimento dell’uguaglianza, dello sviluppo e della pace[11], e come si renda necessaria l’adozione di misure volte a prevenire ed eliminare tutte le forme di discriminazione, specie per le donne maggiormente vulnerabili (appartenenti a gruppi minoritari, indigeni, donne rifugiate, donne migranti, donne che vivono in comunità rurali o remote, donne indigenti, anziane, con disabilità, e donne che si trovano in situazioni di conflitto armato).
Storia
Il 25 novembre del 1960 nella Repubblica Dominicana furono uccise tre attiviste politiche, le sorelle Mirabal (Patria, Minerva e Maria Teresa) per ordine del dittatore Rafael Leónidas Trujillo. Quel giorno le sorelle Mirabal, mentre si recavano a far visita ai loro mariti in prigione, furono bloccate sulla strada da agenti del Servizio di informazione militare. Condotte in un luogo nascosto nelle vicinanze furono stuprate, torturate, massacrate a colpi di bastone e strangolate, per poi essere gettate in un precipizio, a bordo della loro auto, per simulare un incidente.
Nel 1981, nel primo incontro femminista latinoamericano e caraibico svoltosi a Bogotà, in Colombia, venne deciso di celebrare il 25 novembre come la Giornata internazionale della violenza contro le donne, in memoria delle sorelle Mirabal.
Nel 1991 il Center for Global Leadership of Women (CWGL) avviò la Campagna dei 16 giorni di attivismo contro la violenza di genere, proponendo attività dal 25 novembre al 10 dicembre, Giornata internazionale dei diritti umani.
Nel 1993 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la Dichiarazione per l’eliminazione della violenza contro le donne ufficializzando la data scelta dalle attiviste latinoamericane.
DESCRIZIONE-Chi fosse quel Mario Monicelli che veniva a girare un film a Firenze nell’inverno del 1975, a Chiara Rapaccini non interessava. Al cinema preferiva il teatro e le sue crinoline. Fu però reclutata da Carlo Vanzina, allora giovane assistente alla regia, tra le comparse di Amici miei. Così, tra una scena e l’altra, conobbe Tognazzi, Blier, Noiret, Moschin. E il regista, un tipo burbero e sbrigativo, un po’ nazista nei modi, che aveva quarant’anni più di lei e uno sguardo magnetico. Si incontrano sul set, poi lui la invita a fare una passeggiata e infine a cena, e quando l’onda barbarica dei cinematografari romani riparte, qualcosa in lei è irrimediabilmente cambiato. Nel giro di poco tempo l’hippie fiorentina, poco più che ventenne, si ritrova a essere paparazzata come la nuova fiamma del Maestro, catapultata dalla semplice vita di provincia a quella della capitale del cinema. Fin dai primi giorni avverte il pericolo di essere risucchiata dai tentacoli della piovra, ma se a quell’uomo non può resistere, al suo mondo sì, perché semplicemente c’è in gioco la sua indipendenza, la sua realizzazione come donna e come artista. Chiara vuole disegnare, vuole dedicarsi all’illustrazione di libri, tuttavia come può riuscire a sopravvivere a questi mostri sacri, geniali, cinici e violentemente dissacranti? Tutti così pieni di sé e soprattutto così… vecchi? Sullo sfondo del periodo d’oro del cinema italiano, tra registi, attori e sceneggiatori, con le loro stramberie, scorrettezze e quotidiane cattiverie, un memoir che con veloci pennellate ricostruisce l’avvincente traiettoria di vita e amore di quella che è stata anche, ma non solo, la compagna di Monicelli. Un intreccio di storie pubbliche e private che faranno appassionare il pubblico femminile, il tutto raccontato con una ironia tagliente che non fa sconti a nessuno, con leggerezza, grande equilibrio e quella tenerezza che viene dal trattare la materia del cuore.
IL MIGLIOR ROMANZO STORICO POLIZIESCO DI QUESTO ANNO. The Times
Londra, 1782. È una tiepida sera d’agosto e i vialetti lastricati dei Vauxhall Pleasure Gardens sono gremiti di londinesi che passeggiano allegramente sotto le stelle. L’animo gravato da un doloroso segreto, il cappuccio del mantello ben calato sulla testa, Caroline Corsham, moglie del Capitano Henry Corsham, si addentra nel Dark Walk, un sentiero stretto tra gli alberi, dove ha appuntamento con una nobildonna italiana, Lucia di Caracciolo, che ha promesso di aiutarla. Lungo il sentiero incrocia una figura singolare, un uomo con un cappotto nero e una maschera da medico della peste, che procede a passo spedito nella direzione opposta. Giunta sul luogo dell’incontro, una scena raccapricciante si schiude davanti ai suoi occhi: l’amica è riversa a terra, ferita gravemente e agonizzante. Caro fa in tempo a raccogliere le sue ultime, misteriose parole: «Lui lo sa», prima di assistere alla sua morte.
L’indomani, interrogata da Sir Amos Fox, giudice di Bow Street, scopre con sgomento che la donna che credeva amica non era affatto una nobildonna italiana, né si chiamava Lucia di Caracciolo. Tra i pergolati di Vauxhall e nelle taverne e nei caffè di Londra era nota come Lucy Loveless, il nome di una prostituta d’alto bordo. Benché profondamente turbata, quando Sir Amos Fox liquida il caso come una faccenda di poca importanza, Caro insorge. Racconta dell’uomo col cappotto nero, del documento macchiato di sangue che giaceva accanto a Lucy e che sembra svanito nel nulla, ma le sue parole cadono nel vuoto. A Bow Street non si curano certo della morte di una giovane donna nota come prostituta. Caro decide allora di affidarsi a
. Ex giudice di Deptford, Child in passato ha goduto di prestigio e rispetto. Ora è ufficialmente un detective privato ridotto a dar la bassa lega e a perdere tempo tra i balordi del Red Lion, una taverna di furfanti da tempo immemorabile. Che il caso di Lucy Loveless, un caso che sembra celare un intricato mondo di artifici, inganni e vite segrete, possa rappresentare, finalmente, il suo riscatto?
Dai bordelli di Covent Garden alle eleganti case di Mayfair, “Figlie della notte” è un avvincente giallo storico ambientato nella Londra georgiana e, insieme, il vivido affresco di un’e¬poca in cui soprusi, vizi e bugie si annidano sotto la maschera della virtù.
AUTORE
Laura Shepherd-Robinson
Laura Shepherd-Robinson è nata a Bristol nel 1976. Ha una laurea in scienze politiche all’Università di Bristol e un master in teoria politica alla London School of Economics. Ha lavorato in politica per quasi vent’anni prima di dedicarsi alla scrittura. È autrice del romanzo Blood and Sugar, sempre con protagonista Caroline Corsham.
Giorgio Bassani -A sessant’anni dalla pubblicazione de Il giardino dei Finzi-Contini (1962) –
Il volto e lo sguardo – Articolo di Ottavio Di Grazia-
FERRARA-A sessant’anni dalla pubblicazione de Il giardino dei Finzi-Contini (1962)diventato, come è stato scritto, un luogo della memoria non solo dell’ebraismo italiano, ma dell’Italia del Novecento, e in occasione del compleanno di Giorgio Bassani (nato a Bologna il 4 marzo 1916), a Ferrara, città amata, sognata, trasfigurata, luogo «aperto, libero, assoluto», il 3 marzo prossimo sarà inaugurata una mostra di Georges de Canino a lui dedicata. 21 opere inedite che saranno esposte in “Casa Ariosto”, sede della Fondazione Bassani, che resterà aperta fino al 5 giugno 2022. La mostra, curata da Paola Bassani e da Francesco Franchella, si avvale del contributo del Comune di Ferrara e del patrocinio del Museo Ebraico della stessa città e delle Comunità ebraiche di Ferrara e di Roma e della stessa Fondazione Bassani. La mostra si intitola «Il volto e lo sguardo di Giorgio Bassani».
Vorrei soffermarmi, brevemente, sul titolo della mostra, perché, mi sembra colga pienamente le infinite sfaccettature che assume l’opera e la vita di Bassani, Il volto, ciò che di incatturabile ciascuno di noi possiede; lo sguardo che apre sul mistero della vita e, attraverso cui, questo stesso mistero entra in noi. Lo sguardo che si spinge verso l’ultimo orizzonte o quando cogli, magari nel riflesso di una vetrina, un altro sguardo che ci ri-guarda e diventa subito relazione, possibilità, infinito. Lo sguardo si muove sul mondo, sulla materia di cui è fatto, scorge luci e ombre e il senso della libertà della vita stessa. Georges de Canino ha composto le 21 opere dedicate a Bassani con colori, immagini e uso di materiali che compongono lo stesso tessuto della vita.
La fantasia e il dinamismo, la libertà inventiva e la fedeltà alla “terra” che sono la trama finissima stessa dell’opera di Bassani. Da questo punto di vista è bello sottolineare come vi sia una straordinaria coincidenza nel fatto che la mostra a lui dedicata sia esposta in “Casa Ariosto”, la cui opera era fatta della stessa materia dinamica. Lo sguardo, infine, non può non richiamare Dante e lo sguardo di Beatrice che indica, segna, apre all’infinito della bellezza e di una possibile salvezza. Lo sguardo di Bassani, il colore dei suoi occhi, celesti come il cielo, che de Canino riprende nelle sue opere, traccia anch’esso una via, apre su un orizzonte. Una ultima riflessione sul rapporto di Bassani con Ferrara. Ferrara, la piccola città di provincia avvolta in un sonno caliginoso; Ferrara le sue mura, la pianura che si stende attorno ad esse; il lento scorrere del Po; le atmosfere sognanti. Ferrara sta a Bassani, come Roma a Moravia e Trieste a Svevo. In questa città, Bassani ha consolidato i suoi personaggi, attraverso quella che egli stesso ha definito «la poesia delle strade».
Nell’esperienza e immaginazione di Bassani, la Ferrara del suo Romanzo di Ferrara, titolo complessivo della sua opera, è, non solo la patria degli antenati, ma un microcosmo in cui osservare – con gli occhi di un «grande intellettuale, di un letterato raffinatissimo» e di superbo scrittore – la condizione umana e le «vicissitudini della storia» che, nella sua narrativa, vanno ben al di là della pura geografia biografica e storicamente determinata. Infatti, se la sua opera riflette continuamente il senso e la portata di quanto viene elaborando alla luce di una memoria, crocianamente storica, essa prende forma attraverso la descrizione di fatti, esperienze, pensieri, slanci, utopie che, tra fantasia e realtà, sono la testimonianza di un percorso umano che si fa lascito letterario di straordinaria originalità e complessità. Insomma, diventa un “classico”, nel senso pieno della parola.
Biografia di GIORGIO BASSANI-Fonte Enciclopedia TRECCANI online-
Scheda scritta da Simona Costa
GIORGIO BASSANI-Primogenito di Angelo Enrico, proprietario terriero e medico, senza esercitare la professione, e Dora Minerbi, nacque il 4 marzo 1916 a Bologna.
Tra Ferrara e Bologna: gli anni di formazione
A Ferrara, città della sua famiglia appartenente all’alta borghesia ebraica, Bassani visse l’infanzia e l’adolescenza, con i fratelli Paolo e Jenny, nella grande casa al n. 11 di via Cisterna del Follo, dove abitavano anche i nonni paterni: Davide, stimato commerciante di tessuti, e Jenny Hannau. Frequentò il liceo classico «Ludovico Ariosto», dove ebbe per compagno Lanfranco Caretti e come docente di latino e greco Francesco Viviani, antifascista, sospeso dall’insegnamento nel 1936 (cui Bassani inviò una commossa lettera di solidarietà, e morto poi a Buchenwald nel 1945). Il docente di italiano, Francesco Carli, gli trasmise la passione per Dante, un cui celebre verso («L’essilio che m’è dato, onor mi tegno»), divenne poi il motto del protagonista di Dietro la porta. Allo studio, compreso quello del piano, poi surclassato dall’amore per la letteratura, si accompagnava la passione per il tennis, con la frequentazione, assieme tra l’altro a Michelangelo Antonioni, del Tennis Club Marfisa d’Este, punto di incontro della borghesia ferrarese. Nel 1934, rompendo la tradizione familiare (padre, nonno materno, Cesare, e zio materno, Giacomo, tutti medici) si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Bologna, quotidianamente raggiunta in treno con l’amico Caretti. Fu proprio la campagna emiliana, inquadrata dal finestrino di un treno in una poesia giovanile (Verso Ferrara, ma originariamente Verso F.) e rivisitata tramite le luci e i colori dei pittori ferraresi e bolognesi del Cinque e Seicento, a suggerirgli i toni dell’ispirazione lirica. L’ambiente bolognese rappresentò per lui anche una scuola letteraria, con i nomi di Riccardo Bacchelli, Leo Longanesi che lì aveva fondato L’Italiano, e Giuseppe Raimondi, che lo introdusse ai classici francesi del secondo Ottocento (Flaubert, Rénard, Maupassant, Zola). Con Attilio Bertolucci, Augusto Frassineti, Franco Giovanelli, Antonio Rinaldi e i fratelli Francesco e Gaetano Arcangeli, a Bologna frequentò anche un circolo di intellettuali distanti sia dai rondisti sia dagli ermetici. Nell’intersecarsi di rapporti letterari e artistici, la mediazione pittorica, fondamentale nel suo approccio al reale, molto si avvalse dell’opera dell’amato Giorgio Morandi e soprattutto delle lezioni di Roberto Longhi (cfr. Un vero maestro, in Di là dal cuore, in Opere, Milano 1998, pp. 1073-1077), conosciuto sul finire del ’35 e con cui instaurò una profonda e ammirata amicizia, protratta anche sui campi da tennis. Insieme a Longhi, punto di riferimento fu Benedetto Croce, il cui magistero idealistico fu da lui sempre riconosciuto centrale per la propria formazione, e nella cui religione della libertà si identificò totalmente. Nel maggio 1935 sul Corriere Padano di Ferrara, fondato nel 1925 da Italo Balbo e diretto da Nello Quilici, aperto a giovani quali Antonioni, Antonio Delfini, Elio Vittorini e Caretti, pubblicò il suo primo racconto, III classe, ispirato all’esperienza di pendolare e destinato a inaugurare una collaborazione, con racconti, poesie, articoli e traduzioni, protratta fino al novembre 1937. Nel giugno 1939 si laureò con Carlo Calcaterra discutendo una tesi su Niccolò Tommaseo: oltre a escluderlo dalla Biblioteca comunale, le leggi razziali lo costrinsero a insegnare nella scuola israelitica di via Vignatagliata, nel ghetto di Ferrara.
Nel 1940 pubblicò a sue spese a Milano, presso l’Arte grafica A. Lucini e c., Una città di pianura, firmandosi, ancora per le restrizioni razziali, con lo pseudonimo di Giacomo Marchi, usato anche per alcune collaborazioni giornalistiche, unendo il cognome della cattolica nonna materna, Emma Marchi, al nome dello zio Giacomo Minerbi, poi protagonista dei versi di Storia di famiglia, in Epitaffio. Il libro, dal titolo significativo, raccoglieva, oltre al testo eponimo, altri quattro racconti, Omaggio, Un concerto (già apparso in Letteratura nell’aprile del 1938), Rondò, Storia di Debora (prima versione di Lida Mantovani) e una poesia, Ancora dei poveri amanti, poi passata nella raccolta Storie dei poveri amanti. Si avviava così il tentativo di ricostruire secondo una personale topografia del cuore una città di provincia, la qui ancora innominata Ferrara, strappata ai mitologismi di «città del silenzio» di quel d’Annunzio da lui considerato non poeta ma letterato, e resa credibile al lettore pur nel nesso realtà-fantasia in cui era fatta rivivere. Importante fu, tra le amicizie ferraresi, la dichiarata influenza di un gruppo di insegnanti sardi formatisi a Pisa, tra i quali Giuseppe Dessì e Claudio Varese. Fu proprio Dessì che suggestionò la stesura di Un concerto, leggendogli via via le pagine di San Silvano, romanzo che stava scrivendo e per cui nel 1939 Gianfranco Contini parlò di un Proust sardo.
L’antifascismo, l’arresto e la scelta di Roma
Gli anni fra il 1937 e il 1943 furono segnati dall’attività antifascista clandestina che, avviata dall’incontro nel 1937 con Carlo Ludovico Ragghianti, tramite il quale conobbe anche Ugo La Malfa e Ferruccio Parri, doveva salvarlo dalla disperazione in cui vide sprofondare tanti ebrei italiani traditi dal fascismo, compreso suo padre. Arrestato nel maggio 1943, Bassani fu scarcerato il 26 luglio: restano, di quella esperienza, le lettere scritte ai familiari (Da una prigione), poste poi in apertura del volume saggistico Di là dal cuore (Milano 1984). Il 4 agosto si sposò a Bologna con Valeria Sinigallia e decise di lasciare Ferrara prima per Firenze, dove si legò di amicizia con Manlio Cancogni, e poi, nel dicembre 1943, per Roma che diventò la sua città di adozione, percorsa in bicicletta come già la sua Ferrara e continuata sempre negli anni a scoprire con un gusto da flâneur: nella camera da letto della sua ultima casa in Trastevere posavano i fogli della grande mappa settecentesca di Roma di Giambattista Nolli, invito a mattutine esplorazioni.
Nell’estate del 1944 si spostò a Napoli, dove già si erano rifugiati tra l’altro Leo Longanesi e Mario Soldati, con cui Bassani sviluppò un forte sodalizio intellettuale, e da dove scrisse qualche articolo per l’edizione romana di L’Italia libera, quotidiano del Partito d’Azione (Pd’A). I rapporti con Napoli si mantennero nel tempo, specie con la collaborazione, tra il ’46 e il ’51, mediata dal direttore Carlo Zaghi conosciuto a Ferrara, con il quotidiano di ispirazione liberale Il Giornale, attivo dal 1944 al 1957 e che si avvalse anche della firma di Benedetto Croce. Il 1945, anno in cui nacque la figlia Paola, cui seguì, nel 1949, Enrico, fu anche l’anno di uscita delle sue traduzioni di Vita privata di Federico II di Voltaire e Il postino suona sempre due volte di James Cain, ma soprattutto di Storie dei poveri amanti e altri versi, edite a Roma da Astrolabio, ristampate e ampliate l’anno successivo. A queste liriche, positivamente recensite da Leonardo Sinisgalli (v. Il Costume politico e letterario, 29 settembre 1945, p. 14) ed Eugenio Montale (Il Mondo, 1° dicembre 1945, p. 6), fecero seguito nel 1947, sempre per l’editore Ubaldini, i versi di Te lucis ante. 1946-1947, dal titolo ispirato all’omonimo canto liturgico intonato nel canto VIII del Purgatorio e di cui ventun poesie confluirono con varianti nella successiva raccolta mondadoriana del 1951, Un’altra libertà. Le tre raccolte furono riviste e riunite in L’alba ai vetri. Poesie 1942-50, pubblicata da Einaudi (Torino 1963).
In un Poscritto inserito ne L’alba ai vetri e risalente a un testo del 1952, edito su Paragone-Letteratura nel 1956, Bassani ripercorreva la propria nascita alla poesia, con un richiamo d’esordio a Longhi («Critici si nasce: poeti si diventa – ha detto Roberto Longhi»), e segnava il passaggio da un iniziale approccio lirico mediato dall’arte e dalla cultura e affidato a paesaggi amati e dunque idilliaci, alla volontà di fare i conti con una realtà impressa dalla guerra e dalla prigione. Se infatti tali esperienze segnavano i versi di Te lucis ante, considerati dallo stesso autore fondanti per la sua scrittura, non solo lirica, già Storie dei poveri amanti, aperte dai temi della memoria e del rimpianto («Lascia ch’io ti ricordi»), dell’assenza e del silenzio, su un sostrato ermetico e montaliano, trovavano accenti funerei, come nei versi di Cena di Pasqua, cui si ricollegò poi un episodio del Giardino dei Finzi-Contini. E gli altri versi della raccolta del ’45 erano ispirati da un ragazzo morto nelle quattro giornate napoletane del settembre 1943 e dalla tomba, presso il lago di Albano, di un soldato tedesco. La vocazione lirica, preminente a quest’altezza cronologica con modelli quali Montale, Saba, l’Ungaretti religioso, ma anche poeti minori del tardo Ottocento come Pompeo Bettini e Francesco Gaeta, cari entrambi a Croce, rimase comunque fondamentale per chi come Bassani amò sempre definirsi, al di là della connotazione retorico-stilistica, sostanzialmente un poeta.
Iscrittosi al Partito socialista italiano (PSI), dopo il congresso del 1946 del Partito d’Azione e le sue fratture interne, allargò nel frattempo il cerchio delle amicizie, con la conoscenza di Pier Paolo Pasolini, Cesare Garboli, Niccolò Gallo e la moglie Dinda, i coniugi Maria e Goffredo Bellonci e la principessa Marguerite Caetani che, dopo l’esperienza della rivista parigina Commerce, fondò nel 1948 il cosmopolita semestrale Botteghe Oscure (dal nome della via sede della redazione, a palazzo Caetani), che divulgò importanti autori sia stranieri sia italiani e in cui Bassani ebbe fino alla chiusura (1960) il ruolo di redattore. Oltre all’impegno didattico, che lo vide insegnare presso l’istituto nautico di Napoli e alla scuola d’arte di Velletri, venne avviandosi l’attività di sceneggiatore, con collaborazioni tra l’altro con Soldati, Antonioni, Blasetti e Zampa: un’esperienza che influì anche sulla sua tecnica narrativa e in cui coinvolse l’amico Pasolini, iniziandolo così al cinema, sin dalla sceneggiatura nel 1954 di La donna del fiume di Soldati. Nel ruolo di un professore, fu anche attore ne Le ragazze di piazza di Spagna (1952) di Luciano Emmer.
Gli anni Cinquanta e la nascita delle «Storie ferraresi»
Nel 1953 Sansoni pubblicò La passeggiata prima di cena che riuniva tre racconti apparsi in Botteghe oscure: il racconto eponimo del 1951 (ma di cui una prima stesura risaliva al 26 agosto 1945 su Domenica), Storia d’amore, rielaborazione del 1948 di Storia di Debora, e Una lapide in via Mazzini, edita nel 1952. Nell’aprile 1954 apparve nella sezione letteraria di Paragone, la rivista di Anna Banti e Roberto Longhi – di cui era divenuto redattore nel 1953 e che lasciò definitivamente nel 1971 – Gli ultimi anni di Clelia Trotti, rifiutato da Marguerite Caetani e poi in volume nel 1955 a Pisa per Nistri-Lischi. Questi racconti, insieme a Una notte del ’43, uscito nel 1955 sempre su Botteghe oscure e da cui nel 1960 l’esordiente regista ferrarese Florestano Vancini trasse il film La lunga notte del ’43, con Pasolini tra gli sceneggiatori, composero le Cinque storie ferraresi, pubblicate nel 1956 da Einaudi e insignite con il premio Strega, ma destinate a una fitta serie di revisioni nella protratta rielaborazione dello scrittore del suo Romanzo di Ferrara. La più rivisitata tra queste storie, da un primitivo abbozzo del ’37 fino all’edizione definitiva del 1980, fu il racconto titolato nel volume del ’56 Lida Mantovani (l’originaria Storia di Debora). Con queste cinque storie che composero poi Dentro le mura, primo libro del Romanzo di Ferrara, Bassani aveva comunque ritrovato la sua città, finalmente nominata per esteso dopo un precedente pseudoanonimo F.
Di grande impatto visivo è la scena di apertura de La passeggiata prima di cena: un racconto che nella sua stessa struttura intendeva asserire, su parole d’autore, che «il passato non è morto […] non muore mai» (Laggiù, in fondo al corridoio, in L’odore del fieno, in Opere, cit., p. 939). Da una vecchia cartolina ingiallita, ricavata da una fotografia, rinasce corso Giovecca, principale arteria cittadina, quale era sul finire dell’Ottocento: in questa lunga carrellata cinematografica, prendono vita l’apprendista infermiera Gemma Brondi, figlia di contadini, e il dottor Elia Corcos con la sua bicicletta. E di Elia, vanto di Ferrara nella rivalità con Bologna e il suo Murri e controfigura del nonno dello scrittore, Cesare Minerbi, presente poi nei versi de La cuginetta cattolica (in Epitaffio), seguiremo le tracce dal lontano 1888, data del suo fidanzamento con Gemma, fino alla deportazione in Germania, nel ’43, insieme con il figlio Jacopo. Ma le strade di Ferrara sprigionano anche tutti gli altri personaggi di queste storie: da Lida Mantovani, nelle sue vicende sentimentali prima con il ricco borghese contestatore David, che la lascia incinta, poi con l’onesto, pacato rilegatore Oreste Benetti, che diverrà suo marito, a Geo Josz che, ricomparso a Ferrara nell’agosto 1945, unico superstite dei 183 ebrei deportati nell’agosto 1943, vede il proprio nome sulla lapide che un operaio sta murando in via Mazzini. E ancora Clelia Trotti, la vecchia maestra socialista in cui è proiettata la figura di Alda Costa, frequentata fra il 1936 e il ’43 dall’autore che, a sua volta, presta alcuni dei propri connotati al deuteragonista, Bruno Lattes, e Pino Barilari, il paralitico farmacista impietrito testimone dai vetri di una finestra (immagine cardine, di partecipazione/esclusione, nella narrativa di Bassani) dell’eccidio fascista compiuto sul marciapiede di fronte a lui il 15 novembre 1943 (ma dicembre, nel testo): eccidio di cui al processo non rivelò tuttavia le responsabilità, trincerandosi dietro un lapidario «dormivo».
Nel 1955 con Umberto Zanotti Bianco, Filippo Caracciolo, Elena Croce e altri, Bassani fu tra i fondatori dell’associazione «Italia Nostra» e nel 1956 divenne consulente editoriale della Feltrinelli, promuovendo vari autori sia stranieri, come Jorge Luis Borges, Edward Morgan Forster, Ford Madox Ford, Karen Blixen, sia italiani, quali Cancogni, Delfini e Franco Fortini. Clamorosi successi editoriali dovuti al suo intuito critico furono nel 1957 l’anteprima mondiale de Il dottor Živago di Boris Pasternak e nel 1958, con una sua prefazione, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, suggeritogli da Elena Croce e già rifiutato da Mondadori e da Einaudi. Nel 1957 iniziò a insegnare storia del teatro all’Accademia d’arte drammatica «Silvio d’Amico», dove ebbe allievi che furono poi attori e registi famosi e rimase seguito maestro per un decennio, specie per le sue lezioni sul teatro francese. Nel 1958 uscì su Paragone-Letteratura e poi in volume da Einaudi Gli occhiali d’oro, romanzo breve da cui nel 1987 Giuliano Montaldo trasse l’omonimo film: nel 1960, insieme a Cinque storie ferraresi, formò una nuova edizione intitolata Le storie ferraresi.
Persuaso della necessità, dopo le cinque storie che avevano ricreato la sua Ferrara, di uscire allo scoperto e di dire “io”, lo scrittore adotta ne Gli occhiali d’oro la prima persona, nelle vesti di uno studente ebreo che narra la storia del dottor Athos Fadigati, trasferitosi nel primo dopoguerra da Venezia a Ferrara e identificato sin dal titolo da quegli occhiali che, nella narrativa di Bassani, si pongono a diaframma di separazione dalla realtà. Di là dalla passione per Wagner, anomala fra i personaggi ferraresi di Bassani, usi a canticchiare arie tra Verdi e Rossini, la sua diversità è data dalle frequentazione sessuali, discretamente praticate con uomini modesti e di mezza età. Ma nel 1937 sul treno Ferrara-Bologna la conoscenza di un gruppo di studenti, tra i quali l’anonimo io narrante, parziale ritratto dello scrittore da giovane, lo coinvolge in una scandalosa storia d’amore con il biondo, sfrontato e bellissimo Eraldo Deliliers, con cui girerà le spiagge adriatiche su una rossa Alfa Romeo a due posti. Una storia dunque che riecheggia il Thomas Mann della Morte a Venezia, chiusa non dal sopravvenire di un allegorico colera, ma dal suicidio di Fadigati che, abbandonato e derubato dal cinico Eraldo, trova compassione e amicizia nel solo io narrante, anch’egli un emarginato, nell’approssimarsi delle legge razziali. Ed è da questa esperienza che il giovane deuteragonista misurerà la propria distanza da un padre romantico e patriota, la cui ingenuità politica, comune a una generazione di ebrei italiani, lo aveva indotto a prendere nel 1919 la tessera del fascio e quindi a persuadersi di contingenti ragioni di politica estera per la campagna antisemitica.
Il successo degli anni Sessanta
Nel 1962, dopo lunga elaborazione retrodatabile a primi abbozzi degli anni Quaranta, apparve presso Einaudi Il giardino dei Finzi-Contini, che si aggiudicò il premio Viareggio decretando così la piena affermazione del Bassani narratore. Nel 2016, il manoscritto, regalato dall’autore nel dicembre 1961 alla contessa veneziana Teresa Foscari Foscolo (1916-2007) con una dedica che la eleggeva a sua musa, è stato donato dagli eredi al Comune di Ferrara.
L’immagine ormai atemporale delle tombe etrusche di Cerveteri, su cui si apre il romanzo, riallaccia il circuito memoriale richiamando il cimitero israelitico di Ferrara e, lì, la monumentale tomba dei Finzi-Contini in cui, eccetto il primogenito Alberto, morto di malattia nel 1942, non hanno trovato riposo i personaggi legati alla giovinezza dell’io narrante: Micòl, i genitori e la paralitica nonna materna, deportati in Germania nell’autunno del 1943. Un giardino edenico, introvabile sulle guide turistiche ma assimilabile al baudelairiano «vert paradis des amours enfantines» e memore del castello di Yvonne de Galais nel Grand Meaulnes di Alain-Fournier, fa da sfondo all’affascinante quanto imprendibile Micòl, novella Angelica destinata a sparire non per un anello fatato ma per gli orrori della storia. Proustiana figura di fuggitiva, eppur di prigioniera, la mitica e tragica Micòl trova il suo consistere solo entro il muro di cinta di un giardino fantasticamente creato sullo spazio verde cittadino che avrebbe potuto accoglierlo e chiude sé e l’io narrante, accomunati dal «vizio […] d’andare avanti con le teste sempre voltate all’indietro» (Opere, cit., p. 513), in un cerchio fuori dal tempo e dalla storia. Come ribadisce l’Epilogo, l’adesione di Micòl, sulla scia di Mallarmé, a «le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui», ma soprattutto a un passato investito di dolcezza e di pietas, non sarà scalfita dalla fiducia in un domani democratico e socialmente migliore del giovane lombardo Malnate, destinato a perdersi tra le nevi della campagna di Russia. Fra il 1938 quando l’io narrante, espulso in quanto ebreo dal Circolo del Tennis, varca il muro di cinta del chiuso giardino, accolto dai correligionari Finzi-Contini nel loro campo da tennis, e l’estate del 1939, svolta di maturazione segnata dalla laurea e dalla rinuncia all’amore cui Micòl si rifiuta, si consuma una epoché della storia, il cui cammino si appresta a cancellare ogni traccia edenica, spazzando via singole vite che solo una memoria etica e civile saprà salvare.
Consigliere comunale di Ferrara per il Partito socialista nel 1962, Bassani si mobilitò, in linea con i principî di «Italia Nostra», per la salvaguardia dell’ambiente e dei beni artistici cittadini. Con Feltrinelli, sempre più aperto ai gruppi neoavanguardistici, a causa del libro di Alberto Arbasino, Fratelli d’Italia, rifiutato con richiesta di revisione nella collana da lui diretta, si ebbe una rottura, sfociata anche in una causa per spionaggio editoriale, vinta da Bassani. Dello stesso periodo fu l’accesa polemica proprio con il Gruppo ’63 che lo aveva definito, insieme a Cassola, «la Liala della letteratura italiana».
Nel 1964 uscì da Einaudi il romanzo Dietro la porta, il cui titolo veniva da lontano, se già nel testo di Rondò, in Una città di pianura, un adolescenziale protagonista ebreo si trovava ad ascoltare «dietro i muri, dietro le porte» (Opere, cit., p. 1542).
Romanzo breve, trascurato da critica e lettori, ma rivendicato dall’autore, al di là della confessione viscerale, come affresco etico-politico di un ambiente storico, Dietro la porta, in una Ferrara còlta tra il 1929 e il 1930, ripercorre l’emarginazione adolescenziale di un ragazzo ebreo, voce narrante al primo anno di liceo, nella conflittualità con il compagno di banco e primo della classe, Carlo Cattolica, dall’arianissimo cognome, e nell’ambiguo rapporto con un altro compagno, Luciano Pulga, mosso dall’invidia sociale. Il voyeurismo è tema portante del romanzo: se alla pensione Tripoli Pulga spia dietro al muro e alla porta i cambi dei pigionanti a ore, l’io narrante spia con le ciglia abbassate il comportamento di Luciano; spia dietro la porta socchiusa, su incitamento del prevaricante Cattolica, Luciano che sparla di lui; spia, da una porta a vetri, la sua stessa famiglia riunita a cena. E il ring che Cattolica ha apprestato in salotto perché i due compagni si affrontino a viso aperto, non sarà mai calcato, se il protagonista opterà per una fuga solitaria, suggello a ogni potenzialità di rapporto.
Nel 1964 Bassani divenne vicepresidente della RAI, in quota socialista e, nel 1965, eletto alla presidenza di «Italia Nostra». Nel 1966, in seguito alle nomine fatte in sua assenza, dette le dimissioni dalla RAI e dal partito, passando tra le fila dei repubblicani, ai quali lo legava tra l’altro la vecchia amicizia con Ugo La Malfa. Sempre nel 1966 uscì da Einaudi Le parole preparate, raccolta di articoli apparsi su periodici, poi riproposta e ampliata nel mondadoriano Di là dal cuore dell’84. Nel 1968, per Mondadori, uscì il romanzo L’airone, vincitore nel 1969 del premio Campiello e che rappresentò una felice volontà di rinnovamento della sua narrativa.
Voyeur per eccellenza è il protagonista, Edgardo Limentani, nel registrare il cui sguardo che si posa sulle cose senza parteciparvi lo scrittore si è servito di una tecnica da école du regard. Il «misero / Edgardo / incapace di dire di sì / al mondo / altrimenti che salutandolo» (Anche tu, in Epitaffio), pare nascere da proiezioni autobiografiche, come suggerisce la conversazione con Cancogni nella Fiera letteraria del 14 novembre 1968. L’atonia del personaggio Bassani si materializza nel quarantacinquenne Edgardo, trovando la sua veste storica nella crisi postbellica di una borghesia agricola ferrarese rimasta attardata sulla via dei rinnovamenti, senza alcuna spinta, né psicologica, né ideale, verso un ipotetico mondo nuovo. In un lungo percorso, coincidente con una battuta di caccia e consumato nell’arco di una sola giornata, in una discesa entro spirali d’angoscia, lungo metafore (il pozzo; un budello sotterraneo) che riecheggiano la botola che separa Pino Barilari dal mondo della storia, Edgardo abdicherà totalmente all’azione, accucciato come in sogno nella botte sperduta tra le valli. Nel riuscitissimo episodio-simbolo del romanzo, il protagonista, ceduto il suo costoso fucile al contadino che lo accompagna, l’ex partigiano comunista Gavino, assisterà passivamente allo sterminio degli uccelli per mano dell’altro e, infine, al gratuito ferimento dell’airone e alla sua spaurita agonia. Ed è questa buffa, inutile figura di airone andato scioccamente a cacciarsi nei guai, reminiscenza dell’albatros baudelairiano e del cigno del sonetto di Mallarmé caro a Micòl, l’unico possibile alter ego, la cui morte indicherà la via di un suicidio da consumare pudicamente fuori scena.
La riscrittura del romanzo di Ferrara e la nuova vena lirica
Nel 1970 uscì Il giardino dei Finzi Contini per la regia di Vittorio De Sica, dopo che Valerio Zurlini aveva abbandonato il progetto avviato nei primi anni Sessanta. Bassani sentì ‘tradito’ il suo testo anche in questa versione filmica (v., in partic., Il giardino tradito, in Di là dal cuore, cit., pp. 1255-1265) e ottenne, con un’azione legale, che fosse espunto il proprio nome dalla sceneggiatura. Nel 1972 uscì da Mondadori L’odore del fieno, raccolta di testi narrativi apparsi già in rivista o in volume, che chiuse l’epopea ferrarese e aprì alla ripresa lirica. La revisione della sua narrativa trovò collocazione nei successivi volumi mondadoriani di Dentro le mura (1973) e poi del Romanzo di Ferrara (1974), in edizione definitiva nel 1980 e comprensivo di Dentro le mura, Gli occhiali d’oro, Il giardino dei Finzi-Contini, Dietro la porta, L’airone e L’odore del fieno. Una rinnovata vena lirica si affermò con i versi di Epitaffio (1974) e di In gran segreto (1978), entrambi per i tipi di Mondadori.
Nel 1982 tutta la sua produzione poetica, oltre alle traduzioni (da Toulet, Char, Stevenson), fu riunita nel volume mondadoriano In rima e senza, insignito del premio Bagutta. Il titolo In rima e senza distingue due diversi periodi: il primo, già confluito in L’alba ai vetri e segnato dal ricorso alla rima e l’ultimo, delle due raccolte degli anni Settanta, con un accostamento a moduli prosastici e un dispiegamento tonale che ricorda sia il Montale di Satura sia l’Attilio Bertolucci (poeta cui Bassani si sentiva affine) di Camera da letto, in fieri sin dagli anni Cinquanta. Tra i due momenti, la lunga elaborazione del Romanzo di Ferrara. I versi di Epitaffio e quelli, contigui anche per ispirazione, di In gran segreto, sono tipograficamente collocati sullo schema di una lapide, sostitutiva della forma metrica, e si muovono su più registri: dalla polemica letteraria e dall’invettiva alla narrazione familiare, all’annotazione metaletteraria, alla persecuzione razziale e al fascismo ferrarese. I paesaggi si aprono, in un vagabondare che è l’asse portante di questi versi, e oltrepassano i confini italiani fino a quell’America da Bassani felicemente scoperta in quegli anni. La vocazione lirica che aveva suggerito, nel Giardino, la tesi su Panzacchi del protagonista (a sua volta poeta), quella su Emily Dickinson di Micòl e le discussioni poetiche con Malnate, si riafferma e rinnova dunque a partire da Epitaffio, ammirato da Pasolini come il suo libro più bello (in Tempo, 21 giugno 1974, p. 77) e riconosciuto dalla critica per la sua importanza nel contesto lirico contemporaneo.
Tra i paesaggi ispiratori di Epitaffio c’è anche Maratea, dove dalla fine degli anni Sessanta in poi Bassani, acquistatavi una casa, trascorse molte estati, legate anche all’intensa relazione con un’americana trapiantata a Parigi, Anne Marie Stelhein. Sul finire del 1977 conobbe Portia Prebys, un’insegnante americana, con cui condivise gli anni successivi fino alla morte. Negli anni Settanta si aprì un periodo ricco di premi e riconoscimenti, in Italia e all’estero, e si moltiplicarono i viaggi in Europa e in America, dove fu anche visiting professor.
Gli anni Novanta furono segnati da una lunga malattia degenerativa: morì la mattina del 13 aprile 2000 nell’ospedale San Camillo di Roma e, per sua volontà, fu sepolto nel cimitero ebraico di via delle Vigne a Ferrara.
Nel 2002 si concretizzò il progetto dei figli Paola ed Enrico di una Fondazione Giorgio Bassani, centro documentario e di iniziative culturali, con sede a Codigoro; il 4 marzo 2016, per il centenario della nascita, è stato inaugurato, nella restaurata Casa Minerbi della Ferrara medievale, il Centro studi bassaniani, dove confluiscono documenti e oggetti, lascito di Portia Prebys al Comune di Ferrara.
Opere
Per la bibliografia delle opere di Bassani si veda il volume La bibliografia delle opere di G. B., cui deve essere aggiunto La memoria critica su G. B., entrambi a cura di P. Prebys (Ferrara 2010). L’opera di Bassani è riunita, nelle sue stesure definitive, in Opere, a cura e con un saggio di R. Cotroneo (Milano 1998), con apparati a cura di P. Italia. Oltre a Il romanzo di Ferrara, già edito in ultima versione nel 1980 da Mondadori, il volume riunisce le pagine saggistiche di Di là dal cuore (1984), e le liriche di In rima e senza (1982). In Appendice è riproposto Una città di pianura del 1940, con lo pseudonimo di Giacomo Marchi, e la prima edizione presso Einaudi nel 1956 delle Cinque storie ferraresi. Gli scritti di impegno civile per la difesa ambientale sono invece raccolti in Italia da salvare: scritti civili e battaglie ambientali, a cura di C. Spila (Torino 2005). Il trattamento, inutilizzato, di Bassani dei Promessi sposi per la Lux Vide S.p.a. è stato edito da Sellerio con il titolo I Promessi sposi. Un esperimento, a cura di S.S. Nigro (Palermo 2007). Per l’epistolario, oltre a sparse pubblicazioni di lettere, si veda G. Bassani – M. Caetani, «Sarà un bellissimo numero». Carteggio 1948-1959, a cura di M. Tortora (Roma 2011). Nel 2014 è uscito da Feltrinelli Racconti, diari, cronache (1935-1956), a cura di P. Pieri, che raccoglie, oltre a testi editi come quelli sul Corriere padano, inediti del Fondo eredi Bassani.
Fonti e Bibliografia
Di là da numerosi e importanti atti di convegni, italiani e stranieri, qui non esaustivamente registrabili, si segnalano con attenzione alla critica più recente: I. Baldelli, La riscrittura ‘totale’ di un’opera: da «Le storie ferraresi» a «Dentro le mura» di B., in Lettere italiane, XXVI (1974), 2, pp. 180-197; P.P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Torino 1979, pp. 262-266, 333-336; A. Dolfi, Le forme del sentimento. Prosa e poesia in G. B., Padova 1981; E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Milano 1996, I, pp. 638 s.; II, pp. 1802 s., 1966-1971, 2444-2448; A. Dolfi, G. B. Una scrittura della malinconia, Roma 2003; P. Pieri, Memoria e giustizia. Le «Cinque storie ferraresi» di G. B., Pisa 2008; G. Vannucci, G. B. all’Accademia d’arte drammatica, Roma 2010. Nella collana «Bassaniana» della casa editrice Pozzi di Ravenna, sono usciti vari titoli, tra cui: P. Pieri, Un poeta è sempre in esilio. Studi su B., 2012; A. Giardino, G. B. Percorsi dello sguardo nelle arti visive, 2013; P. Polito, L’officina dell’ineffabile. Ripetizione, memoria e non detto in G. B., 2014; Lezioni americane di G. B., 2016 (vol. collettaneo dedicato al rapporto tra B. e l’America). Sul lavoro editoriale si vedano G.C. Ferretti – S. Guerriero, G. B. editore letterario, Lecce 2011 e il volume di atti G. B. critico, redattore, editore, a cura di M. Tortora, Roma 2012 (che contiene, tra l’altro, gli interventi sulle collaborazioni napoletane di B. di D. Scarpa, Lo scrittore scrive sempre due volte e Per una bibliografia napoletana di G. B., ibid., pp. 101-125). Per il B. lirico, tardivamente riconosciuto dalla critica ora propensa a dedicargli specifici articoli e convegni, si vedano M. Gialdroni, G. B. poeta di se stesso. Un commento al testo di «Epitaffio», Frankfurt a.M. 1996; A. Luzi, Esperienza vissuta e scrittura nella poesia di B., in Revista de Literaturas modernas, XLII (2012), pp. 77-102; M. Rueff, «Alas poor Emily». B. poeta, in Poscritto a G. B. Saggi in memoria del decimo anniversario della morte, a cura di R. Antognini – R. Diaconescu Blumenfeld, Milano 2013, pp. 387-426; A. Langiano, Per un profilo di G. B., in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI sec., Atti del XVII congresso dell’ADI… 2013, a cura di B. Alfonzetti – G. Baldassarri – F. Tomasi, Roma 2014 (http://www.italianisti.it/Atti di Congresso).
-articolo di Maria Vescovo scritto per la Rivista ORIGINI N°41 ottobre 20oo-
Breve nota biografica-Ugo Nespolo è nato a Mosso (Biella) nel 1941. Pittore, scultore importante esponente dell’arte contemporanea italiana.
Ugo Nespolo
Diplomato all’Accademia Albertina di Belle Arti, in seguito si laurea in Lettere Moderne mostrando grande interesse per la Semiologia. Esordisce nel panorama artistico italiano neglianni Sessanta con contaminazioni della Pop art e con una stretta militanza con concettuali e poveristi. La sua produzione si caratterizza presto per forte accento trasgressivo, ironico e quell’apparente senso del divertimento, doti che si presteranno alla tela cinematografica esplorando presto, negli anni Settatanta anche questo mezzo di espressione.
Gli anni Ottanta rappresentano per Ugo Nespolo la maturazione più apprezzata del periodo americano, i suoi quadri rappresentano oggetti e luoghi comuni delle città statunitensi. Collabora con la Rai per la quale realizza videosigle, collabora nella realizzazioni pubblicitarie, fedele al dettato delle avanguardie storiche di “portare l’arte nella vita”, l’artista deve occupare spazi della vita comune, uscire dagli spazi assegnati, canonici.
Negli anni Novanta affianca alle sue numerose attività l’impegno nel teatro realizzando scene e costumi per l?elisir d’amor Doninzettii al Tatro dell’Opera di Roma, all’Opera di Parigi, Losanna, Liegoi e Metz.
Nespolo viene anche annoverato tra i “maestri del Palio”, per aver dipinto nel 2000 i due sendalli per il Palio di Asti di quella edizione.
Nel 2005 a Torino, realizza per Gtt delle opere tematiche nelle stazioni della metropolitana di Torino e in seguito decora con la sua inconfondibile impronta l’esterno del centro commerciale di Via Livorno. Nel 2007, dipinge il drappellone del Palio di Siena del 16 agosto.
Ugo Nespolo, nato a Mosso (Biella), si é diplomato all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino ed è laureato in Lettere Moderne. I suoi esordi nel panorama artistico italiano risalgono agli anni Sessanta, alla Pop Art, ai futuri concettuali e poveristi (mostre alla galleria il Punto di Remo Pastori, a Torino, e Galleria Schwarz di Milano). Mai legata in maniera assoluta ad un filone, la sua produzione si caratterizza subito per un’accentuata impronta ironica, trasgressiva, per un personale senso del divertimento che rappresenterà sempre una sorta di marchio di fabbrica.
Negli anni Settanta Nespolo si appropria di un secondo mezzo di espressione, il cinema: in particolare quello sperimentale, d’artista. Gli attori sono artisti amici, da Lucio Fontana a Enrico Baj, a Michelangelo Pistoletto. Ai suoi film hanno dedicato ampie rassegne istituzioni culturali come il Centre Georges Pompidou di Parigi, il Philadelphia Museum of Modern Art, la Filmoteka Polska di Varsavia, la Galleria Civica d’Arte Moderna di Ferrara, il Museo Nazionale del Cinema di Torino, il Museo “Manege” di San Pietroburgo.
Gli anni Settanta rappresentano per Nespolo un passaggio fondamentale: vince il premio Bolaffi (1974), realizza il Museo (1975-’76), quadro di dieci metri di lunghezza che segna l’inizio di una vena mai esaurita di rilettura-scomposizionereinvenzione dell’arte altrui. L’opera viene esposta per la prima volta nel 1976 al Museo Progressivo d’Arte Contemporanea di Livorno.
Negli anni Settanta inizia anche la sperimentazione con tecniche (ricamo, intarsio) e materiali inconsueti (alabastro, ebano, madreperla, avorio, porcellana, argento). Nasce L’albero dei cappelli, poi prodotto in serie come elemento d’arredo.
Gli anni Ottanta rappresentano il cuore del “periodo americano”: Ugo Nespolo trascorre parte dell’anno negli States e le strade, le vetrine, i venditori di hamburger di New York diventano i protagonisti dei suoi quadri. In questi anni si accumulano anche le esperienze nel settore dell’arte applicata: Nespolo è fedele al dettato delle avanguardie storiche di “portare l’arte nella vita” ed è convinto che l’artista contemporaneo debba varcare i confini dello specifico assegnato dai luoghi comuni tardoromantici. Lo testimoniano i circa 50 manifesti realizzati per esposizioni ed avvenimenti vari (tra gli altri, Azzurra, Il Salone Internazionale dell’Auto di Torino, la Federazione Nazionale della Vela), il calendario Rai dell’86, le scenografie per l’allestimento americano (Stamford) della Turandot di Busoni, le videosigle Rai (come “Indietro Tutta” con Renzo Arbore). Nell’86 Genova festeggia i vent’anni di attività artistica di Nespolo con la mostra antologica di Villa Croce La Bella Insofferenza.
Nel ‘90 il Comune di Milano gli dedica una mostra a Palazzo Reale. Dello stesso anno sono prestigiose collaborazioni artistiche come la campagna pubblicitaria per la Campari, le scenografie e i costumi del Don Chisciotte di Paisiello per il Teatro dell’Opera di Roma ed una esposizione di ceramiche – il nuovo interesse di Nespolo – nell’ambito della Biennale Internazionale della Ceramica e dell’Antiquariato al palazzo delle Esposizioni di Faenza.
Nel ‘91 partecipa in Giappone all’International Ceramic Festival, Ceramic World Shigaraki. L’anno successivo la Galleria Borghi & C. di New York ospita A Fine Intolerance, personale di dipinti e ceramiche.
Del ‘94 è una mostra di opere a soggetto cinematografico promossa alla Tour Fromage dalla Regione Valle d’Aosta. L’anno seguente Nespolo realizza scene e costumi per l’Elisir d’Amore di Donizetti per il Teatro dell’Opera di Roma, itinerante all’Opera di Parigi, Losanna, Liegi e Metz. Sempre del ‘95 sono l’antologica Casa d’Arte Nespolo al Palazzo della Permanente di Milano e la personale Pictura si instalatu di Bucarest a cura del Ministero alla Cultura romeno.
Nel ‘96 la personale Le Stanze dell’Arte alla Promotrice delle Belle Arti di Torino, viene organizzata dalla Regione Piemonte. Ancora nel ’96 Ugo Nespolo assume la direzione artistica della Richard-Ginori. Nel 1997 il Museum of Fine Arts di La Valletta, Malta, gli dedica una personale. Nello stesso anno una mostra itinerante in America Latina: Buenos Aires (Museo Nacional de Bellas Artes), Cordoba (Centro de Arte Contemporaneo de Cordoba, Chateau Carreras), Mendoza (Museo Municipal de Arte Moderno de Mendoza) e Montevideo (Museo Nacional de Artes Visuales).
Inizia il ’98 con la realizzazione del monumento “Lavorare, Lavorare, Lavorare, preferisco il rumore del mare” per la città di San Benedetto del Tronto e si avvia la collaborazione con la storica vetreria d’arte Barovier & Toso di Murano per la quale Nespolo crea una serie di opere da esporre a Palazzo Ducale di Venezia per “Aperto vetro”, (Esposizione Internazionale del Vetro Contemporaneo). Seguono mostre personali di rilievo alla Palazzina Azzurra di San Benedetto del Tronto ed alla XVII Biennale di Arte Contemporanea a cura del Comune di Alatri.
Si chiude il 1999 ed inizia il 2000 con “Nespolo + Napoli”, una mostra antologica che la Municipalità partenopea ospita al Palazzo Reale di Napoli. Per l’Anno Giubilare Nespolo illustra un’edizione dell’Apocalisse (introduzione di Bruno Forte) di alto pregio, a tiratura limitata.
Nei primi mesi del 2001 torna al cinema con FILM/A/TO, interpretato da Edoardo Sanguineti e prodotto dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema di Torino in occasione della retrospettiva “Turin, berceau du cinéma italien” al Centre Pompidou di Parigi. Un prestigioso evento autunnale: Storia di Musei (catalogo Umberto Allemandi) a cura della Galleria Marescalchi di Bologna. Mostra personale a Fukui all’interno della rassegna “Italia in Giappone 2001“.
2002: Nespolo viene nominato consulente e coordinatore delle comunicazioni artistiche nelle stazioni della costruenda Metropolitana di Torino. Il Parco della Mandria di Venaria Reale ospita presso la Villa dei Laghi alcune sue sculture nell’ambito della mostra “Scultura internazionale a La Mandria”.
Intenso il programma per il 2003: l’Alitalia inaugura la nuova sede di New York con una personale di Nespolo; una mostra itinerante nei Paesi dell’Est: dalla Galleria d’Arte Moderna di Mosca, all’Accademia di Belle Arti di San Pietroburgo a Minsk (Museo Nazionale d’Arte Moderna) per proseguire poi in Lettonia (Riga, Galleria d’Arte Moderna). Una mostra personale all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi. Durante il Festival del Cinema di Locarno due mostre personali: presso la sede del Festival e alla Galleria d’Arte Moderna. In autunno importante personale al Museo Nazionale Cinese di Pechino.
Inizia il 2004 con due importanti mostre personali: Vilnius, Lituania, al Ciurlionis National Museum of Art e a Canton, Cina, al Guang Dong Museum of Art di Guangzhou. Mostra personale “Homo Ludens” il gioco a Palazzo Doria, Loano. Una personale al Moscow Museum of Modern Art, poi al Museo dell’Accademia di San Pietroburgo.
Il 2005 inizia con una personale al Poldi Pezzoli di Milano, poi vi è un ritorno al cinema con l’ideazione di “Dentro e Fuori/un ritratto di Angelo Pezzana” prodotto dal Museo Nazionale del Cinema di Torino; l’illustrazione di “Mille e una Notte” in edizione pregiata; una personale al Museo del Mare di Genova. Un’ideazione artistica di rilievo internazionale con “Progetto Italiana”, filmato prodotto da Cinecittà, testimonial Giancarlo Giannini.
2006: immagini video e vetrofanie di Nespolo ideate per la Metropolitana di Torino, due mostre personali in occasione dei Giochi Olimpici Invernali di Torino 2006 (Galleria Carlina e Centro Arte La Tesoriera). Le illustrazioni, con un filmato, di “Piú veloce dell’aquila” una favola sulla campionessa mondiale di sci Stefania Belmondo.“Casa d’Arte Ugo Nespolo”, rassegna di dipinti, vetri, tappeti, ceramiche e bronzi alla Galleria Bianconi di Milano. Alla Basilica di San Francesco ad Assisi la cerimonia di Natale vede un volo di bianche colombe ideate da Nespolo come simbolo di pace.
Per il 53° Festival Puccini 2007 la Fondazione del Festival Pucciniano affida a Nespolo l’ideazione e realizzazione di scenografie e costumi della “Madama Butterfly” nonché di un filmato artistico sull’opera. Il Comune di Siena ha conferito incarico all’artista di disegnare il “Drappellone” per il Palio di Agosto 2007. Per il Museo Nazionale del Cinema di Torino l’ideazione artistica di “Superglance”, un cortometraggio con testi in collaborazione con il poeta Edoardo Sanguineti. La mostra personale “My way” viene inaugurata ad Alba presso il Palazzo Mostre e Congressi in contemporanea alla Fiera Internazionale del Tartufo. Ancora una personale a cura del Comune di Siena presso il Palazzo Pubblico Magazzino del Sale.
2008: La De Agostini di Novara gli affida la realizzazione di “Nespolo legge Dante”, un prestigioso trittico a tiratura limitata per la lettura della Divina Commedia attraverso l’arte figurativa. Una personale alla Walter Wickiser Gallery, New York a tema prevalente i “Musei” di Nespolo. Il Museo del Cinema di Torino ospita una mostra antologica sull’attività dell’artista nell’ambito cinematografico. Su invito della Direzione di Palazzo Grassi a Venezia partecipa con due opere alla mostra “Italics: Arte Italiana fra tradizione e rivoluzione, 1968-2008” organizzata in collaborazione con il Museo di Arte Contemporanea di Chicago.
La 48a Mostra della Ceramica di Castellamonte inaugura il “Monumento alla Stufa” opera permanente di Nespolo per il Comune piemontese. Castellamonte gli dedica in contemporanea una mostra personale a Palazzo Botton. Vetrate ed arredi scultura per la nuova Parrocchia di Maria Vergine di Borgaro Torinese.
2009: Mostra Antologica “Nespolo, ritorno a casa” presso il Museo del Territorio Biellese, Biella: un prestigioso riconoscimento della terra natia al suo percorso artistico.
“Novantiqua” (8/10/2009 – 10/01/2010). Il Museo Nazionale del Bargello di Firenze dedica la sua 1ª Mostra d’Arte Contemporanea a Ugo Nespolo con questa personale di 40 opere.
La Campari festeggia i suoi 150 anni di attività con l’arte di Ugo Nespolo alla Stazione Centrale di Milano. Il Comune di Pontedera affida all’artista il “Cantiere Nespolo”, progetto di interventi effimeri ed opere permanenti in loco. Estate 2010: mostra personale a Villa Bertelli di Forte dei Marmi promossa dal Comune.
“Il Numero d’Oro” (Utet – De Agostini), libro d’artista realizzato da Nespolo in 425 esemplari e dedicato al tema della proporzione aurea. Esposto al Museo Poldi Pezzoli di Milano, ha riscosso entusiasti ed apprezzati consensi di stampa e critica d’arte.
2011: Maggio/Giugno Mostra personale “La bella intolerancia” Museo Nacional de Bellas Artes de La Habana, Cuba. Giugno: “Nespolo Films & Visions 1967-2010” (DVD+Libro) presentazione presso il MAXXI di Roma.
Settembre: La Città di Bra dedica all’artista una prestigiosa mostra personale, circa 70 opere dagli Anni ’60 ad oggi, nelle sale storiche di Palazzo Mathis.
Dal 21 Ottobre Nespolo è il nuovo Presidente del Museo Nazionale del Cinema di Torino, istituzione d’eccellenza a livello internazionale. La sua elezione è avvenuta all’unanimità da parte del Collegio dei Fondatori del Museo e dei Rappresentanti degli Enti preposti. Per il periodo Natalizio Nespolo ha creato “Illuminando Pompei”, una scenografia di luci decorative che contribuisce a rafforzare l’immagine della Città regina della cultura.
Gennaio 2012: Nespolo ha interpretato per Campari la nuova insegna del “Camparino”, lo storico caffè della Galleria Vittorio Emanuele di Milano, aperto nel 1915 da Davide Campari.
Aprile/Maggio 2012: “Elogio del Bello”, trent’anni di produzione artistica, mostra personale che la Fondazione Banca del Monte di Lucca promuove ed ospita nelle sale di Palazzo San Martino.
Maggio 2012: Museum Nasional di Jakarta, mostra personale di dipinti e manifesti, con il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia.
Giugno 2012: “The Signature Collection” una personale di dipinti e ricami all’Art Centre Bahrain National Museum sotto il Patronato del Ministero alla Cultura del Bahrain.
Luglio 2012: inaugurazione mostra “Ugo Nespolo. Il Numero d’Oro” Ed. Utet, Museo Lev Tolstoy Jasnaja Poljana, Russia, patrocinio dell’Istituto Italiano di Cultura di Mosca.
Ottobre 2012 – Gennaio 2013: GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino, “Nespolo. The Years of the Avantgarde”, primo appuntamento del nuovo progetto espositivo “Surprise” sulla ricerca artistica torinese tra gli Anni Sessanta e Settanta.
Novembre 2012 – Marzo 2013. “Lo sguardo espanso”, Nespolo partecipa alla mostra retrospettiva del cinema d’artista presso il Complesso Monumentale del San Giovanni di Catanzaro.
Gennaio / Febbraio 2013: in Russia il Museo Storico-Architettonico di Tula ed il Museo d’arte di Ulianovsk ospitano la mostra “Ugo Nespolo – Il numero d’oro” con il patrocinio dell’Istituto Italiano di Cultura. Maggio / Ottobre 2013: Mostra presso la Galleria Ermanno Tedeschi di Tel Aviv (Israele).
Settembre / Ottobre 2013: “Il Mondo a colori” Mostra personale al Centro de Artes e Cultura de Ponte de Sor, Portogallo.
Gennaio/Marzo 2014: viene esposta l’opera “W la Rai” alla Mostra “1924-2014 La Rai racconta l’Italia” (salone centrale Ala Brasini del Vittoriano, Roma) poi a Milano c/o spazi espositivi Triennale, quindi alla GAM di Torino.
Maggio/Giugno: mostra personale “La Fabbrica del colore” presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Biella.
A Maggio l’artista è stato riconfermato Presidente del Museo Nazionale del Cinema di Torino.
Il Comune di Volterra, coordinatore Vittorio Sgarbi, partendo dal capolavoro “La Deposizione” di Rosso Fiorentino, ha allestito un’interessante rassegna ove è stata selezionata un’opera di Nespolo.
Luglio/Agosto: Liceo Saracco di Acqui Terme “Le stanze dell’immagine”, un’antologica che spazia dai quadri, alla scenografia, ai costumi lirici.
Novembre 2014: il Nuovo Ospedale di Biella inaugura l’allestimento artistico di Ugo Nespolo per la zona ricevimento pazienti.
L’Artista ha curato con immagini di grande richiamo la campagna pubblicitaria per i 150 Anni della nascita del Gianduiotto dell’industria piemontese dolciaria Caffarel.
Dal Festival di Spoleto, Charleston (USA) Nespolo è scelto per creare scene e costumi dell’Opera “Veremonda, l’Amazzone di Aragona” di Francesco Cavalli (ultima rappresentazione risalente al 1653). Andrà in scena a Maggio 2015.
Si ritrova la presenza di Nespolo per Expo 2015 in sei stazioni ferroviarie tra Torino Porta Susa e Rho Fiera. Modello di riqualificazione delle stazioni ove l’artista propone cartellonistica, totem personalizzati e vetrofanie della provincia italiana.
Sempre nel 2015 ad ottobre Nespolo è presente alla Tate Modern di Londra al dibattito che segue la proiezione del suo film “Buongiorno Michelangelo” all’interno del programma “Arte Povera was Pop: Artists’ and experimental cinema in Italy 1960s-70s”; a maggio 2016 al Guggenheim di Venezia per “If Arte Povera Was Pop” e successivamente al Centre Pompidou di Parigi alla Tavola rotonda “Arte Povera Hier et Aujourd’hui (9 e 10 giugno 2016).
Tra le mostre personali del 2016: Pisa, Chiesa di Santa Maria della Spina; Milano, Galleria Magenta; e a Capo Verde, Centrum Sete Sois Sete Luas da Ribeira. That’s life è la personale inaugurata il 2 ottobre presso la Fondazione Puglisi Cosentino a Catania che proseguirà fino al 15 gennaio 2017: 170 opere relative a un periodo compreso tra il 1967 e il 2016; l’antologica riunisce un corpus eterogeneo di opere con una sezione interamente dedicata al cinema sperimentale.
Nel 2017 anche un cartone animato (52 episodi) disegnato da Ugo Nespolo per RAI YoYo. Si tratta di una serie animata storica della rete che Nespolo ha completamente ripensato dando al cartone un taglio profondamente pop. Il lavoro vince il primo premio a Cartoon on the Bay nella sezione Series Preschool 2017.
A giugno una mostra personale al Centro d’arte contemporanea del Montenegro, (Dvorak Petrovica).
Ad ottobre e fino ad aprile 2018, alla sede espositiva Centro Saint-Bénin di Aosta la personale A modo mio Nespolo tra arte, cinema e teatro curata da Alberto Fiz in collaborazione con Maurizio Ferraris e organizzata dall’Assessorato Istruzione e Cultura della Regione autonoma Valle d’Aosta.
A novembre viene presentato contemporaneamente in tutta Italia lo storico calendario 2018 dei Carabinieri dedicato ai “valori etici e sociali dell’Arma”; realizzato con disegni di Nespolo sia nella copertina che nelle dodici tavole interne.
A febbraio 2018 la Swatch festeggia i 35 anni ospitando Ugo Nespolo alla Citè du Temps di Ginevra con una mostra personale dal titolo Numbers dedicata alla passione per i numeri che Nespolo condivide con la nota azienda svizzera. Contestualmente alla mostra vengono presentati due nuovi Swatch realizzati appositamente da Nespolo per l’anniversario.
Con la mostra dedicata ad Ugo Nespolo, dal titolo Il trionfo dei libri, (dal 19 aprile al 25 maggio) la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze rende omaggio ad un artista presente nelle sue collezioni. L’esposizione raccoglie lavori realizzati in più di quarant’anni di attività che trovano la loro giusta cornice nell’Istituto che, più di ogni altro, testimonia gli infiniti aspetti della cultura del nostro paese.
A Palazzo Parnasi a Cannobio, sul Lago Maggiore, la personale Storie di Oggi a cura di Vera Agosti dal mese di maggio ad inizio luglio.
A maggio al Huangpu District di Shanghai in Cina la mostra personale sul cinema di Nespolo “Doppio Schermo” Film e video d’artista in Italia dagli anni Sessanta ad oggi.
Al MEF, Museo Ettore Fico a Torino è presente con due Opere alla mostra “100% Italia” da settembre 2018 al febbraio 2019.
Ad ottobre la Casa Editrice Giunti, a 150 anni dalla prima edizione, pubblica Le avventure di Pinocchio illustrato da Ugo Nespolo con oltre cento tavole a colori.
Il 29 gennaio 2019 l’Università di Torino conferisce ad Ugo Nespolo la Laurea Honoris Causa in Filosofia.
In preparazione nel 2019 mostre personali a Shanghai, San Pietroburgo, Vilnius in Lituania, Berlino e Milano.
Fotoreportage FRASSO SABINO-Il Borgo di Frasso Sabino ha origini molto antiche, appartenendo all’abbazia di Farfa fin dalla fine del X secolo. La prima apparizione è infatti del 955 sul “Regestum Farfense”, dove viene registrato che Sindari e Gauderisio donano all’abbazia terre “locus ubi dicitur ad Frassum-La sua fondazione risale con molta probabilità alla fine del X secolo, epoca in cui appare più volte citata nelle cronache e nei documenti della vicina abbazia di Farfa; c’è da dire, però, che la diffusa presenza di sepolcri e di resti di costruzioni romane testimonia la presenza dell’uomo in epoche ben più remote. Per lungo tempo appartenne all’abbazia di Farfa e quando l’astro di questo centro di potere monastico cominciò a declinare (XII secolo) divenne proprietà della nobile famiglia dei Brancaleone. Nel 1441 passò ai Cesarini, che per un lungo periodo dovettero difenderla dalle mire espansionistiche dei Savelli; la contesa terminò nel 1573 con un atto di concordia, con il quale veniva confermato ai Cesarini il pieno possesso del feudo. Nel 1673, in seguito al matrimonio tra Livia Cesarini e Federico Sforza, passò alla casata Sforza-Cesarini che ne fu l’ultima proprietaria. Il toponimo, di chiara origine fitonimica, deriva dal latino FRAXINUS, ‘frassino’, e con tutta probabilità testimonia la massiccia presenza, in passato, di questa specie vegetale; la specificazione geografica è stata aggiunta nel 1863. Agli Sforza-Cesarini si deve la trasformazione di un preesistente castello, del quale rimane un possente torrione cilindrico, nell’attuale rocca. Il patrimonio storico-architettonico locale annovera inoltre la parrocchiale della Natività e la semplice ed elegante chiesa romanica di San Pietro in Vincoli, risalente al Trecento. Tra i cospicui resti romani sparsi sul territorio comunale spicca, in località Osteria Nuova, la cosiddetta grotta dei Massacci, un sepolcro di epoca incerta (età repubblicana oppure I-II secolo d.C.), edificato con enormi blocchi di pietra. Fonte -Italiapedia
la storia
Il toponimo
Frasso compare nella documentazione farfense nella prima metà del X secolo.
Il castello fu probabilmente fondato in questo periodo per iniziativa signorile, anche se la prima notizia certa della sua esistenza risale al 1055, quando Alberto figlio di Gibbone lo dono’ all’abate di Farfa, Berardo I.
L’atto è di particolare interesse perché descrive con precisione il territorio di pertinenza del centro fortificato.
Il castello di Frasso dovette rimanere in possesso del monastero per non molto tempo. Infatti già nel 1118 non risultava piu’ sotto la sua giurisdizione, pur mantenendo diritti di proprietà sul suo territorio, riconosciuti nel Quattrocento. Per piu’ di due secoli non si hanno notizie sui signori del castello. Sullo scorcio del Trecento ne erano in possesso i Brancaleoni. Nel 1441, quando Frasso era stato occupato da Battista Savelli, Paolo e Francesco Brancaleoni, signori di Monteleone lo donarono, come dote, alla loro sorella Simodea, che aveva sposato Orso Cesarini. Le controversie tra Savelli e Cesarini proseguirono a lungo fino ad estinguersi grazie ad un accordo raggiunto nel 1573.La forma
Il centro di Frasso sorge alto su un colle a quota 405 s.l.m, in posizione elevata sulla riva sinistra del Farfa, con andamento parallelo al corso del torrente. Il sito è circondato da alture verdeggianti e colture di ulivo e non lontano si trovano le sorgenti del Farfa, dette Le Capore, in località Ponte Buida.
La forma complessiva dell’abitato è dettata dalla conformazione stessa del supporto naturale e ne segue l’andamento fino ai bordi estremi. La dominante mole della Rocca dei Cesarini, davvero notevole rispetto alla dimensione dell’abitato, conserva ancora un alto bastione cilindrico con basamento a scarpa e munito di beccatelli nella parte Terminale. La rocca e l’intera struttura dell’abitato, sono state oggetto di continue modifiche che ne hanno cancellato la forma primitiva; anche la torre ha subito sorte analoga con l’abbattimento della parte piu’ alta.
La struttura del centro antico è composta da costruzioni che si attestano lungo un percorso principale che dalla rocca si inoltra verso il margine opposto dove la piccola piazza belvedere si apre spettacolarmente verso la valle del Farfa. Da qui il circuito viario, delimitando il bordo del colle verso valle, segue la mole della rocca, ricongiungendosi al punto di accesso al paese.
Di notevole interesse la chiesa romanico trecentesca di S. Pietro in Vincoli, la cui posizione elevata rispetto al paese, consente un’ampia vista sul paesaggio della valle. A pochi passi dalla chiesa un osservatorio astronomico di recente costituzione è ubicato nei locali di un ex mulino settecentesco.Una lunga via rettilinea esterna all’abitato, parte terminale della diramazione che porta al paese dalla via Mirtense, dà accesso alla parte più antica.
Lungo il suo asse si è sviluppato l’ampliamento urbano di più recente formazione.
Claude Simon “Il Discorso di Stoccolma” Premio Nobel 1985
Edizioni Tracce di Pescara
Biografia di Claude SIMON-Nato nel 1913 in Madagascar, figlio di militare, Claude Simon partecipa attivamente agli sconvolgimenti politici e sociali che attraversano la prima parte del XX secolo. Nel 1936 è a Barcellona per osservare da vicino la Guerra Civile spagnola. Tra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50 pubblica, La Corde raide, Gulliver, Le Sacre du printemps, Le Vent e L’Herbe.
Impegnato sul fronte politico contro la guerra di Algeria e su quello letterario nel dibattito animato dai “nouveaux romanciers”, negli anni ’60 pubblica alcune delle sue opere più significative, La Route des Flandres, ispirato alle esperienze vissute durante la Seconda Guerra Mondiale, Le Palace, Histoire e La Bataille de Pharsale.
Dopo un lungo periodo di silenzio artistico, nel 1981 pubblica Les Géorgiques in cui condensa la ricerca sperimentale di una vita per ricreare – in una forma originalissima di narrazione dell’io come pluralità – la complessità dell’esistenza umana.
Nel 1985 gli viene conferito il Premio Nobel per la letteratura e pronuncia il suo celebre “Discours de Stockholm”, in cui espone i principi che informano la sua scrittura della complessità.
Nella tarda maturità scrive L’Invitation, L’Acacia, Jardin des Plantes, Tramway, prima di spegnersi a Parigi nel 2005.Scrittore francese (Antananarivo 1913 – Parigi 2005). Dopo un romanzo di chiara tessitura esistenzialista, Le tricheur (1946), e un volume di ricordi, La corde raide (1947), si impegnò in una ricerca di tecnica narrativa (Gulliver, 1952; Le sacre du printemps, 1954), per giungere a una nuova forma di romanzo con Le vent (1957), L’herbe (1958; trad. it. 1961), e soprattutto con La route des Flandres (1960; trad. it. 1962), che lo ricollegarono alla corrente del nouveau roman. Anche nelle opere successive S. privilegiò le leggi autonome della scrittura sulla realtà, sul personaggio, sulla trama. Al di là di ogni possibile separazione fra passato, presente, visione e ricordo, le sue pagine presentano il fluire incessante, frammentario e magmatico di sensazioni, di immagini, di parole: Le palace (1962; trad. it. 1965); Histoire (1967; trad. it. 1971); La bataille de Pharsale (1969; trad. it. 1987); Triptyque (1973; trad. it. 1975); Leçon des choses (1976); Géorgiques (1981); La chevelure de Bérénice (1984); L’acacia (1989; trad. it. 1994). In occasione della consegna del Nobel per la letteratura, conferitogli nel 1985, pronunciò il Discours de Stockholm (pubbl. 1986), in cui analizzò le analogie della propria scrittura con le tecniche e le peculiarità espressive della pittura. La riflessione teorica sulla scrittura-pittura ricorre anche in Orion aveugle (1970), mentre il suo costante interesse per la pittura è testimoniato dai saggi di critica d’arte Femmes (1996) e dalla Correspondance 1970-1984 (1994) con il pittore J. Dubuffet.
Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”Claude SIMON “Il Discorso di Stoccolma”
Breve biografia di Karin Maria Boye – Poetessa svedese (Göteborg 1900 – Alingsås 1941). L’immoralismo eroico di Nietzsche, l’umanesimo socialisteggiante predicato da E. Blomberg e la psicanalisi formano il sostrato della sua opera lirica e narrativa, in cui si rispecchia il cammino ideale di tutta una generazione: dalla rivolta alla religione tradizionale fino al vitalismo e al nichilismo. Alle prime raccolte di poesie: Moln (“Nubi”, 1922); Gömda land (“Terre nascoste”, 1924); Härdarna (“I focolari”, 1927), seguirono För trädets skull (“Per amore dell’albero”, 1935); De sju dödssynderna (“I sette peccati mortali”, 1941, postumo). L’urgenza di irrisolti problemi morali è eloquentemente illustrata nel romanzo autobiografico: Kris (“Crisi”, 1934) e nell’allegoria politica alla Huxley, Kallocain (1940), sul paventato trionfo d’una dittatura universale. Morì suicida.
Sento i tuoi passi nella sala
Sento i tuoi passi nella sala,
sento in ogni nervo i tuoi rapidi passi
che nessuno nota altrimenti.
Intorno a me soffia un vento di fuoco.
Sento i tuoi passi, i tuoi amati passi,
e l’anima fa male.
Cammini lontano nella sala,
ma l’aria ondeggia dei tuoi passi
e canta come canta il mare.
Ascolto, prigioniera dell’oppressione che consuma.
Nel ritmo del tuo ritmo, nel tempo del tuo tempo
batte il mio polso nella fame.
Come posso dire
Come posso dire se la tua voce è bella.
So soltanto che mi penetra
e che mi fa tremare come foglia
e mi lacera e mi dirompe.
Cosa so della tua pelle e delle tue membra.
Mi scuote soltanto che sono tue,
così che per me non c’è sonno nè riposo,
finché non saranno mie.
Ricordo
Quieta voglio ringraziare il mio destino:
mai ti perdo del tutto
Come una perla cresce nella conchiglia,
così dentro di me
germoglia dolcemente il tuo essere bagnato di rugiada.
Se infine un giorno ti dimenticassi –
allora sarai tu sangue del mio sangue
allora sarai tu una cosa sola con me –
lo vogliano gli dei.
Karin Boye
Il meglio
Il meglio che possediamo
non lo si può dare,
non lo si può dire
e neanche scrivere.
Il meglio del tuo animo
niente lo può lordare.
Risplende profondo laggiù
per te e per Dio solamente.
È il colmo della nostra ricchezza
che nessun altro possa raggiungerlo.
È il tormento della nostra miseria
che nessun altro possa averlo.
Io non ti perderò mai-
Nessun cielo di una notte d’estate senza respiro
giunge così profondo nell’eternità,
nessun lago, quando le nebbie si diradano,
riflette una calma simile
come l’attimo –
quando i confini della solitudine si cancellano
e gli occhi diventano trasparenti
e le voci diventano semplici come venti
e niente c’è più da nascondere.
Come posso ora aver paura?
Io non ti perderò mai.
Karin Boye
Certo che fa male
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono.
Perché dovrebbe altrimenti esitare la primavera?
Perché tutta la nostra bruciante nostalgia
dovrebbe rimanere avvinta nel gelido pallore amaro?
Involucro fu il bocciolo, tutto l’inverno.
Cosa di nuovo ora consuma e spinge?
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono,
male a ciò che cresce
male a ciò che racchiude.
Certo che è difficile quando le gocce cadono.
Tremano d’inquietudine pesanti, stanno sospese
si aggrappano al piccolo ramo, si gonfiano, scivolano
il peso le trascina e provano ad aggrapparsi.
Difficile essere incerti, timorosi e divisi,
difficile sentire il profondo che trae, che chiama
e lì restare ancora e tremare soltanto
difficile voler stare
e volere cadere.
Allora, quando più niente aiuta
si rompono esultando i boccioli dell’albero,
allora, quando il timore non più trattiene,
cadono scintillando le gocce dal piccolo ramo,
dimenticano la vecchia paura del nuovo
dimenticano l’apprensione del viaggio –
conoscono in un attimo la più grande serenità
riposano in quella fiducia
che crea il mondo.
Salva
(da Nuvole, 1922)
Il mondo scorre da fango, vuoto lo riempie.
Ferite, che il giorno ha aperto, si chiudono, quando è sera.
Calma, calma inclino il capo
a una santa visione, il tuo ricordo che indugia.
Tempio; rifugio; purificazione;
santuario mio!
Sulle tue scale lontana la tenebra, salva,
serena come un bimbo mi addormento.
Le stelle
(da Terre nascoste, 1924)
Ora è finita. Ora mi sveglio.
Ed è quieto e facile l’andare,
quando non c’è più niente da attendere
e niente da sopportare.
Oro rosso ieri, foglia secca oggi.
Domani non ci sarà niente.
Ma stelle ardono in silenzio come prima
stanotte, nello spazio intorno.
Ora voglio regalare me stessa,
così non mi resterà alcuna briciola.
Dite, stelle, volete ricevere
un’anima che non possiede tesori?
Presso di voi è libertà senza difetto
lontana la pace dell’eternità.
Non video forse mai il cielo vuoto,
chi dette a voi il suo sogno e la sua lotta.
Karin Boye
(da I focolari, 1927)
Credo che la morte sia come te,
alta e pallida e diritta come te,
tempie ugualmente incurvate,
occhi di mare, occhi di lontananze come te
le stesse labbra chiuse nel dolore.
Sei la morte. Io sono tua,
tua la mano e tua la mente.
Hai stordito tutte le forze della vita,
cullato in un triste torpore
sogno e atto, che appena hanno provato l’ala.
Ma ti amo, mia morte,
tu mia lunga amara morte,
nella cui mano chiusa inaridisce la mia vita.
Tu mia dolce, dolce morte –
Ti benedico ogni istante che tormenti!
Il violoncello profondo della notte
(da Per l’albero, 1935)
Il violoncello profondo della notte
scaglia nelle ampie distese la sua oscura esultanza.
Le immagini vaghe delle cose sciolgono la loro forma
in fiumi di luce cosmica.
I marosi, brillando lunghi,
si frangono onda su onda attraverso l’eternità blu notte.
Tu! Tu! Tu!
Spiegata leggera materia, schiuma fiorente del ritmo,
sospeso, vertiginoso sogno di sogni,
bianco abbagliante!
Un gabbiamo io sono, e su ali plananti
bevo beatitudine salata di mare
molto più ad est di tutto ciò che so,
molto più ad ovest di tutto ciò che voglio,
e sfioro il cuore del mondo –
bianco abbagliante!
Molte voci parlano
(da I sette peccati capitali e altre poesie postume, 1941)
Molte voci parlano.
La tua è come acqua.
La tua è come pioggia,
quando cade attraverso la notte.
Mormora sottovoce,
scende brancolando,
lenta, incerta,
penosamente viva.
Trema come terra
dietro ogni rumore,
stilla e cola
contro la mia pelle,
morbidamente s’avvolge,
mi avviluppa,
riempie le mie orecchie
di ricordi sussurranti.
Voglio sedere in silenzio
dove non posso disturbarti.
Voglio abitare e vivere
dove posso udirti.
Molte voci parlano.
Attraverso tutte queste
odo solo la tua
cadere come pioggia notturna.
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