Welso Giovanni Mucci -Poesie -Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Welso Giovanni Mucci -Poesie –
Welso Giovanni Mucci (Giòanin per gli amici) nacque a Napoli il 29 maggio del 1911 da Ranieri, abruzzese e maestro di musica nel Regio Esercito, e Domenica Boglione di Bra. Rimase affezionato a questa cittadina tutta la vita, passandovi nell’età matura lunghi periodi.
Il compagno è senza un soldo Senza un soldo di lontano
E’ venuto con la pioggia
Con la pioggia e per le strade Di collina e poi del piano Con la moto e con la giubba Con la giubba sua di cuoio Che è solcata dalla pioggia Come a marzo una vallata
Il compagno è qui venuto
E ha tenuto
La riunione.
II
Ha tenuto la riunione
Han parlato dei bollini
Dei bollini delle tessere
Dei problemi del Comune Hanno messo insieme i soldi Per la rata che si deve
Che si deve al fornitore
Che ha fornito il ciclostile
Poi qualcuno ha detto andiamo Chè alle cinque debbo alzarmi.
III
Alle cinque hanno da alzarsi Per andare a lavorare
Al padrone non puoi dire Questa notte ho fatto tardi Nel Partito Comunista
Per discuter dei problemi Dei problemi del Comune Dei bollini delle tessere Delle rate da pagare
Se poi dice il ciclostile
Cose invise
Al padrone.
IV
Ma quest’anno è un mostro il tempo Se pioveva un’ora fa
Marzo adesso è freddo e nevica
Il compagno che è venuto
Pioggia e fango ha già passati
Con la giubba e con la moto
Fango e pioggia può passare
Ma se nevica è un disastro
E’ un disastro da finire
Da finire dentro un fosso
Con al neve nei due occhi.
V
Con al neve nei due occhi
Nei due occhi che hanno sonno Il compagno resta qui
Resta qui ma senza un soldo
A dormire dove va
La locanda che fa credito
Ma il portone già sprangato Sulla via che è bianca, è nero
Il portone, è nero il muro
Il compagno senza un soldo Non può andare
Nell’Hotel
VI
Non può andare nell’Hotel Questo è chiaro a tutti quanti
Tutti quanti son persuasi
Che il compagno che è venuto Non può andare e non può stare E continuano a parlare
Dei problemi del Paese
Della guerra e della pace
Del Congresso del Partito
Del Partito dell’Unione
Della Cina
Della vita.
VII
Della Cina della vita
Nelle strade che son bianche Lungo i muri che son neri Questi qui vanno parlando Come un tempo già i poeti
I poeti che ora stanno
Chiusi e freddi e muti e stanchi Senza un soldo dentro il cuore Con la resa dentro gli occhi Con la stizza sulla pelle
Di domani
Non si sa.
VIII
Di domani non si sa
Ma lo sanno questi qui Questi qui lo sanno, ché Ogni giorno un po’ lo fanno Il domani un po’ lo fanno Anche adesso che si parla Del lavoro e della vita Mentre portano il compagno A dormire sopra un tavolo Del Partito, con la testa Appoggiata al
Ciclostile.
LETTERA AI MEMBRI DEL CC E DELLA CCC DEL PCI
ascolto i vostri dibattiti come si ascolta il gorgo dei cassoni dell’acqua durante
le notti d’insonnia
reumatica.
(stando al piano delle lavanderie
com’io sto da quando ho memoria
si potrebbe anche tentare d’essere lucidi e assegnare più origini
a questi singulti del ferro
ma tutto
arriva qui col medesimo tuono) scusate dunque
la confusione che i vostri canali mettono nelle mie arterie infreddolite
non è un caso
che proprio il mio reuma più acuto sia accaduto insieme
con i vostri dibattiti
siamo stati aggrediti
da un medesimo vento
che le mie ossa ricevono gelido
e che molti di voi definiscono caldo vedete
che per poco che i miei versi
si prolunghino nella notte
come larve di antichi dolori
c’è rischio che anch’io entri tra voi a dibattere
sulla qualità
da dare
a quel vento
ora
ciò che manca nei vostri dibattiti (perché tutti noi si sappia che fare) è proprio
quel che una gran base
del Partito
vi addita
(se voi foste più logici)
un pizzico di
silenzio
dicembre 1961
noi viviamo in un tempo
che la Morte è sospesa
vola un piccione grigio alla lavagna
del cielo di Charing Cross
i più vecchi tra noi
hanno strani ricordi
a quest’ora
nella piana di Pimlico
la Luna alza le strade
e sul Ponte di Londra
le acque umane si gonfiano
da un limo all’altro del fiume
se la memoria indugia
è sommersa
questo è l’ultimo tonfo della chiatta
alla chiatta che attracca
c’è il sottoterra e le domeniche
per covare i ricordi
noi viviamo in un tempo
che la Morte è sospesa
e i più vecchi tra noi
non hanno il cuore facile
se qualcuno verrà dopo di noi
in questi cunicoli
dove i treni biforcano
e i nostri giorni in piena ebbero pausa
sotto il crinale
ventoso della brughiera di Hampstead
non badi alle nostre ossa
ma alla vita che avemmo
per toglier di mezzo la Morte
questo è un tempo che torce ogni nostra ora
è lontano lo sparo
del suicida alla prua della sirena
il futuro è a portata di mano
ma nessuno verrà dopo di noi
a ruspare nel limo
delle basse maree vetri di guinness
o qualche magro rame
d’Elisabetta la Seconda
se al pelo morto delle acque
approda solitario un coccio bianco
dell’umano deterrent
corriamo un Sole basso all’orizzonte
sopra spalti di neve e sulla Terra obliqua
un cielo freddo si schiaccia
fino al ventre delle nostre memorie
………………
Nell’officina che ha le finestre sulla campagna
e lontano si vede il muretto
del cimitero ov’è la tua tomba,
quest’oggi tuo padre ed io litigavamo;
tra i ferri e le incudini
noi si gridava e scherzava
con queste giornaliere passioni,
come quando tu eri tra noi
ancora nel giuoco della vita.
Larve inconsapevoli
e accalorate
noi parlavamo di guerre
e di padroni del mondo;
e non capivamo che il tumulto
di questa età
è il rimbombo delle nostre voci
nel cavo del vostro silenzio.
Tu mi domandi perché amor non sciolga
mai la tristezza nel mio solitario
e pigro sangue. Non sai quale ossario
di alterchi è la memoria in me. Si volga
pure ogni anno: non c’è ch’io non mi dolga
di affrettati abbandoni. Era un orario
di scontri e buie morti e di afe il vario
apparir dell’età. Vuoi tu ch’io tolga
melanconica carne ormai dal cuore
che gli anni irosi han chiuso in questa dura
maschera? È segno che scordi il dolore
che mi costò anche il tuo dono; e ho paura,
se tu scordi, che il poco e lento amore
si perda ancor nella mia vita oscura.
Ho fatto per tanti anni la vita di trincea
in camere sudice con qualche libro
e un letto disfatto da mesi,
che neanch’io so più da che parte sia il nemico.
So che se tento un’uscita,
non vedo che facce pronte e ostili
a un mio passo sbagliato.
Né mi è valso mutar stanza e città,
ché mi trovo assediato nella polvere
con un sorso di grappa.
Tuttavia ho sempre guardato con piacere
nel vetro delle finestre
questa dura cosa
che è ancora la vita d’un uomo.
E un giorno
morirò nella strada.
Quando io muoio
vorrei che tu mi chiudessi gli occhi
e mi lasciassi sulle labbra
la pressione di un bacio.
Ci siamo incontrati a vivere
in questi
dei molti anni, da che esiste l’uomo
sopra la Terra;
e abbiamo avuto gli stessi giri di Sole
e le stesse piogge e gl’inverni
e gli umori primaverili.
Con qualche leggera fatica
abbiamo anche avuto gli stessi moti,
poiché insieme imparammo a conoscere
quali sono
questi dei molti
anni da che esiste l’uomo.
Andrò nella terra senza rimpianto.
E se i posteri dei posteri
scaveranno le nostre tombe,
vorrei che trovassero
accanto alla nostra polvere
la palla di gomma con cui giocavamo
un’estate
nelle ore di bassa marea.
Questa mia volontà
anche se immagino che non sarà rispettata,
fa capo al mio più gaio ricordo:
di te che corri lontana sulla riva
e che torni ridendo con gli occhi,
in uno degli anni
che ci siamo trovati a vivere
e a muoverci insieme.
Uno di questi giorni mi vedrai sparire,
inghiottito dai ricordi.
Quando i veleni quotidiani
cominciano a venir meno,
la memoria diventa un oceano.
Per qualche istante sarò anche buffo da vedere,
mentre mi dimeno
sulla cresta d’un ricordo più alto degli atri;
poi il risucchio sarà così forte,
che colerò per sempre a picco
nelle profondità della memoria.
……………………..
Questa poesia, che tanti voli d’anatre
ha visti ai confini dello sguardo nel sud,
e dal massiccio K’un Lun
da cui il cielo dista non più di tre pollici
ha guardato
tutti i colori e i tempi della Cina,
deve farsi ora più esile e obliqua,
come dopo la pioggia torna obliquo il sole,
per attraversare i gioghi dell’Appennino
e la grigioverde Provenza
e le coste del Levante di Spagna,
fino a posarsi sui tetti infuocati d’Alicante
dove vive il mio amico.
Io da Roma,
quale un agente dei re della droga,
travaso in cartine di sillabe
questa polverina azzurra e dorata.
La poesia di Mao, come la Rossa Armata,
non ha temuto la difficile lunga marcia,
ha passato diecimila fiumi e mille montagne
e ha disteso il volto al sorriso.
Ora però deve ricordare
che la visuale cresce secondo la misura dell’occhio,
e mettersi ancora in cammino
senza perdere un segno
per le forre e le crepe di quelle arse pianure.
…………………………..
In questo Museo
non cercate le facce
di ladri, assassini,
briganti o bari.
Ci sono al mondo, badate,
facce cattive,
facce mostruose,
facce che non promettono nulla di buono,
ma sono facce umane,
facce che si esprimono,
e di fronte alle quali
uno che per disgrazia si trovi a passare
sa subito
che deve difendersi
e magari perire in quel punto
per mano di uno
che porta scritto in viso
il nome della sua solitudine.
Ma di fronte a una faccia
di quelle che danno spavento agli uomini,
non è un solitario, né un misero,
che abbiamo davanti:
è un essere superiore,
che è sicuro di essere meglio
di te e di me,
e sa che ogni ragione
è dalla sua,
perchè sente di avere dietro di sé
una forza, la forza
dei suoi padroni, capace di far prediligere
le sue viltà più discordi,
da chiunque.
Anche se non ricorda,
nel punto che ci schiaccia,
di essere un servo, un braccio, un’unghia
di padroni,
che non vogliono mostrare la faccia
e hanno preso la sua.
E così,
se sorride,
dà spavento agli uomini.
————————-
Ma il giorno che avremo finito
di toglier di mezzo la forza
dei padroni di facce che danno spavento,
e avremo messo le altre
che ancora potrebbero crescere,
a far da custodi
nel Museo delle loro antenate,
con la mansione di tenere,
sia pure di pessimo umore,
spolverate le facce
che diedero spavento agli uomini,
quel giorno i ragazzi,
senza un’ombra,
giocheranno sui prati.
Il giorno che le mie stanche ossa
e i nervi
cadranno in terra,
alle marcite gore del sangue
andranno i volti amati
e le ore
e i paesi più cari.
Anche se snervi
tutto questo la morte,
è questo il cuore
che sospinto m’avrà
sotto protervi cieli,
che tanto odiai.
Ti perderò per sempre,
amato volto del padre!
E tu
da quell’alba lontana,
che sopra un colle di ulivi
alla piana fresca del mare
il fiato ultimo hai colto,
in fondo agli occhi miei avrai fine.
Ascolto
le tue sbiadite tracce,
in questa frana
che fa il mio tempo;
e se incontro una tana
più calda al viver mio,
qui c’è più folto
un ricordo di te.
Sempre che ai vecchi portici io torni,
troverò ai miei passi
il tuo braccio affettuoso.
Anche al quartiere
dove ira ci spezzò,
son vivi i sassi.
E con noi scherzerà le estreme sere
il calabrone intorno agli arti secchi.
È raro che io t’incontri, o madre.
Vaghi
tu in età più remote;
e se a parlarti mi scopro,
è antico vizio.
Alle tue parti
spira un vento leggero e chiaro:
draghi luminosi di carta, le ansie;
e laghi docili d’acque, i giorni.
Ma se rasento il ciglio ove ti apparti;
giovane madre, e sconsolata indaghi
negli ultimi anni tuoi
cosa è che strugge
la fresca vita,
io ti vedo che ancora
pieghi il capo
a nascondere una lacrima.
Vuoi
che allegri io ricordi gli occhi,
e di acri tuoi pensieri non sappia!
Ma una ruggine
ogni costrutto tuo
presto divora.
——————–
E pur se il capo
ci confuse una tenebra,
or che stesi, e con i corpi stretti,
alle tue palpebre accosto
le mie labbra,
il sangue ha un caldo
che arde anche i più tristi arnesi
delle nostre paure;
e a me fa dolce
il tempo che verrà dopo queste ore,
e il ricordar gli amici che eran vivi
or son pochi anni,
e riguardar le cose
che lasceremo in breve.
Così andiamo alla notte
abbracciati,
o moglie mia;
e io sento ancora il tuo bel viso acceso,
che in me dileguerà l’ora ch’io muoio.
Roma, maggio 1960
conoscete quest’ uomo
a quale perielio
bruci la domanda
e quale fossa del tempo
sempre un attimo sfiori
conoscete quest’ uomo
quale che sia le tenebra
a cui d’un alito fugge
e da che cieli defunti
guardi ancora la fine
bianca
d’una qualsiasi notte
conoscete quest’uomo
come che sia la specie
ancora accesa e la piazza
dove il saluto o il ricordo sta inciso
nella polvere delle pietre
come un incontro all’angolo
o come una storia estinta
dietro fogli d’alluminio
che presto un vento sopra la città
farà volare pesanti
…………………………
in quale mai folgore di tempo
conoscete quest’uomo
perchè sia necessario entrare
in orbite più minute
o cercare tra rughe
d’uno spazio meno feroce
ognuno potrà a prima vista distinguere
mané i bicchieri toccati al vertice dell’allegria
né le ruote dei primi carri
sapranno da soli tirarci dal groviglio
dei giri
che ci confondono
…………………………..
conoscete quest’uomo
è una domanda che mozza
il fiato delle galassie
e qui scatta a ripetersi
come un segmento
di monotone dinastie terrestri
in cui l’insipienza dei gesti
è il solo universo
cocciuto di qualsiasi gendarme abbia ordine
e maschera
d’intersecare una traccia
……………………..
nell’insieme degli uomini
dalle caverne agli astri
sola grandezza
che le galassie lascino
a ciascuno di noi ch’è niente
tra le scorie
di qualche stagione
che si mescoleranno forse alle ore
sempre incerte da vivere
se non odia e non lotta
con l’insieme degli uomini
a dare fossa
ai secoli che ci dànno la caccia
su un grumo di terra sperduto
in fondo agli universi
per questa nostra folgore di tempo
Parigi-Basilea-Roma, gennaio-febbraio 1962-
Welso Giovanni Mucci (Giòanin per gli amici) nacque a Napoli il 29 maggio del 1911 da Ranieri, abruzzese e maestro di musica nel Regio Esercito, e Domenica Boglione di Bra. Rimase affezionato a questa cittadina tutta la vita, passandovi nell’età matura lunghi periodi.
Da ragazzo dovette seguire le peregrinazioni per tutta Italia del padre, fino a stabilirsi a Torino, dove si laureò in filosofia estetica. Durante il periodo dell’Università giocò nelle riserve della Juventus, bohémien nel cosiddetto fascismo di sinistra. Romano Bilenchi ricorda nel suo libro “Amici” l’epico pestaggio a cui fu sottoposto allora con Primo Zeglio da parte di alcuni esagitati del Guf.
Fu proprio a Torino che esordì sul “Selvaggio” di Maccari come critico musicale (si firmava ancora Welso),e conobbe gli artisti che rimasero i suoi amici per tutta la vita (Spazzapan, Menzio, Cremona, Rosso e tanti altri)
Nel 1934 si trasferì a Parigi, dove aprì con il cugino Sandrino Alberti una libreria antiquaria. Qui tennero anche mostre dei loro amici pittori fino allo scoppio della guerra che pose fine a tutto. A Parigi poterono frequentare le avanguardie artistiche e letterarie del tempo.
Pubblicò in quel periodo i suoi scritti e le poesie giovanili in brochures semiclandestine oggi introvabili.
Ma fu a Roma, nel dopoguerra, che iniziò il suo periodo creativo più felice.
Insieme a Leonardo Sinisgalli, Nicola Ciarletta e Aldo Gaetano Ferrara fondò la rivista bimestrale “Il Costume politico e letterario”, dove per cinque anni raccolse le firme migliori dell’Italia letteraria di allora.
Poi ideò con Dora, la sua moglie-donna-compagna, le tredici superbe cartelle del “Concilium Lithographicum”, dove alle litografie di De Chirico, Maccari, De Pisis, Fazzini e altri erano affiancati gli scritti di Ungaretti, Palazzeschi, Cardarelli, Sinisgalli.. Dora gliel’aveva presentata Maccari nel ’39 a Roma, e lo amò sempre, fino all’ultimo.
La moglie di Sinisgalli, Giorgia de Cousandier, rievocherà nel 1965 in un commosso ricordo di Mucci sulle pagine della rivista “La botte e il violino” anche la gestazione del “Concilium” e del “Costume”.
Sempre negli anni cinquanta venne la sua collaborazione con il ”Contemporaneo”, la rivista politico-letteraria di ispirazione marxista diretta da Antonello Trombadori. (Mucci aveva preso la tessera del PCI nel ’45). Diresse anche “La Voce“ di Cuneo, e pubblicò i suoi saggi nel volume “L’azione letteraria 1.”
Ma fu solo nel 1962 che una grande casa editrice, la Feltrinelli, pubblicò per la prima volta le sue poesie in “L’età della Terra”. Ne scrisse la prefazione Natalino Sapegno, e vinse il premio Chianciano ex-aequo con Andrea Zanzotto. Fu anche in Spagna a prendere contatti per il PCI con l’opposizione antifranchista, e da questo viaggio nacque uno storico numero del Contemporaneo. Sempre nel 1962 fu inviato dall’Unità al Giro d’Italia, e ne fu il cronista attento e polemico.
La sua ultima stagione iniziò a Londra, dove si era trasferito per imparare l’inglese alla perfezione. Ufficialmente era per poter leggere l’Ulisse di Joyce in lingua originale, che aveva già scoperto a Torino in francese tanti anni prima. Il suo vero sogno, però, era di andare come inviato dell’Unità a Pechino. Aveva cominciato a coltivarlo nel ’58 a Tashkent, quando aveva partecipato alla Conferenza degli scrittori afro-asiatici e conosciuto Nazim Hikmet, il grande poeta turco che aveva tradotto in italiano. In quell’occasione aveva conosciuto i compagni del Partito comunista cinese, con i quali aveva fraternizzato.
A Londra scrisse le 200 cartelle del suo romanzo, “L’uomo di Torino”. Ci mise sei mesi, dal 7 novembre del 1963 all’aprile seguente. A maggio lo colse il primo infarto. Dora disse che non smise di fumare dopo questo. Il secondo, la notte fra il 5 e il 6 settembre 1964, gli fu fatale.
Le sue opere uscirono postume, lentamente, nell’arco di quasi quindici anni. Feltrinelli pubblicò nel 1967 “L’uomo di Torino” e l’anno dopo la raccolta di tutte le sue poesie “Carte in tavola”. Nel 1973 uscirono le sue “Carte di un italiano dell’11”, e l’antologia dei suoi saggi filosofici e letterari curata da Mario Lunetta fu pubblicata nel 1977 con il titolo “L’azione letteraria”. Poi più nulla fino al 2009, quando uscì una plaquette con una scelta delle sue poesie a cura di Massimo Raffaeli.
Lo conobbe e lo apprezzò praticamente tutta la critica militante italiana del ‘900, dalla quale non ricevette quasi mai stroncature, anche se lui invece non le risparmiò. Clamorose furono quelle di Louis Aragon che lodava il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e del Dottor Zivago di Pasternak. Nel 2008 gli fu conferito, postumo, il premio letterario Feronia.
Biografia di Velso Mucci (Napoli, 29 maggio 1911 – Londra, 5 settembre 1964) è stato uno scrittore italiano. Durante gli anni del fascismo, per le idee politiche comuniste, è costretto a peregrinare in molte città italiane dove alternò la passione per le lettere alla professione di libraio. pur nelle difficoltà del periodo, continuò a scrivere (“Scartafaccio” viene pubblicato nel ’48 ma è presumibilmente scritto nei primi anni Trenta), fondando e dirigendo nel ’45 la rivista “Il costume politico e letterario”. Negli anni Cinquanta si trasferisce a Bra dove ha modo di proseguire la sua attività letteraria ed impegnarsi politicamente. Nel 1956 viene eletto consigliere comunale, carica che manterrà fino al 1960, ed è chiamato a dirigere il settimanale politico cuneese “La Voce”. Il suo capolavoro letterario è il romanzo “L’uomo di Torino”, che offre uno spaccato della realtà cittadina ai tempi delle prime industrie conciarie negli anni Venti.
Visse in diverse parti d’Italia a seguito degli spostamenti del padre, militare e maestro di musica, fino a stabilirsi definitivamente nel 1924 a Torino, dove frequentò il Liceo classico Cavour, conoscendovi, tra gli altri, Giancarlo Pajetta. All’inizio degli anni ’30 entrò come critico musicale nella redazione de “Il Selvaggio”, dove conobbe, oltre al direttore Mino Maccari, personaggi come l’architetto Carlo Mollino e artisti come Carlo Carrà, Filippo De Pisis, Giorgio Morandi e Luigi Spazzapan, che ospitò poi nella libreria antiquaria aperta sulla Rive Gauche a Parigi, dove si era trasferito nel 1934. Il suo profilo letterario, legato nelle prime esperienze degli anni ’20 soprattutto alla personalità di Vincenzo Cardarelli, di cui più tardi curerà le edizioni delle Lettere non spedite (Roma, Astrolabio, 1946) e dei Prologhi viaggi favole (Milano, Mondadori, 1946), si arricchì a Parigi grazie alla frequentazione di intellettuali come Paul Éluard, Tristan Tzara, Nazim Hikmet, di cui tradusse più tardi le Poesie (Roma, Editori riuniti, 1960). Dopo la guerra si trasferì a Roma, dove fondò e diresse Il costume politico e letterario, bimestrale dove pubblicarono, tra gli altri, Leonardo Sinisgalli, Umberto Saba, Giorgio Bassani, Mario Tobino, Giuseppe Raimondi, Giuseppe Ungaretti. Nel 1947, dopo essersi iscritto al Partito comunista italiano, entrò in contatto con scrittori quali Niccolò Gallo, Mario Socrate, Giuseppe Dessì, e venne chiamato nel 1958 a far parte del comitato direttivo del Contemporaneo.
Opere principali
- Esercizi: 1927-1933 (liriche), Torino, Il Portico, 1935
- Le carte (prose e versi liberi), Roma, Il Selvaggio, 1936
- Scartafaccio 1930-1946 (versi e prose), Roma, Tip. Ist. Grafico Tiberino, 1948
- L’ umana compagnia, con un disegno di Giorgio De Chirico e due incisioni di Mino Rosso, Roma, Il Costume editoriale, 1953
- L’ azione letteraria, Roma, Il Costume editoriale, 1958
- L’ età della terra (versi), Milano, Feltrinelli, 1962 (premio Chianciano ex aequo con Andrea Zanzotto)
- L’ uomo di Torino (romanzo), Milano, Feltrinelli, 1967, ripubblicato nel 2012, Milano, Scalpendi ed.
- Carte in tavola (versi), prefazione di Natalino Sapegno, Milano, Feltrinelli, 1968
- L’azione letteraria (raccolta di saggi filosofici e letterari, a cura di Mario Lunetta), Roma, Ed. riuniti, 1977
Bibliografia
- Dizionario generale degli autori italiani contemporanei, vol. II, Firenze, Vallecchi, 1974, ad vocem
- Quest’uomo: Velso Mucci: contributi sulla figura e l’opera, Cosenza, Mondo Nuovo, 1974
- Alberto Asor Rosa, Dizionario della letteratura italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1992, ad vocem
- Conoscete quest’uomo (Atti del convegno in occasione del centenario della nascita, a cura di Alberto Alberti) Milano, Scalpendi ed., 2012
- Mercato delle pulci – Scritti inediti e rari 1930-1963, a cura di Alberto Alberti, prefazione di Massimo Raffaeli, Scalpendi ed., Milano maggio 2015
- C’è ancora molto sulla terra – Antologia poetica di Velso Mucci, a cura di Alberto Alberti e Nicola Vacca, Collana “Agorà”, L’Argolibro ed. giugno 2021
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.