-Indagini archeologiche Via Aurelia Antica-Località Malagrotta-(2011-2013)–
Malagrotta-Osteria a sinistra della Via Aurelia Antica, o strada di Civitavecchia, 8 miglia lungi da Roma , posta nel tenimento di Castel di Guido, poco prima del diverticolo di Maccarese. Essa è nella valle del Rio di Galeria, che si traversa sopra un ponte : ivi dappresso è un Casale , un granaio , la chiesa , ed un fontanile fornito di acqua da una sorgente condotta, i cui bottini veggasi a destra della strada. Il nome Malagrotta suol dirsi da una grotta che si vede sul colle a sinistra ; a me sembra però che sia un travolgimento del nome Mola Rupta, che almeno fin dal secolo X. questo fondo portava: dico fin dal secolo X, poiché non voglio fare uso della Carta di donazione di Santa Silvia per le ragioni che furono indicate nell’articolo su Maccarese. Or dunque negli annali de’ i Camaldolesi, ne’ quali si riporta quell’Atto di donazione , si trova pure riportata una Carta genuina pertinente all’anno 995, ( leggasi il tomo I.p.p.126) nella quale si ricorda la cessione e permuta fatta da Costanza nobilissima donna di una metà di un suo Casale denominato Casa Nobula, posto circa l’ottavo miglio fuori della porta San Pietro nella contrada che corrisponde appunto a Malagrotta. E questa contrada si ricorda ancora anche in altre Carte degli stessi annali, come in una dell’anno 1014 nella quale si pone fuori di porta San Pancrazio nella via Aurelia, e si nomina come Casale ,in un’altra carta del 1067 si nomina come affine al Rio Galeria, e nel secolo XIII. Col nome di Castrum Molarupta colle chiese di Santa Maria e di Santa Apollinare si designa nelle bolle di papa Innocenzo IV. Nel 1249 e di Papa Bonifacio VIII. Nel 1299, con le quali furono conferiti i beni di San Gregorio: come pure in due Atti pertinenti all’anno 1280 e 1296, documenti che sono inseriti nell’appendice del tomo V. degli Annali suddetti. Quindi il nome Molarupta rimaneva sul principio del secolo XIV. E quanto a questa denominazione così antica , che rimonta, come si vide , almeno al secolo X. facile è derivarne la etimologia da una mola ivi sul fiume Galeria esistente, la quale rottasi, ne derivò al fondo ed alla contrada il nome do Molarupta.
Roma: Malagrotta – via Aurelia-indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.Committente:Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
Roma: Malagrotta – via Aurelia–indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.
Committente: Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
ROMA- 21 agosto 2017-Fu proprio col decreto reale del 3 giugno 1882, giorno successivo alla morte di Giuseppe Garibaldi, che veniva stabilito di erigere un monumento in suo onore. La scelta del luogo cadde sul Gianicolo, dove ancora vivo era il ricordo dell’epopea garibaldina dei giorni dell’effimera Repubblica Romana. Dal decreto si passò, l’anno successivo, al bando del concorso pubblico e prese vita, con De Pretis alla Presidenza, la commissione composta da artisti, deputati, senatori e dal sindaco di Roma Leopoldo Torlonia. Nel bando del concorso veniva indicato il luogo preciso del Gianicolo in quanto la commissione sentiva il dovere di fornire al concorrente tutti gli elementi necessari allo studio dell’opera da erigere e dello spazio a disposizione. A tal proposito, giustamente scriveva l’architetto Camillo Boito, membro della commissione: “La massa del monumento, la stessa sua composizione, la scelta dei materiali, la grandezza e lavoratura dei particolari, dipendono in parte dalle condizioni anche secondarie del luogo”. Così, dopo attento esame, fu scelta la zona di proprietà dei Wedekind, il punto più alto di Roma, sopra il giardino di S. Pietro in Montorio, luogo particolarmente eccellente e idoneo alla rievocazione dei tragici gloriosi momenti della difesa di Roma.
Nel 1884 in una mostra nel Palazzo delle Esposizioni in via Nazionale furono presentati al giudizio del pubblico 36 bozzetti in cui, in obbedienza alle indicazioni del bando, doveva “campeggiare”, a cavallo o no, la statua in bronzo di Garibaldi. Tanto il giudizio della commissione reale, quanto quello della critica più autorevole si concentrarono favorevolmente sui progetti di tre scultori, già noti nell’ambiente romano. Durante un secondo esame per la scelta definitiva, la commissione rifiutava il bozzetto di Ettore Ferrari, perché l’iconografia appariva troppo complessa e sovrabbondante; rifiutava il bozzetto di Ximenes-Guidini, perché la forma piramidale, anche se un tempo descritta e desiderata da Garibaldi stesso, non lasciava campeggiare la statua equestre, nonostante i suoi 40 metri di altezza. Eppoi una piramide si sarebbe vista meglio in un cimitero, come monumento sepolcrale, piuttosto che in un punto così particolare di Roma, la cui planimetria, oltre tutto, si presentava inferiore alle misure indicate dal progetto.
Quindi le preferenze andarono al modello di Emilio Gallori, ispirato a monumenti equestri rinascimentali e in obbedienza al gusto del momento.
Nel bozzetto la statua equestre, esprimente eleganza, quiete, gentilezza, era poggiata su un basamento di granito che recava sui fianchi le figure allegoriche dell’Europa e dell’America, oltre ai bassorilievi recanti lo sbarco a Marsala e la resistenza di Boiada. La difesa di Roma e il gruppo della libertà apparivano rispettivamente nelle parti anteriore e posteriore. Lo stesso Gallori, per chiarire i motivi che lo avevano ispirato nella realizzazione del proprio progetto, così si espresse: “Nella figura equestre ho cercato di imprimere quella serenità e quella calma, che non possono discompagnarsi da una figura come quella di Garibaldi, generoso, filosofo, sempre umanitario”. Inoltre il momento storico richiedeva la celebrazione di un Garibaldi non guerrigliero e rivoluzionario, ma un condottiero virtuoso e accorto, sostenitore della pace mondiali.
Si giunge al momento solenne dell’inaugurazione, fissata nel programma del Municipio per il 21 settembre 1895, ma anticipata al 20, in occasione del venticinquesimo anniversario della breccia di Porta Pia. La celebrazione sul Gianicolo fu senz’altro la più importante e raccolse intorno al monumento oltre 30.000 invitati giunti da ogni parte d’Italia, o meglio, da quelle province e da quei comuni che deliberarono la propria partecipazione, aderendo alla richiesta del governo e superando ogni ostacolo di carattere polemico oltre che politico. E non basta. Già il 16 luglio 1895, quasi alla vigilia dell’inaugurazione, si rendevano palesi le angustie in cui versava il “Comitato Generale per solennizzare il XXV anniversario della liberazione di Roma”. Proprio in quella data Menotti Garibaldi, primogenito dell’eroe e presidente della commissione esecutiva, faceva presente a Crispi che, secondo quanto rilevato dai membri della commissione finanziaria dello stesso comitato, il programma predisposto non sarebbe mai giunto a concreta realizzazione se il governo non fosse intervenuto con un impegno di 100.000 lire. Un rifiuto a tale richiesta avrebbe portato a irrevocabili dimissioni. E le dimissioni ci furono. Le comunicò il 24 luglio lo stesso sindaco di Roma, Emanuele Ruspoli.
Fu una presa di posizione molto grave che si ripercosse sulla stessa inaugurazione. Infatti tutti i membri della famiglia Garibaldi si rifiutarono di presenziare alla cerimonia e furono concordi nel declinare l’invito ufficiale, adducendo scuse di varia natura. Tuttavia alle 11 di quell’agitato 20 settembre cadde il telo che nascondeva il maestoso monumento costato complessivamente 1.200.000 lire, di cui 1.000.000 messo a disposizione dallo Stato. per il resto contribuirono i cittadini e le diverse rappresentanze. Dall’altezza di 22 metri Garibaldi appare avvolto nel poncho tradizionale e lascia trasparire dall’atteggiamento quieto e sereno e dallo sguardo ammonitore rivolto verso i monti Parioli, tutta la dolcezza e fierezza del suo volto. Sotto di lui lo stesso cavallo semplice e grandioso completa a meraviglia la solennità del monumento. La rigidità della posizione sta ad indicare il riposo fiero dopo la conquista.
Sui gradini a destra del basamento giaceva una grande ed artistica corona di bronzo, opera di Ettore Ferrari, per ricordare ai posteri che Garibaldi fu il primo illustre Gran Maestro della Massoneria italiana. Ma nel 1925 la corona fu trafugata per sostituire i simboli massonici con quelli fascisti e la prima epigrafe con la seguente: “La Massoneria pose, il Fascismo rettificò. Al Duce delle Camicie Rosse – le Camice Nere trasteverine”.
Dopo il 25 luglio 1943 i simboli fascisti furono rimossi e la corona, a liberazione avvenuta, finì prima nei magazzini di Porta S. Pancrazio e poi in quelli comunali del Teatro di Marcello.
Secondo quanto è possibile sapere, la grande corona del 1895 non è più tornata sul Gianicolo. Il suo posto fu occupato nel 1907 da un’altra corona di bronzo recante i simboli massonici e la scritta:
AL GRAN MAESTRO
GIUSEPPE GARIBALDI
NEL CENTENARIO DELLA
SUA NASCITA
LA MASSONERIA ITALIANA
A.N. MMDCLX A.V.C.
l’opera è da attribuire al Ferrari che, ugualmente a Garibaldi, fu Gran Maestro della Massoneria e come tale amava datare i propri lavori secondo l’uso ufficiale massonico; per cui A.V.C. vuole significare Anno Verae Creationis, ossia 5000 anni prima dell’Era volgare.
Articolo scritto da Cinzia Dal Maso-10 gennaio 2014-
Foto di Franco Leggeri-
AURELIA ANTICA-ARCO TIRADIAVOLI–All’inizio della via Aurelia Antica, a breve distanza da porta San Pancrazio, dove la strada curva leggermente, si innalza un elegante arco il cui nome suscita una certa curiosità: si tratta dell’arco detto di Tiradiavoli, fatto costruire da Paolo V Borghese nel 1612 per sostenere l’acquedotto Paolo che in quel punto attraversa la strada. Il Pontefice, infatti, aveva fatto restaurare l’antico acquedotto di Traiano, per l’approvvigionamento idrico del Trastevere, del Vaticano e di alcune zone basse dall’altra parte del Tevere, come via Giulia, via Arenula e il Ghetto. Fu un’impresa notevole, che costò ben 400 mila scudi, il doppio della somma occorsa per l’acquedotto Felice. La grandiosa opera venne affidata a Giovanni Fontana, fratello maggiore di Domenico. Per reperire i fondi fu necessario applicare una tassa sulla carne e anche una – più dolorosa – sul “vino romanesco”. Tra il 1673 e il 1696, per accrescere la portata dell’acquedotto, si decise di unire alle acque sorgive anche quelle del lago di Bracciano: il risultato fu un’acqua non del tutto potabile, per cui i romani delusi coniarono il detto “valere quanto l’acqua Paola”, per apostrofare qualcosa di scarso valore. Nella parte superiore dell’arco, sotto al fastigio con lo stemma del pontefice, è l’iscrizione che commemora l’impresa di Paolo V. Dalla terza riga, però, si capisce che il pontefice e i suoi architetti erano caduti in un errore: credevano di aver restaurato non l’acquedotto di Traiano, ma quello dell’Aqua Alsietina, costruito da Augusto per alimentare la Naumachia. Il curioso nome dato all’arco ricorda che un tempo questo tratto dell’Aurelia si chiamava via di Tiradiavoli. Come spiega Nica Fiori nel suo libro “I misteri della Roma più segreta” (Edizioni Mediterranee, 2000), uno dei fantasmi più celebri di Roma sarebbe quello di Donna Olimpia Pamphili, cognata di papa Innocenzo X. “Pare che, nelle notti di plenilunio, appaia nei pressi di villa Doria Pamphili sulla sua carrozza trainata da quattro cavalli, che corre per le strade lasciando dietro di sé una scia di fuoco. Dopo aver attraversato di corsa Ponte Sisto, scompare nel Tevere. Si racconta che i diavoli vengano ogni volta a prelevarla per trascinarla all’inferno, tanto che un tratto della via Aurelia antica, nei pressi della villa, si chiamò, fino al 1914, via Tiradiavoli”. Secondo Claudio Rendina, invece, il toponimo di Tiradiavoli deriverebbe dall’abbondanza di memorie di martiri cristiani sull’Aurelia Antica, che faceva sì che i diavoli venissero “tirati via”. Fino alla prima metà del Novecento scorreva all’aperto anche una marrana di Tiradiavoli, che nel medioevo si chiamava marrana di pozzo Pantaleo. Questo corso d’acqua nasce all’interno di villa Pamphili, dalle sorgenti della valle dei Daini e dopo aver attraversato la valle di via di Donna Olimpia e la zona di pozzo Pantaleo sbocca nel Tevere. La marrana oggi continua a scorrere sotto via di Donna Olimpia. La via Tiradiavoli si trova citata nelle cronache dell’assalto francese del 3 giugno del 1849, che prese di sorpresa i difensori della Repubblica romana. Alle due del mattino due colonne francesi arrivavano a villa Pamphili. Una aprì un passaggio nel muro e penetrò nella villa. D’altra parte – come narra Giuseppe Gabussi (1852) – “il generale Levaillant, giungendo con tre reggimenti per la via detta Tiradiavoli, trovato aperto un ingresso dal lato del giardino, entrò dentro: ma incontrata ben presto risoluta resistenza da 200 dei nostri, ne conseguì micidialissima zuffa sostenuta virilmente dai Romani, sino a che, soverchiati dal numero, dovettero riparare al convento di S. Pancrazio”.
Articolo scritto da Cinzia Dal Maso-10 gennaio 2014-
“Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa”.
Breve Biografia-
Agostino Gallo-(1499-1570) Nasce ,con tutta probabilità, prima del 14 maggio del 1499, a Cadignano, odierna frazione di Verolanuova, nella piana bresciana, a poco più d’una ventina di chilometri da Brescia.E’ stato uno dei protagonisti dell’agronomia cinquecentesca.
Il Gallo pubblica, nel 1564, “Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa.” L’opera conosce l’immediato successo, che nel Cinquecento si traduce nella ristampa abusiva, a Venezia, di una successione di edizioni che sottraggono all’autore ogni guadagno. Pubblichiamo 12 belle tavole xilografiche a piena pagina alcune delle quali acquarellate (vedi foto).Costretto dalle abitudini dei librai veneziani l’autore bresciano amplia, per ripubblicarla, l’opera, che si converte prima nelle Tredici giornate, la cui seconda edizione porta un’appendice di sette giornate, che in un’edizione successiva sono ricomposte, nel 1572, secondo un piano espositivo nuovo, nelle Venti giornate. La discutibile correttezza dei librai veneziani ha obbligato l’autore a ristrutturare l’opera, nella versione definitiva un capolavoro che riedita, in veste originalissima, tutto lo scibile agronomico di quei tempi. Lo scibile agronomico di Gallo, fu il primo ad introdurre in Italia la coltivazione del riso e del trifoglio,si fonda su quello dei grandi autori latini, in primo luogo di Lucio Columella, il massimo agronomo dell’antichità, ma l’agricoltura che prende corpo nelle pagine dell’opera rinascimentale è radicalmente diversa da quella del mondo latino, è la nuova agricoltura irrigua della Val Padana, l’agricoltura in cui l’acqua spezza la sovranità del frumento inserendo nella rotazione le foraggere che consentono il più ricco allevamento, l’allevamento da cui derivano i formaggi Piacentini e Lodigiani, gli antenati del Parmigiano Reggiano e grana padano. È l’agricoltura in cui hanno conquistato il proprio posto, nei campi lombardi, il mais, pianta americana, il riso, coltura araba proveniente dall’Andalusia, il gelso, destinato al baco da seta, una coltura fino a pochi decenni prima siciliana e calabrese, di cui Gallo comprende per primo le straordinarie potenzialità nel pedecollina prealpino.Autentico teorico delle nuove colture foraggere, Gallo propone la prima analisi razionale della tecnologia casearia lombarda, la tecnologia del formaggio grana, una tecnologia unica nel vastissimo panorama caseario europeo.Altrettanto interessanti di quelle casearie le pagine sulla trasformazione dell’uva in vino, nelle quali Gallo attesta la radicale differenza tra i vini italiani e quelli della Francia, dove si è già imposto il gusto moderno del vino, tanto che, come ricorda l’autore bresciano, i cavalieri francesi sono incapaci di bere il vino lombardo, che è ancora il vino medievale, acetoso, oscuro e torbido, privo di ogni aroma, perduto nella troppo lunga fermentazione. Non meno significative le pagine sull’agrumicoltura del Garda, al tempo di Gallo ricchissima attività economica fondata su una tecnologia sericola eccezionalmente avanzata.Iniziata con Gallo, l’agronomia europea del Rinascimento si compirà col capolavoro dell’epoca, l’opera del francese Olivier de Serres, che non cita mai l’autore italiano.
Il Libro-
Agostino Gallo “Le venti giornate dell’agricoltura e dei piaceri della Villa” stampato a Torino appresso gli eredi di Bevilacqua nel 1580.
Rara edizione cinquecentesca torinese di questa celebreopera, apparsa per la prima volta a Brescia nel 1564 col titolo di ”Le dieci giornate” e successivamente ampliata fino a diventare ”Le tredici giornate” (Venezia, 1566; col complemento delle ”Sette giornate” apparse nel 1569) ed infine ”Le vinti giornate” (Venezia, Percaccino, 1569). Sotto forma di dialogo tra Vinceno e Giovan Battista, l’opera affronta una moltissimi argomenti riguardanti l”agricoltura, la gastronomia: alimenti e loro conservazione, animali, , apicoltura, caccia e pesca, floricoltura e frutticoltura, olio, vino, risicoltura.
Bello stemma del dedicatario Emanuele Filiberto di Savoia sul frontespizio. acquerellato all’epoca.
Illustrato con 12 belle tavole xilografiche a piena pagina alcune delle quali acquarellate (vedi foto).
Biblioteca DEA SABINA-Associazione CORNELIA ANTIQUA-
ROMA MUNICIPIO XIII-Associazione CORNELIA ANTIQUA-Castel di Guido-La Villa Romana Olivella
Roma Municipio XIII-All’interno della tenuta agricola di Castel di Guido, è da mettere in relazione con l’antico insediamento di Lorium
Il territorio di Castel di Guido non è certo privo di sorprese. Oltre alle 300 tombe che si trovano nell’area compresa tra il Castello, la scuola di via Sodini e la vecchia via Aurelia che dovranno essere, prima o poi, portate alla luce oltre alla Villa Romana localizzata alle spalle della Chiesa del Santo Spirito, la Villa delle Colonnacce affidata alle cure del Gruppo Archeologico Romano, nella zona denominata “Colle Cioccari- Quarto della Vipera”, si sta portando alla luce il complesso archeologico di Villa Olivella.
La Villa Olivella, sita all’interno della tenuta agricola di Castel di Guido, è da mettere in relazione con l’antico insediamento di Lorium, noto dagli antichi itinerari (Tabula Peutingeriana e Itinerarium Antonini), come prima stazione sull’antica via Aurelia al XII miglio da Roma, ”Casale della Bottaccia”.
Lorium è ricordato dagli scritti degli storici dell’antica Roma come sede del palazzo imperiale degli Antonini, in particolare di Antonino Pio (vi morì nel 161 d.C), e della presenza di Marco Aurelio che sposò Faustina “la giovane” figlia dell’Imperatore Antonino Pio. Una nota curiosa che emerge dagli antichi scritti (Frontone) è che Marco Aurelio si lamentava per la sconnessione dei basoli della via Aurelia i quali facevano “inciampare e scivolare il suo cavallo”.
Numerosi e preziosi i ritrovamenti segnalati da scavi (tra cui statue, capitelli, iscrizioni) nel il 1649. Il Saulnir segnala: ” essersi trovate medaglie ed una statua di Cibele assisa sopra un leone”. Nel 1815 vennero trovati, nei pressi del Castello, due frammenti d’iscrizione, in uno dei quali si leggeva:” FAUSTIN. AUGUSTUS “. Durante gli scavi del 1824, come scrive il Nibby: “Si trovarono varie statue tra cui una Giunone Velata, una Livia in forma di Pietà ed una Domizia in abito di Diana, conservate al Museo Clementino in Vaticano”, che consentono di confermare l’ipotesi che nell’area compresa tra Castel di Guido e la Tenuta della Bottaccia fosse localizzato un praetorium e il palazzo imperiale.
Le ripetute segnalazioni, anche da parte della Guardia di Finanza, di scavi clandestini e le numerose segnalazioni di presenze archeologiche hanno spinto la Soprintendenza ad un intervento di scavo in località Olivella. L’area è oggetto da alcuni anni (campagne 2007-2010) di un vasto progetto condotto in collaborazione tra la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (responsabile Dott.ssa Rossi), l’Università di Roma La Sapienza (Cattedra di Topografia Antica, Scuola di Specializzazione in Archeologia Prof. Sommella), l’Università di Foggia (Cattedra di Topografia Antica, Prof.ssa M.L. Marchi).
Il complesso finora evidenziato è costituito da una serie di ambienti pertinenti un edificio termale e si sono finora messi in luce alcuni ambienti riscaldati (calidaria e tepidaria) con relativi praefurnia, il frigidarium con pavimento musivo. Di particolare interesse e pregio la presenza di abbondanti quantità di marmi e paste vitree che fanno presupporre rivestimenti pregiati in opus sectile.
L’impianto termale è localizzato a fondovalle ed è possibile che si tratti di un corpo di fabbrica separato connesso ad una vicina fonte o corso d’acqua. La parte residenziale del complesso si localizza ad Ovest, sempre nella valle, come sembrano confermare anche i materiali ceramici e da costruzione e le strutture individuate, attraverso alcuni saggi effettuati a corona intorno all’area di scavo principale, nell’arco di alcune decine di metri.
I dati forniti dal rinvenimento di diversi bolli laterizi sembrano confermare l’orizzonte di II-III d.C., testimoniato anche dagli apparati decorativi rinvenuti: in uno compare Stertinia Bassula figlia di Stertinius Noricus, consul suffectus nel 113 d.C. e proprietaria di praedia suburbani, mentre in due bolli è menzionato un personaggio legato all’imperatore Antonino Pio, Marcus Pontius Sabinus, dominus figlinarum, consul suffectus nel 153 e poi amministratore nella Misia superiore nel 159-160, infine un bollo di Faustina, moglie di Antonino Pio.
I materiali e, soprattutto, gli apparati decorativi marmorei e vitrei e i pavimenti musivi, testimoniano un complesso di notevoli dimensioni e ricchezza, con un momento di particolare sviluppo inquadrabile tra la metà del II e il III secolo d.C. L’ambito cronologico e la presenza di paste vitree relative a rivestimenti parietali o pavimentali che sembrano avere uno stringente confronto con quelle provenienti dalla villa di Lucio Vero all’Acqua Traversa, permettono di ricollegare il complesso con il palazzo imperiale degli Antonini nel comprensorio di Lorium.
La scoperta che tutti si attendono è quella del ritrovamento della Villa Imperiale di Antonino Pio.
Roma- Municipio XIII-CASTEL DI GUIDO – L’Istituto di Antropologia e Paleontologia umana dell’Università di Pisa conduce, dal 1980 durante il mese di settembre, delle Campagne di scavo, in Castel di Guido. Le monografie degli scavi sono pubblicate in “ Atti della Società Toscana di Scienze Naturali”, a cura dei Professori C.Pitti e A.M. Radmili. Al Dott. Ernesto Longo, alla sua esperta indagine visiva è dovuto l’avvistamento e la localizzazione dell’attuale parco paleontologico di Castel di Guido.
La presentazione di questa brevissima traccia storica della nostra contrada, partendo da tanto lontano , potrebbe apparire presuntuosa e addirittura ingenua; ma di fronte a tanta autorità scientifica e in forza dei risultati ottenuti, il silenzio poteva ancor più sembrare irriverente.
Una notizia è certa: su queste colline anche la specie Homo del paleolitico inferiore (400.000 anni fa) ci stava bene.
La prima testimonianza, la più significativa e purtroppo ancora l’unica è costituita dal rinvenimento , ad opera del Dott. Longo e del Sig. A.Barbattini, di un frammento di diafisi di femore; questo avveniva nel settembre del 1979. L’antropologo Francesco Mallegni ha eseguito uno studio accurato sul reperto arrivando alla seguente conclusione:” sono senza dubbio propenso ad ammettere per la diafesi, la appartenenza al genere Homo; data l’arcaicità dell’industria litica e della fauna, credo che si debba considerare il reperto come appartenente ad un rappresentante del genere Homo, di una specie sicuramente antecedente all’antiquus nearderthalensis”
Nelle successive Campagne di scavo è stata aperta una trincea di circa 300mq. Dove sono apparsi frammenti ossei di animali e manufatti della primitiva industria litica dell’uomo.
“L’associazione di strumenti su ciottoli con strumenti piccoli su scheggia e con oggetti di osso conferiscono all’industria di Castel di Guido, come a quella di Malagrotta, una fisionomia particolare che le differenzia dalle altre industrie finora conosciute del paleolitico inferiore italiano”.
Nella terza Campagna , ad esempio, furono rinvenuti ben seicentododici oggetti; di cui centrotrentadue sono denti, frammenti ossei e cornei e i rimanenti sono oggetti litici. La particolarità di questa Campagna fu il rinvenimento del “Cervus megeros” e quindi strumenti, manufatti con becchi e puntine , schegge con ritocco denticolato, grattatoi e raschiatoi. L’uso e la presenza documentata della lavorazione dell’osso dimostra la tipologia tipicamente clastica della conformazione geologica di Castel di Guido: un terreno ad impasto di detriti, compattato nel tempo. Mentre nell’industria neolitica di Torre in Pietra, giacimento probabilmente coevo, manca del tutto la lavorazione su osso. Nella Quinta Campagna di scavo ebbe rilievo il rinvenimento , sempre nella stessa ristretta area, di tre “Crani di Bos primigenius”.
Su tutto il panorama domina l’interpretazione che il luogo si prestasse egregiamente come spazio per l’agguato e la vulnerazione di questi animali. Le conseguenti tracce di pasti consumati illustrano in maniera particolare il confermato gusto di questi primitivi e la loro capacità nel costruire utensili idonei ad estrarre il midollo animale dagli ossi di custodia. Tutti i reperti sono raccolti in uno stand del Museo Pigurini di Roma-Eur-
Le verdi colline che oggi ci appaio a perdita d’occhio , in quella epoca erano quasi sicuramente chieriche boscose lambite in alto dal mare , come a tutt’oggi ci dimostra la loro forma a terrazza.
Questo Parco Paleontologico si trova sull’ultima collina , alla confluenza di via di Castel di Guido con il km. 20+500 della via Aurelia a nord-est del Camping-Lorium, proprio al disopra delle piste dove si svolgeva il Palio della Mezzaluna.
N.B. Le foto sono in B/N e sono state scattate nel 1982. . la n.1 è una veduta dello scavo della terza Campagna di Scavo –Le foto n.2 e n.3 sono di strumenti su punta di zanna di elefante ritrovati nel corso degli scavi a Castel di Guido- la n.4 Suolo abitazione con tre crani di Bos primigenius rinvenuti nel corso della quinta Campagna di Scavi a Castel di Guido-
Fonte e Foto – Castel di Guido , un luogo una storia – Edizione a cura del Comune di Roma
Ricerca e trascrizione di Franco Leggeri per l’Associazione CORNELIA ANTIQUA
Castel di Guido- 12 aprile 2017-Distruggere un Borgo medievale, la Sua Storia millenaria, non è impresa da poco, solo “piccolissimi uomini dal prezzo facile” sono in grado di poterlo fare. Castel di Guido il Borgo medievale “violentato da cialtroni incapaci, uomini rozzi estranei al bello , nemici del sole e della luna”. Vivere Castel di Guido in un modo diverso, osservarlo con occhi “puliti”, essere un abitante del Borgo che non ha istinti da “PREDONE” , essere Cittadino di Castel di Guido VERO come si diceva una volta :”con il cuore e con l’anima”. I “signori” che hanno depredato e distrutto “il nostro” Castel di Guido sono ormai “altrove” a godersi i frutti dello scempio che ci hanno lasciato. I barbari che hanno “SPEZZATO L’EMOZIONE” sono “altrove a godersi il brutto frutto della loro anima arida”. C’è forse un pensiero che è pari. Per profondità e smarrimento. C’è forse un’emozione che è pari. Forse un dolore che è pari nel vedere un Borgo bello e forte crollare col cuore a pezzi in un deposito di meschini interessi . Piccoli interessi da “bottegaio” . Vi è un dolore, un’emozione che forse sono pari a quello che hanno dominato gli occhi e i cuori nel mondo nel vedere un Borgo bello e forte cadere ed avviato alla morte troppo presto, ma la partita non è finita. E sono il dolore, l’emozione che ci prende nel pensare che Castel di Guido, quel bel vigore che infondeva non abbiano avuto senso. Vedere, l’amato, Castel di Guido, così com’è ridotto, è un nodo alla gola. L’ingiustizia di un Borgo che cade nel pieno del suo splendore, è quasi pari all’ingiustizia di pensare che la vita, quella di tanti giovani, sia priva di senso. Sia come un bell’”arabesco” nel nulla. Sia come una cosa fantastica e breve, priva di reale significato, cioè priva di un destino buono. Perciò vedendo lo spaventoso spettacolo di Castel di Guido che crolla sotto “l’ignorante bastone di piccoli uomini privi di scrupolo ” .E a quel crollare fa eco, per così dire, quel sorgere e cantare la SPERANZA. E a quell’emozione che fa quasi perdere il senno, risponde, con l’”ultrasuono” di un’impalpabile ma ragionevole speranza, l’emozione di vedere questi vecchi e giovani che gridano e cantano perché la vita – duri cent’anni o venti o un mese – ce l’ha. Scene ed emozioni OPPOSTE al neutro e scialbo chiacchiericcio di prezzolati “capibastone” che per “ un misero piatto di lenticchie” vendono il futuro del Borgo ad avvoltoi e sciacalli. Resistere agli sciacalli e alla serpe che sputa il veleno dell’odio.
Guido da Spoleto vinse i Saraceni, riusciremo noi, oggi, a vincere la giostra della MezzaLuna? Vivere Castel di Guido, andare oltre e che il bagordo innalzi le membra degli avvoltoi come trofeo di vittoria.
-articolo di Franco Leggeri-
Il Medioevo nel XIII Municipio, Quartiere Casalotti. Fuori dal traffico della Via Boccea, in una discontinuità edilizia, c’è il Castello della Porcareccia , noto anche con il nome “Castello aureo”, che domina il suo borgo medievale. Il fortilizio, in posizione strategica, è costruito su di uno sperone roccioso. Anticamente vi era una torre di avvistamento, ora scomparsa. Il Castello attualmente presenta modifiche strutturali evidenti. Il toponimo deriva da “Porcaritia”. Nel passato questa era una località al centro di boschi di querce e,quindi, luogo più che mai adatto all’allevamento dei maiali. Il primo documento che parla del Castello è una lapide del 1002, che si trova nella Chiesa di Santa Lucia delle Quattro Porte ,dove si legge che un prete “romanus” dona la tenuta della Porcareccia ai canonici di Monte Brianzo. Nel 1192 Papa Celestino III dà la cura del fondo ai canonici di Via delle Botteghe Oscure. Il Papa Innocenzo III affidò una parte della tenuta all’Ordine Ospedaliero di Santo Spirito. La tenuta passò, dopo la crisi fondiaria del 1527, ai principi Massimo e nel 1700 ai Principi Borghese, quindi ai Salviati e ai Lancillotti. Attualmente proprietaria del Castello è la Famiglia Giovenale che lo possiede dal 1932. Il portale d’ingresso è imponente e su di esso vi è lo stemma di Sisto IV. Prima di accedere al cortile interno, nel “tunnel”, in alto, si notano dei fori passanti sedi di una grata metallica che,alla bisogna, veniva calata per impedire assalti ed irruzioni di nemici .Nel giardino del Castello vi è, in bella mostra, una stele commemorativa di un funzionario imperiale delle strade. La stele probabilmente era riversa in terra perché presenta evidenti segni di ruote di carro. Vicino vi è una lapide funeraria con incisi dei pavoni, antico simbolo di morte. Sono visibili altri reperti di epoca romana, come frammenti di capitelli e spezzoni di colonne. In bella mostra, montata alla rovescia, vi è una vecchia macina a mano, una simile è nel cortile della Chiesa di Santa Maria di Galeria. Nel piazzale interno c’è la Chiesetta di Santa Maria la cui costruzione risale al 1693. Ciò che colpisce nella chiesa è la bellezza dell’Altare in legno intagliato, come dice uno dei proprietari, il Sig. Pietro Giovenale:”l’Altare è stato costruito dai prigionieri austriaci della Grande Guerra che qui erano stati internati”. Nel 1909, giusto un secolo fa, in questa Chiesa celebrava la Messa il giovane prete Don Angelo Roncalli, il futuro Papa Buono,Giovanni XXIII il quale veniva in questi luoghi per goderne la bellezze naturali e gustare”la buona ricotta” che Gli veniva offerta. La tenuta della Porcareccia fu anche antesignana della “guerra delle quote latte”. Ci narra la storia che nel periodo di carestia si diede il massimo sviluppo all’allevamento dei suini per sfamare la popolazione di Roma, come si legge in una bolla di Papa Urbano V nel 1362 che decretava “libertà di pascolo ai suini in qualsiasi terreno e proprietà…”. Per segnalare la presenza degli animali furono messi dei campanelli alle loro orecchie e chiunque ne impediva il pascolo incorreva in pene severissime. A seguito delle proteste della Germania,all’epoca maggior produttrice ed esportatrice di suini in Europa, il Papa Sisto IV nel 1481, riaffermò il documento di Avignone di Urbano V. Davanti al Castello, divisa dalle case del Borgo a chiudere la Piazza, c’è la chiesa parrocchiale, costruita negli anni 1950/54, dedicata alle S.s. Rufina e Seconda, martiri della Via Boccea. Come tutti i castelli che si rispettano, anche questo ha il suo fantasma che si aggira nei cunicoli sotterranei inesplorati che si diramano dal Castello nella campagna circostante. Ma alla domanda che rivolgo al Sig. Giovenale se esiste il fantasma egli risponde con un sorriso.
N.B. Le foto originali sono di Franco Leggeri- Fonte articolo: Autori Vari- Si Evidenzia che gli Alunni di Casalotti hanno realizzato un pregevole lavoro sulle origini e la Storia del Castello- Intervista con il Sig. Giovenale di Franco Leggeri- L’articolo è solo una sintesi di uno studio molto più esaustivo e completo sul Medioevo e i sistemi difensivi di Roma e della Campagna Romana – TORRI SARACENE-TORRI DI SEGNALAZIONI – realizzato da Franco Leggeri
ROMA- MUSEI CAPITOLINI-Il volto, dall’ovale morbido e rotondo, è caratterizzato dagli occhi allungati, contornati da pesanti palpebre, e dall’ovale della pupilla inciso, e da un mento piccolo e sfuggente. I capelli, pettinati con scriminatura centrale, sono ripartiti in ciocche ondulate che seguono il profilo della fronte; essi sono poi raccolti in una treccia, adagiata sulla parte superiore della testa, la cui estremità inferiore corre sul retro fino alla nuca. Il ritratto, a causa del suo accentuato realismo, fu verosimilmente elaborato prima della morte e della divinizzazione dell’imperatrice.
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