Museo delle bande musicali di Toffia – Museo Maria Petrucci
Descrizione
Il Museo, si trova al centro storico di Toffia in una casa del 17° secolo, nel dicembre 2011 compie 20 anni dalla sua fondazione. Inizialmente era denominato “Museo d’Arte Raniero” poi “Casa Museo Raniero”. Nel 1991, Maria Petrucci, aveva fondato il Museo dedicandolo a suo padre Raniero, poi, essendo artista e, sentendo che i visitatori continuavano a credevano che le opere esposte le avesse realizzate Raniero per amore della propria Arte, e di chi nel tempo aveva acquistata qualche opera, nel 2009, pur se a malincuore, lo ha rinominato a proprio nome “Museo Maria Petrucci” – Casa Raniero -. Il museo ha due entrate e cinque stanze espositive. In quattro stanze, dislocate in vari piani, si possono ammirare, sculture lignee, dipinti a olio e, interessanti passaggi artistici di svariati materiali, il fornello in muratura i ganci nelle travi, dove infilavano le canne per appendere le salsicce, il camino, gli orci dove conservavano l’olio i legumi, testimonianze che ci riconducono ai nostri antenati, e lo studio d’arte. Nella quinta stanza, entrata secondaria, vi sono esposti gli oggetti della civiltà contadina e curiosità della cultura popolare. Attorno al museo, un avvincente paesaggio a perdita d’occhio, cattura l’atten zione per fare foto ricordo. Il museo è fornito, di didascalie fisse e mobili, di libri sulla storia di Toffia, di grammatica del dialet to Toffiese, e molte cose avvincenti, oltre a libri di poesia, romanzi, scritti dall’ artista. Si possono vedere DVD, sulla sua arte, riprese della TV- RAI -I – nell’ottanta a Mantova con la regia di Luigi Faccini e della Regione Lazio nel duemilacinque a Toffia con la regia di Lorenzo Pizzi
Via della Rocca – 02039 Toffia (RI)
Contatti
Tel–0765326248
Mail–mubam@libero.it
Website–http://www.mubam.it/
MUSEO MARIA PETRUCCI (Toffia)
Museo, casa d’artista, luogo di memoria e creatività. Entrando si percepisce un atmosfera particolare dove le sue sculture e tele si alternano alle memorie del tempo, i suoi ricordi. Ti giri e trovi ovunque oggetti della civiltà contadina, arnesi, utensili. Un posto da visitare con particolare attenzione ascoltando quello che Maria riesce a raccontare di sè delle sue opere. In queste foto ho cercato di cogliere parte di tutte queste emozioni, intagli del legno come stratificazioni di immagini, volti che solo la scultura riesce a tirar fuori. Il museo è sempre aperto e Maria saprà accogliervi con amicizia e gentilezza.
Per visitare il museo chiamare al0765-326248.
Per il sito web:http://www.museomariapetruccitoffia.it/
Testi di Giovanna Alvino, Gianfranco Formichetti e Tersilio Leggio-
DESCRIZIONE
Aspra e boscosa contrada montana, sublime, la Sabina rimase sempre appartata; la sua caratteristica peculiare si potrebbe definire la vocazione all’isolamento.
Medioevale è ancor oggi il volto della capitale della Sabina, Rieti, e dei principali centri: Amatrice e Antrodoco con le loro chiese romanico-gotiche, la francescana Greccio in cui nacque il presepe, Leonessa con i suoi affreschi trecenteschi, Cittaducale di fondazione angioina e la grande abbazia di Farfa.
Anno1993 / 228 PAGINE- Edizione bilingue: Italiano/Inglese
CASTELNUOVO DI FARFA (RIETI) –chiesa parrocchiale SAN NICOLA DI BARI- Particolare nel dipinto del Ballerini ,sito all’interno della chiesa parrocchiale, rafficurante il miracolo dei bambini.Il Ballerini potrebbe aver preso come modelli tre bambini Castelnuovesi dell’epoca.Foto di Franco Leggeri,Castelnuovese.
IL MIRACOLO – IL MONDO DEI BAMBINI
Il bimbo nell’acqua bollente. Un’ostessa presso la quale una volta Nicola aveva alloggiato stava facendo il bagno al suo bambino. Come le dissero che Nicola era stato fatto vescovo lasciò tutto e andò ad assistere alla sua messa. Al termine, ricordandosi che il fuoco avrebbe potuto accendersi e far bollire l’acqua in cui era il bimbo, corse a casa. Il fuoco si era effettivamente acceso e l’acqua bolliva, ma il bimbo, invece dio morire, stava allegramente giocando con le bolle dell’acqua. Dopo averlo preso tra le braccia, corse fuori a raccontare il miracolo.
Il bambino indemoniato. Un bambino era indemoniato e si strappava i vestiti e si mordeva le mani. La madre lo portò da San Nicola che benedicendolo lo liberò dal demonio.
Il diavolo e il bambino. Un uomo della Lombardia era molto devoto di San Nicola e ogni anno invitava i chierici ad un banchetto. Un anno mentre si vestiva per andare in chiesa, la moglie gli disse di aver sognato che un leone con la zampa le aveva strappato la mammella e ne aveva succhiato il sangue. Recatisi in chiesa, a casa restò solo il bambino. Venne il diavolo in sembianze di viandante e chiese del cibo. Come il bambino gli portò il pane, egli lo prese e lo strangolò. Immaginarsi il dolore dei genitori quando ritornarono dalla liturgia in onore di San Nicola. Ma nonostante il dolore il padre volle invitare lo stesso i chierici a pranzo. Per cui ordinò di adagiare il bambino in una stanza e di chiuderla. Mentre i chierici mangiavano venne un pellegrino (“Signori, quello era San Nicola!”) che chiese del cibo ottenendo dal padre di poterlo consumare nella sua stanza, dov’era cioè il corpo del bambino. San Nicola lo chiamò e quello si alzò correndo tra le braccia dei genitori. La festa di San Nicola, che era già osservata, fu celebrata ancor più amorevolmente e gioiosamente.
Castelnuovo ,Particolare , dipinto nel quadro del Ballerini sito all’interno della chiesa parrocchiale.
I TRE BAMBINI RISUSCITATI
Le storie di S. Nicola non sono state narrate tutte allo stes¬so modo. Ogni popolo le ha rielaborate secondo la sua sensibilità. Ogni copista medioevale ci metteva del suo, quando proprio non incorreva in qualche errore di traduzione o copiatu¬ra. Da una di queste sviste nacque la leggenda di S. Nicola più famosa in occidente.
Come si è detto in precedenza, l’episodio più importante e più stori¬camente documentato è quello che vide il nostro Santo intervenire a sal¬vare tre innocenti dalla decapitazione, fermando la spada del carnefice. Da qualche tempo però, nel mondo cristiano la parola innocenti veniva spesso usata come equivalente di bambini (pueri). Così, ad esempio, i bambini uccisi dal re Erode (per timore che fra essi sorgesse il re d’Israele) avevano dato adito alla festa degli innocenti, che si celebra dopo il Natale. D’altra parte, nelle storie di S. Nicola raramente si dice¬va che aveva salvato tre uomini oppure tre cittadini di Mira. Per abbre¬viare e per indicare l’innocenza di quei condannati a morte, più spesso si diceva che Nicola aveva salvato tre innocenti. A quel punto qualche scrittore fece un po’ di confusione, affermando che Nicola aveva salva¬to tre bambini, invece di dire che aveva salvato tre innocenti.
Il primo a dare questa erronea traduzione sembra che sia stato Reginold, uno scrittore tedesco che nel 961 dopo Cristo fu eletto vesco¬vo proprio per aver scritto una bella Vita di S. Nicola intercalata da brani in musica. Invece di innocentes Reginold usa il termine pueri, insi¬nuando nella mente dei fedeli che si trattava di una storia diversa dal¬l’episodio della liberazione di tre innocenti dalla decapitazione. Nel corso di circa un secolo e mezzo la “storia” dei bambini salvati da S. Nicola entrò anche negli inni sacri e poco a poco venne elaborato un racconto vero e proprio seguendo due linee principali.
Secondo una prima versione, il fatto sarebbe accaduto mentre Nicola si recava al concilio di Nicea. Fermatosi ad un’osteria, gli fu presentata una pietanza a base di pesce, almeno a quanto diceva l’oste. Nicola, divinamente ispirato, si accorse che si trattava invece di carne umana. Chiamato l’oste, espresse il desiderio di vedere come era conservato quel “pesce”. L’oste lo accompagnò presso due botticelle piene della carne salata di tre bambini da lui uccisi. Nicola si fermò in preghiera ed ecco che le carni si ricomposero e i bambini saltarono allegramente fuori dalle botti. La preghiera di Nicola spinse l’oste alla conversione, anche se in un primo momento questi aveva cercato di nascondere il suo misfatto.
La seconda versione della leggenda non parla di bambini, ma di sco¬lari. Un nobile di un villaggio presso Mira, dovendo mandare i figli ad Atene per continuare negli studi, disse loro di passare da Mira a pren¬dere la benedizione del vescovo Nicola. Essendo questi assente, essi non poterono incontrarlo e, giunta la sera, cercarono una locanda. Ve¬dendoli benestanti, l’oste entrò di notte nella loro camera e li uccise, prendendosi i preziosi vestiti. Non contento, mescolò le loro carni con altra carne salata, per darle agli avventori.
Il giorno dopo Nicola, divinamente avvertito, si recò dall’oste chie¬dendogli della carne. L’oste gli mostrò la carne conservata, aggiungen¬do che era buona da mangiare. Nicola attese sperando nel suo penti¬mento, ma quello non diede segni di resipiscenza. Allora il Santo bene¬disse quelle carni e i tre scolari tornarono in vita. Con la sua preghiera e le sue esortazioni, finalmente l’oste si pentì e promise di condurre una vita virtuosa. I tre scolari, come risvegliandosi dal sonno, presero le loro cose e ripresero il viaggio per Atene.
Ovviamente vi furono tante varianti di queste leggende. In molte di esse un ruolo importante e negativo svolge la moglie dell’oste. Ma le due più diffuse sono queste appena riportate, che diedero adito alla na¬scita del patronato di S. Nicola sui bambini che, a sua volta, insieme all’episodio della dote alle fanciulle, fece sorgere la figura di Santa Claus (Babbo Natale). Dalla seconda versione nacque il patronato sulle scuole (insieme a Santa Caterina d’Alessandria) e l’usanza folkloristica della festa studentesca del 6 dicembre col particolare del boy bishop (il ragazzo vescovo).
CITTADUCALE- chiesa sommersa Santa Maria di San Vittorino
La chiesa di Santa Maria di San Vittorinola si vuole sorta sui resti di un tempio pagano, sul luogo dove fu martirizzato San Vittorino, e nasce dalla radicale ristrutturazione di una chiesa più antica operata dai vescovi de Padilla e Quintavalle, tra il 1606 e il 1613, per mano del mastro lombardo Antonio Trionfa di Domodossola “de villa Roscie de Val de Premia”, definito nei documenti scarpellinus. L’imponente chiesa, a croce greca, un tempo coperta da volte e piccola cupola centrale, è scandita in altezza da un alto cornicione che corre per tutto il perimetro interno. È ora uno scenografico rudere invaso dall’acqua: la chiesa venne infatti costruita tra due sorgenti ma, agli inizi dell’800, il loro spostamento andò a coincidere con l’area interna dell’edificio. I crolli più importanti si verificarono negli anni ottanta del ’900. La Salaria gli corre alle spalle, e la bella facciata barocca in travertino, rivolta a est, guarda la piana: è articolata in uno pseudo pronao lievemente aggettante, e aperta da tre portali, mentre il timpano di coronamento è crollato. Si legge la data del 1608 sul portale centrale, e quella del 1613 sul fregio del cornicione che divide la fronte in due ordini. L’edificio è ormai fuori asse e semisommerso per circa due metri e mezzo.
La chiesa di Santa Maria in Vittorino, meglio nota come chiesa di San Vittorino, è un edificio religioso diroccato situato nei pressi delle Terme di Cotilia, nel comune di Cittaducale in provincia di Rieti. È nota anche come “la chiesa sommersa”, “la chiesa nell’acqua” o “la chiesa che sprofon da”.Descrizione
La chiesa si trova al km 88,1 della Via Salaria, nella piccola frazione San Vittorino del comune di Cittaducale, a breve distanza dalle Terme di Cotilia.
È posta all’interno della Piana di San Vittorino (da cui prende il nome di Santa Maria “in Vittorino”): un territorio dove si trovano molte sorgenti mineralizzate e sono frequenti fenomeni carsici come i sinkhole (sprofondamenti improvvisi del terreno).
L’edificio è diroccato, non ha più il tetto ed è parzialmente sprofondato nel terreno. Sono ancora in piedi le mura perimetrali e in particolare la monumentale facciata in calcare giallo.[1] Il suo interno è allagato da una sorgente sotterranea che sgorga nel pavimento, con l’acqua che defluisce per mezzo del portale d’ingresso nella campagna circostante.
L’interno, a tre navate, ospitava diverse opere d’arte. Tra queste sopravvivono un bassorilievo dell’Annunciazione e una fonte battesimale (entrambi risalenti al XIV secolo e conservati nella cattedrale di Cittaducale),[2] un affresco (conservato al museo diocesano di Rieti) e l’altare in pietra (collocato nel cortile del centro anziani di Cittaducale).[1]
Storia
Il tempio pagano
La piana di San Vittorino, per via degli evidentissimi fenomeni carsici che vi avvengono, nell’antichità era considerata punto di accesso agli inferi e pertanto era sin da allora un luogo di pellegrinaggio e di devozione. Infatti già in epoca preromana i Pelasgi e i Sabini, forse testimoni dell’impressionante sprofondamento che diede origine al Lago di Paterno, ritenevano quel territorio sacro e vi compivano sacrifici. La zona mantenne la sua sacralità anche presso i romani (tanto che Varrone la definì Umbilicus Italiae), e in tale epoca acquisì ulteriore importanza grazie allo sfruttamento delle sorgenti nell’impianto termale di Cutilia.
In epoca romana, al posto dell’attuale chiesa, si trovava un tempio dedicato alle ninfe dell’acqua,[2] sorto nei pressi di una sorgente considerata sacra.
La tradizione pagana della sacralità di tale sorgente non finì con l’avvento del cristianesimo ed è sopravvissuta fino ai giorni nostri: ancora oggi gli abitanti del luogo venerano una madonna ospitata in un’edicola sulla parete esterna della chiesa diruta, e attribuiscono miracolosi poteri curativi all’acqua che sgorga dal pavimento.[3]
La costruzione della chiesa
L’edificazione della chiesa sui resti dell’antico tempio pagano si deve al fatto che, proprio in quel luogo, nel 96 d.C. subì il martirio san Vittorino di Amiterno.[1] Il santo fu appeso a testa in giù su una sorgente sulfurea e morì dopo tre giorni, avvelenato dalle emissioni gassose di acido solfidrico provenienti dalla fonte.[4]
Sembra che, già nel IV secolo, nel luogo del martirio del santo sorgesse una piccola cripta, che per un certo periodo ospitò il sepolcro del santo;[4] nel secolo successivo il suo corpo fu trafugato e trasportato nella chiesa di San Michele Arcangelo, ad Amiterno.[4] La piccola cripta lasciò il posto ad una chiesa vera e propria solo diversi secoli più tardi, tra il Trecento e il Quattrocento; è in quel periodo che fu eretta la chiesa di San Vittorino.[2]
L’aspetto attuale della chiesa risale a dei lavori di ampliamento che, come riporta un’iscrizione ancora leggibile sulla facciata, iniziarono nel 1608 e furono completati nel 1613.[2] L’intervento di rifacimento fu voluto dal vescovo di Cittaducale, Pietro Paolo Quintavalle,[1] ed è attribuito da alcuni all’architetto romano Giovanni Battista Soria[5] mentre da altri al domese Antonio Trionfo.[4] Divenne in breve tempo una delle più importanti chiese di Cittaducale.[2]
Tuttavia nell’Ottocento il terreno su cui era stata costruita iniziò a sprofondare e una sorgente sotterranea emersa dal pavimento allagò la chiesa, che pertanto dovette essere abbandonata.[2] L’improvviso sinkhole fu dovuto alla superficialità della falda nel terreno dove la chiesa fu fondata (posta a soli 90 cm dal piano di campagna),[6] e probabilmente innescato dal terremoto del 1703.[7]
Dopo oltre un secolo di abbandono, il terremoto del 1979 causò il crollo del tetto della chiesa. Nel gennaio del 1988 la provincia di Rieti avviò l’esecuzione di lavori urgenti per rallentare l’inabissamento ed evitare ulteriori crolli.[8] All’intervento doveva seguire il recupero completo dell’edificio, che tuttavia non venne mai eseguito. La chiesa è tuttora abbandonata e continua lentamente a sprofondare.
Nel cinema
Per il carattere suggestivo e surreale del luogo, nel 1983 il regista sovietico Andrej Tarkovskij lo scelse per girare una scena del film d’essaiNostalghia. Nella scena il protagonista, dopo un lungo vagabondare solitario, entra nella chiesa dove incontra una bambina e riflette sul valore della felicità, tra la lettura di un libro e bicchieri di liquore; infine il protagonista incendia il libro e si addormenta nella chiesa.[9]
· Andrea Del Vescovo, San Vittorino di Amiterno, su enrosadira.it. URL consultato il 19 agosto 2017.
^Storia di Cittaducale, su webalice.it. URL consultato il 10 giugno 2017 (archiviato dall’url originale il 20 maggio 2017).
^Prone area: Piana di Cotilia – Peschiera, su Italiav Web Sinkhole Database, 31 agosto 2011. URL consultato il 6 luglio 2016 (archiviato dall’url originale il 15 ottobre 2012).
^ Giuseppina Giangrande, Una liberata, un’altra ingabbiata (PDF), in Frontiera, n. 2, Diocesi di Rieti, 16 gennaio 1988, p. 24. URL consultato il 31 maggio 2020.
Concerviano-(RIETI)- Abbazia benedettina di San Salvatore Maggiore-
DESCRIZIONE
San Salvatore Maggiore è una abbazia Benedettina, sita sul monte Letenano nell’attuale frazione di Pratoianni del comune di Concerviano (RI). Fu fondata nel 735 d.C., in epoca longobarda, da monaci dell’abbazia di Farfa. Sorta sulle rovine di una preesistente villa romana, nell’891 d.C. fu incendiata dai Saraceni; successivamente ricostruita nella seconda metà del X secolo entrò in competizione con l’abbazia di Farfa nel controllo del territorio. Schieratasi con gli imperatori nella lotta per le investiture, è denominata per questo abbazia imperiale. Nel Trecento iniziò la decadenza, fino a che nel Seicento papa Urbano VIII, in forza della bolla Singulari diligentia del 12 settembre 1629, la soppresse unendola all’abbazia di Farfa.
Negli ultimi anni è stata parzialmente ristrutturata grazie a fondi europei; attualmente è di proprietà del Comune di Concerviano.
Qualche giorno fa ho incontrato, a Roma, Marino Festuccia, fotografo classe 1984, originario di Rieti, che collabora con studi d’arte ed è molto richiesto per l’ottima qualità del suo lavoro. È un fotografo autodidatta che, nel corso degli anni, ha frequentato altri fotografi e numerosi studi d’arte attingendo a idee nuove e a nuove ispirazioni, imparando direttamente sul campo. Ha trovato particolarmente stimolante, edificante e creativo lavorare con i nudi, partire da essi e “costruire” su di essi, storie, momenti e situazioni.
D: Ciao Marino, vorrei subito chiederti qual è il tuo punto di partenza o di riferimento.
R: La mia base di partenza è il nudo, inteso come una tela bianca dalla quale partire per costruire qualcosa che abbia un’identità specifica e contraddistingua il soggetto fotografato senza alternarne le sue caratteristiche.
D:Perché ritieni il nudo una tela bianca?
R: Perché come in una tela bianca posso aggiungere i miei “colori” che sono accessori ed abiti che parlano della persona che li indossa.
D: Hai mai trovato delle difficoltà in questo senso?
R: Sì, spesso questa “tela bianca” ha bisogno di un aiuto, a volte incontro difficoltà a tirare fuori l’essenza del soggetto dal dettaglio e, in questi casi, supplisco con l’aiuto dell’ambiente. Uno sfondo può dire tanto e quanto un dettaglio, è un asso nella manica che, a volte, utilizzo anche quando ho pochissimo tempo o subentrano altre problematiche.
D: Possiamo quindi dire che il tuo è un lavoro di addizione?
R: Sì, ma è anche di sottrazione e, forse, parto proprio da questo. Io spoglio il corpo e dal nulla incomincio ad aggiungere dettagli chiarificatori che diano identità al soggetto ed evidenzino le sue caratteristiche. Non è un lavoro semplice, lavoro solo con le immagini, e quindi necessito di un processo di rielaborazione completo che parli da sé senza usare le parole. In un immagine si nasconde un gran lavoro sia estetico che meditativo.
D: In questo periodo sei alle prese con un nuovo progetto fotografico. Puoi dirci qualcosa?
R: Certamente. Il progetto è anche visitabile su Instagram alla pagina https://www.instagram.com/younalogue/ che è anche il nome del progetto (Younalogue), nato da poco e che, per la prima volta, nasce direttamente dal nulla ed è il mio primo progetto personale che attraverso il nudo sonda la percezione umana del proprio corpo. Realizzo le foto con pellicole da 35 mm scadute, poiché l’emulsione sulla pellicola diventa instabile e non hai il controllo totale sul risultato, cosa che invece conosci con pellicole normali e non ancora scadute.
D: Chi sono i soggetti scelti per “Younalogue”? Cerchi soggetti con caratteristiche in particolare?
R: No, e forse è questa la particolarità del progetto. Io, per natura, sono una persona molto empatica e la gente, spesso, si apre con me, mi racconta cose private, cerca il confronto. Partendo da questo, e da persone che avevano visto già delle foto, in modo spontaneo e naturale molti soggetti chiedono di poter posare sfidando, a volte, l’imbarazzo della nudità.
D: Puoi spiegarmi meglio questo passaggio?
R: Come ho già detto amo stare in mezzo alla gente, mi piace confrontarmi e dialogare con le persone. Voglio che mi conoscano e voglio conoscerle. A volte il raccontarsi fa crollare delle barriere e infonde coraggio soprattutto in chi non ha un’autostima del proprio corpo. E’ questa la parte più difficile del progetto: entrare in relazione con queste persone e portarle piano piano verso questa esperienza. La maggior parte delle persone mostra un atteggiamento conflittuale con il proprio corpo, vuoi per delle cicatrice, vuoi perché non risponde agli standard che il mondo sembra richiedere. A questo, però, le persone associano un rapporto emotivo con la foto che le fa avvicinare a quest’idea che sto portando avanti. Loro sanno che le foto non sono modificate e, nonostante questo, si spogliano concretamente dei vestiti e metaforicamente delle loro paure. Mostrano i loro inestetismi come segni di battaglie vinte, di periodi bui, diventano i simboli di decine di sfide personali che queste persone hanno affrontato. Vengono fotografati per quello che sono, persone comuni, non cerco modelli. Voglio cogliere quell’imperfezione che unisce tutti gli esseri umani. Con questi scatti, attuano un superamento della loro vergogna e la cicatrice o qualunque altro inestetismo simboleggia una sofferenza relegata al passato.
D: E’ un progetto, quindi, che ha una finalità sociale?
R: No! L’idea è nata come un progetto estetico che, però, con il tempo, ha acquisito moltissime sfumature e questa cosa mi ha dato nuova linfa per continuare allargando il mio raggio d’azione. Se a Roma io come spazio utilizzo lo studio fotografico La Loggia Bianca di Roma Est, sto iniziando a ricevere sempre più richieste da altre regioni d’Italia e, pertanto, sto pensando a dei punti di raccolta in alcune città come Milano, Olbia, Bologna, Firenze, Torino e Napoli, alcune delle quali ancora da definire meglio. Ho fatto questa scelta anche per permettere a chi è più lontano di avere, comunque, la possibilità di far parte di questo progetto che stupisce anche me giorno dopo giorno.
D: Come si avvicinano i potenziali soggetti al progetto?
R: Attraverso la circolazione delle sito e della pagina Instagram molti possono venire a contatto con questo mio lavoro. Ricevo molte telefonate e gli incontri non sono subito finalizzati allo scatto. A volte, delle persone possono incontrarmi più di una volta e solo in un secondo momento, in totale autonomia, decidono di spogliarsi. Io non lo chiedo mai, attendo silenziosamente che la cosa parta da loro, ritenendo questo aspetto fondamentale ed interpretato come un momento di fiducia che loro mi concedono.
D: Come procedi?
R: La base di partenza è un nudo integrale, poi loro in modo spontaneo decidono come posizionarsi. Preferisco che la cosa sia assolutamente spontanea affinché loro si sentano sempre a loro agio. Lo scatto avviene mentre parliamo, raccontiamo storie, aneddoti, o ascoltiamo della musica che fa da sfondo al momento. Poi, però, mi focalizzo su dei dettagli, su scorci del corpo che parlino da sé. E quando sento dire che le foto parlano da sole, nonostante il piccolo dettaglio, sento di aver raggiunto quell’obiettivo di dialogo totale con chi ha posato per me.
D: Questo ti permetterà di fare nuove conoscenze e allargare i tuoi orizzonti.
R: Decisamente sì. Come già detto amo stare tra la gente e poterlo fare mi fa sentire un privilegiato, ringrazio le persone che vengono da me e si aprono, anche se poco alla volta. Grazie a questo progetto sto conoscendo anche una nuova parte di me stesso, il confrontarmi con gli altri mi permette di acquisire nuova esperienza e nuove sfumature. Il mio ulteriore obiettivo è quello di arrivare a spogliami io, sia in senso fisico che emotivo ma, per farlo sento che devo ancora nutrirmi delle esperienze altrui.
D: Prima hai detto che questo è il tuo primo vero progetto. Prima non avevi mai fatto una cosa simile?
R: No, ho lavorato tantissimo con artisti, musicisti, modelle e ho acquisito esperienza. Grazie all’incoraggiamento di alcune persone a me molto vicine ho intrapreso questo viaggio più consapevole dei miei mezzi e contento di creare qualcosa che porti la mia impronta. Ho capito che era arrivato il momento di fare qualcosa di assolutamente personale, una ricerca che andasse al di là della finalità commerciale o lavorativa. L’idea tecnica del progetto è di realizzare 1000 scatti, ovviamente selezionati, per realizzare un’esposizione e poi, magari, un libro.
D: Bene Marino, grazie per il tempo che mi hai dedicato. Devo dire che il tuo progetto ha delle idee davvero interessanti e ti auguro buona fortuna per tutto!
Il volume “Luoghi sacri e storia del territori. L’Atlante storico dei culti del reatino e della Sabina” a cura di 𝗦𝗼𝗳𝗶𝗮 𝗕𝗼𝗲𝘀𝗰𝗵 𝗚𝗮𝗷𝗮𝗻𝗼, 𝗧𝗲𝗿𝘀𝗶𝗹𝗶𝗼 𝗟𝗲𝗴𝗴𝗶𝗼 e 𝗨𝗺𝗯𝗲𝗿𝘁𝗼 𝗟𝗼𝗻𝗴𝗼, è il risultato di un lavoro interdisciplinare che coniuga gli studi e la ricerca storica, artistica e cultuale alla tecnologia digitale. Al contempo rappresenta il proseguo di un più ampio progetto – Fonti e studi farfensi – sostenuto dall’𝗜𝘀𝘁𝗶𝘁𝘂𝘁𝗼 𝗦𝘁𝗼𝗿𝗶𝗰𝗼 𝗜𝘁𝗮𝗹𝗶𝗮𝗻𝗼 𝗽𝗲𝗿 𝗶𝗹 𝗠𝗲𝗱𝗶𝗼 𝗘𝘃𝗼 e dalla 𝗕𝗮𝗱𝗶𝗮 𝗱𝗶 𝗙𝗮𝗿𝗳𝗮.
𝗦𝗼𝗳𝗶𝗮 𝗕𝗼𝗲𝘀𝗰𝗵 𝗚𝗮𝗷𝗮𝗻𝗼, che ha insegnato Storia medievale nelle Università La Sapienza, Siena, L’Aquila e Roma Tre, ha tracciato un profilo del lavoro offrendo spunti interessanti per capire il valore sia dell’opera cartacea sia della piattaforma online 𝗔𝗦𝗖𝗥𝗲𝗦 (𝗔𝘁𝗹𝗮𝗻𝘁𝗲 𝗦𝘁𝗼𝗿𝗶𝗰𝗼 𝗱𝗲𝗶 𝗖𝘂𝗹𝘁𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗥𝗲𝗮𝘁𝗶𝗻𝗼 𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗦𝗮𝗯𝗶𝗻𝗮): risultato informatico che poggia sulla precedente ricerca scientifica, i cui dati sono stati digitalizzati da esperti del settore facenti capo alla Sapienza Università di Roma.
“L’idea è nata per impulso di un finanziamento venuto dal professore 𝗔𝗻𝗱𝗿𝗲́ 𝗩𝗮𝘂𝗰𝗵𝗲𝘇 – spiega la prof.ssa Boesch Gajano -. Vorrei porre attenzione su questo importante preliminare aspetto per far capire che il lavoro è frutto di una collaborazione che va al di là dei nostri tre nomi, al di là delle istituzioni italiane, universitarie e locali.
Venuto a conoscenza delle iniziative del Centro Europeo di Studi Agiografici (CESA) con sede a Rieti, il prof. Vauchez, vincitore del premio Balzan 2013, ci propose un finanziamento per una ricerca legata a questi luoghi. Un’occasione straordinaria che, insieme a Tersilio Leggio e Umberto Longo, abbiamo colto mettendo a frutto delle ricerche pregresse, per sviluppare l’idea dell’Atlante Storico dei Culti del Reatino e della Sabina (ASCReS), di cui questo volume è il corredo a stampa. Un grande lavoro digitale: durato quasi due anni e affidato alle cure di un’equipe di studiosi e docenti della Sapienza Università di Roma.
Nonostante tutto, la carta stampata ha ancora un suo senso, ossia un suo pubblico: così abbiamo deciso di lasciare una traccia scritta del lavoro svolto per lo sviluppo dell’Atlante. A mio avviso la cosa interessante del progetto è quella di aver tentato un rapporto organico tra la ricerca storica sulle fonti e lo strumento informatico che in questo caso ha avuto la giusta pretesa di non essere soltanto un appoggio cioè un mezzo di divulgazione dei dati raggiunti ma anche uno strumento di ricerca e di possibili ulteriori ricerche.
Dopo diversi incontri con gli esperti, ho appurato che l’aspetto informatico costringe a mettere a fuoco tutta una serie di elementi: cosa, per esempio, si intende per luogo di culto attraverso una precisa definizione terminologica. Penso che si sia creato un punto di riferimento importante per questi territori.
Personalmente ho maggiormente seguito la ricerca storica e storico-artistica che ha dato frutti interessanti: il saggio sui culti di 𝗦𝘁𝗲𝗳𝗮𝗻𝗶𝗮 𝗔𝗻𝘇𝗼𝗶𝘀𝗲 e quello sulla Storia dell’Arte di 𝗘𝗹𝗲𝗻𝗮 𝗢𝗻𝗼𝗿𝗶. Credo che in entrambi si siano fatte accurate ricerche che hanno arricchito il campo d’indagine all’interno di un vasto e variegato territorio, che oggi può beneficiare di uno strumento che permette di conoscere una rete di luoghi sacri, in ognuno dei quali sono stati rintracciati oggetti di culto e devozione che non erano noti.
Il volume segna un passo in avanti, perché poggia su un lavoro che intreccia aspetti storico religiosi con la storia del territorio di cui Tersilio Leggio è maestro, e al quale va il merito di aver inserito il territorio sabino e reatino all’interno di una grande storia che travalica confini netti e precisi. Tra questi due campi emergono interazioni interessanti: soprattutto i rapporti con altri territori limitrofi e le loro trasformazioni nel tempo.
Per me, che ho una limitata conoscenza di tipo informatico, è stata una bella esperienza capire la materia attraverso i saggi di Saverio Malatesta e di Massimiliano Vassalli: validi riferimenti per creare un rapporto fra la ricerca umanistica e quella informatica, estendibile ad altri campi.
Per quanto riguarda la fruizione del sito ASCRES è strutturato per essere accessibile a tutti: i giovani digitali sono senz’altro agevolati; i meno giovani possono trovare nel volume cartaceo un valido aiuto per navigare. Il mio auspicio è che non solo agli studiosi di professione ma ad ogni Comune, scuola, parrocchia del territorio sabino e reatino, sia data la possibilità di connettersi per utilizzare l’Atlante, che oltre a divulgare conoscenza scientifica – sfatando o integrando una serie di leggende – può essere un luogo di promozione culturale e turistica”.
Le riflessioni della prof.ssa Boesch Gajano invitano a sfogliare i frutti di un lungo lavoro di ricerche sulla storia del territorio sabino. Tra questi: “𝗖𝗼𝗻𝘀𝘁𝗿𝘂𝗰𝘁𝗶𝗼 𝗠𝗼𝗻𝗮𝘀𝘁𝗲𝗿𝗶𝗶 𝗙𝗮𝗿𝗳𝗲𝗻𝘀𝗶𝘀” a cura di Umberto Longo, “𝗟’𝗔𝗯𝗯𝗮𝘇𝗶𝗮 𝗔𝗹𝘁𝗼𝗺𝗲𝗱𝗶𝗲𝘃𝗮𝗹𝗲 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗶𝘀𝘁𝗶𝘁𝘂𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗶𝗻𝗮𝗺𝗶𝗰𝗮. 𝗜𝗹 𝗰𝗮𝘀𝗼 𝗱𝗶 𝗦𝗮𝗻𝘁𝗮 𝗠𝗮𝗿𝗶𝗮 𝗱𝗶 𝗙𝗮𝗿𝗳𝗮” a cura di Stefano Manganaro, “𝗔𝗹𝗹𝗲 𝗼𝗿𝗶𝗴𝗶𝗻𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗺𝗼𝗻𝗮𝗰𝗵𝗲𝘀𝗶𝗺𝗼 𝗶𝗻 𝗦𝗮𝗯𝗶𝗻𝗮” di Tersilio Leggio, “𝗜𝗹 𝗦𝗮𝗻𝘁𝘂𝗮𝗿𝗶𝗼 𝗱𝗶 𝗦. 𝗠𝗶𝗰𝗵𝗲𝗹𝗲 𝗮𝗹 𝗠𝗼𝗻𝘁𝗲 𝗧𝗮𝗻𝗰𝗶𝗮. 𝗔𝗽𝗽𝗿𝗼𝗰𝗰𝗶 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗱𝗶𝘀𝗰𝗶𝗽𝗹𝗶𝗻𝗮𝗿𝗶 𝗽𝗲𝗿 𝗹𝗮 𝗰𝗼𝗻𝗼𝘀𝗰𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗲 𝗹𝗮 𝘃𝗮𝗹𝗼𝗿𝗶𝘇𝘇𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗶 𝘂𝗻 𝗹𝘂𝗼𝗴𝗼 𝗱𝗶 𝗰𝘂𝗹𝘁𝗼 𝗺𝗶𝗹𝗹𝗲𝗻𝗮𝗿𝗶𝗼” a cura di T. Canella e U. Longo, “𝗦𝗮𝗻𝘁𝗮 𝗩𝗶𝘁𝘁𝗼𝗿𝗶𝗮. 𝗟𝗮 𝗺𝗮𝗿𝘁𝗶𝗿𝗲, 𝗶𝗹 𝗰𝘂𝗹𝘁𝗼 𝗲 𝗹𝗲 𝗶𝗱𝗲𝗻𝘁𝗶𝘁𝗮̀ 𝘁𝗲𝗿𝗿𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶𝗮𝗹𝗶” a cura di Elena Onori, e naturalmente “𝗟𝘂𝗼𝗴𝗵𝗶 𝘀𝗮𝗰𝗿𝗶 𝗲 𝘀𝘁𝗼𝗿𝗶𝗮 𝗱𝗲𝗹 𝘁𝗲𝗿𝗿𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶. 𝗟’𝗔𝘁𝗹𝗮𝗻𝘁𝗲 𝘀𝘁𝗼𝗿𝗶𝗰𝗼 𝗱𝗲𝗶 𝗰𝘂𝗹𝘁𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗿𝗲𝗮𝘁𝗶𝗻𝗼 𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗦𝗮𝗯𝗶𝗻𝗮” a cura di Sofia Boesch Gajano, Tersilio Leggio e Umberto Longo.
Sulla piattaforma 𝗔𝗦𝗖𝗥𝗘𝗦 (http://ascres.uniroma1.it/ ) basta fare un click per avventurarsi nella ricerca, senza dimenticare il valore e il piacere della carta che offre contenuti e quindi parole da digitare: un maggiore bagaglio storico, culturale e cultuale con il quale navigare!
ASCREA-Domenica 6 agosto nel borgo di Ascrea torna uno degli eventi più attesi dell’estate, la Sagra delle Fettuccine ai Funghi Porcini, giunta alla sua 35° edizione e diventata uno degli avvenimenti più importanti della Valle del Turano.
Nato quasi per gioco come una spaghettata tra amici, nel corso degli anni l’evento ha chiamato a raccolta un numero sempre più crescente di turisti, amatori o semplici curiosi che hanno avuto modo di omaggiare la tradizione culinaria del territorio.
Da mezzogiorno a mezzanotte ad accompagnare le fettuccine ci saranno le classiche bruschette al fungo porcino, salsicce, fagioli e il buon vino locale mentre il compito di far divertire gli ospiti quest’anno sarà affidato alla Colorado Band. Per le vie del borgo, invece, si dislocheranno vari stand su cui trovare i prodotti tipici di Ascrea e altre curiosità tipiche del luogo.
Per il secondo anno consecutivo ci sarà la possibilità di acquistare i biglietti in prevendita al seguente link: http://Bit.ly/sagra_ascrea.
Info utili:
Dal panorama mozzafiato e una disarmante semplicità Ascrea è un piccolo paesino di duecento anime nella provincia di Rieti. È la meta ideale per chi vuole scappare dal caos quotidiano e ritrovare un po’ di serenità, trascorrendo una giornata in riva al lago o passeggiando nei freschi e rigogliosi boschi da cui poter ammirare uno tra più bei panorami della Regione Lazio e non solo.
Come arrivare:
da Rieti > SP Turanense > Lago del Turano > Ascrea
da Roma/Sabina > Via Salaria > Osteria Nuova > Lago del Turano
da Roma > A24/Via Tiburtina > Carsoli > Lago del Turano
da L’Aquila > A24 uscita Carsoli > Lago del Turano
Salendo dal bivio di Ascrea troverete le guardie ambientali che vi faranno parcheggiare lungo la via che porta al paese, da quel punto sarà disponibile il servizio navetta gratuito per arrivare dentro al paese.
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