Laura Conti- Madre dell’ecologia italiana è stata partigiana, medico, politica Deputata PCI, scrittrice-
Nata a Udine il 31 marzo 1921, Laura Conti è stata partigiana, medico, politica, scrittrice e ambientalista che, attraverso il suo lavoro rivolto su più fronti, ha inciso un solco nel Novecento italiano, contribuendo allo sviluppo dell’etica ambientale in Italia e alla nascita delle narrazioni ecologiche. A causa dell’impegno antifascista della famiglia, è costretta più volte a cambiare dimora, fino a stabilirsi a Milano, e dopo aver terminato le scuole superiori si iscrive alla facoltà di medicina. Nel 1944, però, sente il bisogno di partecipare alla Resistenza entrando nel “Fronte della gioventù” con un incarico di propaganda presso le caserme: un attivismo che le costa l’arresto e la deportazione nel Campo di transito di Bolzano, un’esperienza dalla quale, qualche decennio più tardi, nascerà La condizione sperimentale (1965), opera nella quale ripercorrerà quei momenti; mentre la sua prima opera narrativa, Cecilia e le streghe, uscirà nel 1963. Rientrata a Milano, si laurea in Medicina e si specializza in Ortopedia, ma fin da subito continua nella sua attività politica, prima nel Psi e poi nel Pci, riuscendo, tra il 1960 e il 1970, a diventare consigliera alla Provincia di Milano, poi alla Regione Lombardia, e infine ad essere eletta alla Camera dei Deputati. Durante il suo impegno politico si occupa di tematiche femministe e ambientali, svolgendo un ruolo importante nella gestione della catastrofe ambientale che colpì Seveso nel 1976, trattata anche attraverso la pubblicazione di un saggio, Visto da Seveso (1977), e di un romanzo come Una lepre con la faccia di bambina (1978): la sua idea di politica ambientale la porta a elaborare un metodo di lavoro che l’accomuna ad una ricercatrice, convinta dell’importanza di sostenere le decisioni politiche che possano poggiarsi su solide basi scientifiche. Nella notte del 25 maggio 1993 muore a Milano per un malore improvviso.
(a cura di Andrea Pardi)
Nata a Udine il 31 marzo 1921, ha vissuto a Trieste dove la famiglia aveva un’azienda commerciale che persero, a seguito del loro impegno antifascista. Si trasferirono prima a Verona e poi a Milano.
Non sono una scienziata, ma una studiosa dei problemi ecologici. Pur trovando affascinante lo studio, penso che sia importante anche agire ed operare. Per questo motivo ho deciso di fare politica: non basta studiare, bisogna anche darsi da fare.
Laura Conti, madre del movimento ecologista italiano, è stata partigiana, medica, ambientalista, scrittrice, politica eco-femminista. Ha fondato Lega per l’Ambiente, poi diventata Legambiente.
Ha scritto ventisei libri e una sterminata quantità di articoli e saggi per riviste e giornali, soprattutto per L’Unità.
Dotata di una grande potenza di scrittura, ha da sempre avuto un’attenzione particolare per i problemi dell’inquinamento ambientale.
Il suo pensiero contiene un dettagliato programma politico, mai attuato da nessuno, al cui centro risiede la tutela dei patrimoni genetici delle specie viventi.
Appassionata di natura e biologia sin da bambina, venne folgorata dalla lettura della biografia di Marie Curie che ne ispirò le scelte di studio.
Frequentava la facoltà di Medicina quando, nel 1944, è entrata a far parte del Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà. Giovane partigiana, col rischioso compito di fare propaganda nelle caserme, venne presto arrestata e detenuta, prima a San Vittore e poi rinchiusa nel Campo di transito di Bolzano, da cui riuscì miracolosamente a tornare. È l’unico caso che si ricordi in cui un’internata sia riuscita a far avere al giornale l’Avanti (che allora usciva clandestino) un articolo di denuncia sui campi di sterminio, ripreso poi anche da Radio Londra.
Quella forte esperienza fece spostare il suo interesse sull’impatto dell’ambiente sul corpo umano, soprattutto quello delle donne che le fece continuare la lotta politica e avvicinarsi al femminismo.
Dopo essersi laureata in medicina ha svolto servizio all’Inps, attività che le ha permesso di osservare gli strani effetti di certi ambienti industriali sulla salute di operai e operaie.
Ha militato nelle file del Partito Socialista e, dal 1951, in quello Comunista. Ha ricoperto l’incarico di consigliera della provincia di Milano per dieci anni e per altri dieci della regione Lombardia.
Segretaria della Casa della Cultura, ha fondato e diretto l’Associazione Gramsci. Nel 1980, ha partecipato alla fondazione della Lega per l’ambiente la famosa associazione ecologista che promuove attività concrete per la salvaguardia della natura e i suoi abitanti, di cui è stata presidente del Comitato scientifico.
Il suo primo libro è stato Cecilia e le streghe, con cui nel 1963 ha vinto il premio Pozzale. Romanzo che prende le mosse da un misterioso incontro fra due donne, nelle strade deserte di Milano in una sera di mezz’agosto e in cui affronta con toni poetici i temi della malattia, della morte, del dolore, della fede e dell’eutanasia, affrontando pienamente le pieghe del rapporto fra medico e paziente.
Sempre sull’esperienza nel lager, nel 1965, ha scritto il romanzo La condizione sperimentale.
È salita alla ribalta nazionale con la catastrofe di Seveso del 1976, provocata dalla fuoriuscita di una nube tossica contenente diossina da un’industria chimica. Per il suo ruolo di consigliera regionale, si era recata immediatamente sul luogo del disastro per seguire da vicino gli abitanti e, in particolare, le donne incinte a cui, per il rischio di malformazione dei neonati, venne eccezionalmente concessa la possibilità di abortire. Diritto raggiunto da tutte le donne soltanto due anni dopo.
Con le pubblicazioni Visto da Seveso e Una lepre con la faccia di bambina la sua popolarità ha varcato i confini nazionali e i suoi studi hanno ispirato, nel 1982, la direttiva sui rischi di incidenti connessi con determinate attività industriali della Comunità Europea, chiamata Direttiva Seveso.
Tra i libri che ha scritto ci sono anche Che cos’è l’ecologia,Questo pianeta e La fotosintesi e la sua storia capolavoro scientifico scritto per le scuole superiori, il cui tema centrale è l’aria e la storia della formazione dell’ossigeno.
Dopo aver ricevuto il Premio Minerva per il suo percorso scientifico e culturale, nel 1987 è stata eletta alla Camera dei deputati col partito dei Verdi.
È morta il 25 maggio 1993 a Milano.
Il suo archivio è stato lasciato alla Fondazione Micheletti di Brescia.
In sua memoria sono state compiute varie iniziative pubbliche, il Comune di Milano l’ha riconosciuta come Cittadina benemerita e le ha intitolato un giardino pubblico, Bolzano, invece, le ha dedicato una strada e sono stati scritti vari libri sulla sua vita e il suo importante contributo.
Laura Conti ha mostrato quanto possa incidere l’ambiente di lavoro sulla salute e quanto sia importante occuparsi di ecologia applicata nelle fabbriche e nelle periferie urbane.
La sua attività di divulgatrice è stata una vera missione politica.
Una donna che abbiamo il dovere di non dimenticare.
Fonte- una donna al giorno
Valeria Fieramonte-La via di Laura Conti
Ecologia, politica e cultura a servizio della democrazia
Una biografia di Laura Conti che racconta la sua storia di impegno politico, che la vide giovane partigiana durante la Resistenza, prigioniera nel campo di concentramento di Bolzano e poi attiva nelle battaglie per i diritti umani, che percorre la passione e la dedizione alla scienza, alla medicina, alla biologia, all’ecologia, che dà conto del suo lavoro intenso di scrittrice e divulgatrice con 26 libri pubblicati e una sterminata quantità di articoli e saggi per riviste e giornali.
Laura Conti ha vissuto intensamente il proprio tempo, la sua storia individuale si è scontrata e intrecciata con gli eventi della Storia di tutti: la guerra, la resistenza, la ricostruzione, le speranze e l’impegno per edificare una società migliore per tutte e tutti, ma ha anche visto molto più lontano, individuando, grazie alla sua peculiare genialità sui temi ambientali, a un pensiero lucido, originale, limpido, alcuni temi che sarebbero diventati di grande importanza molti anni dopo, e che sono rilevantissimi per noi oggi. Come il grande tema dell’ambiente (celebri i suoi reportage e le sue battaglie a seguito del disastro ambientale di Seveso del 1976, quattro leggi della Comunità Europea in questo ambito sono ispirate da lei), della responsabilità del genere umano nei confronti del pianeta Terra, dello sviluppo sostenibile, o come il tema dell’educazione delle giovani generazioni, della
necessità della formazione di un’umanità più consapevole e libera.
Valeria Fieramonte scrive questo racconto in modo partecipe e appassionato tanto da riuscire a restituire quel senso della inestricabiltà della vita concreta di ciascuno: le scelte di vita, la politica, gli studi, i romanzi, i saggi, le esperienze più difficili, i successi e i riconoscimenti, le relazioni si susseguono in questo testo in un unico e coinvolgente flusso, come se quella vicenda umana del passato diventasse parte del nostro vivere di oggi. Alla fine questo notevole personaggio del Novecento ci sembra che potrebbe esserci vicina come una amica cara che conosciamo bene e di cui andiamo orgogliose.
Laura Conti riposa ora nel Famedio tra i milanesi e le milanesi illustri. La sua storia personale e il suo pensiero illuminato costituiscono un patrimonio prezioso che questo libro vuole contribuire a restituire a tutti e tutte.
Valeria Fieramonte, giornalista freelance in campo scientifico, laureata in filosofia all’Università Statale di Milano, ha lavorato in numerose testate, tra cui il «Corriere della Sera» («Corriere Salute»), «Le Scienze» e «Salve». Ha scritto con Giovanna Gabetta Sesso, amore e gerarchia. Pensieri liberi su differenze di genere e potere, 1998 e curato, in Lo snodo dell’origine, il saggio sul pensiero di Lynn Margulis. È membro dell’Ugis (Unione giornalisti scientifici italiani) e dell’Eusja (Associazione dei giornalisti scientifici europei). Nel dicembre 2015 è stata corrispondente per «La nuova ecologia» dal Congresso COP 21 di Parigi. Questo libro su Laura Conti, un tempo sua amica, è frutto di lunghi anni di studio sulla sua vita e sul suo pensiero.
I nostri libri sono distribuiti nelle librerie di tutta Italia da Messaggerie Libri.
La promozione è curata da PEA Italia.
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– Rosa Leveroni-(1910-1985)-Poetessa spagnola legata alla Resistenza culturale catalana nel periodo franchista. La sua poesia, influenzata dall’opera di Carles Riba, è caratterizzata dal tema amoroso e dalla riflessione sul destino umano.
Rosa Leveroni i Valls neix a Barcelona l’1 d’abril del 1910 en el si d’una família de la mitjana burgesia. El seu pare, descendent d’una família d’armadors de vaixells de Gènova, fa de gerent d’un magatzem de metalls, i la seva mare, de mestra. Fa els primers estudis al col·legi Príncep d’Astúries i, posteriorment, fins als dotze anys, a les Dames Negres del passeig de Gràcia.
Als quinze anys publica els seus primers versos a la revista Patufet, i comença a tenir clara la seva vocació literària. Tot i que el seu pare la pressiona perquè es dediqui al negoci familiar, als dinou anys, coincidint amb la caiguda de la dictadura de Primo de Rivera, entra a l’Escola de Bibliotecàries, que aleshores dirigeix Jordi Rubió. Aquesta institució, fundada per Eugeni d’Ors, té com a professors alguns dels intel·lectuals catalans més brillants del moment (Carles Riba, Ferran Soldevila, Nicolau d’Olwer, Rafael de Campalans). L’estada a l’Escola de Bibliotecàries i, en especial, la coneixença de Carles Riba, és cabdal en la formació intel·lectual i personal de Leveroni.
L’any 1933 rep una beca per anar a Madrid a fer una tesina sobre literatura infantil. En tornar, entra a treballar a la biblioteca de la Universitat Autònoma de Barcelona. Durant la guerra civil fa dos cursos de la carrera de Filosofia i Lletres. L’any 1937 és finalista al premi Joaquim Folguera amb el llibre Epigrames i cançons, que publica l’any 1938, prologat per Carles Riba. La influència ribiana i, en general, de tota la generació postsimbolista és molt present en aquest volum. Els temes que hi apareixen seran els que es repetiran durant tota la seva obra: la tristesa, la desolació amorosa, la melangia…, sentiments continguts i objectivats gràcies a la disciplina del vers.
El 1939, després de la Guerra Civil, la depuració de funcionaris de la Generalitat fa que perdi la feina com a bibliotecària de la Universitat Autònoma. Durant la dècada dels quaranta, Leveroni dedica tota la seva energia a la resistència cultural catalana enfront de la repressió franquista, i es converteix en l’ànima del grup intel·lectual que Carles Riba forma al seu voltant. És ella qui distribueix clandestinament les Elegies de Bierville de Riba, qui actua de contacte entre els intel·lectuals catalans de l’interior i els de l’exili, i és una de les primeres col·laboradores de la revista Poesia (fundada el 1940) i de la revista Ariel (fundada el 1946).
L’any 1952 publica un segon volum de poesia, Presència i record, prologat per Salvador Espriu. La mort del seu pare, l’obliga a centrar-se en el negoci familiar. En aquesta època assisteix assíduament als congressos de literatura catalana que se celebren a Anglaterra, organitzats per la Catalan Society, entitat de la qual és membre. Durant les dècades dels seixanta i dels setanta, la seva figura es manté cada vegada més apartada i aïllada de l’escena literària catalana, fet al qual també contribueix el seu silenci poètic.
L’any 1981 publica el volum Poesia, que recull tota la seva obra poètica, amb pròleg de Maria Aurèlia Capmany i dos epílegs de Carles Riba i Salvador Espriu, escrits respectivament el 1938 i el 1950 i que havien prologat els dos reculls poètics. L’any següent, el conjunt de la seva obra és reconegut amb l’atorgament de la Creu de Sant Jordi de la Generalitat de Catalunya.
Mor el 4 d’agost del 1985, poc abans que es publiqui un volum de contes que recull la seva producció narrativa. És enterrada a Port-Lligat.
Rosa Leveroni-Poesia”PRESENZA E RICORDO”
*
Con il grigiore di questo cielo,
l’argento dell’ulivo
deve sembrare il tocco di un pennello
dalla fine trasparenza.
Un mare di piombo sullo sfondo
condensava l’oscurità.
Tutta la luce è rimasta
sul ramo d’ulivo.
Rosa Leveroni-(1910-1985)-Poetessa spagnola legata alla Resistenza culturale catalana nel periodo franchista. La sua poesia, influenzata dall’opera di Carles Riba, è caratterizzata dal tema amoroso e dalla riflessione sul destino umano.
(Presència i record. Barcelona: Edicions de l’Óssa Menor, 1952)
* * *
Elegies dels dies obscurs
III
Desmai de cap al tard damunt de l’aigua
adormida del port. Els núvols grisos
deixaven la tristesa de sentir-se
orfes del seu rosat botí de posta,
sobre el mirall opac. L’ala del somni
ratllava les cobertes treballades
d’un íntim cansament. Ja cap bandera
no ornava els mastelers. I les desferres
dels bots abandonats eren la muda
crida del desesper. Els nostres passos
ressonaven pel moll i les paraules
foren el lent sospir de la nostàlgia
d’un viatge mai fet… Ah! les inútils
veles del mort desig, ¿com desplegar-les
al vent que no vindrà per a portar-nos
al goig del mar obert, a l’alegria
de les ones batents, si els braços àvids
d’aquest port desolat ens retenien?
VIII
Aquest so greu de corda adolorida
que subratlla el meu cant, és la penyora
deixada per la mort perquè et recordi,
amor adolescent. És la teva ombra
que en l’alta solitud dels camins aspres,
el braç acollidor, va fer-me ofrena
d’aquest repòs segur, oh flama pura
del meu amor passat, present encara
en el somriure las d’un món que porta
el pes de tots els morts en les florides
de cada primavera renovada.
Ets el meu port tancat on de l’inútil
navegar porcel·lós veig la tristesa
i el conhortament… Ombra benigna
que m’acompanya el cant atemperant-lo
amb unes notes greus, serva’m els braços
eternament oberts…
(Poesia. Barcelona: Edicions 62, 1981, p. 105-108)
* * *
Plau-me seguir els camins que els camps parteixen,
ignorant cap a on van,
amarats d’un perfum de terra molla
i d’un errívol cant.
I prenen uns colors de coure càlid
d’un bes del sol ponent,
i celen amb amor, sota les branques,
el festeig de la gent.
Plau-me seguir els camins que per la vinya
s’enfilen costa amunt,
i tenen per la set i la mirada
un bell gotim a punt.
Plau-me seguir els camins entre pollancres
vetllant un rierol,
i coneixen el vol de les becades,
el joc de pluja i sol…
Amo tots els camins, fins els més aspres,
mentre siguin oberts
i posin tremolor de fruita nova
als meus sentits desperts.
(Poesia. Barcelona: Edicions 62, 1981, p. 80-81)
* * *
Jo porto dintre meu
per fer-me companyia
la solitud només.
La solitud immensa
de l’estimar infinit
que voldria ésser terra,
aire i sol, mar i estrella,
perquè fossis més meu,
perquè jo fos més teva.
(Epigrames i cançons. Barcelona: Gustau Gili, 1938)
Antologia
Alcune poesie
Con il grigiore di questo cielo
l’argento de l’olivera
deve sembrare il tocco di un pennello
di una raffinata trasparenza.
Un mare di piombo sullo sfondo
condensava la tenebra.
Tutta la luce è andata
al brancam de l’olivera.
(Presenza e ricordo. Barcellona: Edizioni dell’orso minore, 1952)
* * *
Elegies dels muore oscurs
III
Svenendo nel pomeriggio in acqua
sonno dal porto. Le nuvole grigie
hanno lasciato la tristezza dei sentimenti
Orfani con il loro sedere rosa,
sullo specchio opaco. L’ala del sogno
graffiato i ponti lavorati
di una stanchezza intima. Nessuna bandiera più
niente Ornava els Mastelers. I les desferres
delle barche abbandonate erano i muti
grido di disperazione. I nostri passi
risuonava attraverso il molo e le parole
Erano il lento sospiro della nostalgia
da un viaggio mai fatto… Ah! Ah! quelli inutili
candele del desiderio di morte, come aprirle
al vento che non verrà a prenderci
alla gioia del mare aperto, alla felicità
delle onde battenti, se l’avidità braccia
Ci hanno tenuti lontano da questo porto desolato?
VIII
Quel serio suono di corda dolorante
che sottolinea il mio canto, è la penyora
lasciato alla morte per ricordarti,
amore adolescenziale. È la tua ombra
che nell’alta solitudine delle strade aspre,
il braccio di accoglienza, mi ha fatto un’offerta
di questo riposo sicuro, oh fiamma pura
dal mio amore passato, presente ancora
nel sorriso quelli di un mondo che porta
il peso di tutte le morti in Florida
di ogni primavera rinnovata.
Sei il mio porto chiuso dove dell’inutilità
surf in porcellana vedo la tristezza
I el conhortament… Ombra benigna
che mi accompagna la canzone temprandola
Sul serio, servi le mie braccia
eternamente aperto…
(Poesia. Barcellona: Edizioni 62, 1981, p. 105-108)
* * *
Seguite i sentieri che conducono i campi,
ignorante cappuccio a sul furgone,
amato da un profumo di terra morbida
Non posso errívol.
E prendono i colori caldi del rame
con un bacio dal sole che tramonta,
e cieli d’amore, sotto i rami,
la festa del popolo.
Seguite i sentieri per la vigna
stanno allineando la costa,
E hanno la sete e lo sguardo
un bell gotim un punt.
Per favore seguite i sentieri tra pollancre
vegliare su un torrente,
E conoscono il volo delle borse di studio,
il gioco della pioggia e del sole…
Amo tutte le strade, anche le più dure,
purché siano aperti
E hanno messo un nuovo tremore alla frutta
nei miei sensi svegli.
(Poesia. Barcellona: Edizioni 62, 1981, p. 80-81)
* * *
Porto dentro di me
per farmi compagnia
solo la solitudine.
La solitudine immensa
amarla infinitamente
Voglio essere la terra,
Aire i sol, mar i estrella,
perché tu eri più mio,
in modo che potessi essere più come te.
(Epigrammi e canzoni. Barcellona: Gustau Gili, 1938)
Rosa Leveroni (Barcelona, 1910-1985). Poeta i narradora. La seva poesia es troba influïda pel mestratge de Carles Riba, tant en els models formals com en el refús de la superficialitat i el barroquisme. La seva obra és breu i es troba recollida en dos volums: Poesia (1981) i Contes (1985). Conrea també l’assaig i la crítica literària (sobre Ausiàs March, especialment). Durant la postguerra desenvolupa una tasca important en la represa de la cultura i la llengua catalanes. L’any 1982 és reconeguda amb la Creu de Sant Jordi de la Generalitat de Catalunya.
Va ser una de les primeres membres i, posteriorment, sòcia d’honor de l’Associació d’Escriptors en Llengua Catalana.
Rosa Leveroni (Barcellona, 1910-1985). Il poeta e il cantastorie. La sua poesia è influenzata dalla maestria di Carles Riba, sia nei modelli formali che nel rifiuto della superficialità e del barocco. Il suo lavoro è breve ed è raccolto in due volumi: Poesia (1981) e Racconti (1985). Coltiva anche saggio e critica letteraria (soprattutto su Ausiàs March) Nel dopoguerra sviluppa un importante compito nel restauro della cultura e della lingua catalana. L’anno 1982 è riconosciuta con la Croce di San Giorgio della Generalitat di Catalogna.
POEMES DE ROSA LEVERONI
VI TARDA DE POESIA
20 D’ABRIL DE 2022
AULES DE DIFUSIÓ CULTURAL DE LA GARROTXA
POEMES DE ROSA LEVERONI
PÒRTIC
del llibre Epigrames i cançons, 1938
Jo porto dintre meu per fer-me companyia la solitud només.
La solitud immensa
de l’estimar infinit
que voldria ésser terra, aire i sol, mar i estrella, perquè fossis més meu, perquè jo fos més teva.
ELS RECORDS III
Jo fos per tu aquesta cançó tan dolça que desgrana el molí;
aquest oreig suau que t’agombola perfumant-te el matí.
Fos el flauteig dels tòtils a la tarda en la calma dels horts.
Si fos aquesta pau que t’acompanya en el repòs dels ports …
o fos la punxa de la rosa encesa d’un desig abrandat; aquell record d’una hora de follia, d’aguda voluptat.
Si fos l’enyorament d’uns braços tendres que varen ser-te amics,
o bé la revifalla rancorosa d’aquells menyspreus antics.
Si jo no fos per tu record amable, fos almenys un neguit,
un odi o un dolor, una recança … Ho fos tot, menys l’oblit.
(del llibre Presència i record, 1952)
CANÇÓ DE LES BESADES
El primer bes que florí,
te’n recordes?, jo el donava. Tu em prengueres el segon vora del riu que cantava.
I després ja començà
el rosari de besades.
Unes amb regust de sol
i neu dalt de la muntanya. Altres amb claror d’estels
i perfum de lluna clara.
Totes d’un encantament
que ens feia les hores calmes …
D’aquell rosari passat,
sols el record m’acompanya i la recança també,
amor, si tu l’oblidaves.
(del llibre Epigrames i cançons, 1938)
ABSÈNCIA I
Rosa encesa del desig,
com m’esgarrinxes els llavis,
i sóc tan lluny de l’amat!… Sols tinc la mar per companya; ella bé prou que em somriu dins la cala arredossada.
Em somriuen els estels i la lluna niquelada,
el campanar cimejant
i la vela ben inflada,
i la gavina en ple vol,
i el peix fugint de la xarxa…
Rosa encesa del desig,
com m’esgarrinxes els llavis! Si sóc tan lluny de l’amat
res dintre meu ja no canta.
(del llibre Presència i record, 1952)
TEMA AMB VARIACIONS
No vull el mirall del mar, ni l’estelada florida;
ni claror de cels novells, ni encetar cap nova via.
Vull la dolçor del teu braç abraçant la meva vida; vull la claror dels teus ulls i la teva veu amiga.
XXIII
ABSÈNCIA VII
Em pren la calma dels camps quan l’hora esdevé rogenca.
I la quietud de la mar
quan els vents dormen la sesta. I mentre vola l’ocell
l’ànima esdevé lleugera …
Saber-te lluny sense dol
em fa ressò de miracle.
Ara, però, veig el món
amb la claror que m’encanta de tenir-te dintre meu,
que fa que no em cal pensar-te.
(del llibre Epigrames i cançons, 1938)
CANÇÓ D’UN SETEMBRE
Era una coma d’oliveres
amb una casa i un camí,
al capdavall dues figueres
fent ombra fresca a un doll molt fi.
Era migdia. Reposava
la vinya negra de gotims; vora el portal un gall cantava; es feinejava porta endins.
Aquella font era tan clara, era tan net aquell cel blau … Omplia el pit la joia avara
i la llangor fou tan suau!…
Jo no sabia que l’amava
però en sos ulls em vaig mirar … Des d’aleshores l’estimava,
ja no he sabut què és oblidar.
(del llibre Presència i record, 1952)
Vull sentir-te com arrel
dins la foscor beneïda d’aquesta terra vivent
de nostra amor compartida.
(del llibre Presència i record, 1952)
CLAROR DAURADA
És la claror daurada de la posta d’un dia de tardor
que veig en els teus ulls i que m’ofrenen la teva tremolor.
És aquell deix cansat, com d’arribada després de tràngols forts
a l’esperat recer, on tots els somnis troben la pau dels ports.
És el somriure lleu, la veu sonora d’haver estimat ja tant,
que em prenen dolçament i se m’emporten sense saber on van…
(del llibre Presència i record, 1952)
ELS CAMINS III TEMA AMB VARIACIONS
Plau-me seguir els camins que els camps parteixen ignorant cap on van,
amarats d’un perfum de terra molla
i d’un errívol cant.
I prenen uns colors de coure càlid
d’un bes del sol ponent,
i celen amb amor, sota les branques,
el fresseig de la gent.
Plau-me seguir els camins que per la vinya s’enfilen costa amunt,
i tenen per la set i la mirada
un bell gotim a punt.
Plau-me seguir els camins entre pollancres vetllant un rierol,
i coneixent el vol de les becades,
el joc de pluja i sol…
Amo tots els camins, fins els més aspres, mentre siguin oberts
i posin tremolor de fruita nova
als meus sentits desperts.
(del llibre Presència i record, 1952)
COLOR DEL TEMPS
Clavellines als balcons,
parets blanques, fustes blaves. Esclat de llum: campanar; randes albes a les platges. Tocs de mel en la claror;
verds i blaus, joies de l’aigua …
Quin perfum primaveral ofrenaves, vila amable! …
(del llibre Presència i record, 1952)
Si jo tingués un veler sortiria a pesca d’albes. Encalçaria els estels
per posar-me’n arracades.
Si jo tingués un veler, totes les illes i platges
em serien avinents
per al somni i les besades.
Si jo tingués un veler,
en cap port faria estada. El món fóra dintre seu,
ai amor, si tu hi anaves …
(del llibre Presència i record, 1952)
TEMA AMB VARIACIONS
Són les illes del record
les que m’ofrenen les platges on d’aquest meu navegar pugui reposar les ales.
Tots els camins de la mar un a un se’m refusaven; sols els ports resten oberts amb l’agombol de les cases.
Les veles han desertat
tots els vents que les tibaven. L’estrella signa el retorn
al vell sofrir delectable.
Són les illes del record
les que m’ofrenen les platges …
(del llibre Poesia, 1981)
GLOSES MALLORQUINES
Si bastiment hi havia
que fadrines se’n dugués vestides de mariners,
jo la de davant seria.
Tota la mar trescaria, estimat meu, sols que us ves.
Totes les illes hauria
per a bescanvi d’un bes. Pirates i bandolers
a tots ells jo robaria,
i res no m’aturaria
si els teus braços jo trobés.
Els teus llavis jo tindria com a més segur recés. Pirates i mariners
i moros de moreria,
res ja no m’espantaria
si en els teus ulls em negués…
III
GLOSES MALLORQUINES VII
Vós heu robat i robeu
i vós sou la robadora;
el cor m’heu robat, senyora, i l’ànima em pledegeu.
Vós teniu tot l’amor meu,
no en voleu ser sabedora. Vós jugueu amb mi, senyora, i potser vos arrisqueu.
El cor m’heu robat, senyora, potser el vostre hi perdereu. És molt cara la penyora, mireu, senyora, el que feu!
L’enamorar enamora
i, si l’ànima em voleu, mireu-me als ulls, missenyora, que dins ells la trobareu.
El cor m’heu robat, senyora. Ara el vostre me’l deveu.
(del llibre Presència i record, 1952)
Tota la mar trescaria
si prop meu sempre et tingués!
(del llibre Presència i record, 1952)
VOLDRIA QUE EL MEU CANT FOS COM UNA ALBA
Voldria que el meu cant fos com una alba secreta per a tots,
i només un de sol capís els signes
dels inefables mots.
Voldria que el meu cant fos com l’alosa o com el dia clar,
que posen en el cel la seva joia
sense res esperar.
Voldria que el meu cant fos com un himne de gràcies per la sort
de trobar dintre meu tot el misteri
de la vida i la mort.
(del llibre Poesia, 1981)
TESTAMENT
Quan l’hora del repòs hagi vingut per a mi vull tan sols el mantell d’un tros de cel marí. Vull el silenci dolç del vol de la gavina dibuixant el contorn d’una cala ben fina; l’olivera d’argent, un xiprer més ardit
i la rosa florint al bell punt de la nit;
la bandera d’oblit d’una vela ben blanca
fent més neta i ardent la blancor de la tanca. I saber-me que sóc, en el redós suau,
un bri d’herba només de la divina pau.
(del llibre Poesia, 1981)
Donem les gràcies a totes les persones que han fet possible aquesta VI Tarda de Poesia:
ALS QUI HAN LLEGIT TEXTOS EN PROSA:
Reflexions i records de Rosa Leveroni Carta de Salvador Espriu
A LES LECTORES I LECTORS DE POEMES:
Pòrtic
Els records
Cançó de les besades
Rosa encesa del desig …
No vull el mirall del mar …
Els camins
Color del temps
Claror daurada
Si jo tingués un veler …
Glosses mallorquines: Si bastiment hi havia … Voldria que el meu cant fos com una alba Testament
A L’ÀNGEL GIRONA, MÚSIC VERSIONADOR I INTÈRPRET:
Em pren la calma dels camps
Cançó d’un setembre
Glosses mallorquines: Vós heu robat i robeu … Són les illes del record …
A L’EDITOR DEL POWER POINT:
Glòria Llinàs Francesc Bragulat
Maria Biarnés Montse Delgà Conxita Ayats Margarida Arau Tura Tarrús Roser Melià Montse Trubat M. Teresa Roura Pilar Gurt
Chiara Colombini-Storia passionale della guerra partigiana-
Editori Laterza-Bari
DESCRIZIONE del libro di Chiara Colombini -Storia passionale della guerra partigiana-A partire dall’8 settembre 1943 fino all’aprile del 1945 migliaia di giovani e meno giovani abbandonarono la loro vita abituale, presero le armi e si gettarono in un’avventura che stravolte la loro esistenza.
Perché lo fecero? Quali furono i sentimenti e le passioni che li spinsero ad un passo del genere e li sostennero in quei venti mesi?
Amore e odio, speranza e vendetta, dolore e felicità: osservare le passioni della resistenza ‘in diretta’ significa avvicinarsi a quella esperienza in modo quasi viscerale ed eliminare le distorsioni prospettiche che inducono a giudicare le scelte di allora con il metro del nostro presente.
Amore e odio, speranza e vendetta, dolore e felicità: osservare le passioni della Resistenza ‘in diretta’ significa avvicinarsi a quella esperienza in modo quasi viscerale ed eliminare le distorsioni prodotte dal passare del tempo.
Le passioni e i sentimenti, lo sappiamo, hanno un ruolo fondamentale nelle nostre vite. Ci fanno compiere scelte improvvise, ci fanno gioire e soffrire. Alimentano un fuoco che non può essere spento. Passioni e sentimenti certamente mossero le donne e gli uomini che scelsero la strada della ribellione e della Resistenza durante la guerra. Possiamo comprenderle davvero noi che viviamo un altro tempo e un’altra storia? È quanto prova a fare Chiara Colombini, cogliendo, attraverso diari, lettere e carteggi, queste passioni ‘in diretta’, nel loro erompere durante quei venti mesi, tenendo sullo sfondo ciò che solo lo svolgersi della storia ha permesso di razionalizzare. In un tempo condizionato dall’eccezionalità che deriva dall’intreccio tra guerra totale, occupazione e guerra civile, i partigiani si innamorano, coltivano ambizioni, si accendono di entusiasmo o si arrovellano nell’insoddisfazione. Una condizione in cui, oltre alla vita, è in gioco ciò che si è scelto di essere. E, a quasi ottant’anni di distanza, emerge intatto il fascino di quell’esperienza così centrale per la storia di questo paese, la sua dimensione di profonda umanità, il prezzo pagato da uomini e donne direttamente nelle loro esistenze, il loro lascito.
L’Autrice
Chiara Colombini, storica, è ricercatrice presso l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”.Ha curato, tra l’altro, Resistenza e autobiografia della nazione. Uso pubblico, rappresentazione, memoria (con Aldo Agosti, Edizioni SEB27 2012) e gli Scritti politici. Tra giellismo e azionismo (1932-1947) di Vittorio Foa (con Andrea Ricciardi, Bollati Boringhieri 2010) ed è autrice di Giustizia e Libertà in Langa. La Resistenza della III e della X Divisione GL (Eataly Editore 2015).
Breve Biografia di Pier Paolo Pasolini e Poesia-Scrittore, poeta, autore e regista cinematografico e teatrale italiano (Bologna 1922 – Ostia, Roma, 1975). Dopo aver seguito nell’infanzia gli spostamenti del padre, ufficiale di carriera, compì gli studî a Bologna, dove si laureò nel 1945 con una tesi su Pascoli. Nel 1943 si trasferì nel paese materno di Casarsa della Delizia, in Friuli, con la madre e il fratello minore Guido, morto poi nella lotta di resistenza (il padre, fatto prigioniero in Africa, sarebbe tornato alla fine del 1945), e vi rimase fino al genn. 1950, quando, per sfuggire allo scandalo provocato dalla pubblica denuncia della sua omosessualità, si stabilì con la madre a Roma. Da questo momento la sua vicenda biografica coincide appieno con la tumultuosa attività dello scrittore, del regista e dell’intellettuale impegnato a testimoniare e a difendere, spesso anche in sede giudiziaria, la propria radicale diversità, fino alla morte per assassinio, avvenuta la notte tra il 1° e il 2 nov. 1975 all’idroscalo di Ostia.
La Resistenza e la sua luce
Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. Non poté mai sfiorire,
neanche per un istante, neanche quando
l’Europa tremò nella più morta vigilia.
Fuggimmo con le masserizie su un carro
da Casarsa a un villaggio perduto
tra rogge e viti: ed era pura luce.
Mio fratello partì, in un mattino muto
di marzo, su un treno, clandestino,
la pistola in un libro: ed era pura luce.
Visse a lungo sui monti, che albeggiavano
quasi paradisiaci nel tetro azzurrino
del piano friulano: ed era pura luce.
Nella soffitta del casolare mia madre
guardava sempre perdutamente quei monti,
già conscia del destino: ed era pura luce.
Coi pochi contadini intorno
vivevo una gloriosa vita di perseguitato
dagli atroci editti: ed era pura luce.
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato
si riconobbe nuovo nella luce…
Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
[…]
(da “La religione del mio tempo”, 1961)
Fin dagli esordî in friulano, che comprendono Poesie a Casarsa (1942) e La meglio gioventù (1954; poi ripreso con intenti diversi e notevole incremento di testi: La nuova gioventù, 1975), ben oltre la nozione ermetica di poesia pura, il giovane P. puntava alla scoperta di una lingua intatta, che fosse quasi un equivalente letterario del suo religioso desiderio di purezza (fonderà così nel 1945 l’Academiuta di lenga furlana). Il suo interesse per la poesia dialettale trovò espressione in due importanti antologie: Poesia dialettale del Novecento (in collab. con M. Dell’Arco, 1952) e Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare (1955; poi, in versione ridotta: La poesia popolare italiana, 1960); mentre il suo talento di critico letterario, affascinato più dai modelli della critica stilistica (Auerbach, Spitzer, Contini) che dal sociologismo marxista d’ispirazione gramsciana, si esplicò in una serie di interventi sulla letteratura contemporanea, e soprattutto sulla poesia, che sarebbero confluiti in Passione e ideologia (1960). Gli anni Cinquanta furono gli anni della sua completa affermazione letteraria. La sua prima notevole raccolta di poesie in lingua, Le ceneri di Gramsci (1957), sembra chiudere definitivamente una stagione della poesia italiana. L’ansia profetica dell’Usignolo della chiesa cattolica (pubbl. nel 1958, ma composto prima del trasferimento a Roma) si sarebbe riproposta, dopo la parentesi decisiva delle Ceneri, nei termini mutati di un’ininterrotta controversia (La religione del mio tempo, 1961; Poesia in forma di rosa, 1964; Trasumanar e organizzar, 1971). P. fondava, intanto, insieme a F. Leonetti e R. Roversi, Officina, la rivista della polemica antinovecentesca; era anche diventato condirettore di Nuovi argomenti, rivista fondata nel 1953 da A. Moravia e A. Carocci. E aveva dovuto affrontare difficoltà molto più gravi dopo la pubblicazione dei suoi due romanzi d’ambientazione romana: Ragazzi di vita (1955), per il quale dovette subire un processo per oscenità, e Una vita violenta (1959), che era stato accolto freddamente tanto dalla critica marxista quanto dai giovani critici della neoavanguardia. Ma la vocazione di P., già insofferente dei limiti di un genere letterario, si era orientata verso altri mezzi d’espressione: il cinema (v. oltre), del quale si sarebbe poi occupato anche in veste di teorico, il teatro (Orgia, 1968; Affabulazione, 1969; Calderón, 1973) e il giornalismo (soprattutto, dal 1973, le collaborazioni al Corriere della sera, poi raccolte con altre in Scritti corsari, 1975). In ritardo rispetto alla data di composizione, erano intanto apparsi il romanzoIl sogno di una cosa (1962) e le prose narrative di Alì dagli occhi azzurri (1965), oltre a vari scritti minori. Postume, in ordine sparso, sono uscite raccolte di scritti giornalistici (Lettere luterane, 1976; Le belle bandiere, 1977; Il caos, 1979), di critica letteraria (Descrizioni di descrizioni, 1979; Il portico della morte, 1988), opere narrative (La divina mimesis, 1975; Amado mio, 1982; Petrolio, 1992, romanzo incompiuto che riassume e porta a livello di quasi insostenibile incandescenza tutti i temi dello scrittore), nonché le raccolte complete dei suoi testi teatrali (Teatro, 1988) e poetici (Bestemmia. Tutte le poesie, 1993). Diversi scritti appartenenti alla fervida stagione friulana del poeta sono stati raccolti dal cugino N. Naldini in Un paese di temporali e di primule (1993) e in Romàns (1994); per sua cura sono anche apparse le Lettere 1940-1954 (1986) e le Lettere 1955-1975 (1988). Tutte le opere di P. sono state raccolte nell’edizione diretta da W. Siti (10 tomi, 1998-2003).
Nel cinema P. operò a partire dal 1954, come sceneggiatore (con M. Soldati, La donna del fiume; con F. Fellini, Le notti di Cabiria; con M. Bolognini, Marisa la civetta, Giovani mariti, La notte brava, Il bell’Antonio, La giornata balorda; e, fra i tanti, con B. Bertolucci, La commare secca, autore anche del soggetto). P. dapprima trasferì i frutti della sua ricerca narrativa (Accattone, 1961; Mamma Roma, 1962; La ricotta, episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G., 1963, condannato per vilipendio alla religione di stato), reinventando un linguaggio cinematografico autonomo di alta qualità figurativa (P. era stato allievo di R. Longhi a Bologna). Il linguaggio di P. approdò a risultati più compiuti ne Il Vangelo secondo Matteo (1964), in cui l’armonica fusione del cinema con la letteratura, la pittura e la musica diede l’avvio a quel “cinema di poesia” di cui P. doveva essere in Italia uno dei più convincenti teorici (Il cinema di poesia, 1965; Osservazioni sul piano sequenza, 1967; Empirismo eretico, 1972). Su questa linea, i film che seguirono, soprattutto Edipo re (1967), Teorema (1968) e Medea (1969), accesi da un realismo visionario che, nonostante scarti e manifeste libertà, sorregge poi anche gl’impegni drammatici e linguistici dei film della “trilogia della vita” (o, come altri l’hanno definita, “dell’Eros”), partiti alla riscoperta del sesso attraverso una rilettura delle fonti della grande favolistica mondiale: Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una Notte (1974). L’ultimo film, uscito postumo, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1976), luttuosa metafora del potere e interpretazione in chiave provocatoria del libro omonimo di Sade. Non vanno dimenticati Che cosa sono le nuvole? (dal film collettivo Capriccio all’italiana, 1968) e Porcile (1969). Rimane un grande esempio del cinema d’inchiesta Comizi d’amore (1965), indagine sulla sessualità nell’Italia dei primi anni Sessanta, condotta da P. insieme a Moravia e Musatti. Esemplare parabola della storia d’Italia, dalla predicazione francescana ai funerali di Togliatti, è Uccellacci e uccellini (1966), ultima “legenda aurea” della civiltà italiana.
Pasolini e il Novecento
L’edizione delle Opere di Pasolini colloca la sua opera tra i classici del secondo Novecento. E a ragione, poiché solo Pasolini (come D’Annunzio e più di Pirandello) ha sperimentato tutti i generi della creazione del 20° secolo: romanzo e novella, teatro e cinema, critica letteraria e saggistica politica, e non meno la poesia. Già questa semplice ragione di “generi” crea un singolare accostamento: D’Annunzio, Pirandello, Pasolini, un essere nel proprio tempo, nel quale la retorica – strumento dell’argomentare, del persuadere, dell’insegnare, leva essenziale di ogni “passione e ideologia” – è esibita, non velata, non nascosta, non lenita da strumenti di “sordina”. Sì che non pare ardito oggi dire che Pasolini è stato per l’ultimo Novecento il rovesciamento speculare di quello che fu D’Annunzio all’ouverture del 20° secolo: là fu la parola chiamata a colmare le lacune del tempo, parola di gloria (e di lusso vitale dell’io), qui la parola della negazione, dell’abiezione, dei margini prossimi al niente: “i segni del desiderio di morire, / le occhiaie del vile, / il mento del debole, / … / le scarpe dello statale, / il culo del soldato semplice, / la calvizie del disadattato, / la schiena del condannato a morte” (Il dolore dei poeti, da Poesie marxiste, 1964-65). L’Italia repubblicana trova così oggi due emblemi nobili della propria identità: da una parte Calvino, la ragione e l’utopia, la trasparenza e la levità, l’Italia dell’Ariosto e di Galileo; dall’altra Pasolini, l’Italia di Jacopone e di Belli, di Gioacchino da Fiore e di Gadda: stracci e apocalissi. Una civiltà magmatica – il dialetto friulano e Dante, i tragici greci e gli Evangeli, il sottoproletariato e la Nuova Guinea – ma non più e soltanto latina: Pasolini sa partire da Alba pratalia, alba pratalia delle nostre origini e arrivare alla lugubre Nuova Preistoria che viviamo, alla profezia degli ultimi: “La Negritudine, dico, che sarà ragione”. In certo modo – come lucidamente hanno osservato Calvino e Barthes per l’utopia di Fourier – il profetismo pasoliniano si sbilancia oltre la rasserenata compiutezza delle ideologie: supera ogni finalismo della storia prevedendo la fine della storia, e intanto della propria. Nessun altro poeta come Pasolini ha messo in scena, costantemente provandola e riprovandola in parole come sarà nei fatti, la propria morte: “Stesura in ‘cursus’ di linguaggio ‘gergale’ corrente, dell’antefatto: Fiumicino, il vecchio castello e una prima idea vera della morte: […] – sono come un gatto bruciato vivo, / Pestato dal copertone di un autotreno” (Una disperata vitalità). Un Pasolini che incarna in sé, come scriverà, il destino di Cassandra: “Basti pensare a una figura come quella di Cassandra, che prevede, anzi vede fisicamente la propria morte” (Nota per l’ambientazione dell’Orestiade in Africa). Una lettura della storia dell’Italia unita, tutta incentrata sulle identità popolari: il cristianesimo e il marxismo; il pensiero laico-liberale, stendardo della borghesia, non fu mai una vera alternativa, ma parve a Pasolini la continuazione del Potere, non la plenitudine della Verità: “Quelli di voi che possiedono un cuore / votato alla maledetta lucidità, / vadano nei laboratori, nelle scuole, / a ricordare che nulla in questi anni ha / mutato la qualità del conoscere, eterno pretesto, / forma utile e dolce del Potere, NON MAI VERITÀ. // […] Vadano, tanto per cominciare, dai Crespi, dagli Agnelli, / dai Valletta, dai potenti delle Società / che hanno portato l’Europa sulle rive del Po: // è giunta per ognuno di loro l’ora che non ha / proporzione con quanto ebbe e quanto odiò” (Vittoria). Erano gli anni di Barbiana e tra poco di Lettera a una professoressa, l’utopia di un’eguaglianza fatta non per accumulo (produzione e consumo: la vagheggiata affluent society), ma per condivisione dell’essenziale: l’Italia di Pasolini e don Milani, Danilo Dolci e padre Turoldo, e anche – sia non indebito il paragone – dei papi veneti del Concilio, papi degli umili. Quella via, via di parola e di pane, di poveri e giustizia, fu l’orizzonte scomodo di Pier Paolo Pasolini: “Ma nei rifiuti del mondo, nasce / un nuovo mondo […] / la loro speranza nel non avere speranza” (La religione del mio tempo, 4). Quella vita che non ha nient’altro, per sostenerla, che il suo consumarla, sacro deserto della fame, della manna, ove si attraversa – come Mosè, come Edipo – il miraggio, “sospinti dalla violenza del suo assillo”. Così Pasolini ci ha rinnovato la biblica coscienza del sacro: quella coscienza – di Frazer e Cumont, di Caillois e di Deonna, ma anche di Bresson e di Tarkovskij – che “ciò che è sacro si conserva accanto alla sua nuova forma sconsacrata” (Medea).
SINOSSI- Il libro Tullia Romagnoli Carettoni nell’Italia repubblicana-è stata partigiana, insegnante, funzionaria dell’Udi, dirigente socialista, senatrice dapprima con il Psi poi con la Sinistra indipendente, figura di spicco in vari organismi nazionali e internazionali. La sua biografia permette di ripercorrere i primi tre decenni della storia repubblicana: la transizione postfascista, il miracolo economico, le riforme mancate e quelle varate dal centro-sinistra, le battaglie per i diritti civili degli anni Settanta; ma anche la Guerra fredda, il processo di decolonizzazione, il movimento internazionale delle donne. A partire dal suo archivio personale, il volume restituisce il profilo di una “socialista autonoma” che, in Italia e nel mondo, si è battuta per intrecciare universalismo e differenze.
In copertina: Tullia Carettoni, da poco eletta senatrice del Psi (1963 ca). AUFN, TRC/I, busta 38, fasc. 1.
INDICE
Introduzione
1. Storia politica, questioni di genere, biografia
2. Costruire un archivio, costruire una memoria: il fondo Tullia Romagnoli Carettoni
3. Attraverso le sue carte: una lunga transizione postfascista
1. Tra le giovani donne della nuova Repubblica
1. Da Tullia Romagnoli a Tullia Carettoni
2. Partigiana combattente
3. «Tornata a valle», la Resistenza continua
4. Con Rodolfo Siviero: il recupero delle opere d’arte trafugate
5. Scuola e famiglia: l’impegno nell’Udi
6. «Candidata della pace» alle elezioni del 1948
7. Il “pellegrinaggio politico” in Urss e in Cina
8. Gli anni Cinquanta: tra modernità e tradizione
2. Nella stanza dei bottoni
1. Napoli, 1959. Nella Direzione del Psi
2. Dalla Scuola al Movimento femminile socialista
3. La “questione femminile” negli anni del centro-sinistra
4. Nel salotto delle Tribune politiche
5. 1963: l’ingresso a Palazzo Madama
6. Verso la stagione dei diritti civili
7. La Commissione Franceschini per i beni culturali
3. “Socialista autonoma” nella Sinistra indipendente
1. Conflittualità sociale e immobilismo parlamentare: l’uscita dal Psi
2. Una scuola per l’infanzia
3. Con Parri, per l’unità delle sinistre
4. Dagli Affari esteri alla Vicepresidenza del Senato
4. Nel mondo. I diritti umani
1. Contro la “guerra americana”: l’Issoco e il Comitato Italia-Vietnam
2. La tutela internazionale dei diritti umani: America Latina, Africa e Medioriente
3. L’Italia, la Cee e i paesi fascisti europei
4. Sulla linea della distensione
5. 1975: Anno internazionale della donna
5. In Italia. I diritti civili
1. In difesa del divorzio
2. La “lex Tullia” antireferendum
3. La riforma di famiglia e la “legge per le divorziate”
4. Aborto: problemi e leggi
5. Per il controllo delle nascite
6. Una legge «ipocrita ma necessaria»: la 194/1978
6. Per l’abrogazione della causa d’onore
1. 25 aprile 1976: il contributo della Resistenza alla libertà femminile
2. La protezione sotto attacco
3. La tutela dell’uguaglianza nel ddl 4/1976
4. Lo smantellamento della proposta
5. Il dibattito su delitto d’onore e matrimonio riparatore
6. L’infanticidio per causa d’onore
7. «Un gioco perfido di contro luci»
8. La legge 442/1981
Epilogo
1. Al Parlamento europeo (1979-1984)
2. La Presidenza dell’Istituto italo-africano (1980-1996)
3. All’Unesco (1984-2005)
4. Attraverso i confini
Indice dei nomi
AUTORE–Paola Stelliferi ha insegnato Storia delle donne e di genere all’Università degli Studi di Padova ed è stata assegnista di ricerca all’Università degli Studi Roma Tre. Fa parte della Società italiana delle storiche, per la quale è stata membro del consiglio direttivo nazionale. È autrice di Il femminismo a Roma negli anni Settanta. Percorsi, esperienze e memorie dei collettivi di quartiere (Bup, 2015), di saggi di ricerca sulla storia dell’aborto nell’Italia repubblicana e sulla storia e la memoria dei femminismi.
EDITORE
Viella Libreria Editrice
Via delle Alpi 32 – 00198 Roma Tel. 06.8417758 – Fax 06.85353960
Articolo di Federico GIUSTI-Associazione”La Città Futura”
L’antifascismo di cui abbiamo, scrive Federico Giusti ,bisogno è quello delle lotte sociali e sindacali contro i fascisti alleati di agrari e industriali, contro il fascismo che mandava le giovani generazioni a morire nelle guerre imperialiste e coloniali, contro le leggi razziali e la limitazione delle libertà individuali e collettive. Il fascismo che metteva all’indice libri scomodi per ottenebrare le menti dei giovani.
ROMA 14/04/2023 –La Repubblica fondata dalla Resistenza non ha mai fatto i conti fino in fondo con il Ventennio e da anni ormai, indebolito il movimento sindacale e comunista, i revisionisti hanno avuto la strada spianata per operare, indisturbati, a tutto campo.
Fare i conti con il fascismo è ormai una priorità assoluta. Forse siamo fuori tempo massimo dopo anni di operazioni culturali, mediatiche e politiche improntate a una rilettura del passato per giustificare le scelte del presente.
Molti testi scolastici sono riscritti a uso e consumo dello sdoganamento soft del fascismo, in un paese nel quale si leggono meno libri e giornali in confronto con la stragrande maggioranza delle nazioni europee.
Ma cosa intendiamo, quando si parla di fare i conti con il fascismo ?
Liberiamo subito il campo da alcuni equivoci di fondo. Non parliamo dell’antifascismo retorico e istituzionale diventato, con linguaggi e pratiche idonei allo scopo, un corpo ideologico giustificazionista delle politiche di austerità. Non ce ne voglia l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ma per troppi anni sono stati silenti e complici con governi di centro-sinistra ed esponenti politici che hanno contribuito a sdoganare il fascismo nella cosiddetta seconda Repubblica.
E oggi il Piano di Rinascita democratica di Licio Gelli è caduto nell’oblio quando invece permetterebbe di conoscere la lunga scia nera dal fascismo ai nostri giorni. Quel Piano non era il libro dei sogni di vecchi nostalgici ma un progetto di revisione costituzionale e della forma Stato, di profonda trasformazione della società in senso autoritario per sposare le tesi padronali che, fin dalla sua nascita, hanno attraversato il fascismo storico e politico.
Se il fascismo prima della Marcia su Roma venne foraggiato da agrari e industriali per spezzare le reni al movimento sindacale, oggi il governo Meloni vuole spezzare le reni (usiamo volutamente il loro linguaggio) ai movimenti per la casa presentando una proposta di legge che prevede fino a 9 anni di pena per gli occupanti.
Proviamo allora ad aprire tra i nostri pochi lettori una riflessione certi di attirarci critiche e antipatie.
L’amnistia di Togliatti liberò migliaia di fascisti. Molti fecero ritorno ai loro posti di lavoro nello Stato, nelle prefetture, nelle forze armate e in quelle dell’ordine. L’amnistia nasceva come intento di pacificazione in un paese uscito frantumato dalla guerra (non solo quella tra Stati ma una guerra interna civile della quale per trent’anni la storiografia ufficiale non ha mai parlato). Quella pacificazione, giudicata necessaria dai vertici dell’allora Pci, determinò la prima insanabile frattura con la Resistenza antifascista. Già nell’estate del 1946 migliaia di fascisti uscivano dalle galere ritornando ai loro vecchi posti di lavoro. Molti partigiani vennero allora epurati e altri incarcerati con accuse pesanti, trattati alla stregua di delinquenti comuni. Nelle questure, nelle prefetture, nelle forze armate e dell’ordine fecero ritorno ex repubblichini e fascisti dichiarati, parte dei quali ritroveremo anni dopo nella strategia della tensione o protagonisti delle repressioni di piazza contro gli scioperi, le occupazioni di terre.
Anche la storiografia resistenziale solo in tempi recenti ha scoperto pagine di storia occultate per troppo tempo, emblematica l’esperienza della Volante Rossa, partigiani dipinti come criminali comuni che decisero di resistere, armati, agli attentati contro sedi di partito, circoli ricreativi comunisti e socialisti che bande di repubblichini portavano a segno nei mesi successivi alla Liberazione. Molti di quei partigiani furono costretti a espatriare per sfuggire ad anni di carcere e in Italia fecero ritorno negli ultimi mesi della loro esistenza. La cacciata dei partigiani e la loro sostituzione con personaggi collusi con il fascismo è stata la prima grande ferita subita dalla Resistenza.
L’amnistia di Togliatti permise a ex repubblichini di dare vita anni dopo all’Msi e ad altre organizzazioni nostalgiche del fascismo e nuovamente alleate con agrari e industriali (e al servizio della Nato o tra le fila di Gladio) che fin dai mesi successivi alla Liberazione portarono avanti l’epurazione dei comunisti dalle fabbriche, comunisti che davano, allora, vita a scioperi e proteste a tutela del potere di acquisto salariale e per migliorare le condizioni di lavoro e di vita.
Che dire poi della rapida liquidazione dei tribunali promossi dal Cnl e sostituiti dalla giustizia ordinaria, non prima di avere riammesso in servizio cancellieri e magistrati dell’epoca fascista?
A giudicare i crimini dei fascisti la Repubblica antifascista chiamò giudici pochi anni prima conniventi con il fascismo e magari iscritti al partito, un conflitto di interessi evidente eppure tacitato in nome della pacificazione nazionale.
Questi fatti storici, se debitamente analizzati, sono a nostro avviso determinanti anche per analizzare e comprendere il presente. Prendiamo per esempio alcune frasi (“che c’entriamo noi col fascismo?”, “il fascismo in fondo ha anche fatto buone cose”), autentici stereotipi diventati, anche grazie a martellanti campagne mediatiche, una sorta di senso comune.
Nell’immaginario collettivo il fascismo è diventato fautore delle pensioni, dello Stato sociale e di utili interventi pubblici. Libri come quelli di Filippi andrebbero discussi nelle scuole italiane di ogni ordine e grado, nei luoghi di lavoro e nelle sedi sindacali, avremmo molto da imparare anche per i tempi presenti.
Rimettere mano alla storia dell’antifascismo italiano, rivisitarne alcune pagine dimenticate, è un’operazione non solo storica ma politica. Non avere fatto i conti con il fascismo ci ha fatto prendere cantonate su innumerevoli questioni e soprattutto ha spianato la strada all’avvento della sinistra liberal attenta ai diritti civili ma non a quelli sociali. E studiare il fascismo consentirebbe di appurare le cause del suo successo, gli errori commessi da comunisti e socialisti nell’avversare gli Arditi del Popolo. Un’operazione culturale indispensabile per comprendere le ragioni del successo di Fratelli d’Italia alle ultime elezioni politiche e iniziare a contrastare il governo Meloni senza attendere i sonnacchiosi e concertativi sindacati rappresentativi che in Italia non muovono foglia mentre in altri paesi europei ci sono scioperi e proteste di piazza.
Non serve solo rinsaldare gli anticorpi dell’antifascismo – meglio di noi lo fanno alcuni storici di ultima generazione contro i quali si inveisce dalle pagine di alcuni giornali con una campagna di odio che ci riporta al passato fino a ostacolarne la presenza nelle scuole e nelle università –, è una priorità insopprimibile interrogarci sul perché il fascismo sia stato sdoganato e riproposto in altre forme.
Prendiamo il caso delle battaglie fascistissime o coloniali dipinte come atti eroici, le visite delle scolaresche in caserma, lo stage scuola-lavoro nei centri di addestramento militare, la presenza di multinazionali di armi negli atenei italiani nel ruolo di disinteressati mecenati.
Non accusiamo certo di fascismo i militari e i produttori di armi, ma crediamo che i valori da loro propugnati (la sicurezza nazionale, l’esaltazione della patria…) attingano da quel brodo di coltura da cui è nato anche il fascismo storico.
Non si capisce la ragione per la quale si debbano celebrare con ragazzi di 10 o 14 anni le battaglie combattute dall’esercito italiano alleato dei nazisti, presentandole come atti di eroismo e di italianità. Il nostro paese non ha fatto i conti con la passata esperienza coloniale (e solo alla fine degli anni Sessanta sono arrivati i primi studi critici con la pubblicazione di tanti documenti occultati da storici conniventi ideologicamente con il passato coloniale e fascista); per questo ci siamo imbattuti in azioni disumane come quelle ai danni di detenuti somali da parte di soldati italiani. Oppure pensiamo che Faccetta nera sia solo un’allegra canzonetta della quale non conosciamo le parole o peggio ancora le riteniamo neutre e inoffensive?
Non avere fatto i conti con il passato coloniale ha spianato la strada alle missioni di guerra all’estero sotto l’egida Onu o Nato. Quel passato coloniale fu un tratto distintivo del fascismo alla ricerca di terre al sole, per conquistare le quali non lesinò l’utilizzo di gas contro l’inerme popolazione civile. E i bombardamenti “umanitari” all’uranio impoverito degli ultimi anni non sono dissimili da quelli in Etiopia.
Le ultime esternazioni del ministro La Russa trovano un terreno fertile e già arato da anni di revisionismo storico e di pratiche diseducatrici, di rimozione delle profonde ragioni dell’antifascismo dipinto ormai come un retaggio ideologico del passato. Il vittimismo della destra dei nostri giorni trasforma i fascisti in patrioti assegnando al concetto di patria una valenza positiva per giustificare il sostegno alla guerra, alla lotta senza quartiere contro i salariati, alimentando la logica dei nemici interni di turno (vedi i 9 anni di carcere proposti per gli occupanti di casa).
Sulle Fosse Ardeatine e sull’attentato di via Rasella menzioniamo integralmente una nota redatta dagli storici dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri che smentisce la propaganda repubblichina di La Russa:
“In merito alle dichiarazioni del presidente del Senato Ignazio La Russa l’Istituto nazionale Ferruccio Parri – Rete degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea –, per rispetto alla verità storica, dichiara:
1) L’ attacco partigiano di via Rasella fu un legittimo atto di guerra condotto contro una pattuglia di poliziotti altoatesini appartenenti al terzo battaglione Bozen.
2) Il Polizeiregiment Bozen comprendeva tre battaglioni, si era formato nel settembre 1943, subito dopo che i tedeschi, a seguito dell’armistizio, avevano costituito l’Operationszone Alpenvorland, (zona di operazione delle Prealpi), che comprendeva le province di Belluno, Trento e Bolzano.
3) La maggior parte dei suoi membri, a seguito dell’opzione del 1939, avevano preso la cittadinanza tedesca.
4) Il battaglione Bozen non era una banda musicale ma un battaglione di polizia armato di pistole mitragliatrici e bombe a mano, che stava ultimando il suo addestramento.
5) L’età media dei componenti era sui 35 anni (avevano un’età dai 26 ai 42 anni), quindi certamente non delle giovani reclute ma neppure dei semipensionati.
6) È bene ricordare che gli altri due battaglioni del reggimento Bozen erano stati subito impiegati in funzione antipartigiana in Istria e nel Bellunese, dove si erano resi autori di stragi.
7) Il battaglione oggetto dell’attacco di via Rasella è stato successivamente impiegato in Italia in funzione antipartigiana.
8 ) A seguito dell’attacco i tedeschi fucilarono alle Fosse Ardeatine 335 fra antifascisti, partigiani, ebrei, detenuti comuni. Le liste furono compilate con l’aiuto della questura di Roma. L’ordine di fucilazione fu eseguito prima della pubblicazione del comunicato emanato dal comando tedesco della città occupata di Roma alle 22.55 del 24 marzo 1944.
9) Per tale atto il questore di Roma, Pietro Caruso, fu condannato a morte dall’Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il fascismo. La sentenza fu eseguita il 22/9/1944.”
La stessa Anpi, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ha innumerevoli responsabilità nell’avere trasformato l’antifascismo in un retaggio del passato o in un messaggio alle giovani generazioni senza riferimenti alla odierna realtà limitandosi magari a ricordare la bontà di una Carta costituzionale che la tecnocrazia del centro-sinistra ha prima svilito e poi affossato tra pareggi di bilanci e ricorso strutturale alla guerra. E l’antifascismo non può essere riesumato due giorni l’anno o per giustificare alleanze elettorali di centro-sinistra, con programmi di austerità contro le classi popolari che combatterono il fascismo identificandolo con la guerra, la miseria, la violenza dei padroni e l’assenza di democrazia e libertà.
L’antifascismo di cui abbiamo bisogno è quello delle lotte sociali e sindacali contro i fascisti alleati di agrari e industriali, contro il fascismo che mandava le giovani generazioni a morire nelle guerre imperialiste e coloniali, contro le leggi razziali e la limitazione delle libertà individuali e collettive. Il fascismo che metteva all’indice libri scomodi per ottenebrare le menti dei giovani.
Ma questo antifascismo, che un tempo avremmo definito militante, è un antifascismo inviso a larghi settori della cosiddetta sinistra, la stessa che pensava all’amnistia di Togliatti come un atto necessario per pacificare il paese e per ricostruirlo nella democrazia, salvo poi accorgersi che i fascisti si erano solo riciclati nelle istituzioni ed erano sempre pronti a organizzare colpi di Stato, attentati contro i lavoratori e a partecipare attivamente alla strategia della tensione.
E gli eredi politici dei fascisti di ieri si definiscono oggi italiani, ma hanno bisogno di riscrivere la storia del Novecento per trovare giustificazioni all’operato dei loro padri e poter restringere gli spazi di libertà e di democrazia oggi.
L’antifascismo militante e di classe non potrà ridursi a una memoria storica astratta, per questo indagare il passato significa coglierne i collegamenti con il presente.
Fonte-Ass. La Città Futura -Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi
Descrizione del libro di Stefania Limiti, Sandra Bonsanti–La vittoria della destra in Italia ci mette di fronte alla concreta possibilità che venga stravolta la Costituzione del 1948. Da tempo si parla soprattutto di introdurre l’elezione diretta del capo dello Stato o del presidente del Consiglio. Il mondo democratico e progressista si trova di fronte a una grande battaglia politica per contrastare una riscrittura della Carta che ne mette in discussione i suoi princìpi fondanti.
È vero che esistono Paesi democratici che eleggono direttamente il capo dello Stato ma è anche vero che in altri l’elezione popolare del presidente coincide con tratti fortemente autocratici, dall’Ungheria alla Russia e alla Turchia.
Le autrici hanno dunque voluto contestualizzare la questione nella nostra storia repubblicana, ricostruendo il significato del presidenzialismo – formula tecnico-giuridica tesa a rafforzare i poteri del governo, indebolendo quelli del Parlamento – alla luce delle esperienze politiche che lo hanno sostenuto, a oggi senza successo: quelle golpiste e missine, la piccola pattuglia dei gollisti democristiani, la P2, la Grande Riforma craxiana e le nervose esternazioni di Francesco Cossiga, fino ai giorni più recenti con la pretesa delle grandi banche d’affari di “azzoppare” le costituzioni antifasciste.
Contestualizzare il presidenzialismo nella storia italiana consente dunque di vedere chiaro dietro alle intenzioni di chi vorrebbe mettere il potere nelle mani di un capo eletto a furor di popolo.
Sandra Bonsanti -Nata a Pisa nel 1937, sposata, ha tre figlie. Si è laureata in etruscologia a Firenze e ha vissuto per molti anni a New York. Ha cominciato la sua attività professionale nel 1969 al “Mondo” con Arrigo Benedetti.
Associazione Libertà e Giustizia Via Cordusio 4, 20123 Milano
Ora e sempre Resistenza! Intervista a Sandra Bonsanti
Giornalista, scrittrice e politica italiana: FUL ha incontrato Sandra Bonsanti per una chiacchierata sul valore dell’antifascismo e della memoria storica.
Sandra Bonsantinasce a Pisa il 1° giugno 1937. Figlia di Alessandro Bonsanti, scrittore e sindaco repubblicano di Firenze, è una bambina quando alleati e partigiani liberano la città dai nazisti. Avvia l’attività da giornalista nel 1969 a Il Mondo, settimanale politico, culturale ed economico. Lavora poi per La Stampa, Epoca e Panorama. Nel 1981 entra nella redazione del quotidiano La Repubblica guidato da Eugenio Scalfari, di cui diviene una delle firme di punta. Bonsanti è una delle più autorevoli interpreti del whatchdog journalism italiano, il giornalismo “cane da guardia” della democrazia che interroga politici e personaggi pubblici, indaga sul potere e pretende chiarezza e trasparenza dalle istituzioni per esercitare un’informazione piena e consapevole verso i cittadini.
Nel 1994 Bonsanti diventa membro della Camera dei deputati: alle urne per la XII legislatura vince il seggio nel collegio uninominale di Firenze 2 con la coalizione dei Progressisti. In Parlamento sarà membro della commissione parlamentare antimafia. Nel 1996 rinuncia a ricandidarsi alle elezioni per assumere la guida del quotidiano Il Tirreno. Su incarico dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione Nazionale Stampa Italiana redige con Angelo Agostini la “Carta dei doveri del giornalista”. Dal 2002 al 2015 è presidente di Libertà e Giustizia, un’associazione italiana di cultura politica attiva. Nel 2017, riceve dal sindaco Nardella Il Fiorino d’Oro della città di Firenze, l’onorificenza assegnata alle personalità che con il loro operato hanno dato lustro alla città o si sono distinti a livello internazionale.
È autrice di libri che indagano sui misteri del potere in Italia come Il grande gioco del potere (Chiarelettere, 2013) e Colpevoli (Chiarelettere, 2021) scritto a quattro mani con Stefania Limiti. Ha sempre difeso, onorato e sensibilizzato sull’importanza della memoria storica, dell’antifascismo e della Resistenza, da cui discende la nostra Costituzione. Sandra ci ha aperto le porte di casa a Firenze per una chiacchierata sul valore della Resistenza e dell’antifascismo. Seduti fra tantissimi libri e appunti sparsi, in compagnia di una foto con Sandro Pertini e una vecchia cartolina di New York inviata da Oriana Fallaci, le ho chiesto che significato assume al giorno d’oggi la Festa della Liberazione, festeggiata il 25 aprile con il governo più a destra dell’Italia repubblicana. «Possiamo dire senza timore di essere accusati di esagerare che l’impegno di tutti i cittadini che si riconoscono nella Costituzione deve essere ancora più fermo e deciso di quanto lo sia stato nel passato. Si tratta di sostenere e difendere il grande lavoro e i grandi sacrifici che sono alle spalle del 25 aprile 1945. Dunque, per noi un impegno senza incertezze» osserva Bonsanti.
I vincitori delle ultime elezioni sono la cosiddetta “Generazione Colle Oppio”, dal nome della storica sede del Movimento Sociale Italiano dove molti esponenti di Fratelli d’Italia hanno mosso i primi passi in politica. Alcuni membri della maggioranza e del Governo Meloni sono accusati di aver riportato le lancette indietro di trent’anni, prima della svolta di Fiuggi di Gianfranco Fini. Forse la destra italiana fatica ad affrancarsi definitivamente dal fascismo perchè non è antifascista? «La destra italiana, diversamente da quello che è accaduto in altri Paesi, come in Germania, insiste a trovare pretesti per non dare un addio definitivo a quello che è stato il coinvolgimento di tanti cittadini italiani con il fascismo. Il perché va cercato in motivazioni di origine familiare, oppure semplicemente storiche. Ogni caso è a sé e non c’è una spiegazione unica» spiega Bonsanti.
Sfortunatamente, allo stesso tempo, restano sempre meno partigiani: spetta alle istituzioni tenere alto il valore della memoria storica. Nata come reazione al regime fascista e dalle sue ceneri, la repubblica è l’affermazione dei valori dell’antifascismo. «Le istituzioni possono sicuramente aiutare a celebrare il valore di ogni singolo partigiano e dei partigiani riuniti nelle loro associazioni. È importante mostrare che le istituzioni stanno decisamente dalla parte di chi ha combattuto contro il fascismo.»
In tempo di guerra che sconvolge l’Europa, non posso esimermi da chiedere a Sandra se trova delle analogie fra la Resistenza italiana di allora e quella ucraina di oggi: «Ogni popolo deve essere riconosciuto libero di scegliersi amici e nemici. Un’analogia importante può essere riscontrata nel fatto che si tratta, sia in Ucraina che nell’Italia della guerra, di invasioni del proprio territorio e nel fatto che ci sono uomini e donne pronti a combattere e a morire per la libertà» risponde.
Anche l’informazione gioca un ruolo importante nel promuovere la memoria. Circa vent’anni fa è iniziata un’opera mistificatoria della Resistenza. Chiedo alla nostra ospite, dall’alto della sua lunga esperienza di giornalista, come si fa una corretta informazione su questa stagione cruciale della nostra storia. «Tutti noi possiamo fare qualcosa di più per promuovere la memoria come cittadini ed è ancora di più quello che può fare l’informazione: approfondire singoli episodi, raccontare e descrivere i personaggi che ne sono stati protagonisti, raccontare esattamente i principi in cui credevano coloro che si sono immolati.»
C’è dunque un momento della Seconda Guerra Mondiale che necessita di un approfondimento? «Mi piacerebbe che fossero approfonditi i motivi per cui in Toscana ci furono tante stragi e perché l’esercito dei liberatori americani e italiani antifascisti ci mise tanto tempo ad arrivare fino alla Toscana. Inoltre, a mio avviso tutti gli sbarchi sono stati memorabili, caratterizzati da atti di coraggio e da atti di eroismo», puntualizza Bonsanti.
A proposito di fascismo e antifascismo, faccio un’ultima domanda a Sandra e le chiedo cosa vorrebbe dire alle ragazze e ai ragazzi di oggi: «Penso che sbaglierebbero i giovani se pensassero che ai giorni d’oggi quello che è successo non capiterà mai più. Bisogna continuare a studiare e a trasferire la loro memoria fresca dall’avere ascoltato tanti protagonisti di allora alle generazioni che verranno» conclude lei.
Antifasciste e antifascisti a cura di Gianluca Fulvetti e Andrea Ventura-
-Viella Libreria Editrice- Collana dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri –
Sinossi del libro Antifasciste e antifascisti – Collana: Collana dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri -Da alcuni decenni l’antifascismo pare aver perso la sua rilevanza nel dibattito civile e storiografico. Anche il Centenario della marcia su Roma ha lasciato sullo sfondo le storie di coloro che si opposero al fascismo sin dagli anni dello squadrismo.
Questo libro invece le recupera e le racconta, mettendo al centro il vissuto quotidiano, i percorsi coraggiosi e dolorosi, in nome della libertà, dentro e fuori l’Italia negli anni complicati della guerra civile europea. Si riflette anche sugli antifascismi come ideologie politiche, con saggi che prendono in esame i discorsi e le pratiche delle diverse culture antifasciste e talvolta il loro difficile dialogo. Infine, si aprono alcuni squarci su cosa accade all’antifascismo dopo il 1945, sulle dispute della memoria e sul suo utilizzo nelle battaglie politiche dei primi anni della Repubblica e della Guerra Fredda.
Prefazione di Giovanni Scirocco
Gianluca Fulvetti, Andrea Ventura, Introduzione
I. Storiografia
Andrea Ventura, L’antifascismo e la società italiana. Una messa a fuoco
Renato Camurri, Crossing Borders: esilio e antifascismo
II. Antifascismi
Marco Manfredi, Violenza politica, forme di lotta armata e cultura popolare fra Prima guerra mondiale e avvento del fascismo
Claudia Baldoli, La “religione antifascista” dell’Aventino: i socialisti unitari tra 1924 e 1925
Patrick Karlsen, Gli antifascismi alla frontiera alto-adriatica dalla transizione post-imperiale alla Seconda guerra mondiale
Emanuela Miniati, La Liguria antifascista in Francia tra internazionalismo e identità nazionale
Daniel Goldstein, Leo Valiani e Mario Montagnana in esilio a Città del Messico (1941-1945)
III. Antifasciste e antifascisti
Enrico Miletto, Maria Bernetič, una comunista di frontiera
Daria De Donno, Stili di antifascismo. Sulle tracce di Giorgia Boscarol
Andrea Montanari, Fortunato Nevicati, un antifascista europeo
Gianluca Fulvetti, Il dolore e la sconfitta. Antifascisti lucchesi nel Casellario politico centrale
Stefano Latino, Antifascisti e antifasciste nelle fabbriche: l’organizzazione clandestina del Partito comunista a Sesto San Giovanni (1925-1939)
Roberta Mira, Antifasciste e sovversive. Profili di donne bolognesi nei casellari di polizia del regime
Massimiliano Bacchiet, I primi comunisti. Per un dizionario biografico della provincia di Pisa (1921-1940)
Giorgio Mangini, L’anagrafe dei sovversivi bergamaschi
Roberta Mori, Sandro Delmastro, appunti per una biografia
Graziella Gaballo, L’antifascismo di Ada Della Torre
IV. Dopo il 1945
Giovanni Brunetti, L’ambiguità costituente. L’antifascismo nel Casellario politico centrale del secondo dopoguerra (1945-1956)
Francesca Picci, «Trattandosi di una donna». Le partigiane vicentine nelle carte del Ricompart
Mirco Carrattieri, Un monumento all’antifascismo. Statue e lapidi per Giacomo Matteotti
Nicola Lamri, Antifascisti e antifasciste italiane di fronte alla guerra di decolonizzazione algerina
Costanza Calabretta, L’antifascismo nelle relazioni fra Italia e Repubblica democratica tedesca fra anni Cinquanta e Sessanta
Luca Zanotta, Franco Antonicelli e l’antifascismo tra generazioni
Indice dei nomi
Autrici e autori
In copertina: I funerali di Carlo e Nello Rosselli (Parigi, 19 giugno 1937). Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea “Giorgio Agosti”, Archivio Fotografico Originario.
Storia e fortuna di una canzone: dalla resistenza italiana all’universalità delle resistenze
Interlinea edizioni
Descrizione-Ormai Bella ciao è tornata a essere una canzone dei giovani e circola anche all’estero, grazie alla serie Netflix La casa di carta e ai cori delle piazze invase dalle “sardine”. Ma le sue origini sono a lungo rimaste sconosciute, con vere e proprie fake news che negano il suo legame con la lotta partigiana. Il maggiore storico della cultura orale, Cesare Bermani, ricostruisce l’avventura di questo canto popolare «così amato da chi vuole la libertà».
Oltre Bella ciao. Storie di resistenza
Cesare Bermani, ricostruisce l’avventura di questo canto popolare «così amato da chi vuole la libertà».
Il 24 aprile su Radio 3-Farenheit è andata in onda l’intervista a cura di Loredana Lipparini allo storico Cesare Bermani, per raccontare il suo nuovo libro “Bella ciao”
Di seguito trascriviamo parte dell’intervista:
Cominciamo da una storia che abbiamo sentito cantare da ultimo in un video pochissimi giorni fa dai vigili del fuoco inglesi dedicandola all’Italia. L’abbiamo ascoltata anche a sorpresa in una serie tv molto popolare La casa di carta e la sentiremo cantare domani comunque, e in qualsiasi forma. Ma la storia di Bella ciao è più lunga e riserva anche delle sorprese, come racconta Cesare Bermani. Cesare Bermani è tra i fondatori dell’Istituto Ernesto de Martino, è stato tra i primi ad utilizzare le fonti orali per la ricostruzione storica e per Interlinea ha pubblicato Bella ciao. Storia e fortuna di una canzone: dalla resistenza italiana all’universalità delle resistenze
Prima domanda. Ma la canzone della resistenza era Fischia il vento, lei scrive, è cosi?
Al Nord sicuramente Fischia il vento era molto popolare e molto cantata. Però in centro Italia veniva cantata anche Bella ciao, forse soprattutto Bella ciao, dalla formazione della Brigata Maiella e dalle formazioni che diedero vita a Montefiorino. Questo però all’inizio non lo sapevamo. Infatti spesso, quando facemmo lo spettacolo Bella ciao a Spoleto..
Quello spettacolo del ‘64 che suscitò un putiferio?
Si quello. Io mi occupavo del fascicolo che veniva poi usato in teatro, e quello che scrissi allora era che non c’erano prove che Bella ciao fosse stata cantata durante al Resistenza. Ma scrivevo questo perché allora non avevamo ancora fatto la ricerca su Bella ciao, nessuno si era preso la briga di andare a vedere se era vero o no che la canzone fosse stata cantata durante la Resistenza. Immediatamente dopo abbiamo fatto ampie ricerche e abbiamo emendato questo nostro errore iniziale dovuto anche al fatto che abbiamo imparato a fare ricerca sul campo e quindi facendo errori. A questo punto si può dire che è una bufala, o meglio un’auto-bufala, che Bella ciao non fosse cantato durante la Resistenza.
Riassumendo per ora, Fischia il vento nasce al nord in formazione partigiana comunista. La seconda ?
Ci sono due versioni, perché sono nate indipendentemente l’una dall’altra. Quella della Brigata Maiella che poi è venuta su al nord con la quinta armata è una canzone che ha delle strofe che parlano della Brigata Maiella, e questa canzone veniva cantata soprattutto quando avvenivano degli spostamenti, perché quando si spara è un po’ difficile cantare, ma quando ci si muove il canto viene naturale nelle formazioni partigiane. Una è la canzone della Maiella che solo molto tardi grazie ad una lettera che un partigiano scrisse a Indro Montanelli sul Corriere della Sera indicando che loro cantavano questa canzone. Questo partigiano, che poi io intervistai, si chiamava Proserpio, mi fece capire con precisione che si trattava di una trasformazione della canzone epico lirica Fior di tomba.
Che però era della prima guerra mondiale?
Anche prima, era una canzone popolare che poi venne adattata nella prima guerra mondiale e che venne nuovamente riadattata nella guerra partigiana e ne abbiamo almeno due versioni. Una è quella della Maiella, l’altra è quella dei partigiani che si trovavano di partecipare alla Repubblica i Montefiorino. Questi due testi sono molto diversi, però per tutti e due si capisce con chiarezza che sono trasformazioni di Fior di tomba. Come lei sa le canzoni popolari si trasformano..
E il canto delle mondariso, delle mondine?
Anche questa è una storia abbastanza divertente. Perché noi sentimmo per la prima volta il canto delle mondine da Givanna Daffini, la quale infondo ci imbrogliò raccontando che l’aveva cantata durante il fascismo. Questo perché Giovanna Daffini aveva capito che noi ricercatori eravamo particolarmente interessati a canzoni di protesta durante il regime fascista: in realtà la canzone che lei ci cantò e che prendemmo per buona, poiché eravamo degli apprendisti alle prime armi, saltò poi fuori non fosse così. Perché ci fu un certo Vasco Scansani, che aveva fatto il partigiano in Emilia, il quale rivendicò di averla fatta durante una riunione di teatro nel ‘51-52. Ci sembrò bellissimo che Bella ciao provenisse da una canzone partigiana e una canzone di lavoro, ma in realtà le cose non stavano così.
Bella ciao: dalla Liberazione alle Sardine e Netflix
La fortuna di Bella ciao dalla Liberazione alle Sardine e Netflix: un libro sulla canzone diventata inno anche dell’emergenza Covid-19
Il maggiore storico italiano della tradizione orale, Cesare Bermani, rilegge l’evoluzione della canzone in un libro di Interlinea: Bella ciao. Storia e fortuna di una canzone: dalla resistenza italiana all’universalità delle resistenza. Cantata sui balconi dell’emergenza sanitaria e dai protagonisti della serie tv La casa di carta, nelle piazze delle “sardine” e sempre più all’estero, Bella ciao è diventata una delle canzoni più celebri nel mondo e in occasione del 25 aprile 2020.
Cesare Bermani, nato a Novara nel 1937 e tra i fondatori dell’Istituto Ernesto de Martino, ricostruisce l’avventura di questo canto popolare «così amato da chi vuole la libertà» e per Interlinea ha curato il romanzo della Marchesa Colombi In risaia con Silvia Benatti e il romanzo inedito di Ernesto Ragazzoni L’ultima dea.
In occasione dell’uscita del suo libro, l’abbiamo intervistato per sfogliare in anteprima le pagine di Bella ciao.
Nonostante la canzone per antonomasia associata alla Resistenza italiana e nel mondo sia Bella ciao, nel suo libro lei ci parla di un’altra canzone più nota in quegli anni.
Nel periodo della Resistenza circolavano tantissime canzoni. Le diverse brigate avevano a volte anche inni che le connotavano, ma non ebbero mai un inno ufficiale. Tuttavia la canzone di gran lunga più popolare, e non solo fra le brigate garibaldine, soprattutto al Nord, fu Fischia il vento. Se si vuole accostare Fischia il vento a Bella ciao occorre però dire che sono state all’origine canzoni profondamente diverse. La prima è un canto nato al Nord in una formazione partigiana comunista ed è un canto prevalentemente antifascista, che spesso non nasconde come la finalità della lotta sia la realizzazione di un’Italia socialista, e comunque sempre profondamente diversa da quella lasciata in eredità dal fascismo.
La seconda è con ogni probabilità nata in Abruzzo, dove la Resistenza ha avuto una connotazione ben diversa che al Nord, in una formazione partigiana non garibaldina ed è un canto contro l’invasore tedesco.
Se Fischia il vento fu la canzone più cantata della Resistenza, tuttavia anche Bella ciao fu cantata dalle formazioni partigiane che dal Centro Italia salirono al Nord affiancate agli Alleati. Ed è a essa, oggi identificata come la canzone della Resistenza italiana, che è toccato poi di diventare l’inno di tutti i ribelli del mondo.
A cosa si deve quindi il successo poi crescente di Bella ciao?
Fischia il vento venne ampiamente e rapidamente sostituita da Bella ciao, in un processo spontaneo di massa che fu certo influenzato dal nuovo quadro politico ma non solo: giocarono infatti anche trasformazioni complessive del gusto musicale e l’accompagnamento con il battito delle mani, non ultima ragione della fortuna di Bella ciao. Così una canzone non connotata dal punto di vista politico e accennante solo all’«invasor», quindi in grado di essere fatta propria da tutti i partigiani, divenne nel giro di pochi anni la canzone per antonomasia della Resistenza. Cantata in ogni manifestazione, Bella ciao partigiana divenne quindi dalla metà degli anni sessanta anche la matrice testuale e musicale di varie canzoni di fabbrica, di partiti e di gruppi politici. Con l’avvento del centrosinistra la Resistenza diventò infatti il fondamento della ideologia della «Repubblica nata dalla Resistenza» e della «guerra di liberazione nazionale», un vero e proprio canone ufficiale di auto interpretazione, e la canzone un’auto legittimazione della Repubblica.
Come mai sono circolate così tante fake news intorno a questa canzone?
Le origini di Bella ciao sono a lungo rimaste sconosciute. Questo è dipeso dal fatto che per un non breve periodo la canzone è stata ignorata dai libri di storia e dai canzonieri della Resistenza, ciò che ha permesso alla bufala che non sia stata cantata nei mesi della lotta partigiana di giungere sino a oggi, accreditata purtroppo anche da giornalisti studiosi quali Bepi De Marzi, Arrigo Petacco, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, tanto da poter essere ribadita nel 2018 anche dal giornalista Luigi Morrone.
Come viene usata oggi nel mondo questa canzone?
Dopo una momentanea decrescita negli anni Settanta, Bella ciao riprese tutto il suo vigore contestativo nel 2001, nelle manifestazioni contro il G8 di Genova, venendo da allora cantata dovunque ci siano conflitti. Divenuto uno dei canti di resistenza dei giovani del Leftist Jordanian Movement, cantatissimo durante le rivolte arabe del 2011 dai giovani mediorientali di sinistra, cantata dai giovani del Parco di Gezi a Istanbul contro l’abbattimento di centinaia di alberi per costruire un centro commerciale, ha dato inizio a una mobilitazione in difesa dei diritti civili repressa ferocemente da Erdogan. Nel 2012 un’iniziativa del regista e ambientalista belga Nic Balthasar aveva invitato a registrare musica e parole della canzone su un video per inviarlo agli organizzatori delle lotte ambientaliste, coinvolgendo circa 380 000 persone di ogni parte del mondo. Già in precedenza, sull’aria di Bella ciao, va almeno segnalata Sing for the climate (Canta per il clima), che è diventata la colonna sonora della protesta globale contro gli sconvolgimenti climatici. In Francia il 15 maggio 2016 Bella ciao è stata suonata a Parigi durante la rivolta contro la legge sul lavoro di François Hollande. In Spagna la canzone è diventata la colonna sonora della serie tv La casa di carta (2017), lanciata dalla multinazionale Netflix e divenuta forse la trasmissione a puntate più vista al mondo. Infine in Italia tra novembre 2019 e febbraio 2020 le manifestazioni delle “sardine” sono state accompagnate dall’inno di Bella ciao.
Come detto in precedenza Bella ciao è considerata l’inno per eccellenza alla libertà. Ma come mai?
Risponderei con una citazione di Moni Ovadia che ho inserito nel finale del libro, tratta dalla prefazione a “Bella ciao”. La canzone della libertà di Carlo Pestelli:
«Ho sempre pensato che la capacità di un canto di suscitare adesione, emozione e coinvolgimento sia la prova provata dell’universalità della condizione umana al di là di confini, nazioni, sistemi di governo e persino delle differenze culturali e delle lingue che pure rappresentano l’espressione della bellezza e del genio molteplice di una comune appartenenza antropologica e di un solo destino: il destino condiviso per la passione della libertà.»
Non credo si possa esprimere meglio perché questo canto sia oggi così amato da chi vuole la libertà e contemporaneamente avversato da ogni genere di reazionario.
Cesare Bermani (Novara 1937), tra i fondatori dell’Istituto Ernesto de Martino, è stato fra i primi a utilizzare criticamente le fonti orali ai fini della ricostruzione storica.È autore di molti libri tra cui Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione economica italiana. 1937-1945 (Bollati Boringhieri, Torino 1988); Trentacinque anni di vita del Nuovo Canzoniere Italiano/Istituto Ernesto de Martino (Jaca Book, Milano 1997); Pane, rose e libertà. Le canzoni che hanno fatto l’Italia (Rizzoli, Milano 2011). Per Interlinea Cesare Bermani ha curato il romanzo della Marchesa Colombi In risaia (1994, con Silvia Benatti); le poesie in dialetto novarese di Sandro Bermani Un poeta, una città (2001); il romanzo di Ernesto Ragazzoni L’ultima dea (2004); i saggi «Vieni o maggio». Canto sociale, racconti di magia e ricordi di lotta della prima metà del XX secolo (2009) e Bella ciao. Storia e fortuna di una canzone: dalla resistenza italiana all’universalità delle resistenze (2020). Vive a Orta san Giulio dove ha sede il suo archivio di registrazioni sulla tradizione orale.
Piero Calamandrei- Uomini e città della Resistenza-
Discorsi, scritti ed epigrafi
a cura di Sergio Luzzatto, prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Editori Laterza-Bari
Il testo fondatore della nostra epica resistenziale. Noi non dimentichiamo.Piero Calamandrei.. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata.Carlo Azeglio Ciampi.Uomini e città della Resistenza, pubblicato una prima volta nel 1955, in occasione del decennale della Liberazione, ha il merito di individuare una fra le dimensioni fondamentali della Resistenza: la sua natura tellurica, il legame
Non piangetemi, non chiamatemi povero.
Muoio per aver servito un’idea.
Guglielmo Jervis
VIVI E PRESENTI CON NOI
FINCHÉ IN LORO
CI RITROVEREMO UNITI
MORTI PER SEMPRE
PER NOSTRA VILTÀ
QUANDO FOSSE VERO
CHE SONO MORTI INVANO
Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Mi compiaccio vivamente della decisione dell’Editore Laterza di ripubblicare il volume Uomini e città della Resistenza di Piero Calamandrei, a cinquant’anni dalla prima edizione, e nel cinquantesimo, anche, della morte dell’Autore.
A distanza di mezzo secolo, questa raccolta di discorsi, scritti ed epigrafi di Piero Calamandrei su uomini ed eventi della Resistenza ci appare, se possibile, ancor più attuale. È una testimonianza diretta, e al tempo stesso una riflessione su quella che fu l’ispirazione profonda della Resistenza, il carattere «religioso e morale, prima che sociale e politico» che essa ebbe, nella concezione, e nell’esperienza, di Piero Calamandrei; il suo essere stata, «più che un movimento militare, un movimento civile».
Questo volume raccoglie testi che l’Autore scrisse tra il 1944, subito dopo la liberazione di Firenze, e il 1955. Si rileggono con commozione sia i discorsi e gli scritti, sia le bellissime e famose epigrafi da lui dettate per monumenti della Resistenza. Subito dopo la Liberazione, Calamandrei venne chiamato ripetutamente, in diverse «città della Resistenza», per parlare della Resistenza. Ho ancora un vivido ricordo di un discorso da lui pronunciato a Livorno, nel 1945. Quel discorso non compare in questa raccolta, pur vasta e ricca: ma in essa ho ritrovato diverse riflessioni che non avevo dimenticato.
Lo ascoltavamo allora con una passione che questi scritti, a distanza di oltre mezzo secolo, suscitano ancora in me. Così come sollecitano una rinnovata riflessione su ciò che fu, e su ciò che ci ha lasciato, la Resistenza; che cosa «è rimasto di vivo della Resistenza nelle nostre coscienze».
Questa è la domanda che lo stesso Calamandrei si poneva nel testo con cui si apre questa raccolta – il discorso del 28 febbraio 1954, tenuto a Milano alla presenza di Ferruccio Parri. Cinquantuno anni dopo, sono tentato di dare una risposta forse più fiduciosa di quella che allora proponeva lo stesso Calamandrei.
Le solenni cerimonie tenute a Roma e a Milano, al Quirinale e in Piazza del Duomo, nel sessantesimo anniversario del 25 aprile 1945; le innumerevoli altre occasioni in cui ho partecipato, come Presidente della Repubblica, a commemorazioni di eventi tragici o gloriosi della Resistenza (ricordo per tutte la visita-pellegrinaggio a Marzabotto, compiuta con al fianco il Presidente tedesco Rau, nell’aprile 2002); l’appassionata partecipazione popolare a tutte queste manifestazioni, mi dicono che la Resistenza è ancora viva nella memoria degli Italiani.
Questa memoria è fondamento della nostra passione per la libertà. Dalla Resistenza discende la Carta costituzionale, garante dei diritti democratici per tutti gli Italiani, di ogni parte politica. Coloro che in quella lotta diedero la loro vita vollero un’Italia libera e unita. Il loro sacrificio ci insegna la concordia, insieme con l’amore per la Repubblica democratica.
Dalla Resistenza discende anche la nostra scelta europeista, stella polare, ancora oggi, della politica dell’Italia repubblicana.
Noi non dimentichiamo. A noi, i sopravvissuti, è toccata la fortuna di essere partecipi di una grande rinascita democratica della nostra Patria; partecipi altresì della miracolosa costruzione di una unione di Stati e di popoli, che assicura a tutte le nazioni europee, dopo millenni di guerre, una pace irreversibile. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata. Il ricordo della Resistenza incita ad andare avanti sulla strada intrapresa.
Giugno 2005
Introduzione di Sergio Luzzatto
Sul Calamandrei fondatore dell’epos resistenziale circola una sorta di vulgata, il cui primo artefice e propagandista è stato il più illustre fra i suoi allievi spirituali, Norberto Bobbio. Seguace politico del «maestro e compagno» dal 1945 in poi, oltreché collaboratore assiduo del «Ponte», Bobbio ha tenuto a presentare quello di Calamandrei con la Resistenza come un incontro naturale, quasi obbligato. «Dal suo rifugio in un piccolo paese dell’Umbria, seguì con trepidazione, con fierezza, con struggimento, la crescita del movimento partigiano, la graduale trasformazione dell’insurrezione popolare in guerra di liberazione», si legge nell’introduzione di Bobbio agli Scritti e discorsi politici di Calamandrei. «Nacque in lui durante quei mesi il sentimento di ammirazione e di gratitudine per l’Italia del popolo, che avrebbe trasfigurato la guerra di liberazione in epopea popolare e dato impeto, vigore, forza di persuasione e di commozione, ai discorsi coi quali sarebbe passato di città in città per celebrarla».
Le cose furono più complicate di così. Fra 1943 e ’44, a dispetto del suo viscerale antifascismo, Calamandrei esitò a riconoscere nei partigiani i giusti vendicatori di un popolo oppresso, i sospirati eroi di una guerra di liberazione nazionale. Beninteso, non si tratta qui di fargliene rimprovero: meno che mai al giorno d’oggi, quando una nuova storiografia va finalmente ragionando sul carattere tutt’altro che lineare del rapporto intercorso fra l’antifascismo politico e la lotta armata. Piuttosto, si tratta di risalire alle origini dell’apparente paradosso per cui il più tenace forgiatore del mito della Resistenza poté assistere alla nascita del movimento partigiano non soltanto senza contribuirvi di persona, ma considerandolo con sufficienza o addirittura con diffidenza. Si tratta di individuare le molteplici ragioni (ideologiche o psicologiche, confessate o segrete, politiche o personali: insomma pubbliche e private) che spinsero un antifascista integrale come Calamandrei ad accogliere la Resistenza senza sollievo, quasi a malincuore. Si tratta di scoprire per quali vie egli sarebbe giunto a imboccare, dopo il 1944, la strada maestra dell’epica. Infine, si tratta di chiedersi se la memoria della Resistenza possa sopravvivere, fin dentro il nostro ventunesimo secolo, declinata nella forma che fu più cara a Calamandrei: come una necrologia prima ancora che una mitologia.
1. L’altra patria
Risalire all’8 settembre 1943 non basta a rendere conto di questa storia. Data fatidica per quanti si trovarono a viverla da ventenni o poco più (per la generazione cui apparteneva il figlio stesso di Calamandrei, Franco), l’8 settembre non rivestì un significato altrettanto epocale per la generazione dei padri: per chi, come Piero, ne fece esperienza a cinquant’anni suonati da un pezzo. Nella sensibilità di questi ultimi, che si erano fatti adulti nelle trincee della Grande Guerra e per cui il ventennio fascista aveva coinciso con la maturità, la data decisiva va situata fra il 1939 e il ’40: quando dapprima la prospettiva, poi la realtà della seconda guerra mondiale aveva obbligato tutti i padri di famiglia italiani, o almeno i più consapevoli tra loro, a fare i conti con se stessi e con la propria vita. Nel caso di Piero Calamandrei, il momento decisivo – quello senza capire il quale nulla si intende di lui negli anni successivi – era scoccato nel mese di maggio del 1940: dunque in anticipo sul 10 giugno, sull’entrata in guerra dell’Italia. A stravolgere la sua esistenza era stato il crollo della Francia, la caduta della Terza Repubblica a fronte del Terzo Reich.
Strumento imprescindibile per ritrovarne la vita interiore, il diario di Calamandrei attesta senza equivoci la portata del trauma. 13 maggio: «La morte è sulla Francia e sul Belgio, sulla nostra famiglia, sulla nostra patria che è là». 18 maggio: «Se sapessi pregare oggi pregherei in ginocchio per la Francia». 24 maggio: «I giorni trascorsi dal 19 a oggi sono i giorni più angosciosi della mia vita»; «finita la Francia è come se fosse spento il sole: non si vedranno più i colori». Per chi ricordava di avere vissuto, venticinque anni prima, un ben diverso 24 maggio («la notte fummo fino a tarda ora a cantare Trento e Trieste per le vie del centro»; «si andava con la Francia, contro gli assassini del Belgio»), riusciva sin troppo naturale di ravvisare nella tragedia francese la propria tragedia. Durante le settimane seguenti la fine della drôle de guerre, quando le fortificazioni della linea Maginot si rivelarono pateticamente inadeguate a contenere il Blitzkrieg hitleriano, Calamandrei sperimentò – in fondo – qualcosa come la morte della patria. E dopo il 10 giugno, considerò un sesto atto del dramma il fatto che l’Italia di Mussolini infierisse sulla Francia pugnalandola alle spalle.
«Peggio di questo nulla potrà accadere: né mai più vergogna di così»: l’angoscia non velava lo sguardo del compilatore del diario, nell’ora in cui pure sentiva che si era toccato il fondo. Con una lucidità che pareggiava lo sgomento, Calamandrei avvertiva come da quell’abisso, individuale e collettivo, si potesse soltanto risalire. Qui va riconosciuto, in effetti, l’inizio della sua nuova vita interiore e, alla lunga, della sua nuova vita pubblica. Non a caso, esattamente tra il maggio e il giugno del ’40 le pagine del diario si infittiscono di appunti sopra un tema che diventerà capitale per lui: il rapporto fra politica e religione. Stimolato dal dialogo con uomini di lettere come Pietro Pancrazi e Luigi Russo, il giurista fiorentino prende allora a meditare intorno ai nessi tra morale laica e fede cristiana, giustizia umana e giustizia sovrumana: secondo parole sue, tra le mischie dell’aldiqua e la credenza nell’aldilà, fra i moventi del terreno operare e i risarcimenti di un ultraterreno sopravvivere. Da allora Calamandrei si interroga sulle virtualità di quanto chiama (memore forse di Péguy) una mistica, mentre altri l’avrebbero detta una religione civile. E da allora si affatica intorno al modo di rendere la patria agli italiani attraverso un sacrificio originario, un olocausto glorioso.
I martiri di una qualche forma di resistenza vengono da lui invocati ben prima della Resistenza. Eccolo – in quel solito, cruciale mese di maggio 1940 – discorrere con Guido Calogero sui valori da contrapporre agli appetiti hitleriani, alla furia animalesca della conquista e della violenza: «Ci vorrebbe un cristianesimo eroico, con martirî e supplizi». Eccolo annunciare a Pancrazi che, presto o tardi, sarebbe toccato in sorte agli italiani «un urto a morte con i tedeschi»: e che l’unica opportunità per vincere sarebbe venuta non già dal diffondere fra le masse gli ideali liberali, ma dal risuscitare in esse «la fede cristiana dei primi martiri». Lungi da Calamandrei la tentazione di convertirsi al cristianesimo; anzi, agli amici egli confessava di allontanarsene sempre più a misura che l’invecchiare gli andava rivelando, con l’irrazionalità della vita, la vanità di ogni speranza postuma. La religione petrina gli appariva né più né meno che come un instrumentum regni: l’unica arma disponibile per sottrarre gli italiani al tallone dei nuovi Unni, a un futuro di schiavitù sotto i barbari ritornati.
Durante gli anni successivi, Calamandrei approfondì la propria riflessione sia sul ruolo politico della religione, sia sui modi per sollecitarlo nella storia. E se dobbiamo giudicare dal diario e dall’epistolario, sempre più egli lo fece nella forma di un congedo intellettuale da Benedetto Croce (cui pure capitava di frequentare l’eletta schiera di umanisti che si riunivano intorno a Calamandrei nella sua nuova casa in Versilia, a Marina di Poveromo). L’intero sistema crociano dei rapporti fra storia e morale, critica e azione, giudizio e fede, gli sembrò spaventosamente inadeguato all’ora presente: quasi un incitamento all’indifferentismo o, peggio, al collaborazionismo. L’atteggiamento stesso di un Russo, che rimproverava a Calamandrei la sua fede «esclamativa» e lo canzonava quasi fosse un catecumeno, gli parve un gesto di remissività che sconfinava nella vigliaccheria. Per tutta risposta, il giurista prese a carezzare l’idea di un’estetica così anticrociana da riuscire, in se stessa, una politica.
C’è una lettera, risalente all’agosto 1941, che dice molto del Calamandrei di allora e della sua evoluzione di poi. A Pancrazi – il confidente più intimo di quel giro di anni – egli spiegava di apprezzare enormemente lo «stile mazziniano» di Giani Stuparich nel suo ultimo libro dedicato all’esperienza della Grande Guerra; e di valutarne come massimo pregio proprio il «carattere oratorio», perché la vera arte non si contenta di esprimere gli umani sentimenti, ma sceglie di stabilire una gerarchia fra essi, «in modo da far apparire in primo piano soltanto i sentimenti grandi ed eterni». Il romanzo di Stuparich, dove pure il lavoro della fantasia tendeva a prevalere sui depositi della memoria, era un libro sui due volti della guerra triestina: da una parte i volontari al fronte, dall’altra la città in attesa. Per parte sua, Calamandrei trovava istintivo di leggerlo confrontando la poesia del «maggio radioso» alla prosa dell’attualità italiana, e sospirando il giorno in cui giovani allevati da balilla si sarebbero dimostrati altrettanto capaci dei loro padri di immolarsi per la patria.
2. I «pietromicchismi» che fanno la storia
Il futuro cantore dell’epopea partigiana non aveva atteso dunque la caduta del fascismo e l’armistizio con gli Alleati – la tragedia necessaria del suo paese – per arrovellarsi intorno alle questioni decisive del dopo 8 settembre: il problema morale della scelta, la funzione storica dell’esempio, il carattere trascendente del sacrificio.
In un appunto del diario vergato nell’estate dello stesso 1941, Calamandrei si era interrogato sull’olocausto personale di Lauro de Bosis (una figura che sarebbe ritornata a occuparlo in Uomini e città della Resistenza). Quale significato poteva mai rivestire, nella storia politica e civile d’Italia, il gesto del giovane aviatore dilettante che in un giorno d’ottobre del 1931 aveva sfidato l’Aeronautica di Balbo per lanciare nei cieli di Roma quattrocentomila volantini di tenore antifascista, salvo inabissarsi nel Tirreno lungo la rotta di ritorno verso la Costa Azzurra? Tanto gravida di intenzioni quanto leggera di effetti, la missione aerea era valsa forse a riflettere la superiorità etica dell’antifascismo sul fascismo? De Bosis andava considerato un eroe estemporaneo ma possibile, un Pietro Micca del ventesimo secolo? Sì, aveva risposto Calamandrei a se stesso. Perché «sono questi pietromicchismi che fanno la storia», ed «è alla fine che bisogna giudicarli».
Poche settimane più tardi, il 13 luglio 1941, il diario del giurista aveva registrato un impressionante vaticinio su quanto sarebbe effettivamente avvenuto fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943. Il popolo italiano – profetizzava Calamandrei – non sarebbe stato capace di compiere da solo una rivoluzione antifascista. Il regime di Mussolini sarebbe stato tuttavia rovesciato, non appena gli anglo-americani avessero preso il sopravvento sui tedeschi nella guerra mondiale: gerarchi fascisti quali Grandi e Bottai, d’accordo con Casa Savoia, avrebbero organizzato un colpo di stato contro Mussolini e i suoi compari più stretti. Infine, nell’ultimo periodo del conflitto mondiale, l’Italia sarebbe entrata in guerra contro la Germania. Nella prospettiva di un tale futuro, Calamandrei aveva smesso di invocare dai soli giovani il coraggio della scelta militante, aveva formalmente rinunciato alla soluzione di comodo della delega: «allora – si era impegnato – anche noi vecchi andremo volontari».
Lasciamo trascorrere ventiquattro mesi debordanti di storia e di sangue, per ritrovare Calamandrei esattamente due anni dopo, il 13 luglio 1943. Come sempre d’estate, il professore fiorentino sta alloggiando nella bella casa versiliese del Poveromo, ch’egli ha fatto costruire da poco secondo i dettami della più ortodossa architettura modernista. Senonché la sua non somiglia affatto a una villeggiatura. Tre giorni prima, gli Alleati sono sbarcati in Sicilia. Alla radio, Calamandrei segue con animo sospeso l’avanzata degli anglo-americani «sulle terre ove sbarcò Garibaldi» (mentre «ogni città che il nemico conquista […] pare che sia una città liberata…»). Molto più vicino a lui, lungo le strade stesse della Marina di Poveromo, un altro nemico – il medesimo della Grande Guerra, il nemico ereditario – si prepara al tradimento dell’alleato italiano, serra le file nell’imminenza di un’occupazione militare:
Stamani un reparto in armi faceva esercitazioni qui sul vialone: non potevo lavorare a sentire quei comandi secchi come starnuti rientrati. Sono sceso a vedere dietro la siepe. Facevano ordine chiuso e ordine sparso colla maschera antigas a proboscide: mostruosi, sotto gli elmi col viso a scheletro di gorilla. A un certo punto il plotone si è ricomposto, e colle maschere sul viso si son messi in marcia per tornare all’accampamento, e il tenente, senza maschera lui, ha dato lo scatto del coro: cra-cra-cra. E allora s’è sentito questo coro cantato dentro le maschere: lontano, funebre, con quel tremolio metallico che hanno le musiche rimaste chiuse dentro una scatola. Uno spettacolo terribile questo corteo di scheletri che si allontanava cantando con voce remota, soffocata, come quella dei fantasmi che viene dall’altro mondo: questo è proprio il simbolo della marcia della Germania.
In tale manovra del luglio 1943 sembra già di riconoscere i tedeschi dell’estate successiva: quei soldati freddi e fieri, insieme robotici e nibelungici, che faranno strage di italiani anche nelle immediate vicinanze del Poveromo, a Vinca, alle Fosse del Frigido, a Sant’Anna di Stazzema. E la penna di chi li descrive sembra già possedere la qualità icastica, lapidaria, della sua scrittura post-bellica. Ma quest’ultima è solo un’impressione, poiché l’urgenza dell’ora batte alle porte della casa di Calamandrei, vietandogli il distacco pensoso e solenne del moralista. «Sulla strada corrono motociclisti coll’elmetto prussiano che abbiamo imparato a odiare nell’altra guerra»: nascosto dietro la siepe, il compilatore del diario si accorge di spiarne le mosse come il soldato nascosto dietro una macchia sorveglia i movimenti del nemico da uccidere, o da cui essere ucciso.
Il fotogramma successivo ci porta – tre mesi dopo – in un’altra casa dei Calamandrei, non fresca di calce, questa: la casa avita di Montepulciano, dove il piccolo Piero era stato cresciuto all’«arte magica della scrittura» grazie alla scuola estiva del nonno, magistrato a riposo. Per intanto, in Italia è successo di tutto. Mussolini è stato deposto dal colpo di stato del 25 luglio, imprigionato dapprima a Ponza, poi alla Maddalena e quindi al Gran Sasso, liberato da paracadutisti tedeschi per dirigere una Repubblica di Salò nei fatti asservita al Terzo Reich. Badoglio ha tergiversato per quarantacinque giorni dopo la nascita del suo governo, prima di decidersi a sottoscrivere con gli Alleati un gravoso armistizio. Quanto a Calamandrei, ha fatto appena in tempo, dopo la caduta del fascismo, a indossare le vesti di rettore dell’università di Firenze, prima di doverne scappare a causa dell’occupazione tedesca. Presto, il ritiro stesso di Montepulciano riuscirà insidioso per un docente da sempre nel mirino dei fascisti fiorentini, obbligandolo a fuggire anche da lì per riparare presso parenti a Colcello Umbro, nel Ternano. Già il 12 settembre la villa del Poveromo è stata sequestrata da militari tedeschi, che ne hanno fatto un alloggio per il loro comando. Eppure, quando ci ripensa, quando pone mente alle circostanze frenetiche quanto patetiche del passaggio di consegne dai legittimi proprietari ai profanatori germanici, Calamandrei non può fare a meno di riconoscere come si tratti – in ultima istanza – di una «giusta sanzione». Troppo bella la villa del Poveromo, per meritarla nello sfacelo d’Italia. E troppo drammatica la rovina della nazione, perché al prof. avv. Calamandrei non toccasse di condividerla con milioni di altri perseguitati o fuggiaschi.
È un uomo altero quello che si china sul proprio diario in questo 9 ottobre 1943. Più che sull’ingrato destino del Poveromo, egli riflette sul bisogno di «armare un esercito» che combatta la Germania anche quando l’occupante sarà stato ricacciato oltre l’Appennino e le Alpi: «un esercito di volontari» che siano «pronti a sacrificarsi a centinaia di migliaia». Soltanto così, precisa Calamandrei, l’Italia avrebbe potuto redimersi: «altro sangue, altre stragi per lavare altro sangue e altre stragi…». Tuttavia, l’uomo che dalla sua casa di campagna va baldanzosamente programmando tale levée en masse (mai e poi mai «far finire tutto senza sangue, senza tragedia, senza possibilità di fare i conti») è il primo a non sentirsi sicuro che i connazionali rispondano presente al nuovo appello delle armi. Annota sul diario, subito dopo aver discettato dell’esercito di volontari:
Pancrazi mi scrive una cartolina ottimistica: dice che attraverso questi febbroni il ragazzo rifarà le ossa. Ma per rifar le ossa ci vuole il midollo: c’è il midollo in questa Italia? Non so, a me par di vedere in tutti, nei giovani e nei vecchi, una generale rassegnazione, un desiderio di non morire: di scegliere sempre, a ogni bivio, la strada che porta alla viltà pur che viva, anziché alla dignità con pericolo di morte. Anche ai giovani migliori manca forse, per la nostra civiltà, questa capacità quasi meccanica di esercitare la violenza, di far saltare il ponte, di uccidere il tedesco: questa mollezza umanitaria che ci fa impietosire dinanzi al sangue porta con sé una fiacchezza svirilizzata che per esempio non hanno i croati e i serbi, meno civili ma aspri e inflessibili.
Così, mentre la Resistenza italiana andava muovendo i primi difficilissimi suoi passi, colui che – ex post – meglio di ogni altro avrebbe saputo dirne la necessità o addirittura la poesia, consegnava al prudente segreto di un diario la più scorata tra le professioni di impotenza.
3. Guerriglia civile
Alla Resistenza Piero Calamandrei non andò volontario, come pure si era ripromesso. Trascorse a Colcello Umbro il periodo compreso fra l’ottobre 1943 e il giugno ’44, quando l’avanzata anglo-americana diede luogo alla liberazione di gran parte dell’Italia centrale; dopodiché visse tra Roma e Firenze, ormai da leader politico dell’Italia nuova, i dieci mesi necessari perché l’azione congiunta degli eserciti alleati e delle brigate partigiane sfociasse nell’insurrezione popolare dell’aprile 1945. Nel frattempo, i «giovani migliori» del paese – gli stessi che a Calamandrei erano sembrati affetti da una «fiacchezza svirilizzata» – intrapresero la via della lotta armata, compirono la scelta di «uccidere il tedesco»: e l’unico figlio suo, Franco, contò tra i loro capi.
Inutile almanaccare qui sulle ragioni che dissuasero Calamandrei padre da un impegno diretto nella Resistenza. Forse, cinquantaquattro anni gli parvero troppi per vivere un’esperienza fondamentalmente giovanile come quella della macchia. O forse, più semplicemente, prevalse in lui il «desiderio di non morire». Certo è che gran parte della successiva evoluzione psicologica e ideologica di Calamandrei – sia nel rapporto con il figlio, sia in quello con la patria – avrà a che fare con questo atto mancato: con la sua non-resistenza. Le pagine stesse, famose, sulla «desistenza» dell’Italia degasperiana, acquistano intero il loro senso se le si rilegge non soltanto come una critica, ma anche come un’autocritica: perché il demone della desistenza si era annidato, tra 1943 e ’44, fin nel cuore di Calamandrei. Da qui, nel resto del tempo che gli restava da vivere (lo straordinario decennio in cui il noto avvocato e il colto giurista si sarebbero trasformati in ben altro: nell’uomo politico, nel legislatore costituente, nel venerando epigrafista, insomma nel «padre della patria»), qualcosa di più, in Calamandrei, che una vaga nostalgia per l’azione non compiuta, del genere di quella che l’amato Carducci si era trovato ad avvertire per i fasti del Risorgimento. Piuttosto, si direbbe, un vero e proprio senso di colpa: e l’elaborazione di qualcosa come una strategia destinata a sublimarlo.
È ancora dal Diario che bisogna partire, se si vuole riconoscere gli ingredienti essenziali di questa vicenda. In particolare, si tratta di riprendere in mano le tante pagine che Calamandrei vergò a Colcello durante la sua stagione da sfollato. Sono questi, del resto, gli unici frammenti del journal intime ch’egli avrebbe deciso di pubblicare da vivo, sul «Ponte», nel 1954; ma in una versione fortemente ridotta, e dove l’autore avrebbe comunque rinunciato a trascrivere i passi più significativi e più gravi, i più rivelatori dello stato d’animo ch’era stato il suo quando in Italia infuriava la guerra civile. A cominciare dal dubbio che lo aveva assalito non appena giunto a Colcello, dopo la fuga da Montepulciano: «Come sarà giudicata questa mia assenza?». «Quale sarà la mia situazione, dopo che ho tagliato i ponti così, e creato a me stesso questa situazione singolare di fuoruscito in patria?». Quello di Calamandrei non era solo, evidentemente, lo scrupolo del pubblico funzionario lontano dal suo posto di lavoro all’università, né solo il fastidio del libero professionista costretto a sospendere la pratica forense; era anche, più in profondità, il disagio dell’antifascista consapevole di mancare all’appuntamento con la storia. «Questa mia assenza da Firenze sarà quasi da tutti interpretata per fuga e viltà. E si dirà che nei momenti del più cupo dolore, quando nella mia città tutte le persone di buona volontà tenevano il loro posto, io ho disertato».
Neppure per un istante, nei nove interminabili mesi in cui rimase nascosto a Colcello Umbro, un uomo con la moralità (e con le ambizioni) di Calamandrei poté celare a se stesso quanto vi era nella sua condizione di sorprendente e, in fondo, di deludente. Lui, l’antifascista della prima ora, il sodale dei fratelli Rosselli, l’erede fiorentino di Salvemini come simbolo della resistenza culturale alla dittatura; lui, cui l’intellighenzia liberalsocialista e la dirigenza azionista guardavano come a un sicuro primattore sulla scena dell’Italia nuova, ridotto alla striminzita quotidianità di una vita da sfollato «che si interessa del proprio sonno e della propria digestione, collo scaldino e colla candela che puzza di moccolaia». Certo, quando più nettamente prevaleva in lui un umanissimo istinto di conservazione, Calamandrei confidava al diario niente più che il sollievo di esserci ancora: «basta vivere, per ora…» (non diversamente, nella Francia del Termidoro, l’abate Siéyès aveva replicato con tre sole parole a chi gli chiedeva ragione della sua eclissi sotto il Terrore: J’ai vécu…). Ma almeno altrettanto spesso, Calamandrei era abitato dalla «pena» e assediato dall’«umiliazione». Che cosa avevano materialmente fatto, lui e quelli come lui, per far cadere il fascismo? E adesso, che cosa andavano concretamente facendo per combattere il nazifascismo? «Parole e parole: non uno che si faccia uccidere, non uno che sia pronto a dare un esempio di sacrificio personale. Sempre gli stessi: e io che scrivo, con loro». La vergogna di Calamandrei, il suo tormento, era scoprirsi incapace di qualunque pietromicchismo.
Quando poi, all’uscita dell’inverno 1943-1944, fu dato al profugo di Colcello di cogliere i primi segnali di un progressivo organizzarsi della Resistenza, non per questo egli ne trasse immediato conforto. Il 16 marzo lo raggiunse la notizia dei gravissimi scontri di Poggio Bustone, presso Rieti: dove un commando partigiano aveva attaccato un contingente della Guardia nazionale repubblicana seminando la morte nei ranghi fascisti. Sia la temerarietà dell’azione compiuta dalla brigata Gramsci, sia la ferocia con cui la popolazione locale si era accanita contro i cadaveri dei militi sarebbero rimaste lungamente impresse nella memoria collettiva degli abitanti del Ternano: a Poggio Bustone, la Resistenza dell’Italia centrale aveva conosciuto il suo battesimo di sangue. Ma Calamandrei, sfollato poco lontano, non maturò dell’episodio che un’immagine tanto più negativa quanto più la sua visione delle cose riusciva laterale e distorta. «La gente scappa da Rieti, terrorizzata da questa guerra civile»; «questi ribelli sono comandati, a quanto si dice, da ufficiali inglesi: salutano col pugno chiuso. In una scaramuccia sono stati fatti prigionieri un gruppo: su settanta, cinquanta erano tedeschi disertori!». Pugni chiusi, ufficiali inglesi, disertori tedeschi: nell’isolamento di Colcello, un intellettuale raffinato come Calamandrei si trovava a dipendere totalmente dal chiacchiericcio popolare, dall’immancabile rincorrersi bellico di voci, notizie false, leggende.
Il sor Piero (come gli abitanti del villaggio avevano l’abitudine di chiamarlo) risultava tributario dei «si dice» anche nella rappresentazione delle brigate partigiane come un movimento surrettiziamente infiltrato dal comunismo russo. Era con la falce e martello ricamata sui berretti che i «ribelli» si avvicinavano sempre più ad Amelia, dunque a Colcello! «Giorni fa hanno catturato e tenuto tre giorni sotto accusa di essere fascista un omino che fa l’esattore della luce elettrica e che pochi giorni fa vidi io stesso qui, all’uscio di casa a riscuoter la bolletta». La segretaria di una scuola del circondario era giunta ad Acquasparta sconvolta, fuggendo da un paesino sopra Terni dov’era sfollata, perché i «ribelli» erano andati a casa sua, avevano bastonato il marito accusandolo di essere un gerarca, avevano devastato la mobilia… «Guerriglia civile – concludeva Calamandrei – che si inasprirà e diventerà rapidamente una lotta contro i “borghesi”». E tutto in questa sua pagina di diario, dalla scelta dei termini all’uso delle virgolette, diceva di un uomo più preoccupato che entusiasta all’approssimarsi della Resistenza in corpore vili.
Nella notte fra il 14 e il 15 giugno 1944, quando l’offensiva dell’esercito anglo-americano si fece più decisa dopo la conquista di Roma, la linea del fronte passò fragorosamente oltre Amelia, lasciando i pochi abitanti di Colcello – e Calamandrei con loro – dalla parte giusta, nell’Italia liberata. Ma una banda di partigiani si era manifestata in paese già pochi giorni prima, mentre ancora la zona era sotto il controllo dei tedeschi. Senza che il sor Piero si lasciasse incantare dall’epifania della Resistenza:
Ieri Colcello fu «occupato» per due ore da patrioti. Ciro mi venne ad avvertire del loro arrivo: non si sapeva che volessero. Erano una diecina, al comando di un capo che è un socialista di Amelia: tra essi vi erano due ex carabinieri ex guardie repubblicane, un disertore austriaco di Vienna (diciottenne), un prigioniero russo, un sottotenente che è stato molti mesi in prigione a Perugia imputato di diserzione e che appena lasciato libero si è dato alla macchia, un sottufficiale di aviazione ed altri due o tre: tutti armati di moschetto o rivoltella, e il capo col binocolo.
Uscii con Ciro: qui sulla piazzetta dinanzi a casa su una panchina dove stanno a sedere di solito le donnine, c’erano due di essi, seduti, col moschetto sui ginocchi. Più su, alla Buca, c’era l’austriaco e un altro attorniati da ragazzi e donne. Ci dissero che il capo era a conferire con Guido Valentini, che viene considerato l’esponente antifascista del borgo: il resto della squadra era andato a occupare le diverse vie d’uscita del villaggio. Il capo, in pullover, senza cappello, con occhiali neri e zucca spelacchiata, piuttosto buffo, dice che avevano l’ordine «da Roma» di disarmare i fascisti. […] Ci trattenemmo a lungo con tutta la squadra, tra i quali il sottotenente. Quando sentì il mio nome mi disse di essere studente di lettere a Roma, allievo di De Ruggiero: è un ragazzo con grandi occhi febbricitanti in una faccia pallidissima resa più sparuta da una barba non fatta da due settimane. Che cosa voglion fare non lo sanno bene neanche loro.
Adesso che gli studiosi della Resistenza hanno cominciato a scriverne la storia indipendentemente dal mito, noi andiamo scoprendo come – per molti aspetti – le cose stessero proprio quali Calamandrei le registrò nell’unico incontro de visu che mai gli capitò di avere con dei partigiani. I resistenti non sapevano bene che cosa volevano fare. Volevano cacciare i tedeschi, certo, e volevano farla pagare ai fascisti; ma non avevano chiare le coordinate del mondo nuovo da costruire, né antivedevano il proprio ruolo nella città futura. D’altronde, i più sinceri fra loro lo avrebbero ammesso, in testi scritti a caldo dopo l’avventura della macchia o della clandestinità, nei più riusciti fra i racconti o le memorie di ambientazione partigiana: come tutte le rivoluzioni che si rispettino, la Resistenza era stata un guazzabuglio inestricabile di determinazione e di confusione, di ordine e di disordine, di pulizia e di sporcizia, di umiltà e di prosopopea… Il che non toglie che vi sia qualcosa di stonato nella rappresentazione dei «ribelli» che Calamandrei consegnava al proprio diario. Perché davvero si fatica a riconoscervi un qualunque elemento in comune con la rappresentazione dei partigiani ch’egli avrebbe diffuso dopo la Liberazione, nei «discorsi, scritti ed epigrafi» raccolti in Uomini e città della Resistenza. Semmai, le pagine del Calamandrei di Colcello ricordano quelle di un altro diario coevo, tenuto da uno scrittore scettico e vagamente qualunquista come l’Andrea Damiano di Rosso e Grigio: il quale pure, nell’unica occasione in cui si incontrò con una banda di partigiani, ne trasse un’immagine picaresca e maccheronica, da armata Brancaleone avanti lettera.
4. Una questione privata
La pagina di diario in cui Calamandrei descrisse l’epifania della Resistenza au village appare tanto più significativa in quanto – dietro il velo di una toscanissima ironia – risulta impregnata di umori professorali, o comunque generazionali. Fra le ragioni per cui Calamandrei faticò a capire e ad apprezzare la Resistenza va annoverata questa: egli faticava a capire e ad apprezzare i giovani ai quali, dalla sua cattedra di docente universitario, si era trovato a rivolgersi negli ultimi anni, sino alla vigilia immediata dell’8 settembre. Mentre erano soprattutto quei giovani borghesi che, con altri di estrazione popolare, andavano combattendo nella Resistenza.
Niente di più normale, d’altronde, dello sconcerto di Calamandrei. Fra 1943 e ’44, non era facile comprendere – nel corso stesso del suo sviluppo – la parabola umana e politica dei «redenti»: della generazione intellettuale che dopo avere militato, alla fine degli anni Trenta, entro i ranghi della «sinistra» fascista, andava scoprendo nella lotta armata contro il nazifascismo (e all’occorrenza nel comunismo) una nuova risposta alla propria domanda di giustizia e di rivoluzione. Né era facile comprendere come, nella mente e nel cuore dei giovani, la Resistenza potesse essere insieme una questione di immaturità e una questione di maturità, come potesse fondere la dimensione leggera del gioco da bambini con quella onerosa del diventare grandi. Nel caso di Calamandrei, una complicazione supplementare nasceva dal fatto di avere un redento in famiglia: suo figlio Franco, che dopo una giovinezza trascorsa, con ovvio scorno del padre, negli ambienti della sinistra fascista, all’indomani dell’8 settembre gli aveva lasciato intendere – durante un burrascoso faccia a faccia – di sentirsi votato a un futuro da militante comunista.
Per oltre tre anni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, Calamandrei aveva disseminato nel proprio diario giudizi inclementi sulla gioventù universitaria, di cui il padre antifascista considerava il «figlio fascista» un degno rappresentante: «gioventù di merda», capace bensì di obbedire, ma non di credere né di combattere; patetica genia di «egotisti incorreggibili», «letteratucoli» occupati dall’ermetismo più che preoccupati dell’hitlerismo; «sparuto gruppetto di poveri ragazzi presuntuosi malati di narcisismo». Cos’era stato l’intero regime dei Bottai o dei Pavolini, se non un desolante esempio di «paidocrazia»? Nell’Italia che fosse riuscita a estrarsi dalla catastrofe, dopo la fine della dittatura fascista e della guerra mondiale, «bisognerà che i ragazzi tornino a fare i ragazzi», aveva severamente concluso il professore universitario. Secondo i taccuini di guerra di Piero Calamandrei come secondo quelli coevi di Benedetto Croce, il cosiddetto problema dei giovani si riduceva al problema di un’«immaturità» che il regime dei fasci aveva avuto l’astuzia di elevare a professione, la gioventù dei Guf l’ingenuità di sbandierare come merito.
Alla severità del giudizio che i padri davano sulla generazione dei balilla corrispondeva però, nel vissuto emotivo e politico dei figli, una severità uguale e contraria. Fra le molle che dopo l’8 settembre spinsero alcune migliaia di giovani italiani sulla strada della lotta armata fu precisamente il disprezzo per l’inane atteggiamento dei padri. Anche quando i vecchi antifascisti finivano col rivelarsi buoni per scrivere gli articoli di fondo dei giornali clandestini, i loro figli naturali o putativi non li trovavano convincenti per davvero; rifiutavano di pensare che tali sussiegosi maestri di retorica, con le guerre del Risorgimento sempre in bocca, potessero valere da figure-modello nella lotta contro Mussolini e contro Hitler: «Credevamo in un corpus di sapienza anti-fascista; ma rigettavamo l’idea che ne fossero questi i custodi». E poi, di là dalle parole, in quale maniera la generazione dei padri si era mai espressa nei fatti? Dove, come, quando si era mai sacrificata? Per riscattare il male storico del fascismo – pensavano le reclute di una banda partigiana come quella vicentina di Luigi Meneghello – qualcuno doveva pur soffrire. Dal momento che tanti padri non si erano resi disponibili, certi figli dovevano farlo per loro.
Vent’anni dopo, il titolo stesso della memoria resistenziale di Meneghello, I piccoli maestri, avrebbe offerto un’immagine trasparente del modo in cui i giovani partigiani avevano inteso replicare ai vecchi «professori addottrinati»: sarebbe riecheggiato come lo schiaffo dei figli resistenti ai padri desistenti. Ma senza attendere così a lungo, senza rimetterlo all’arte sincera o bugiarda della memoria, c’era chi quello schiaffo lo aveva dato da subito, secondo il tempo impaziente e divisivo della storia. Tale fu il caso di Franco Calamandrei. Come documentano le pagine del diario ch’egli riuscì a tenere nel pieno della Resistenza romana, fin dentro la sua clandestina quotidianità di comunista e di gappista, la scelta partigiana di Calamandrei figlio maturò nella consapevole forma di un «congedo» da Calamandrei padre. Il risultato fu, per entrambi, qualcosa di estremamente lacerante: un autentico psicodramma, senza penetrare il quale si rischia di intendere poco del cammino che avrebbe fatto di Piero l’autore di Uomini e città della Resistenza.
Franco Calamandrei non aveva atteso l’8 settembre 1943 per prendere le distanze da un ingombrantissimo padre. Un po’ tutte le sue decisioni di vita successive alla laurea in giurisprudenza (ch’egli aveva conseguito ventiduenne nel ’39) si erano configurate come le tappe di un progressivo allontanamento non solo dalla città di Firenze, ma dalla figura di Piero: la frequentazione degli ambienti letterari fascisti, la rinuncia a perfezionarsi da avvocato, l’entrata nella funzione pubblica come impiegato presso l’Archivio di Stato di Napoli. Nell’agosto del ’41, un verbo aveva fatto capolino nella prosa del suo diario, in relazione al rapporto con l’ambiente d’origine e segnatamente con il padre: era il verbo salpare. Sicché rinunceremo a stupirci se all’indomani dell’8 settembre – dopo che Piero e Franco avevano avuto il loro drammatico faccia a faccia, e il figlio aveva comunicato al padre la propria intenzione di arruolarsi da comunista contro il nazifascismo – il diario di Franco aveva ospitato la trascrizione dei versi di un poeta americano, nella traduzione che Fernanda Pivano ne aveva appena dato per l’editore Einaudi. Era la finta lapide di George Gray, nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: «E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino / dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre alla follia, / ma una vita senza senso è una tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio, / è una barca che anela al mare eppure lo teme».
Qualcosa come trentasei anni più tardi, nel novembre del 1979, Franco Calamandrei avrebbe ancora fatto ricorso al verbo salpare per rendere conto della propria scelta resistenziale nella fatidica notte dell’8 settembre 1943; spiegando come, pur di raggiungere i lidi di un antifascismo fattivo anziché parolaio, si fosse sentito pronto a «passare sul corpo di [suo] padre». Dettaglio rivelatore: nel romanzo di ambientazione partigiana da lui rimuginato per decenni, Franco avrebbe organizzato la scena madre dell’incontro-scontro fra il padre desistente e il figlio resistente sulla base di criteri strettamente autobiografici: salvo immaginare che quello del padre non fosse il mestiere dell’avvocato, ma il mestiere del giudice. Altrettanti modi per esprimere, agli sgoccioli della vita, quanto gli era stato comunque ben chiaro già al tempo della Resistenza. Da un lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato un esercizio tanto continuo quanto logorante di recitazione, nel tentativo di presentarsi allo sguardo indagatore del padre in una postura che gli riuscisse soddisfacente. «Scrivo una lettera per i miei genitori» – leggiamo nel diario di Franco alla data del 28 febbraio 1944, cinque giorni dopo ch’egli aveva guidato a Roma il commando gappista di via Rasella – «con il solito disagio, il solito sentimento di scrivere in una lingua straniera, di porgere in vece mia un manichino, una figura retorica». Dall’altro lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato una precisa assunzione di responsabilità. «I figli devono educare i genitori», si legge pure nel diario, come una citazione di Marx secondo Lafargue.
Se volessimo riprendere la terminologia di Meneghello, diremmo che Franco ce l’aveva avuto in casa, il professore addottrinato cui servire da piccolo maestro. Se invece ci volessimo nuovamente affidare alla ricostruzione retrospettiva del figlio, diremmo che il trauma originario aveva coinciso con un banale incidente capitato in Versilia durante una vacanza al mare. A causa di un’onda anomala, il padre aveva rischiato di affogare, e il figlio che gli nuotava accanto aveva letto sul suo viso un’angoscia senza limiti, il terrore di morire: «Brusca rottura dell’immagine dell’autorità paterna. Un “poveruomo”». Il poveruomo del Poveromo: per il resto della vita, dopo la crisi della Resistenza, Franco non avrebbe smesso di rielaborare l’immagine del padre, provando fierezza per la sua vigorosa «moralità», ma rabbia per una «meschinità» patetica o addirittura «ripugnante». Un egoista, Piero Calamandrei, nell’animo del quale l’attaccamento alla moglie e al figlio si confondevano con l’eterna paura di soffrire; un velleitario, la cui unica forma di opposizione al fascismo era consistita nella pluriennale tenacia con cui aveva raccolto da destra o da sinistra barzellette antiducesche.
Quello della psicoanalisi è un terreno scivoloso per lo storico, che si trova nell’ovvia impossibilità di trattare i propri personaggi alla maniera di Freud con i suoi pazienti. Nondimeno, la natura del rapporto fra Piero e Franco Calamandrei sollecita una ricostruzione storiografica che non escluda a priori la dimensione della psicologia del profondo. Quali risultano dai taccuini privati di entrambi, alcune situazioni avevano un contenuto freudiano addirittura flagrante. Così, se la metafora del salpare era centrale nel modo in cui Franco si figurava il congedo da Piero, un’identica metafora occorreva – rovesciata di segno – nelle nostalgie e nelle fantasie di Piero, a proposito di un riavvicinamento con Franco. Il 16 gennaio 1944, registrando le proprie impressioni di lettura sulle Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini, il Calamandrei di Colcello si diceva commosso dalle pagine in cui l’oppositore dei Borboni aveva evocato «con tanta tenerezza» la figura del figlio Raffaele; in particolare, da «quelle in cui racconta del figliuolo, che s’imbarca come cameriere sulla nave per liberare il padre». Due mesi più tardi, rimpiangendo la mancanza di notizie riguardo alla vita romana di Franco, Piero annotava: «L’ho sognato stanotte […] in una specie di grande adunata in cui egli era senza cappello e in camicia nera, e così tutti noi: io sono arrivato in ritardo, e lui mi ha fatto cenno di andarmi a mettere in un certo punto della folla, e mi par che m’abbia detto: “Lì, vicino alla ringhiera, non tirano”, come per rassicurarmi».
Sarebbe certo imprudente spingersi oltre sulla strada della psicoanalisi, fino a sostenere che nella vita interiore di Franco Calamandrei la suprema prova di virilità – «l’uccisione», «l’uccisione del fascista» – abbia rappresentato una forma sublimata di uccisione del padre. Sta di fatto che soltanto dopo aver praticato l’esperienza perigliosa e inebriante della clandestinità, l’attività sabotatoria e terroristica, insomma la guerra civile guerreggiata, Franco si scoprì disponibile a recuperare un qualche rapporto con i genitori. Ebbe allora l’impressione che i ruoli si fossero invertiti, e che ormai toccasse a lui, al comandante partigiano, di prendersi cura di un padre e di una madre irrimediabilmente scavalcati dalle correnti della storia. Si legge nel diario di Franco alla data del 2 aprile 1944, dieci giorni dopo l’attentato di via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine: «Una lettera triste della mamma: tutto viene meno intorno a loro. E temo che non abbiamo più parole ormai con cui io possa cercare di consolarli. Vorrei poterlo fare, vorrei tanto trovare un contatto». Due settimane più tardi si legge nel diario di Piero: «Ieri Franco ha scritto da Roma: in tono genericamente fiducioso e virile: lui, per sua fortuna, ha dinanzi a sé l’avvenire. Non può sentire questo logoramento del tempo che fugge inutile, che si prova all’età mia…». Così, la virilità del figlio non sembrava possibile che a prezzo della senilità del padre.
Ma per quanto si sentisse vecchio, stanco e colpevole, il sor Piero di Colcello non aveva rinunciato all’antica abitudine di salire in cattedra. Poteva dunque – nella medesima pagina di diario in cui ripicchiava sul tasto della «vergogna» per l’inconcludenza e la vigliaccheria della sua propria generazione – assumere un tono di condiscendenza verso «questi giovani ingenui, i nostri figliuoli, che a rischio della vita si danno alla macchia come “ribelli” o preparano nella città la riscossa». Viceversa, Calamandrei padre poteva parlare sia dell’attentato di via Rasella (quando ancora non lo sapeva guidato dal figlio!), sia della rappresaglia delle Fosse Ardeatine, con accenti sorprendentemente leggeri, analoghi a quelli di certa vox populi capitolina: «Ogni tanto a Roma qualche camion tedesco è fatto saltare dai “comunisti”: l’ultimo in cui furono uccisi da una bomba 32 tedeschi, ha portato come rappresaglia la fucilazione di 320 ostaggi innocenti…». Senza percepire il valore politico e militare dell’azione compiuta dai Gap in via Rasella, momento simbolicamente fra i più intensi della Resistenza europea, Calamandrei si contentava dunque di alludere alle responsabilità degli attentatori, colpevoli indiretti dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. E anche in questo il profugo di Colcello era in buona compagnia, se è vero che i gappisti di via Rasella dovettero subito difendersi dall’accusa di avere sulle proprie mani – oltre al sangue dei carnefici tedeschi – il sangue delle vittime italiane.
5. Un segnalatore d’incendio
Soltanto a partire dal luglio 1944, dopo che l’arrivo degli anglo-americani in Umbria gli ebbe permesso di concludere la propria esperienza da sfollato e di raggiungere Roma, Piero Calamandrei prese a guardare alla Resistenza attraverso nuove lenti. Né avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che il suo arrivo nella capitale coincise con l’inizio di un’attività politica frenetica, a stretto contatto con i capi del Partito d’Azione, i dirigenti del Cln, le autorità alleate. Dopo nove mesi di completo isolamento, e dopo venti lunghissimi anni di censura e di autocensura, al giurista fiorentino era dato ora di ritornare a essere se stesso; e al suo antifascismo intellettuale era dato di riconciliarsi con l’antifascismo militare di chi andava combattendo nella Resistenza.
Per Calamandrei padre, questo significò anzitutto l’opportunità – e il sollievo – di una riconciliazione con il figlio. Al limite, proprio la scoperta del contributo di Franco al gappismo romano («non c’è stato attentato che non abbia fatto lui, o a cui non abbia assistito») spinse Piero a riconoscere come «eroico» il «contegno dei giovani» dopo l’8 settembre: fu l’agnizione intorno al ruolo del figlio che mutò l’atteggiamento del padre rispetto alla Resistenza. Non che le retrouvailles fra Piero e Franco avessero dissipato ogni ombra nel loro rapporto. Ben presto dopo l’arrivo nella capitale, il diario del padre ospitò acidi commenti sulla maniera in cui il figlio aveva trasformato la propria passione letteraria per l’ermetismo in passione politica per il comunismo. L’intuizione stessa del coinvolgimento di Franco nell’attentato di via Rasella («arrossisce quando si parla della bomba sotto il Quirinale») mosse Piero a riflessioni intransigenti. Quanto vi era, nel coraggio di chi compiva simili gesti, di residuo libresco, di un maldigerito Gide da Sotterranei del Vaticano («Lafcadio che uccide il compagno di viaggio per prova»)? Ma al di là di queste e di altre riserve affidate al segreto del diario, per Calamandrei ritrovare il figlio fece tutt’uno col ritrovare la patria.
Nel vissuto di Piero durante quel fervido mese di luglio del 1944, il primo uomo della Resistenza fu Franco, la prima città della Resistenza fu Roma. Pochi giorni dopo essere giunto nella capitale, Calamandrei prese parte – con il figlio stesso, e la moglie Ada – a qualcosa come un pellegrinaggio verso la famigerata pensione Iaccarino di via Romagna: là dove Franco, tratto in arresto alla fine di aprile, era sfuggito per un soffio alle torture di Pietro Koch e del suo Reparto speciale di polizia. Ecco l’ingresso della pensione da cui Franco era entrato in catene; ecco il «giardinetto con oleandri fioriti» dove il prigioniero, approfittando di una disattenzione dei po-liziotti collaborazionisti, si era gettato da una finestra al piano rialzato, riuscendo poi a dileguarsi oltre una cancellata. Senonché, nella Roma da poco libera, i pellegrinaggi sentimentali di un uomo come Calamandrei non potevano limitarsi a questo. Era inevitabile ch’egli sentisse il bisogno di spingersi sino alla «fossa della via Ardeatina», luogo di scempio che andava rapidamente trasformandosi in luogo di memoria.
Per una somma di pulsioni private e di pubbliche ragioni, capitò quindi a Calamandrei di avvertire doveroso l’omaggio sia all’attentatore di via Rasella, sia alle vittime della successiva rappresaglia. Logiche familiari e logiche politiche si combinarono per sottrarlo alla tentazione di insistere sulla responsabilità morale dei gappisti romani nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. In generale, con l’estate del ’44 il pensiero di Calamandrei conobbe un processo di radicalizzazione: piena fu la sua adesione alla richiesta azionista di una Resistenza inflessibile, di una guerra civile senza prigionieri. «Gli inglesi e il governo Bonomi sono troppo miti: i fascisti bisogna spengerli», a costo di «snida[rli] con lanciafiamme», era il commento del diarista alla notizia della liberazione di Perugia. Tuttavia, la sensibilità di Calamandrei inclinava meno all’elogio della violenza impartita e più al necrologio della violenza subita. Fin dalla giovinezza, quella del giurista-letterato era stata una poetica della morte e della resistenza alla morte; prima ancora della Grande Guerra, nell’Italia della belle époque, la sua poesia aveva ruotato intorno alle figure dei defunti anzitempo e della loro sopravvivenza spirituale nel mondo. Perciò, fu quasi giocoforza che il Calamandrei del ’44 si trovò ad abbozzare – senza ancora saperlo – il progetto di Uomini e città della Resistenza: «Quale lista di martiri, quando tutta la storia potrà essere raccontata!».
Ma un passo restava da compiere al professore fiorentino, prima di recuperare la propria vena funeraria per farsi ineguagliabile poeta di una Repubblica nata viva dai morti della Resistenza: gli restava da elevare il genere stereotipato del martirologio a riflessione originale intorno alla specificità storica del nazifascismo. È il passo che Calamandrei mosse nel corso medesimo del 1944, quando trasformò un invito editoriale dell’amico Pancrazi – in apparenza, poco più che una proposta erudita: scrivere per Le Monnier una prefazione a Dei delitti e delle pene di Beccaria – nell’occasione per un confronto intellettualmente serrato con alcuni caratteri distintivi della violenza nazifascista. Poiché Calamandrei percepì nettamente come le vittime di Hitler e di Mussolini non fossero, se così si può dire, vittime come le altre. La «carneficina d’Europa» alla metà del ventesimo secolo non andava confrontata con alcuna strage del passato; la tortura sistematicamente praticata sui corpi di «person[e]» ridotte a «cos[e]», la fucilazione in massa di «donne innocenti» e «bambini ignari», la deportazione di «popoli come mandrie», la messa a punto dell’«esterminio» quale «un’industria “razionalizzata”», rappresentavano un sovrappiù nella vicenda storica del male.
L’edizione Le Monnier di Beccaria uscì nelle librerie dell’Italia liberata il 17 gennaio 1945: quando la parte settentrionale del paese ancora si trovava sotto l’occupazione tedesca, e quando – molto più a nord – i cancelli di Auschwitz ancora non erano stati abbattuti dai blindati dell’Armata Rossa. Ma in anticipo sui ritmi della competizione militare, la prefazione del libretto conteneva il sugo di tutta la storia. Nel lessico ermeneutico di oggi, diremmo che Calamandrei identificò chiaramente l’essenza del nazifascismo come aberrazione biopolitica: irrimediabile attentato contro l’homo sacer, contro la sacralità della nuda vita. Annichilito il principio della personalità della pena, i carnefici di Berlino avevano oliato una macchina capace di gestire «la tortura metodicamente inflitta a popoli interi», «intere regioni accuratamente attrezzate da sale di supplizio». E se il colmo dell’efferatezza era stato raggiunto dagli aguzzini germanici nell’Europa centrale e orientale, i loro collaboratori di Salò avevano fatto il possibile per reggere il confronto al di qua delle Alpi.
Il nome di Piero Calamandrei va aggiunto a quello dei rari segnalatori d’incendio i quali – all’uscita dalla seconda guerra mondiale – riconobbero nell’«esterminio» un punto di non ritorno della storia universale. Nel decennio successivo il 1945, la sua voce di cantore della Resistenza sarebbe risuonata tanto più alta, quanto meglio Calamandrei sapeva che l’innocenza del mondo era perduta per sempre.
6. Monumenti
Il 7 ottobre 1945, nel piccolo comune di Bellona presso Caserta, venne inaugurato un monumento alla memoria dei cinquantaquattro abitanti del paese trucidati due anni prima in una feroce rappresaglia nazista. La cerimonia davanti alla lapide fu semplice e decorosa: benedizione del prete, discorso del sindaco. Un po’ discosto, defilato, l’unico personaggio davvero illustre presente quel giorno a Bellona, che era poi l’autore dell’epigrafe incisa a ricordo delle vittime: Benedetto Croce. Ma la discrezione dell’anziano filosofo non lo preservò dall’emozione: «Vedendo da un lato il folto gruppo delle persone vestite a lutto, madri, figlie e figli e padri degli uccisi, e udendo tra i repressi gemiti il prorompere di qualche grido angoscioso verso il monumento, “Papà! papà!”, mi sono commosso a segno da dover tergere le lacrime».
Quella di Bellona non fu la sola epigrafe che Croce ebbe a dettare alla memoria delle vittime di eccidi nazisti: fu invitato a scriverne un’altra per una lapide poco lontano, a Caiazzo; un’altra ancora a Santa Maria Capua Vetere, presso l’albero dove era stato impiccato un eroico sedicenne. Né Croce fu l’unico grande intellettuale che al riemergere dalla guerra accettò di contribuire al genere delle scritture epigrafiche, quali proliferarono ovunque in Italia e in Europa dopo la fine dell’occupazione tedesca. Alle nuove autorità locali, nei borghi e nelle città finalmente libere, dovette riuscire spontanea l’idea di rivolgersi a questo o quel letterato, affinché trovasse le parole per esprimere uno strazio comunitario altrimenti indicibile. Ai letterati, o comunque agli umanisti, dovette riuscire preziosa l’opportunità di trascendere il cordoglio rinnovando un genere fondativo della tradizione occidentale. Nel dopoguerra, «innumeri stele» furono dunque scolpite ai quattro angoli del continente, tragici segnaposti di un’inopinata geografia dell’orrore. In terra italiana, particolarmente memorabili apparvero gli epitaffi dettati da Piero Calamandrei: come quello, più di tutti famoso, murato il 21 dicembre 1952 nel Palazzo comunale di Cuneo, Il monumento a Kesselring.
Ma il filosofo di Napoli e il giurista di Firenze condividevano qualcosa di più che l’arte della retorica e la gravitas dei moralisti. Comune a entrambi era una forma di sensibilità che potremmo definire insieme archivistica e museale: la cura di conservare e di esporre le vestigia del passato, foss’anche un passato ignominioso. Così, per quanto le loro opinioni divergessero sull’interpretazione storica da dare del fascismo, Croce e Calamandrei precocemente misurarono il rischio che l’uscita dalla dittatura si traducesse nella dispersione del patrimonio culturale (o inculturale) prodotto dal regime. Già nel maggio del 1944, da ministro nel secondo governo Badoglio, Croce si adoperò per disciplinare l’«abbattimento dei monumenti fascistici», che s’andava compiendo «in modo tumultuario». Pochi mesi dopo, con eccezionale lungimiranza rispetto allo spirito del tempo, Croce immaginò addirittura un «futuro museo storico dell’età fascista». Per parte sua, già da prima dell’8 settembre Calamandrei aveva ragionato intorno al modo di conservare, ed eventualmente di esibire, fatti e misfatti del fascismo. Nel ’48, il progetto assunse la forma – molto provvisoria, per la verità – di una rete di biblioteche che valessero da «archivi dell’“antiresistenza”».
Dalla Liberazione in poi, «Il Ponte» fu anche questo: una specie di supporto cartaceo al quale appendere gli orrori del fascismo. Sulla rivista, Calamandrei pubblicò persino il testo di lapidi finte. Come l’epigrafe immaginaria ch’egli volle dettare dopo le elezioni politiche del 7 giugno 1953, quando varcarono l’ingresso di Montecitorio – da deputati del Msi – alcuni veterani del Ventennio e di Salò: a cominciare da quel Filippo Anfuso che era stato coinvolto, nel 1937, nell’assassinio dei fratelli Rosselli, prima di solidarizzare con Goebbels e la nomenklatura nazista in qualità di ambasciatore italiano a Berlino. Per l’occasione, il direttore del «Ponte» non esitò a sollecitare un «raccoglitore di curiosità storiche», Carlo Galante Garrone, affinché ristampasse sulla rivista, tali e quali, vecchi scritti o discorsi di Anfuso e degli altri gerarchi fascisti trionfalmente rientrati a Montecitorio. Quasi altrettanto che di elevare un monumento materiale e immateriale alla Resistenza, premeva infatti a Calamandrei di elevare un monumento infamante all’Antiresistenza. E l’etimologia latina della parola monumento lo confortava in tale duplice intenzione, in quanto conteneva, con la nozione di un ricordo del passato, quella di un monito rispetto all’avvenire.
Per Calamandrei forse più che per qualunque altro intellettuale italiano dell’epoca, tutto ciò aveva a che fare con la Shoah: non ce ne stupiremo, dopo averlo individuato come uno dei rari «segnalatori d’incendio» nel distratto Occidente post-bellico. Ad aprile del 1945, la prima pagina del primo numero del «Ponte» contenne una descrizione dei campi di sterminio così vivida da risultare stupefacente, ove si consideri che fu scritta quando fotografie e filmati dei Lager ancora non avevano preso a circolare nell’Europa liberata. Pochi mesi dopo, enumerando i cinquantacinque milioni di vittime della seconda guerra mondiale, Calamandrei evocò anzitutto le ombre dei prigionieri «sigillati senza cibo e senz’acqua nel carro bestiame», dei deportati «spinti in ordine chiuso nelle camere a gas». A qualche anno di distanza, il direttore del «Ponte» indugiò sui «magazzini di balocchi usati» che si conservavano «come sale di museo» presso i crematori di Auschwitz. Oggi queste cose fanno parte integrante della nostra memoria collettiva; al tempo in cui Calamandrei le metteva nero su bianco, Primo Levi faticava a trovare un editore disposto a stampare Se questo è un uomo.
Il bisogno che Calamandrei avvertiva di esporre (nel duplice significato del termine: raccontando e mostrando) le nefandezze del nazifascismo, fu all’origine di un’idea ch’egli ebbe per «Il Ponte» nel 1948, in occasione del decimo anniversario delle leggi razziali di Mussolini: ripubblicare il Manifesto della razza accompagnandolo – «perché la loro gloria non si estingua» – con i nomi di coloro che lo avevano firmato. Nel numero d’ottobre di quell’anno, sulla rivista comparvero effettivamente alcuni stralci del manifesto del ’38, sia pure senza la menzione dei firmatari. Di lì a poco, Calamandrei tornò a sollecitare Carlo Galante Garrone, questa volta per una ricerca storica, appunto, sul razzismo fascista. Al giudice torinese, il direttore del «Ponte» chiedeva di fare luce sulle origini politiche della campagna razziale, sulla maniera in cui la magistratura si era prestata a contribuirvi, sulla teoria e sulla prassi delle discriminazioni, su «quell’altra misteriosa faccenda delle arianizzazioni». Proponeva uno «spoglio accurato delle riviste e dei giornali», «per vedere chi scriveva articoli feroci contro gli ebrei, chi speculava sui loro dolori…». E forse non sapeva, Calamandrei, che fra quanti avevano scritto di questioni razziali era un uomo ch’egli considerava suo pupillo, che gli era amico e collaboratore, che sarebbe stato il suo biografo: il fratello stesso di Carlo, Alessandro Galante Garrone. Anch’egli giudice del tribunale di Torino, nel ’39 aveva discusso di ariani e di ebrei, di cattolici e di catecumeni, di matrimoni misti e di battesimi fasulli, sulla «Rivista del diritto matrimonale italiano e dei rapporti di famiglia».
Magistrato di fermo sentire antifascista, Galante Garrone si era quasi certamente ripromesso – commentando una sentenza della Corte d’Appello di Torino sulle modalità di «accertamento della razza» – di identificare alcuni strumenti giuridici che riducessero al minimo l’ambito di applicabilità delle leggi antiebraiche: aveva inteso cioè sottrarre spazio giurisdizionale al ministero dell’Interno, restituendo competenza decisionale al potere formalmente indipendente dei giudici. Ma la semplice scelta di intervenire in punta di diritto sopra una questione del genere aveva autorizzato certi fascisti a dedurne che risultava comunque ammessa la plausibilità giuridica della legislazione razziale; dunque a concludere, trionfalmente, che esperti di ogni specie ne riconoscevano la legittimità politica. Tale fu il ragionamento dei redattori di un neonato periodico dal titolo assai parlante, «Il Diritto razzista»: i quali, a insaputa dell’autore, pensarono bene di riprodurne il commento sulle pagine della loro propria rivista, ed ebbero buon gioco nel sottolineare l’importanza del contributo prestato alla causa antisemita dal «camerata Alessandro Galante Garrone».
Fra i componenti il comitato scientifico del «Diritto razzista» figurava nientemeno che Santi Romano, professore ordinario dell’università di Roma nonché presidente del Consiglio di Stato: un autentico luminare del diritto costituzionale e amministrativo, giurista fra i massimi del nostro Novecento, arruolato da un pugno di carneadi per fregiare con il suo nome la copertina di una rivista svergognata e vergognosa. Legislazione razziale a parte, la dittatura mussoliniana era durata troppo a lungo nel tempo, e aveva infiltrato troppo a fondo la società italiana, per non produrre tra fascisti e antifascisti forme di collaborazione o di accomodamento, con un inevitabile séguito di appropriazioni politiche e di travisamenti morali. Piero Calamandrei in persona non aveva forse prestato aiuto al ministro della Giustizia di Mussolini, Dino Grandi, per mettere a punto la riforma del Codice di procedura civile promulgato nel 1942? È ben vero che in tale codice fascista egli aveva tenuto a infondere tutto quanto aveva imparato dai suoi maestri liberali sulla legalità del processo e sulla funzione del giudice; ed è ben vero che nel medesimo torno di anni, dopo avere militato nel movimento clandestino di Giustizia e Libertà, egli aveva contribuito alla nascita del Partito d’Azione. In ogni caso, dopo il 1945 l’argomento di una collaborazione puramente tecnica al codice Grandi – quale Calamandrei lo aveva addotto prima di tutto a se stesso, scrivendone a più riprese nel diario – poteva ben apparire una coperta troppo corta per mascherare la realtà di un’expertise politicamente significativa. Quanti fra i soloni dell’Italia libera erano scesi a patti con il regime fascista! Calamandrei compreso, come ricordava un intellettuale «epurato», lo storico Gioacchino Volpe.
Nous sommes tous des ci-devant: la formula impiegata da un giornalista del Direttorio a proposito della Francia post-termidoriana calzava a pennello per l’Italia post-fascista. In un modo o in un altro, tutti i cittadini della neonata Repubblica erano uomini ex. Il che contribuiva a spiegare quanto pure suscitava, con la delusione di tanti ex partigiani, lo scandalo di tanti ex azionisti: il fatto che l’antifascismo e la Resistenza scaldassero il cuore di pochi, nell’Italia dei tardi anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta. Più in generale, il tono liquidatorio che gli ex azionisti riservavano alla linea politica di De Gasperi e della Democrazia cristiana – bollandola come una versione aggiornata del clericofascismo – riusciva gravemente inadeguato sia rispetto ai meriti intrinseci di quella politica, sia rispetto alla domanda di cambiamento che saliva dalla società civile. Si voleva allora guardare avanti piuttosto che volgersi indietro; si voleva costruire il futuro piuttosto che rivangare il passato; si voleva ricominciare a vivere piuttosto che reimparare a morire. E Piero Calamandrei, volente o nolente, se ne rendeva conto. Verso la fine del 1947 aveva bensì pensato di porre mano a «una specie di antologia» delle «cose più belle» sulla Resistenza; aveva presto rinunciato al progetto, poiché nell’intera penisola non vi sarebbe stato un solo editore «disposto a pubblicare un’opera così lontana, in questo momento, dai gusti del pubblico».
7. In stile lapidario
Quell’editore, Calamandrei lo trovò sette anni più tardi (con l’unica differenza che nella specie di antologia le cose più belle sulla Resistenza, anziché scaturire da più penne, vennero tutte dalla sua): fu Vito Laterza, giovane dirigente della casa editrice che per mezzo secolo era stata di Benedetto Croce. All’approssimarsi di una scadenza significativa – nel 1955 ricorreva il decimo anniversario della Liberazione – la Laterza aveva mobilitato una piccola schiera di intellettuali di provenienza genericamente ciellenista per una riflessione senza eufemismi intorno ai caratteri e ai limiti della «vita democratica italiana»: come recitava il sottotitolo del corposo volume messo fuori per il 25 aprile, Dieci anni dopo. Anima dell’iniziativa era stato Leo Valiani, e Calamandrei vi aveva contribuito con un impegnativo saggio sulla Costituzione. Fu nell’ambito dei rapporti intrattenuti con Vito Laterza per la preparazione di tale volume collettivo che Calamandrei concepì l’embrione di Uomini e città della Resistenza:
Già che le scrivo vorrei sottoporle un’idea. In questi ultimi anni mi è avvenuto moltissime volte (circa una ventina) di dover dettare epigrafi che ricordano eventi o figure della Resistenza, alcune delle quali, come quella per il monumento a Kesselring, ho visto riprodotte a mia insaputa e affisse nei più svariati luoghi d’Italia. Mi sono persuaso che questa rievocazione in stile lapidario di episodi degni di esser ricordati dal nostro popolo può avere una notevole forza suggestiva; per questo avrei pensato se non fosse il caso di raccogliere queste epigrafi in un volumetto, magari accompagnandole con disegni, uno per ciascuna, di Carlo Levi (se egli fosse disposto a farli). Che ne dice?
È una lettera istruttiva, che dimostra quanto – nella logica culturale e morale di Calamandrei – la meditazione sulla Resistenza fosse esposizione della Resistenza, e la parola su di essa fosse gesto. Riflessi pavloviani di un avvocato, aduso alla scenica e alla mimica della vita forense? No, molto di più. Tanto è vero che il progetto originario del «volumetto» pareva non poter prescindere dal contributo di Carlo Levi: un artista che era anche un moralista (oltreché un ex azionista), e che fin dal ’44 era andato cercando una sua maniera antiretorica per figurare l’esperienza resistenziale.
Quale si conserva presso gli archivi della casa editrice, la successiva corrispondenza fra Calamandrei e Laterza documenta nel dettaglio la genesi di Uomini e città della Resistenza. L’editore aderì alla proposta con entusiasmo. All’autore, che titubante gli domandava se l’immaginato volume avesse «qualche probabilità di interessare il pubblico», rispondeva senza esitare che in ogni caso, «a parte l’interesse» dei potenziali lettori, un libro simile rappresentava il più degno dei contributi possibili alla celebrazione del decennale repubblicano. Peraltro, Vito Laterza invitò Calamandrei ad «andare al di là» del progetto originario, accompagnando ciascuna epigrafe con un racconto più disteso dell’episodio o del momento ricordato dal testo epigrafico. A fronte della ritrosia di Calamandrei a impegnarsi in una vera e propria ricostruzione storica, l’editore gli suggerì di raccogliere in volume, con le epigrafi, i principali discorsi ch’egli aveva dedicato alla Resistenza: «allora le due parti si integrerebbero a vicenda e ne verrebbe un insieme di interesse veramente unico». Calamandrei accettò; e sua fu la proposta di «intercalare» i discorsi e le epigrafi. Il titolo venne suggerito invece da Laterza, così come l’ordinamento interno del volume.
…
L’autore
Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, scrittore e uomo politico, fu tra i fondatori del Partito d’Azione e tra gli artefici della Costituzione repubblicana. Nel 1945 fondò a Firenze la rivista “Il Ponte”, animando il dibattito politico, culturale e civile del primo decennio della Repubblica. Nel catalogo Laterza anche: Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) (a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato); Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) (con Franco Calamandrei, a cura di Alessandro Casellato); Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei); Non c’è libertà senza libertà senza legalità; Il fascismo come regime della menzogna.
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