Descrizione del libro di Ilse Aichinger- La speranza più grande-Sullo sfondo di una città in guerra Ellen, una ragazzina per metà ebrea, fa amicizia con un gruppo di coetanei «con i nonni sbagliati». Tra giochi, paure, sogni, desiderio di fuga e addii, Ellen e i suoi compagni fanno esperienza della crudele realtà della persecuzione razziale e della minaccia costante della deportazione e della morte, affrontando un mondo assurdo e incomprensibile. La speranza iniziale di una fuga possibile, al di là dell’oceano, sembra destinata a svanire entro gli angusti e invalicabili confini della città assediata, ma si trasforma in una speranza più grande – forse meno terrena della prima, ma non per questo meno tangibile – che dischiude la possibilità di raggiungere la terra promessa, «dove tutto diventa azzurro». Un viaggio in dieci stazioni nelle pieghe profonde dell’esistenza e di una Vienna ferita, raccontato dalla voce corale dei perseguitati, sul crinale di una quotidianità che sconfina nella dimensione del sogno. Il romanzo di Ilse Aichinger è un coraggioso atto di resistenza al nulla esistenziale, un gesto di interrogazione del mondo e della lingua volto a restituire alla realtà devastata dalla guerra un senso nuovo, e a indicare, come fa la stella di David con Ellen, una strada da seguire.
L’autore-Ilse Aichinger
Ilse Aichinger è nata a Vienna il 1° novembre 1921 da un’insegnante austriaca e da un medico di origine ebraica. Trascorre gli anni della Seconda guerra mondiale a Vienna insieme alla madre, mentre la sorella gemella, la pittrice Helga Michie (1921-2018), riesce a emigrare in Inghilterra. Nel 1942 gran parte della famiglia materna viene deportata e uccisa nel campo di sterminio di Malyj Trostenec. Uscito nel 1948, La speranza più grande è il primo e unico romanzo di Ilse Aichinger. Autrice di numerosi racconti, radiodrammi, poesie, aforismi e diari, Aichinger partecipa agli incontri del Gruppo 47, vincendo il premio nel 1952 con il racconto Spiegelgeschichte (Storia allo specchio). Nel 1953 sposa il poeta e drammaturgo tedesco Günter Eich. Insignita di molti e prestigiosi premi, nel 1995 riceve il Großer Österreichischer Staatspreis, premio di Stato austriaco per la letteratura. Muore a Vienna l’11 novembre 2016
Ilse Aichinger-La speranza più grande
Traduzione di Ervino Pocar A cura di Matteo Iacovella
Descrizione del libro di Lorenzo Tibaldo-Nato in una famiglia di minatori di tradizioni repubblicane e antifascista convinto, Jacopo Lombardini (Gragnana, 1892-Mauthausen, 1945) ha dedicato la sua vita alla causa della libertà, rappresentando la parte migliore della storia dell’Italia, quella democratica e repubblicana che si esprime nella Costituzione. Alimentate dalla fede evangelica, cui Lombardini si converte nel 1924, le sue idee –– che trovano la loro radice in Mazzini, Garibaldi e nell’epopea risorgimentale – si riaffermano in seguito nella lotta partigiana contro il nazifascismo. Una coerenza di scelte di vita che lo porta alla morte nel campo di sterminio di Mauthausen, dove viene gasato il 24 aprile 1945, alla vigilia della Liberazione.
Il libro in pillole
La cultura come madre della responsabilità e del senso del dovere
L’anelito verso la libertà e la giustizia
Il rapporto tra coscienza religiosa e libertà politica
Biografia dell’autore
Lorenzo Tibaldo
studioso di storia dell’Ottocento e Novecento, in particolare delle organizzazioni del movimento dei lavoratori e della Resistenza. Per Claudiana ha pubblicato Quando suonò la campana. Willy Jervis (1901-1944), (Torino, 2005); Sotto un cielo stellato. Vita e morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti (Torino, 2008).Lorenzo Tibaldo ci propone questo suo secondo libro su un martire evangelico della Resistenza1 in un momento particolar- mente difficile della vita nazionale: da una parte il Paese attra- versa una fase di crisi economica, politica, morale (e spirituale), dall’altra parte molti italiani sono ben disposti a celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia anche se qualcuno contesta il Risorgi- mento, e soprattutto quel secondo Risorgimento che è stata la Resistenza.
Prefazione di Giorgio Bouchard
Orbene, la bella e tragica vicenda di Jacopo Lombardini ci presenta un prezioso filo conduttore tra i due Risorgimenti; e questo filo è la fede evangelica: una fede scoperta a trent’anni e poi collaudata in mezzo alle più orride vicende del «secolo della menzogna», il Novecento.
1 Il primo è stato Lorenzo Tibaldo, Quando suonò la campana. Willy Jervis (1901-1944), Torino, Claudiana, 2005. È invece dedicato a due «martiri laici» il volume L. Tibaldo, Sotto un cielo stellato. Vita e morte di Nicola Sacro e Bartolomeo Vanzetti, Torino, Claudiana, 2008.
Ma andiamo con ordine: Lombardini, per così dire, «nasce mazziniano»: figlio di poverissimi cavatori delle Apuane, non milita nelle file degli anarchici così numerosi (e perseguitati) a Carrara e dintorni, ma appunto nelle file dei repubblicani. Il motivo di questa scelta sta in un fatto molto semplice: suo padre è stato garibaldino, e costituisce per lui una sorta di “cordone ombelicale” con la stagione del Risorgimento: fin da ragazzo, Jacopo si trova così perfettamente a suo agio con le idee di Giu- seppe Mazzini, con la sua passione democratica e con il suo af- flato morale, anzi, spirituale: giustamente, Tibaldo, sulla scorta di studi recenti, mette in rilievo il versante religioso del messag- gio mazziniano2: un messaggio che spinge alla lotta politica ma non preclude nessuno sviluppo interiore e spirituale.
Così, Jacopo sarà un militante politico per tutta la vita, ma non sarà mai vittima di quelle tentazioni immanentistiche che hanno compromesso e indebolito la causa per cui lottavano tan- ti generosi rivoluzionari del Novecento.
Con la consueta discrezione, Tibaldo ci suggerisce una pista di riflessione che ci permette di capire la personalità poliedri- ca di Lombardini: povero maestro licenziato (e bastonato), ri- dotto a vivere di lezioni private, Jacopo è in realtà soprattutto uno scrittore, alla pari di quel Ceccardo Roccatagliata Ceccardi che gli fu tanto amico: torniamo così a rileggere con emozione quei romanzi che avevamo scoperto settant’anni fa nelle aule del Collegio valdese, ma soprattutto leggiamo per la prima vol- ta i suoi brevi articoli pubblicati su “La Luce” e su “L’Eco delle Valli Valdesi” a cui si affiancano le indimenticabili predicazioni dell’epoca partigiana.
In questi libri, articoli, sermoni – visibilmente scritti e pen- sati da un toscano – affiorano costantemente due temi: la fede e la storia. La fede è arrivata nella vita di Jacopo, molto pro-
2 Vedi in part. M. Viroli, Come se Dio ci fosse. Religione e libertà nella storia d’Italia, Torino, Einaudi, 2009. A parte il titolo francamente infelice (ma quan- do smetteremo di mimare quel grande intellettuale liberal-protestante che fu Ugo Grozio?), si tratta di un saggio pieno di idee che ci stimolano e ci costrin- gono a una risposta.
testanticamente, attraverso la predicazione: un sermone del pastore valdese Seiffredo Colucci casualmente (casualmente?) ascoltato nella chiesa metodista di Carrara3. Di questa chiesa Lombardini sarà membro per quasi vent’anni: «predicatore lo- cale», evangelizzatore instancabile, fratello sereno e disponibile, porterà con sé per tutta la vita la tipica spiritualità del Risveglio metodista: la meditazione, la preghiera, l’apertura indiscrimi- nata verso chiunque sia nel bisogno, l’attenzione costante ai problemi sociali.
La storia, in cui pure Jacopo fu sempre politicamente impe- gnato, gli arrivò invece dalla scoperta delle Valli valdesi. Tibaldo riporta due testi in cui Lombardini esprime il suo amore stu- pefatto per quelle Valli4. Idealizza un po’ quei tenaci montana- ri, ma nella sostanza non sbaglia: di lì effettivamente è passata molta storia della testimonianza evangelica in Italia e ha lasciato tracce indelebili. Quando scrive quelle righe commosse, Jacopo non sa che toccherà proprio a lui scrivere una nuova pagina di quella storia, e la scriverà con i suoi sermoni, con la sua cultura, e infine con il dono della sua vita: un dono sereno e generoso, com’era lui.
Un grosso merito di questo libro è che Tibaldo fa spesso parlare i testimoni oculari: valorosi partigiani che a diciott’an- ni proprio da Jacopo furono spinti alla militanza; compagni di sventura a Mauthausen; semplici conoscenti.
In qualche caso si tratta di documenti scritti dai protagonisti, ma in altri casi si tratta di apposite interviste: a dire il vero, esse sono i testi che leggiamo con maggiore emozione.
3 Seiffredo Colucci ha dialogato con Lombardini nei momenti cruciali della sua vita: la conversione e la Resistenza. Le testimonianze scritte del pastore Co- lucci sono di grande valore per una piena comprensione dell’animus di Jacopo.
4 Questo amore traspare anche in alcuni romanzi di Lombardini: soprat- tutto ne La croce ugonotta (Torre Pellice, 1943). Ma chi è stato suo allievo non dimenticherà mai il “tono” con cui Jacopo accompagnava gli studenti a visitare i «luoghi storici valdesi»: Pradeltorno, Chanforan, la Ghieisa d’la tana, la Gia- navella, Sibaud.
Il libro di Tibaldo ha però anche un altro versante: inqua- dra la vicenda di Lombardini nel contesto del valdismo «anni Trenta», esponendo ampiamente le tesi del Viallet5. Apparten- go al gruppo di responsabili che ha approvato la pubblicazione di questo libro, e non me ne pento. A distanza di 25 anni mi permetto tuttavia qualche nota marginale, che aggiungo alle ri- serve critiche espresse da Tibaldo: è vero, i valdesi (e gli altri evangelici) non sono stati proprio coraggiosi come gli amici di Daniele nella fornace ardente6, ma vivevano in un momento in cui autorevoli osservatori dichiaravano che quella fornace non era poi tanto calda, oppure la trovavano addirittura interessan- te: tali erano per esempio Bernard Shaw, secondo il quale «l’one- sta dittatura fascista è meglio dell’ipocrita democrazia inglese», ed Emmanuel Mounier che tornava entusiasta da un congresso di giovani fascisti tenuto a Roma. A questi sublimi ingegni mi permetto di contrapporre Enrico Tron, pastore di San Germano Chisone e membro della Tavola valdese: Pietro Arca “appunta- to” dei carabinieri, aveva l’incarico di chiacchierare spesso con il pastore per farlo “cantare”. Tron aveva infatti fama di antifasci- sta filoinglese e aveva tenuto ostinatamente chiusa la sua chie- sa il giorno della proclamazione dell’impero fascista (9 maggio 1936). In paese c’era però un’altra chiesa, che aveva accolto il corteo dei labari fascisti… sfavillante di luci. Ma il pastore non “cantò” e invece l’appuntato Arca sposò un’evangelica e divenne poi, con la sua famiglia, membro fedele della chiesa valdese di Ivrea. La storia, come la vita, è infatti piena di imprevisti che non è il caso di trascurare.
Condivido invece una tesi che Viallet riprende da Mastro- giovanni ed è l’aperto antifascismo del giovane teologo Vittorio Subilia: il suo coraggio è stato confermato da recenti pubblica-
5 J.P. VialleT, La chiesa valdese di fronte allo Stato fascista, Torino, Claudiana, 1985.
6 Daniele 3,1-30.
zioni7 e rimane un monito per noi che viviamo in tempi quasi egualmente difficili.
Quest’anno corre il centesimo anniversario della nascita di Subilia: quando ricorderemo la sua (fondamentale) attività di pastore e di teologo, cercheremo di ricordarci anche del suo co- raggio civile.
Ringraziamenti
Si ringraziano Giorgio Bouchard, Sergio Coalova, Donatella Gay Rochat e Giulio Giordano per i suggerimenti dati alla stesura del libro.
Per la documentazione iconografica il nostro ringraziamento va a Sergio Benecchio, Marcella Gay, Anna Pennisi della Biblioteca comu- nale di Carrara, e Letizia Tomassone, pastora della Chiesa evangelica di Carrara.
INDICE
Prefazione di Giorgio Bouchard 7
La pietra della miseria 17
Con Garibaldi e Mazzini 33
L’immensità della fede 51
Una fede concreta 61
Le Valli della libertà 83
La fragilità dell’anima 99
Uno sperone roccioso 115
La collina della morte 137
La memoria dei giusti 155
Bibliografia essenziale 175
Indice dei nomi 179
SCHEDA. Jacopo Lombardini (1892-1945)
Di Agenzia NEV
Jacopo Lombardini nasce il 13 dicembre 1892 a Gragnana, frazione di Carrara, e viene ucciso nel campo di concentramento di Mauthausen il 25 aprile 1945, in una camera a gas, insieme ad altri giovani deportati, partigiani ed ebrei.
Figlio di Francesco Lombardini e Assunta Mussetti, Jacopo cresce in una famiglia poverissima di cavatori di marmo. Finite le elementari, Lombardini vuole continuare gli studi, che poi è costretto a interrompere, riuscendo tuttavia a ottenere la licenza magistrale. Studia inoltre per alcuni anni alla Facoltà di teologia di Roma, che abbandona nel 1924.
Dotato di una memoria prodigiosa, Lombardini è il maestro per antonomasia. La sua passione di educatore lo accompagnerà sempre, insieme alla sua straordinaria preparazione letteraria e storica. Il suo primo volume in rime esce quando Lombardini ha 16 anni, è quindi letterato, poeta, predicatore, scrittore. Scrive Giorgio Bouchard nella prefazione alla biografia “Il viandante della libertà“, curata da Lorenzo Tibaldo per Claudiana: “In questi libri, articoli, sermoni – visibilmente scritti e pensati da un toscano – affiorano costantemente due temi: la fede e la storia”.
La fede, anzi la “conversione” come da lui stesso definita, è arrivata nella vita di Lombardini con un sermone ascoltato nella chiesa metodista di Carrara. Di questa chiesa Lombardini sarà membro per quasi vent’anni. Il sermone è del pastore valdese Seiffredo Colucci, che quel giorno sostituisce il pastore titolare.
Del metodismo, prosegue Bouchard, il Lombardini “predicatore locale, evangelizzatore instancabile, fratello sereno e disponibile, porterà con sé per tutta la vita la tipica spiritualità del Risveglio metodista: la meditazione, la preghiera, l’apertura indiscriminata verso chiunque sia nel bisogno, l’attenzione costante ai problemi sociali. La storia, in cui pure Jacopo fu sempre politicamente impegnato, gli arrivò invece dalla scoperta delle Valli valdesi”.
La sua figura “rimane nel nostro cuore – come in quello di centinaia di partigiani, lavoratori, di studenti – come la parabola di una dialettica coniugazione tra fede evangelica e responsabilità politica, tra pietà e razionalità, tra fragilità dell’uomo e forza delle idee, tra sconfitta personale ed efficacia storica, in una parola: una vita vissuta unicamente per grazia, la vita di un discepolo di Gesù Cristo” scrive, sempre Bouchard, nella prefazione al volume “Un protestante nella resistenza: Jacopo Lombardini” di Salvatore Mastrogiovanni (Claudiana). In questo libro, ormai fuori catalogo, sono raccolte anche le trascrizioni di parti dei “Quaderni” di Lombardini. Tre “diari”, uno probabilmente affidato al defunto professore Samuele Tron, pubblicato dopo la guerra. Il secondo, rimasto sepolto sotto terra per molti mesi, poi restaurato dalla Biblioteca nazionale di Torino. Il terzo trovato addosso a Lombardini il giorno della cattura, usato dai suoi aguzzini per gli interrogatori e poi ritrovato a Pinerolo dai partigiani della divisione Val Chisone dopo la Liberazione. I Quaderni presentano e raccontano la Banda partigiana, gli aforismi, le storie, gli attacchi, le spedizioni, i bombardamenti, i compagni e le compagne di lotta.
9 aprile 1928, Bocca di Magra. Jacopo Lombardini fra i soci dell’Associazione Cristiana dei Giovani (ACDG), il corrispettivo italiano della Young Men’s Christian Association (YMCA). Immagine tratta dal libro “Un protestante nella resistenza: Jacopo Lombardini” di Salvatore Mastrogiovanni (Ed. Claudiana).
Nel 1915 Lombardini si iscrive al Partito repubblicano. Mazziniano convinto (in casa si affianca la croce al ritratto di Mazzini), scoppiata la Prima guerra mondiale, Lombardini inizialmente si dichiara interventista. Pronto ad affrontare anche la morte, viene riformato più volte e poi arruolato in fanteria. A giugno 1918, in virtù delle sue doti intellettuali, viene nominato propagandista e trattenuto al comando, praticamente senza mai entrare in trincea. A seguito della morte improvvisa del padre, rientra a Carrara poco prima della fine della guerra. Gli anni ’20 sono per Lombardini gli anni della conversione, ma anche quelli in cui il fascismo lo estromette dall’insegnamento per via delle sue opinioni politiche. Nel 1940 si trasferisce a Torino, diventa membro della Chiesa valdese e viene assunto come maestro nel Convitto valdese. Nel 1943 aderisce al Partito d’Azione e si unisce poi alla lotta partigiana. Partigiano disarmato, con il nome in codice di “Professore”, la sua lotta di Resistenza si esprime come commissario politico, continuando sia la predicazione evangelica sia la contro-informazione antifascista. Viene catturato nel rastrellamento del 24 marzo 1944 in Val Germanasca, dalle SS tedesche e da fascisti italiani. Lombardini è brutalmente torturato insieme a Giancarlo Levi, Emanuele Artom, Silvio Rivoir, Mariano Palmery e altri. Da Bobbio Pellice viene trasferito al carcere di Torino, poi a Fossoli, a Bolzano e il 5 agosto viene deportato al Campo di concentramento di Mauthausen, dove sopravvive per diversi mesi. Viene ucciso il 25 aprile 1945, proprio nel giorno della Liberazione.
Nel dopoguerra viene conferita la Medaglia d’argento alla memoria di Jacopo Lombardini, “Uomo di cultura e patriota di sicura fede fu, subito dopo l’armistizio, animatore infaticabile della lotta di liberazione in Val Pellice e in Val Germanasca, conosciuto ed amato dai giovani che andava ammaestrando nella fede alla Libertà ed alla Patria. Caduto in mani tedesche nel corso di un duro rastrellamento e crudelmente seviziato, manteneva contegno elevato ed esemplare affrontando sempre con cristiana serenità il duro calvario dei campi di concentramento. Barbaramente suppliziato chiudeva l’esistenza nel servizio dei più nobili ideali.”
Il 21 aprile 2023, su iniziativa di una classe del Liceo valdese di Torre Pellice e in collaborazione con altre realtà e istituzioni, viene scoperta una pietra d’inciampo in sua memoria.
A Lombardini sono state intitolate, fra l’altro, una scuola e il Centro Jacopo Lombardini di Cinisello Balsamo, prima “comune“, poi centro promotore di attività educative, culturali e di integrazione.
Roberto Fiorini- Dietrich Bonhoeffer- Testimone contro il nazismo
GABRIELLI EDITORI – San Pietro in Cariano (Verona)
Descrizione- Questo libro di Roberto Fiorini lo si legge tutto d’un fiato. Per tre motivi. Il primo è che il suo contenuto – la storia di Dietrich Bonhoeffer, qui raccontata nei suoi momenti cruciali – possiede un grande potere di attrazione ed esercita su chi ne viene a conoscenza un fascino unico: non ci si stanca di sentirne parlare e non è facile staccarsi da una figura come la sua. Il secondo motivo è che in questo libro Bonhoeffer è molto più soggetto che oggetto. L’Autore, ovviamente, parla di lui, ma, soprattutto, fa parlare lui; e quando Bonhoeffer parla, è difficile non stare ad ascoltarlo; la sua parola è avvincente tanto quanto la sua vita, anche perché, mentre lo si ascolta, si ha l’impressione che ci parli non dal passato, ma dal futuro, come se quest’uomo fosse oggi più avanti di noi, ci precedesse e anticipasse: il suo discorso sul futuro del cristianesimo dopo la «fine della religione» (che in realtà non sembra finita), resta oggi più ancora di allora di un interesse palpitante. Ma c’è un terzo motivo per cui questo libro lo si legge tutto d’un fiato: è lo speciale punto di vista, inconsueto, ma accattivante, di chi ha imparato a «guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospettati, dei maltrattati, di chi non ha potere, degli oppressi e dei derisi – in una parola dei sofferenti» in un itinerario che lo ha portato sino al “caso limite”, cioè alla sua diretta opposizione alla politica distruttiva del nazismo e alla conseguente salita sul patibolo 75 anni fa, il 9 aprile 1945.
Ora, in diverse parti d’Europa ritornano simboli, messaggi e organizzazioni politiche che evocano quei tempi oscuri nei quali la disumanità raggiunse dei picchi inimmaginabili. La chiarezza, la determinazione e l’intelligenza della fede con le quali Dietrich Bonhoeffer affrontò quell’”ora della tentazione” sono preziosi anche oggi per un discernimento più che mai necessario. Il suo amico e confidente Eberhard Bethge disse: «Bonhoeffer non è alle nostre spalle, ma è ancora davanti a noi». Bonhoeffer è stato e resta un testimone per chiunque si accinga a percorrere la «via stretta» (Matteo 7,14) della fede e della vita cristiana. Questo libro di Roberto Fiorini lo conferma in maniera egregia. (Dalla Prefazione del prof. Paolo Ricca)
Biografia di Roberto Fiorini, ordinato prete a Mantova nel 1963.Dal 1966 al 1972 ha svolto l’incarico di assistente provinciale delle Acli e dal ’68 al ’72 insegnante di religione nelle scuole superiori. Nel 1972, dopo un corso di infermiere generico, scelse di entrare nel mondo del lavoro. Fu assunto nel 1973, come dipendente all’Ospedale Psichiatrico di Mantova. Dopo il diploma di infermiere professionale ha operato nei servizi territoriali dell’ASL, in un distretto sanitario e infine come coordinatore infermieristico all’assistenza domiciliare. Negli anni ’80-‘90 ha insegnato etica professionale nei corsi di formazione degli infermieri allora gestiti dalla CRI di Mantova. Dal 1983 al 1989 è stato segretario dei preti operai italiani e dal 1987 è responsabile della rivista Pretioperai. Ha frequentato i corsi di studi ecumenici a Verona e a Venezia con tesi di licenza su “Theologia crucis in Dietrich Bonhoeffer”. Dal 1995, su richiesta dell’associazione, è consulente teologico del Segretariato Attività Ecumeniche (SAE) di Mantova. Dal 2010 ricopre l’incarico di assistente spirituale delle Acli provinciali. Nel 2015 ha pubblicato “Figlio del Concilio. Una vita con i preti operai”. Con altri (G. Miccoli, F. Scalia, R. Virgili, A. Rizzi), “Servizio e potere nella chiesa”, Gabrielli editori 2013.
GABRIELLI EDITORI – Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona)
Hannah Arendt, La banalità del male : Eichmann a Gerusalemme
Tradotto da Piero Bernardini- Prefazione di Ezio Mauro-
Feltrinelli Editore
Descrizione- Sono passati sessant’anni da quando questo libro di Hannah Arendt uscì per la prima volta. Il resoconto del processo a Eichmann, con la sua analisi di come lo sterminio di gran parte degli ebrei d’Europa – una delle più terribili manifestazioni del Male – si fosse concretizzata a opera di uomini normalissimi, non ha perso nulla della rilevanza che aveva nel 1963. Anzi, se possibile, il suo valore si è andato accrescendo, suffragato da numerosi drammatici esempi di crudeltà e massacri perpetrati da organizzazioni e Stati che fondavano (e fondano) il perseguimento dei crimini più atroci su individui come Eichmann: persone sprovviste di qualsiasi tipo di eccezionalità, semplicemente concentrate sulla corretta esecuzione del compito loro assegnato dall’autorità. Il Male che Eichmann incarna, infatti, appare alla Arendt “banale”, e perciò tanto più terribile, perché i suoi servitori più o meno consapevoli non sono che piccoli, grigi burocrati. I macellai di questo secolo non hanno la “grandezza” dei demoni: sono dei tecnici, si somigliano e ci somigliano. È una verità che ciascuno è chiamato a tenere presente, specialmente in un’epoca di rinnovate tensioni, guerre e atrocità, come quella che stiamo vivendo. L’onestà intellettuale che Arendt mette in campo in questo libro, e che le valse anche diversi attacchi dallo stesso mondo ebraico, è l’unica arma che ci permette di riconoscere il Male, anche nelle sue forme più banali, quelle che potrebbero allignare in ciascuno di noi.
Biografia di Hannah Arendt – Hannover 1906 – New York 1975–nasce da una famiglia ebrea ad Hannover, dopo gli studi universitari fu costretta ad abbandonare la Germania per motivi politici. Si rifugiò prima in Francia e poi si trasferì negli Stati Uniti d’America, dove continuò l’attività di ricerca fino alla morte . Cominciò la sua ricerca con la tesi di dottorato in filosofia sul concetto di amore in Sant’Agostino, pubblicata nel 1929. Tra i suoi maestri ricordiamo Heidegger, con il quale ebbe una relazione sentimentale Husserl. L’opera che la renderà famosa in tutto il mondo fu il saggio del 1951, intitolato “Le origini del totalitarismo”, a cui nel 1958 seguirà “La condizione umana”, titolo voluto dall’editore americano, mentre la Arendt preferiva il titolo di “Vita Activa”, conservato nella traduzione italiana del libro del 1964.
La riflessione in forma di Poesia sulla guerra di Bertolt Brecht
Dopo l’incendio del Reichstag da parte dei nazisti, il 28 febbraio 1933, Bertolt Brecht decise di fuggire dalla Germania e recarsi in Danimarca con la famiglia. Aveva previsto la catastrofe imminente che l’ascesa del nazismo avrebbe portato con sé.
Anche in esilio Bertolt Brecht tuttavia non smise di denunciare con forza, attraverso la poesia, ogni tipo di oppressione e disuguaglianza. Non dimenticò la sua causa sociale e dedicò le sue poesie contro la guerra al popolo, che in silenzio è costretto a patire le decisioni prese dai potenti.
Agli occhi dell’intellettuale tedesco la guerra non è altro che una delle massime espressioni degli interessi capitalistici praticata ai danni dei più umili.
I suoi versi verranno raccolti nel 1939 nella celebre silloge Poesie di Svendborg, considerata la summa poetica dell’impegno antinazista di Brecht.
Oggi quella raccolta appare come una drammatica profezia della Seconda guerra mondiale, al pari del quadro Guernica di Pablo Picasso che denunciava l’opera di distruzione messa in atto dalla Germania di Hitler.
Brecht assistette alla drammatica escalation che portò a una delle guerre più drammatiche della storia e raccontò quel tragico sviluppo storico tramite il climax ascendente dettato dai suoi versi.
Scopriamo le poesie contro la guerra di Bertolt Brecht che oggi sono un invito a riflettere su quanto sta accadendo in seguito all’invasione russa dell’Ucraina.
Generale di Bertolt Brecht-
Generale, il tuo carro armato
è una macchina potente
Spiana un bosco e sfracella cento uomini.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un carrista.
Generale, il tuo bombardiere è potente.
Vola più rapido d’una tempesta e porta più di un elefante.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un meccanico.
Generale, l’uomo fa di tutto.
Può volare e può uccidere.
Ma ha un difetto:
può pensare.
Quando la guerra comincia di Bertolt Brecht
Forse i vostri fratelli si trasformeranno
e i loro volti saranno irriconoscibili.
Ma voi dovete rimanere eguali.
Andranno in guerra, non
come ad un massacro,
ad un serio lavoro. Tutto
avranno dimenticato.
Ma voi nulla dovete dimenticare.
Vi verseranno grappa nella gola
come a tutti gli altri.
Ma voi dovete rimanere lucidi.
Chi sta in alto dice pace e guerra di Bertolt Brecht
Sono di essenza diversa.
La loro pace e la loro guerra
son come vento e tempesta.
La guerra cresce dalla loro pace
come il figlio dalla madre.
Ha in faccia
i suoi lineamenti orridi.
La loro guerra uccide
quel che alla loro pace
è sopravvissuto.
La guerra che verrà di Bertolt Brecht
La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
C’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
Faceva la fame. Fra i vincitori
Faceva la fame la povera gente egualmente.
Quelli che stanno in alto di Bertolt Brecht
Quelli che stanno in alto
si sono riuniti in una stanza.
Uomo della strada
lascia ogni speranza.
I governi
firmano patti di non aggressione.
Uomo qualsiasi,
firma il tuo testamento.
Mio fratello aviatore di Bertolt Brecht
Mio fratello era aviatore
Un giorno ricevette la cartolina.
Fece i bagagli, e andò via,
Lungo la rotta del sud.
Mio fratello è un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno
Di spazio. E prendersi terre su terre,
Da noi, è un vecchio sogno.
E lo spazio che si è conquistato
È sui monti del Guadarrama.
È lungo un metro e ottanta
E di profondità uno e cinquanta…
Al momento di marciare di Bertolt Brecht
Al momento di marciare molti non sanno
che alla loro testa marcia il nemico.
La voce che li comanda
è la voce del loro nemico.
E chi parla del nemico
è lui stesso il nemico.
Quando chi sta in alto parla di pace di Bertolt Brecht
Quando chi sta in alto parla di pace
la gente comune sa
che ci sarà la guerra.
Quando chi sta in alto maledice la guerra
le cartoline precetto sono già compilate.
Sul muro c’era scritto col gesso di Bertolt Brecht
Sul muro c’era scritto col gesso:
vogliono la guerra.
Chi l’ha scritto
è già caduto
Ilse Koch -la “cagna di Buchenwald”-la “donnaccia di Buchenwald”
Articolo di Fabio Casalini
Il 15/01/1951 veniva condannata all’ergastolo Ilse Koch, la “cagna di Buchenwald”, la “donnaccia di Buchenwald”. Uno dei peggiori esseri umani che mai abbia calpestato il suolo terrestre.
La Koch era già stata processata e condannata all’ergastolo nel 1947, pena poi commutata in 4 anni “perché non erano state fornite prove evidenti”.
Fu rilasciata però nel 1949 dal Generale Lucius Clay, comandante statunitense della zona tedesca, ma venne subito arrestata e processata dalla corte tedesca, viste le proteste che si erano scatenate per la sua liberazione.
Chi era questo essere immondo?
La sua crudeltà iniziò nel 1936, quando diventò sorvegliante presso il campo di concentramento di Sachsenhausen. Qui conobbe e sposò il comandante Karl Otto Koch. Nel 1937 arrivò al campo di concentramento di Buchenwald, come moglie del comandante: influenzata dal potere e dalla posizione del marito, iniziò a torturare gli internati.
Nel processo a suo carico venne riferito che la Koch fosse solita annotarsi i numeri dei prigionieri che avevano tatuaggi particolarmente originali, che li facesse uccidere e utilizzasse la loro pelle per realizzare paralumi, copertine di libri, album di foto e guanti.
l’ex internato Herbert Froeboeß testimoniò che: “Nell’estate del 1940 stavamo lavorando nello stadio delle SS. Era una giornata calda, e abbiamo lavorato con la parte superiore del corpo esposta. Avevamo un giovane francese o belga che lavorava per noi, di nome Jean Collinette. Era conosciuto in tutto il campo per i suoi tatuaggi. Particolarmente vistosi erano un serpente cobra colorato arrotolato intorno al suo braccio sinistro fino in cima, e un veliero a quattro alberi particolarmente ben tatuato sul petto. Ilse Koch passò a cavallo, tenne il suo cavallo davanti a Jean, guardò i tatuaggi e scrisse il suo numero. Quella sera Jean fu chiamato al cancello e non lo vedemmo più. Sei mesi dopo,nel dipartimento di patologia del campo, ho riconosciuto un pezzo di pelle con il veliero di Jean. Più tardi ho visto la stessa nave in un album di foto dei Koch“.
Karl Otto Koch nello stesso anno, 1937, fu nominato comandante del campo di concentramento di Majdanek.
Il tenore di vita dei coniugi Koch mutò radicalmente dal loro arrivo a Buchenwald. L’espropriazione di quelli che erano stati i beni dei prigionieri del campo e il loro sfruttamento come schiavi fecero sì che la coppia si arricchisse in modo spropositato.
Tale comportamento non passò inosservato, sia a livello locale che nazionale.
L’operato di Koch a Buchenwald in qualità di comandante del campo destò l’attenzione dell’Obergruppenführer Josias di Waldeck e Pyrmont, nel 1941. Scorrendo la lista dei morti di Buchenwald, Josias aveva fatto una croce accanto al nome del dottor Walter Krämer, del quale si ricordava poiché era stato suo paziente in passato. Josias investigò il caso e scoprì come Koch avesse ordinato l’uccisione di Krämer e Karl Peixof, altro aiutante all’ospedale del campo, come “prigionieri politici”, perché lo avevano curato dalla sifilide ed egli temeva che potessero diffondere la voce
Nel 1943 furono arrestati entrambi dalla Gestapo per malversazione e altri crimini.
Nel 1945 suo marito fu condannato a morte dalla corte SS a Monaco di Baviera e giustiziato in aprile.
Ilse fu rilasciata e andò a stabilirsi con la propria famiglia a Ludwigsburg. Fu nuovamente arrestata dalle autorità statunitensi il 30 giugno 1945.
Si impiccherà nella sua cella in Baviera nel 1967.
Troppo tardi.
Articolo di Fabio Casalini
Nella fotografia uno dei cani che usava aizzare contro i detenuti.
Appendice e nota di redazione
Lo scenario della II Guerra Mondiale è sicuramente uno dei più sanguinosi e violenti che l’umanità ancora oggi ricordi. Tutti conoscono Hitler e l’olocausto e purtroppo tutti conosciamo gli orrori che si consumarono in quegli anni. Stasera, nella FASCIA DARK, parliamo però nello specifico di un caso in cui il nazismo incontrò il sadismo. Stasera parliamo di Ilse Koch, la “strega di Buchenwald”, “cagna di Buchenwald”, “donnaccia di Buchenwald” o “iena di Buchenwald”. Graziosa e gentile, viene scelta come moglie per Karl Otto Koch, con il fine di formare la coppia modello del regime nazista, quella a cui tutti i tedeschi dovrebbero aspirare. Niente fa presupporre la sua natura sadica e violenta. Tutto ha inizio nel 1937 quando suo marito viene nominato comandante del campo di concentramento di Buchenwald. Ilse viene influenzata dal potere e dalla posizione del marito conducendo una vita agiata, circondata da lusso e privilegi e godendo della sofferenza altrui finché non inzia a torturare lei stessa gli internati.
Agli inizi si concede dei piccoli vezzi, come farsi chiamare dai prigionieri con titoli nobiliari, ma poi, accortasi del piacere che le procura ammirare i flagelli e le piaghe degli “elementi antisociali” si spinge ben oltre, frustando i detenuti che incrociano il suo cammino o aizzando il suo cane contro le donne incinte.
Il marito non è da meno, è solito torturare i prigionieri con un frustino modificato con lame di rasoio, approva l’uso degli schiaccia pollici e dei ferri per marchiare, ma più di tutto ama l’uso degli animali. Tra le numerose perversioni di Ilse, pare ci sia una vera e propria ossessione per il corpo umano che la porta ad organizzare orge saffiche con le mogli degli ufficiali per poi passare agli altri componenti delle SS. Si dice che scateni la sua fame sessuale anche all’interno del campo, costringendo gli internati ad eseguire qualsiasi sua richiesta a sfondo sessuale e girando in topless all’arrivo di ogni nuovo convoglio di prigionieri, massacrando chiunque si giri a guardarla. Queste potrebbero essere solo dicerie è vero, ma è nella dimora dei coniugi Koch che si nascondono le prove dei loro orrori: casa Koch è infatti decorata con paralumi di pelle umana, quadri con lembi di pelle tatuata e tsantsa (teste rimpicciolite), tutto ovviamente preso dagli internati del campo. È troppo anche per la Gestapo che nel 1943 arresta i coniugi Koch per malversazione, eccessiva brutalità, infamia e corruzione. Ilse viene imprigionata nel 1944 l’anno dopo il marito viene condannato a morte e giustiziato. Un tribunale delle SS che arresta due aguzzini può sembrare un paradosso che però aiuta a comprendere il livello di follia omicida che avevano raggiunto Ilse e Otto Koch.
Ilse viene assolta per mancanza di prove, finché nel 1947 viene nuovamente arrestata. Durante la sua permanenza in carcere rimane incinta di un detenuto e approfitta della situazione per rimandare il processo finchè, finalmente, dopo svariati errori giudiziari,viene processata e condannata. La pubblica accusa dichiarò “Se mai un grido è stato udito nel mondo, è quello degli innocenti torturati e morti per mano sua”.
Tommaso Tuppini- La caduta- Fascismo e macchina da guerra
Orthotes Editrice
DESCRIZIONE
«C’è nel fascismo un nichilismo realizzato» scrivono Gilles Deleuze e Félix Guattari, «giacché, diversamente dallo Stato totalitario che si sforza di bloccare tutte le possibili linee di fuga, il fascismo si costruisce una linea di fuga intensa, che trasforma in linea di distruzione e di abolizione pura. È strano come sin dall’inizio i nazisti annunciassero alla Germania quel che avrebbero portato: a un tempo nozze e morte, anche la loro propria morte, e la morte dei Tedeschi».
Per quanto eterogenee e difficili da ricostruire in modo univoco, le vicende del fascismo sembrano snodarsi seguendo l’ordine di alcune tappe: il fascismo è un complesso ideologico, rituale e politico che mette capo a un dispositivo militare lanciato verso la propria distruzione. L’ideologia razzista, i rituali, le prassi policratiche di governo, diventano la premessa per la costruzione di una macchina da guerra che ha il significato di un grande esperimento suicidario. Nata per proteggere e riterritorializzare a Est il popolo-nazione tedesco, la macchina si insubordina molto presto a qualsiasi compito che non sia quello della distruzione. Il fascismo voleva produrre l’“autentico” soggetto tedesco, seminare il mondo con maestose rovine capaci di testimoniare la vittoria sulla morte, ma il vortice della sua caduta ha prodotto soltanto la polvere di una catastrofe.
Macchina da guerra e nomos
diTommaso Tuppini-insegna Filosofia all’Università di Verona. Con Orthotes ha pubblicato La caduta. Fascismo e macchina da guerra
La fuga può appartenere alle esperienze più svariate e per definizione non è anticipabile, si sottrae al perimetro di qualsiasi progetto. La fuga di solito è l’effetto prodotto da una macchina da guerra. La macchina da guerra non ha a che fare in primo luogo con azioni di belligeranza, non provoca necessariamente un conflitto, è semmai un modo peculiare di abitare lo spazio, «è nella sua essenza l’elemento costitutivo dello spazio liscio, dell’occupazione di questo spazio, dello spostamento in questo spazio e della composizione corrispondente degli uomini: è questo il suo solo e vero oggetto positivo (nomos)».[1] Il nomos della macchina da guerra definisce un certo rapporto tra lo spazio e il molteplice di qualsiasi natura (inorganico, animale, antropologico, tecnologico ecc.) che lo riempie. La comprensione deleuziana di nomos è il controcanto della definizione che ne dà Carl Schmitt in un saggio del 1953.[2] Per Schmitt nomos dice il modo in cui un gruppo umano prende possesso di uno spazio e lo organizza per la propria sussistenza. Nomos comprende tre significati fondamentali e sempre coimplicati: “conquistare” la terra (Landnahme) che sarà poi da “spartire” (Teilen) perché diventi possibile utilizzarla e cominciare “produrre” (Weiden). Un gruppo umano prende possesso di un territorio libero, una “cosa di nessuno”, oppure contende il territorio ad altri gruppi. Nel secondo momento del nomos – la spartizione – i lotti del territorio vengono distribuiti ai membri secondo i diritti di ciascuno. Il nomos, però, ha anche un altro significato: l’uso produttivo della terra che è stata conquistata e spartita. Questo terzo momento comprende ogni forma di sfruttamento economico: la pastorizia dei nomadi, ma anche il lavoro agricolo, l’artigianto, la produzione industriale, qualsiasi coltivare, utilizzare e produrre. Nomos è un gesto di colonizzazione, dunque ha un significato politico, ma ha anche un significato giuridico, perché assegna un titolo di proprietà ai membri che partecipano della spartizione, e ha infine un significato economico. Il nomos della conquista, della spartizione e dell’uso ha una funzione stabilizzatrice, scandisce le tappe di un processo che compendia le prerogative dello Stato, le cui funzioni principali sono il controllo delle norme di residenza, il disciplinamento della circolazione di uomini e merci, l’organizzazione del lavoro.[3] Le tappe del nomos sono relative a «una tribù o un seguito o un popolo che si fa stanziale»,[4] definiscono i tratti essenziali della territorializzazione e della codificazione.
Anche il nomos affermato dalla macchina da guerra dice il modo in cui un molteplice ha a che fare con lo spazio: far funzionare una macchina da guerra significa infatti «distribuirsi in uno spazio aperto, tenere lo spazio, conservare la possibilità di apparire in qualsiasi punto».[5] Le componenti della macchina da guerra sono le stesse del nomos stanziale (spazio, elementi e l’occupazione dello spazio da parte degli elementi) ma diverso è il loro incastro reciproco. La differenza fondamentale tra il nomos sedentario e il nomos della macchina da guerra è che quest’ultimo rende impossibile scandire il suo funzionamento in tappe, non distingue tra la conquista, la spartizione e la produzione. Le ultime due tappe del nomos stanziale (spartire e utilizzare) presuppongono la prima (conquistare). Invece, per la macchina da guerra, tenere uno spazio vuol dire percorrerlo senza una presa di possesso preliminare, distribuirvisi senza dividerlo o costruendo recinti. La macchina da guerra tiene uno spazio indeterminato (ovvero “liscio”) nel modo in cui tengono il pendio i massi che ci rotolano sopra oppure – è l’esempio che fa Deleuze – tengono il pascolo gli animali che si distribuiscono sul fianco di una montagna, su una distesa nei pressi di una città, comunque in uno spazio «senza frontiere e senza chiusura».[6] Per il nomos della macchina da guerra lo spazio non è un perimetro inerte da occupare e misurare perché esso è fatto della tensione fra i corpi che lo popolano: c’è spazio solo nel momento in cui un molteplice vi si distribuisce per riempirlo. Lo spazio è ciò che succede tra i corpi. Per il nomos stanziale lo spazio è già dato, esso è qualche cosa di semplicemente presente di cui appropriarsi per poi suddividerlo. Il nomos dello Stato è incapace di produrre qualche cosa di nuovo, inedito, sorprendente, perché la distribuzione e la produzione rimangono funzioni della appropriazione iniziale, la natura del proprietario e della proprietà decidono della spartizione e della produzione. Il presente e il futuro del nomos stanziale sono una conseguenza del passato. Lo spazio “liscio” della macchina da guerra, invece, nasce insieme agli elementi, è la novità della combinazione tra gli elementi: pezzi di realtà, che prima s’ignoravano, si incontrano e si combinano per produrre qualche cosa che prima non c’era. La macchina da guerra non è orientata verso il passato dell’appropriazione ma verso il futuro della produzione. Il nomos stanziale mette ordine e sfrutta il vecchio, la macchina da guerra produce il nuovo. Di questo è fatta la necessaria fragilità della macchina da guerra rispetto a qualsiasi apparato che obbedisca al nomos stanziale. Poiché la macchina da guerra produce il proprio spazio, la tenuta di quest’ultimo non è garantita da nulla se non dall’azzardo della combinazione. È uno spazio sperimentale che può sparire con la stessa facilità con la quale è nato.
Per comprendere meglio la struttura di una macchina da guerra facciamo un esempio idraulico, il vortice. Il vortice è una dei primi fenomeni fisici sui quali si è esercitato il pensiero filosofico, segnatamente quello atomistico, che in esso ha scoperto una struttura intermedia tra il disordine e l’ordine, una fase di passaggio tra la pioggia verticale degli atomi e la condizione del mondo con cui abbiamo a che fare tutti i giorni. La pioggia verticale di atomi è un flusso lamellare: gli strati compongono un flusso lamellare, differenti per viscosità e consistenza, procedono paralleli, senza mescolarsi e interferire. Un flusso lamellare è come una torta a strati che si disloca: è mobile rispetto all’ambiente ma al proprio interno è immobile perché la disposizione reciproca delle parti non cambia. La condizione presente, invece, è fatta di atomi aggregati in modo più o meno stabile. Tra il flusso uniforme degli atomi in caduta e la condizione presente del mondo, il vortice è la produzione attiva delle cose. La stratificazione di cui sono fatte le cose è un prodotto della vorticazione nella quale parti eterogenee di realtà si distribuiscono e si raccolgono. Il vortice dell’onda trascina con sé i detriti e separa i più grossi dai più piccoli. Questo ordine incipiente è ben rappresentato dal mulinello che si forma in certi corsi d’acqua e che già aveva attirato l’attenzione di Descartes nei Principes de la philosophie: se un torrente incontra un ostacolo (un sasso sul fondo), quest’ultimo gli rimanda indietro un controflusso il quale, combinandosi con il flusso, produce un vortice. Il vortice è una novità perché combina due cose che si ignoravano: lo scorrere del fiume e l’inerzia della pietra. Prima della formazione del vortice pietra e flusso aderivano l’una all’altro senza nessuna sfasatura. Quando il flusso inciampa nella pietra, una turbolenza dell’acqua segna la sfasatura tra i due elementi che in questo modo entrano per la prima volta in relazione.
[1] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 573. [2] C. Schmitt, Appropriazione, divisione, produzione, in Le categorie del politico, tr. it. P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 295-312. [3] G. Sibertin-Blanc, Politique et État chez Deleuze et Guattari. Essai sur le matérialisme historico-machinique, PUF, Paris 2013, pp. 120-121. [4] C. Schmitt, Il nomos della terra, tr. it. E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991, p. 59 [5] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 488. [6]Ivi, p. 524.
Ciascuno dei giri di cui è fatto il vortice è fatto di un equilibrio fisico tra le spinte e le controspinte, allaccia la forza centripeta (che origina dal sasso, tendenza alla chiusura) e quella centrifuga (che origina dal fiume, tendenza all’apertura). Per mantenersi il vortice deve catturare le forze che rischiano di distruggerlo: la dispersione della corrente e l’inerzia della pietra. Il vortice si alimenta di queste forze, ma se prevale la spinta centrifuga il giro si allarga troppo e si sfascia, se invece prevale l’inerzia centripeta il giro si restringe e il vortice può chiudersi. Una combinazione dei corpi (flusso d’acqua, pietra) produce uno spazio nuovo e precario (il vortice).
Ma nel vortice riconosciamo un’altra caratteristica della macchina da guerra che fino adesso è rimasta implicita e che ci dice qualcosa di più preciso sulla natura dello spazio che la macchina allestisce: il vortice organizza la propria struttura producendo il vuoto e facendone un qualche uso. Il perno del movimento vorticoso è infatti la cavità conica che mette in comunicazione la superficie del torrente e il sasso sul fondo. Lo spazio della macchina è essenzialmente uno spazio di vuoto. Pensiamo alla ruota, dispositivo che non esiste in natura, capace di riconfigurare l’ambiente e che permette di spostarsi in modo nuovo: la ruota combina il moto di un oggetto circolare con l’immobilità del mozzo, ma funziona soltanto se tra il mozzo e il cerchio c’è un’intercapedine. A causa di questa giunzione senza saldatura la macchina rischia di saltare e guastarsi: tra la ruota e il mozzo, infatti, c’è una frizione (è una delle prime osservazioni che ha fatto la filosofia, «l’asse dei mozzi mandava un sibilo acuto, infiammandosi, in quanto era premuto da due rotanti cerchi da una parte e dall’altra» dice Parmenide del carro su cui era salito). Le macchine, prima di avere un effetto distruttivo sull’ambiente o sugli altri, sono dannose per se stesse, sono coinvolte in un processo di auto-demolizione. La precarietà della struttura è il prezzo che la macchina deve pagare per la propria audacia e novità. Una macchina, quanto più è complessa e fatta di elementi eterogenei, tanto più è fragile nel suo funzionamento. È il vuoto a permettere che elementi eterogenei si combinino insieme, ma questo assemblaggio rischia sempre di cadere a pezzi. Se, a differenza del nomos di terrritorializzazione, il nomos della macchina da guerra ha un potere inventivo, non si limita a ripetere tale e quale il passato, è perché si addentra in uno spazio di vuoto. Il vuoto investito dalla macchina è uno spazio catastrofico, è il suo futuro. La macchina da guerra trasforma lo spazio in tempo: ogni combinazione, incontro, macchinazione “da guerra” si mantiene soltanto se è capace di assimilare ciò che gli può accadere, il guasto, la rovina, la caduta.
“Macchina da guerra” può essere una struttura fisica, un’invenzione tecnologica, un circuito commerciale, un’opera d’arte, tutto ciò che allestisce uno spazio plastico e metamorfico dentro il quale è impossibile codificare i rapporti una volta per tutte. Per una scienza della macchina da guerra anche gli esseri viventi sono vortici:
onde, flutti, particelle semplici […], quel che chiamiamo un “essere” non è mai qualcosa di semplice […]: è travagliato da una profonda divisione interiore, è chiuso in modo imperfetto e, in certi punti, viene aggredito dall’esterno. […] Quel che sei riposa sull’attività che tiene insieme gl’innumerevoli elementi di cui sei fatto, sulla comunicazione intensa degli elementi tra di loro. Sono contatti energetici, movimento, calore e migrazioni d’elementi che fanno la vita intima del tuo essere organico. La vita non è mai situata in un luogo preciso: passa rapidamente da un punto all’altro […] come un flusso o una specie di torrente elettrico. […] La tua vita, inoltre, non è fatta soltanto di questo scorrimento interiore; scorre al di fuori e si apre a ciò che fluisce o le zampilla addosso. Il vortice durevole di cui sei fatto va a sbattere contro vortici simili con i quali forma una figura più ampia, animata da un’agitazione relativa.[1]
La storia evolutiva dell’uomo è eminentemente vorticosa, essa ha portato a intersecarsi forze che precedentemente s’ignoravano: la orizzontalità terragna del movimento animale e la postura erettile della pianta che punta verso il cielo.[2] Il vortice umano nasce quando il flusso animale incontra la pianta che gli manda indietro un contro-flusso di verticalizzazione. I picchi dell’esistenza sono fatti di quel «vortice del godimento» che si eleva «nella direzione di un cielo bello come la morte, pallido e improbabile come la morte, mentre gli occhi lo tengono attaccato con stretti legami alle cose volgari dove la necessità ha fissato il suo cammino».[3]
Non dobbiamo però immaginare il molteplice deterritorializzato come un’entità distinta da un molteplice territorializzato, il nomos della macchina da guerra come il “contrario” del nomos sedentario. Deterritorializzazione e territorializzazione sono due condizioni differenti che riguardano lo stesso corpo o insieme di corpi. Il movimento della macchina da guerra di solito rompe una occupazione sedentaria dello spazio e sedimenta in un’altra occupazione stanziale: i massi prima o poi avranno finito di rotolare. Le bestie si saranno distribuite sul fianco della montagna e il pastore le terrà sott’occhio disegnando con il pensiero un perimetro dal quale i singoli capi non devono uscire. Il vortice idraulico proviene da un flusso lamellare nel quale dopo un certo tempo si ritrasformerà. La deterritorializzazione della macchina da guerra va verso un’ulteriore territorializzazione. La macchina da guerra, dunque, è sempre orientata in due direzioni contemporaneamente: la novità della produzione in atto e lo stato di cose nel quale la novità si è ritradotta. Lo stato di cose è la novità fatta abitudine, l’invenzione diventata “scuola”. La macchina da guerra trova il proprio limite nella riterritorializzazione alla quale mette capo. Quest’ultima ne è il limite perché le assegna una figura riconoscibile, per certi versi ne è la continuazione sotto un’altra forma. Rispetto alla macchina da guerra e alla linea molare, la linea molecolare è una condizione di mezzo. La linea molecolare è una specie di compromesso[4] tra il nomos della macchina da guerra e la territorializzazione. La segmentarietà molecolare, fatta di sconfinamenti ed equivoci, può sconcatenarsi fino a diventare macchina da guerra, oppure può perdere la propria flessibilità, irrigidirsi e territorializzare il proprio molteplice. L’equivoco consiste nell’assolutizzare l’una condizione rispetto alle altre, non comprendere che la linea di fuga è il processo genealogico di cui la molarità è il risultato. L’equivoco fascista è proprio questo: il culto di una molarità auto-sufficiente, priva di genealogia (la razza), e il desiderio di costruire una macchina da guerra capace di un movimento continuo (la Panzerwaffe).
[1] G. Bataille, L’experiènce interieure, in Œuvres complètes, vol. V, Gallimard, Paris 1973, p. 111. [2] Id., Dossier de l’œil pinéal, in Œuvres complètes, vol. II, Gallimard, Paris 1970, p. 26. [3]Ibidem. [4] G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, cit., p. 295.
Tratto da Tommaso Tuppini, La caduta. Fascismo e macchina da guerra, Orthotes 2019
Orthotes Editrice
Via Saverio Costantino Amato 16 84014 – Nocera Inferiore (SA)
Cronache e protagonisti del primo antifascismo (1920-1923)
BFS Edizioni
DESCRIZIONE
Fra il 1920 e il 1923 anche le strade di Livorno videro l’inizio di una lunga guerra civile in cui le differenze ideali tra quanti si affrontarono furono nette e l’ostilità profonda, anticipando quella combattuta un ventennio dopo. In quegli anni, il fascismo livornese incontrò infatti nei quartieri popolari una decisa opposizione, così come emerge dall’impressionante cronologia dei conflitti avvenuti. Oltre a quella degli Arditi del popolo, fu una quotidiana resistenza, nel segno dell’appartenenza di classe e dello storico sovversivismo, di persone disposte a impugnare le armi per contrastare lo squadrismo e la reazione padronale, in difesa delle libertà sociali. Soltanto nell’agosto 1922, grazie all’intervento dell’esercito e con lo stato d’assedio disposto dal governo, i fascisti e i nazionalisti poterono imporre le dimissioni del sindaco Mondolfi e dell’amministrazione “rossa”, democraticamente eletta. Il marchese Dino Perrone Compagni che assieme a Costanzo Ciano aveva guidato le squadre fasciste toscane, seminando morte e devastazione, nel comunicare la “caduta” di Livorno al segretario del Partito fascista, ammise che: «Fra le mie battaglie questa più faticosa».
BFS Edizioni-Biblioteca Franco Serantini
La Biblioteca Franco Serantini è un centro di documentazione sulla storia politica e sociale del 19. e 20. secolo nato nel 1979 in ricordo di Franco Serantini, un giovane anarchico di origine sarda, morto a Pisa nel 1972 nel carcere del Don Bosco, dopo essere stato percosso e fermato dalla polizia mentre partecipava ad una manifestazione antifascista.
Scopo principale del centro è quello della conservazione e della valorizzazione della memoria del movimento anarchico, operaio e sindacalista dalla nascita ai giorni nostri; delle “eresie politiche” della sinistra; delle organizzazioni di base, dei gruppi antimilitaristi, femministi e dei movimenti studenteschi sorti in Italia dalla fine degli anni ’60 in poi. Dal 1995, inoltre, è attivo un progetto speciale dedicato a reperire e conservare i documenti e le testimonianze riguardanti l’antifascismo, la Resistenza e la lotta di liberazione a Pisa e provincia.
La Biblioteca F. Serantini è gestita dall’omonimo circolo culturale, associazione di promozione sociale regolarmente iscritta nel nuovo Albo regionale, articolazione provinciale di Pisa (det. n. 4628/4654 del 17.11.2003), che si occupa di mantenere aperto il Centro, offrire i servizi al pubblico, promuovere studi e ricerche su argomenti di storia sociale e contemporanea, conservare e valorizzare il patrimonio posseduto attraverso iniziative culturali di vario genere (mostre, convegni, seminari, pubblicazioni scientifiche), mantenere relazioni con altre associazioni, enti e istituti ugualmente dedicati o interessati alla memoria storica.
L’Archivio della biblioteca è stato riconosciuto di notevole interesse storico dalla Soprintendenza archivistica per la Toscana (notifica n.717/1998), e uno dei principali fondi archivistici – il Fondo P.C. Masini – è stato inserito nel progetto della stessa Soprintendenza denominato «Archivi della cultura del Novecento in Toscana» (notifica n. 751/2000).
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Una rete orizzontale e al tempo stesso plurale di cui ci sentiamo parte attiva, che permette alle iniziative editoriali indipendenti di vivere e crescere al margine e anche “contro” le logiche del mercato.
A questi gruppi di soci e amici sono garantite condizioni particolari per la richiesta dei libri della nostra casa editrice. Per maggiori informazioni sulla distribuzione diretta, scriveteci a: info_bfsedizioni@bfs.it
Andrea Ricciardi- Ferruccio Parri. Dalla genesi dell’antifascismo alla guida del governo-
Biblion Edizioni-Milano
DESCRIZIONE
Il volume tratteggia, basandosi anche su carte d’archivio inedite, il percorso politico-culturale e umano di Ferruccio Parri a partire dagli anni Venti. Attivo nel contesto degli ex combattenti della Grande guerra, in seguito al delitto Matteotti Parri prese una posizione radicalmente antifascista che lo condusse in carcere e al confino, anche perché contribuì all’espatrio di Filippo Turati nel 1926. Alla fine degli anni Venti, con la nascita di Giustizia e Libertà fondata dall’amico Carlo Rosselli, Emilio Lussu, Alberto Tarchiani e Gaetano Salvemini, Parri iniziò la sua militanza attiva nel movimento, lavorando contemporaneamente presso la Edison dal 1933. Sebbene fosse di origine piemontese, Parri, sposato e con un figlio, visse a lungo a Milano. Qui, nel 1942, all’atto della fondazione, aderì al Partito d’Azione divenendone uno dei più prestigiosi dirigenti al fianco di Leo Valiani e Vittorio Foa, oltre che capo del Comitato militare del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI). Incarcerato dai nazisti all’inizio del 1944, fu liberato dopo una trattativa con gli Alleati e tornò ad essere protagonista della Resistenza a capo del Corpo Volontari della Libertà (CVL) fino alla sconfitta del nazifascismo e alla fine della Seconda guerra mondiale. Nel giugno 1945 presiedette il primo governo di coalizione dopo la Liberazione: l’esperienza durò meno di sei mesi e si configura come il punto d’arrivo del libro, al quale è direttamente connessa l’appendice documentaria, cui l’autore ha lavorato con Alice Leone. Completa il libro la prefazione di Luca Aniasi, presidente FIAP ‒ Federazione Italiana Associazioni Partigiane.
AUTORE
Andrea Ricciardi, storico contemporaneista, è socio della Fondazione Rossi-Salvemini e Direttore Scientifico della FIAP. Ha collaborato a lungo con l’Università degli Studi di Milano, dove ha conseguito il dottorato di ricerca, è stato assegnista e docente. Si occupa di storia politica e culturale del Novecento, con particolare attenzione per vicende e figure dell’antifascismo e del movimento operaio. Tra le sue pubblicazioni, Leo Valiani. Gli anni della formazione. Tra socialismo, comunismo e rivoluzione democratica (Milano, FrancoAngeli, 2007), Paolo Treves. Biografia di un socialista diffidente (Milano, FrancoAngeli, 2018), Sinistra per l’Alternativa. Storia di una corrente del PSI 1976-1984 (Milano, Biblion, 2021) e, con Claudia Fredella, I saperi essenziali di storia (Milano, Giunti, 2021).
Biblion Edizioni
via Giuseppe Govone, 70 – 20155 Milano
Donatella Gay Rochat– La Resistenza nelle valli valdesi-
Casa Editrice Claudiana-Torino
Il libro in pillole
L’esordio, le illusioni, le sconfitte, le ritirate, la ripresa e le prime vittorie
La lotta politica che cattolici, agnostici e valdesi vissero fianco a fianco
Libertà di coscienza e lotta di liberazione
DESCRIZIONE.
Una ricerca, basata sul confronto di testimonianze dirette, sul primo periodo della guerra partigiana nelle valli valdesi del Piemonte – teatro di lunghe lotte in difesa della religione protestante – a cui ambiente geografico, economico-sociale e religioso conferirono caratteri specifici.
Indice testuale
Introduzione
di Alberto Cavaglion Prefazione alla prima edizione
di Leo Valiani Premessa
1. L’ambiente
2. L’antifascismo e le Valli valdesi fino al 1943
3. L’estate 1943
4. I giorni dell’armistizio
5. La Resistenza in val Pellice dal settembre al dicembre 1943
6. Val Pellice e val Germanasca dal gennaio al marzo 1944
7. Il rastrellamento di marzo
8. La ripresa (primavera 1944)
9. Giugno-luglio: nuova espansione
10. Brevi cenni sugli avvenimenti dall’agosto 1944 alla liberazione
Appendice prima Lettera di Karl Barth ai protestanti di Francia (dicembre 1939) Appendice seconda «Il Pioniere» Anno I, n. 1 – Venerdì 30 giugno 1944
Biografia dell’autore
Donatella Gay Rochat-insegnante, vive e lavora a Torre Pellice.
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