Gabriele Galloni – Poesie scelte-Biblioteca DEA SABINA

Biblioteca DEA SABINA

Gabriele Galloni
Gabriele Galloni

 Gabriele Galloni-Poesie scelte

Gabriele Galloni (1995 – 2020). Ha pubblicato le raccolte poetiche Slittamenti (Augh!, 2017), In che luce cadranno (RP, 2018), Creatura breve (Ensemble, 2018) e L’estate del mondo (Marco Saya, 2019). Ha pubblicato, inoltre, la raccolta di racconti Sonno giapponese (Italic Pequod, 2019). È stato co-direttore di Inverso – Giornale di poesia e autore e ideatore, per la rivista Pangea, della rubrica Cronache dalla Fine: dodici conversazioni con altrettanti malati terminali

 Gabriele Galloni. Pensiamo che il modo più opportuno per ricordarlo sia proporre ai lettori una selezione dei versi che ci ha lasciato: una breve mappa che ci permetta ancora di dire «La musica dei morti è il contrappunto/ dei passi sulla terra». Una mappa – così, crediamo, avrebbe sorriso – finalmente libera dai punti cardinali.

Slittamenti

È giù negli interstizi di
tempo tra i minimi
e i massimi che accade
l’irreparabile.

*

Sappiamo per esempio
senza dirlo che adesso Villa Sciarra
è di nuovo uno scatto
sovraesposto, un abbassare lo sguardo
per troppa luce, il conto
di questa estate e di quelle trascorse.

*

Dormiva: questo ha detto. Lo ha svegliato
un fischio: così ha scritto. Un fischio come
d’aria tra spazi vuoti – già passato.

Di tutto questo a malapena il nome.

In che luce cadranno

I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile:
sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile
della conversazione. Sanno amarci

con una mano – e l’altra all’Invisibile.

*

Ho conosciuto un uomo che leggeva
la mano ai morti. Preferiva quelli
sotto i vent’anni; tutte le domeniche
nell’obitorio prediceva loro

le coordinate per un’altra vita.

*

I morti guardano alla luna come
un errore, uno sgarbo del creato;
pensano infatti che sia cosa messa
lì per illuderli (non percorribile).
L’imitazione di un antico sesso
senza ingresso né uscita né sala
d’attesa.

*

La musica dei morti è il contrappunto
dei passi sulla terra.

Creatura breve

Fabula

Volle provare la dissoluzione
della carne. Provarla con coscienza.
Rendersi terra fertile, ma senza
morire; vivo senza soluzione.

Pro Verbis #3

Rompi la roccia e ne uscirà dell’acqua.
Potrai berla, pensare un ritorno
alla materia dell’ultimo giorno.
La cosa che ti anticipa e ti chiude.

Fabula

Questa luna è una corsa di bambini
attorno a un pozzo quando il pozzo è pieno
fino all’orlo. E nessuno per chilometri.

Pro Verbis #4

E saremo l’Immagine dell’uomo.
Non la creatura breve, ma la traccia.

L’estate del mondo

Me ne vado; ma tu sei lontananza
che ritorna. L’eternità felice
del tuo viso indagato controluce –
dalla Magliana vecchia alla mia stanza.

*

Luna di luglio: dalla tua finestra
scoperta di sfuggita sopra il mare.

Per poco, ma l’abbiamo fatta nostra
pensando fosse un fondo di bicchiere.

Luna di mare; ciotole di legno
in fila tutte lungo il davanzale.

Il cielo non si asciuga – intanto
la marea sale.

III

Ma l’ultima parola sulla Luna
spettò al più piccolo di noi, che disse:
la Luna è questa duna senza attesa
di mare; è l’autostrada che da Piana
del Sole porta fuori le città
di tutto il mondo.

*

Capitava la notte che si andasse
a frugare, bambini, tra gli scogli;
cercando il Filo che riavvicinasse
le stelle l’una all’altra.

Raggiungere lo spazio dalla riva
del mare; intanto cogliere una lucciola
dal bagnasciuga e saperla sorpresi
ancora viva.

*

È la notte di san Lorenzo. Prima
che cadano le stelle scavalchiamo
il muretto del centro sportivo.
L’acqua della piscina è ancora mossa;
imita nei suoi guizzi le vicine
luci del campo da calcio; riflette
i nostri visi oltre il bordo, curiosi
del fondale laccato.

“Guarda”, mi dici alzando la tua Tennent’s
verso la Luna, “è come se a momenti
tutti i passati a noi qui ritornassero;
l’acqua si muove, si sta preparando
a ridarceli tutti”. Getti via
la bottiglia ormai vuota. Ci sediamo.
Ignoravamo che una volta nudi
saremmo nudi rimasti per sempre.

C’è qualcuno vicino a noi, ma l’ombra
lo nasconde. Sappiamo a cosa i corpi
servono gli uni agli altri, ché vent’anni
sono bastati a questo.
Abbiamo smesso di parlare; adesso
ascoltiamo soltanto.

Le presenze
non ci temono più; così continuano
i loro giochi a bassa voce, quasi
chiedessero a noi di imitarle.

Bestiario dei giorni di festa

Il cane

Un cane con due zampe è sempre un cane.
Purché sempre ricerchi con la coda
la fissità delle cose lontane.

Il pesce rosso

Il pesce rosso è aruspice celeste;
prova tu a decifrare le stelle da un vetro –
sicuramente non ci riusciresti.

Lo struzzo

Andando sempre avanti tutto il mondo
ci dimenticherà. Lo struzzo
preferisce così girare in tondo.

Fonte-Redazione «Inverso – Giornale di poesia»

a cura di Mattia Tarantino-fotografia di Arianna Vartolo

Le cicatrici di Gabriele Galloni nelle poesie che ci ha lasciato-Articolo di Gianni Montieri

“Sulla riva dei corpi e delle anime” è ​un’ampissima scelta di liriche in un volume molto bello, che si legge con piacere e a cui si pensa con qualche malinconia dopo la sua scomparsa: cos’altro avrebbe potuto essere? Cosa non è stato?

Articolo del 22 Giugno 2023

 

Diversi anni fa mi sono imbattuto nelle poesie di Gabriele Galloni, era giovanissimo e giovanissimo qualche anno dopo se ne è andato; erano versi freschi, pieni di squarci e illuminazioni e d’ingenuità, quest’ultima caratteristica non mi parve un difetto, ma qualcosa in divenire, necessaria al farsi di questo ragazzo che aveva voglia di scrivere, di farsi notare, di stare nel mondo delle lettere, di stare al mondo. Pubblicammo, su una rivista on-line (che esiste ancora Poetarum Silva) qualche poesia, tempo dopo, poco prima della sua morte – avvenuta nel settembre del 2020, a soli 25 anni – Galloni mi scrisse ringraziandomi perché eravamo stati i primi a pubblicare dei suoi testi, era un bravo ragazzo, un bravo poeta, destinato a diventare bravissimo. L’editore Crocetti pubblica in questo 2023 un’ampissima scelta delle poesie di Gabriele Galloni – una produzione vasta per un poeta così giovane, aveva fretta, aveva ragione Sulla riva dei corpi e delle anime, ne viene fuori un volume molto bello, che si legge con piacere e a cui si pensa con qualche malinconia: cos’altro avrebbe potuto essere? Cosa non è stato?

«Così un giorno, per caso, / i morti costruirono / il primo cimitero sotto il mare. / Se ne dimenticarono / in un tuffo soltanto».

Galloni ha sempre scritto di vita e morte, del confine che le unisce più che separarle, e unendole sfuma come succede con l’orizzonte in certi pomeriggi al mare, o come accade a certi palazzi di periferia che paiono agitarsi sotto l’effetto di una Fata Morgana. Così come ha scritto del suo tempo di ragazzo senza indugiare nella cronaca, sospendendo il giudizio intanto che cercava di capire, perché questo – tra le altre cose – provi a fare quando sei molto giovane. A Galloni interessava la luce che si posava sulle cose, sulle case, su un lungomare, sui corpi per vedere come avrebbe potuto cambiarne lo stato, come in effetti lo mutava. Gli importava, di conseguenza, anche l’opposto: cosa accade quando la luce non filtra, non cala, non squarcia? Ed ecco il buio, la cupezza, l’istante nero che ci avvolge e che lo scatto della poesia risolve.

«I cavi elettrici, mi fai notare, / sembrano scie di cometa stasera».

Le cinque parti che formano il libro – introdotte da un testo di Alessandro Moscè – si tengono e si parlano come attraversate da un filo rosso molto sottile che quasi in silenzio le cuce e le lega. Le poesie di Galloni sono quasi tutte molto brevi, come se fossero attraversate da un fulmine che le proietta al suolo in poco tempo, di nuovo la fretta ma pure l’accelerazione reale del testo poetico, che arriva al punto in poche mosse. Non c’è fine alla vita, e allora i morti continuano a porsi le stesse domande dei vivi, e forse se le pongono meglio, hanno più tempo. La luna sulle case popolari è sempre sola, i morti (ancora) di notte (ma quale?) gettano via l’intonaco. Liberano i muri e lo spazio? Il mare, che può esistere, dietro una sala d’attesa. L’estate, che mi pare la stagione del respiro di ogni poesia di Galloni, come se l’inverno non fosse concepibile. Come se si potesse vivere, o scrivere, stando solo nella stagione più breve, quella della luce, quella in cui i corpi e le anime vengono sottratti alla notte, e possono essere raccontati, compresi, amati.

«Un bianco pomeriggio senza vento / Noi ce ne andiamo soli per la strada».

Le cicatrici camminano insieme alle speranze, le estati vengono prima di noi, della nostra nascita, siamo parte dei tempi che ci hanno preceduto. Questo mare che l’immaginazione di Galloni proietta nelle stanze, nel disordine dei giorni, come se volesse le sue poesie fatte di acqua e sale, in gran parte riuscendoci. Galloni sentiva la morte sempre a un passo, non la sua, quella di tutti, così si riempiva di vita, ne riempiva i versi. Non scriveva poesie politiche e nemmeno d’amore, perciò faceva entrambe le cose, inevitabilmente. Credeva nell’inutilità della poesia. In-utile, utile in sé, fedele a nessuna linea, a nessun profilo, modello. Unica regola: tracciare una linea, seguirla fino a che non scompare perché troppo visibile, perché irraggiungibile. Gabriele Galloni condivideva con me la passione per una canzone di Bruce Springsteen, Atlantic City, e allora chiudiamo questo pezzo cantando: «Well now everything dies baby that’s a fact / but maybe everything that dies someday comes back».