Cenni biografici Evelyn Scott (Clarksville, Tennessee, 1893 – New York 1963) era una scrittrice, drammaturga e poetessa americana. Scrittore modernista e sperimentale, Scott “era una figura letteraria significativa negli anni ’20 e ’30, ma alla fine cadde nell’oblio della critica”.
DESCRIZIONE – RECENZIONI
“Avuta, giovanissima, l’intrepida avventura di una fuga dal Brasile con un uomo povero e marito di un’altra, ha lasciato un libro autobiografico… Uno stile duro, freddo, sempre amaro d’istinto, che rimarrà un esempio di ardita forza” (Elio Vittorini, Americana)
“Evelyn Scott scriveva piuttosto bene, per essere una donna” (William Faulkner)
Nel 1913 una ragazza minorenne, incinta, fugge in Brasile con un uomo che potrebbe essere suo padre, suscitando uno scandalo di cui si impadronisce la stampa. Rimane in Sud America sei anni, in una zona remota, affrontando prove durissime, miseria, sofferenza, disprezzo. E’ la storia di una sfida: una delle molte sostenute da questa giovane nata nel 1893 nel Tennessee, che si è lasciata alle spalle una casa in stile Via col vento, un’adolescenza di “ardente femminista” e persino il suo nome vero, per chiamarsi Evelyn Scott, consapevole, forse, che la sua vita somiglierà a quella di un’eroina romanzesca degli anni Venti.
Tornata in America, Evelyn Scott diventa improvvisamente una stella del firmamento letterario di New York: la sua carriera di scrittrice è vertiginosa. Quando pubblica le sue prime poesie, William Carlos Williams le scrive: “Lei è – oltre a H.D. – l’unica donna che possa far poesia oggi”.
E Sinclair Lewis, dopo aver letto il suo primo romanzo, The Narrow House: “Salutiamo Evelyn Scott. E’ una di noi; una che sa; un’artista autentica. Il suo libro è un avvenimento”. Escapade (In fuga), il diario del suo periodo brasiliano, s’impone nel 1923 come storia di uno scandalo e di una ribellione ai codici sociali. Ma Evelyn sembra avere anche il dono della divinazione critica: scrive il suo primo lungo saggio americano su Joyce, Un contemporaneo del futuro, e “lancia” Willian Faulkner, allora agli esordi, convincendo il proprio editore a pubblicare L’urlo e il furore. Quando però Faulkner riceve il Nobel nel 1950 Evelyn non pubblica più da tempo; morirà nel 1963, dimenticata, lasciando dietro di sé poche tracce e molti enigmi.
Elio Vittorini, nell’Americana, scopriva Evelyn Scott tra i “piccoli scrittori irrequieti” degli anni Venti – Robert McAlmon, Waldo Franck, Ben Hecht – e pubblicava alcune pagine di Escapade nella traduzione di Eugenio Montale. “Non le ho più dimenticate” scrive Marisa Bulgheroni nel commento alla prima edizione italiana (1988). “Il libro brasiliano di Evelyn si colloca sullo scaffale di quei rari testi autobiografici (Walden di Thoreau, La mia Africa di Karen Blixen) che usano la prima persona singolare come un appostamento, un osservatorio tramite il quale rivelarci un mondo mai fino allora immaginato – si tratti di un lago tra i boschi,di un continente o dello spazio psichico”.
Editori Riuniti, Via di Fioranello n.56, 00134, Roma (RM)
Se l’Italia cestina i suoi poeti: il caso Piero Bigongiari
Proprio così. In questo Paese i poeti, come Piero Bigongiari, all’improvviso, affogano nelle sabbie mobili. Senza mobilitazioni popolari, i poeti scompaiono dall’orizzonte editoriale, e chi se li ricorda più. Uno dopo l’altro, assistiamo a una lenta, inesorabile, macelleria dei nostri ‘grandi’. Questa volta a soffocare in soffitta è finito Piero Bigongiari. Morto a Firenze il 7 ottobre del 1997, nessun giornale ‘nazionale’ ha rammentato i vent’anni dalla scomparsa di “uno dei più grandi poeti del Novecento” (così la didascalia di uno dei suoi libri, afferrato a casaccio). Insomma, hanno scavato la fossa a Bigongiari e non lo tirano fuori nemmeno per far finta di onorare la ricorrenza. Peccato. Peccato perché Bigongiari è stato un grande poeta, certo, ma soprattutto un poeta anomalo, inquieto, proteiforme. Nato a Navacchio, in provincia di Pisa, Bigongiari fa l’Università a Firenze, dove fa amicizia con i grandi di allora, Eugenio Montale, Carlo Emilio Gadda, Elio Vittorini, Tommaso Landolfi. Esordio poetico nel 1942, con La figlia di Babilonia, subito eletto, insieme a Mario Luzi, il più talentuoso e risolto tra gli ‘ermetici’, Bigongiari ha scritto tanto, ha tradotto tanto, è stato un raffinato prof e un acuto studioso di cose d’arte. La sua arguta generosità ha sedotto una generazione: Roberto Carifi, Paolo Roberto Iacuzzi e Alessandro Ceni sono, diversamente, suoi allievi. Già, ma dove lo leggiamo, oggi, Bigongiari, poeta sempre in cerca di sé, audacemente filosofo, impenitente narratore? Non possiamo leggerlo, semplice. La raccolta Dove finiscono le tracce (1958-1996) edita da Le Lettere si trova in biblioteca, idem per le poesie ultime, raccolte come Il silenzio del poema (Marietti, 2003). Il resto, è disperso in piccoli editori, per piccole, amorevoli, iniziative. Di fatto, di Bigongiari, uno dei grandi poeti del secolo, oggi, vent’anni dopo, in libreria, c’è nulla. Figuriamoci allestire un ‘Meridiano’ Mondadori – l’han fatto a Eugenio Scalfari e ad Andrea ‘Montalbano’ Camilleri – a chi importa della parola poetica, l’unica importante? Per capire la grana lirica di questo poeta immenso cercate qualcosa in rete. Una poesia tra le più belle si chiama Daffodils, è tra le ultime, scritte nel gennaio del 1997. Per Bigongiari la poesia è un diario perpetuo, è dissezionare il mondo con il bisturi della propria anima.
I cammini del senso sono strani
deviano spesso misericordiosi
in altri, e vani, i suoi significati,
daffodils chiamammo per il resto
del viaggio il mistero oculare
di una felicità che non ha nome
se non nella più ampia identità
sfuggente a ogni sguardo. Tu ricordi
come si chiama ciò che non si sa?
E il tuo sorriso rispondeva: Daffo-
dils, mi pare daffodils. Forse
fu quella la definizione più
precisa, che incisa su un sorriso,
pietrificò l’enigma e lo smentì
in uno scoppio improvviso di risa.
Questa è una stanza di Daffodils. I daffodils sono una variante del narciso, che il poeta scopre a South Kensington. Il riferimento letterario dotto (“seppi che ne aveva parlato anche Wordsworth”) aumenta, chissà, il sentore di enigma. Il fiore, ad ogni modo, diventa figura di ciò che è inesprimibile. E la poesia è di una bellezza che dobbiamo solo tatuarcela nel cuore.
Quest’anno, poi, inoltre, scocca un altro anniversario che riguarda Bigongiari. Settant’anni fa, nel 1947, Bigongiari ospita nella sua casa fiorentina Dylan Thomas, il poeta gallese che è già leggenda – e che per fortuna nostra viene ancora pubblicato e letto. In Dylan Thomas (biografia tradotta in italiano nel 2008 per Mattioli) Paul Ferris ricostruisce il viaggio italiano del poeta – naturalmente, per eccesso di anglocentrismo, dimenticando di citare Bigongiari. “I Thomas si recarono in Italia in aprile”: prima attraccano a San Michele di Pagana, nei pressi di Rapallo, meta prediletta di Ezra Pound e di William B. Yeats, poi arrivano a Firenze, patria dell’intelligenza italiana. Bigongiari porta Thomas, che ha già pubblicato le poesie più belle, alle Giubbe Rosse, mitico bar fiorentino. Da lì il gallese verga una delle sue lettera strappalacrime indirizzate alla moglie (giocavano, entrambi, a fare i fedifraghi): “Caitlin mia cara, cara, cara: ti scrivo questa inutile lettera a un tavolino delle Giubbe Rosse dove, dopo averti vista salire su un tram, mi sono recato, più triste di chiunque al mondo, a sedermi ad aspettare. Posso solo dire che ti amo come non mai; questo significa che ti amo per sempre, con tutto il cuore e tutta l’anima, ma questa volta come un uomo che ti ha perso”. Thomas rimpiangeva la nebbia di Londra, le praterie gallesi, i bar d’Albione. “Qualche volta andava in centro a Firenze a passare una serata nei caffè. Attorno si radunavano gli intellettuali. Thomas fissava il vuoto e si addormentava. Una fonte attendibile racconta che una volta si nascose nel guardaroba per evitare di incontrare uno scrittore italiano venuto a fargli visita”. Solo Bigongiari era ammesso nell’arco rapido dell’amicizia di Dylan Thomas. Bigongiari andò in brodo per Thomas, che influì sulla sua ricerca poetica, fatta di divagazioni liriche, di esplosioni linguistiche. Lo tradusse, pure. Una delle poesie più celebrate di Thomas, And death shall have no dominion, diventa, “E morte non regnerà/ E morte non regnerà./ I morti nudi saranno una cosa sola/ Con l’uomo nel vento e la luna occidentale”. Magnifico. Il dialogo tra i vivi e i morti è continuo, una fioriera di sorprese. Invece, in Italia, ci ostiniamo a dimenticare i nostri grandi, una volta ficcati nella bara. Sia lode, ora, a Bigongiari.
È considerato uno degli autori che furono alla base dell'”avanguardia non codificata”, come lui stesso definiva l’ermetismo.[1] Con i poeti Luzi e Parronchi costituì quella che Carlo Bo definì la “triade dei poeti ermetici toscani”.[2] Come esponente austero e rigoroso dell’ermetismo purista, ne accentuò la tendenza metafisica con una trattazione predominante del tema dell’assenza, accompagnata da un forte anelito religioso.[3] In un secondo tempo, indicativamente dai primi anni settanta, la sua poesia raggiunse maggiore consapevolezza ed equilibrio tra il richiamo della realtà e la sua trasfigurazione simbolica.[1]
La giovinezza
Piero Bigongiari nacque il 15 ottobre 1914 a Navacchio, in provincia di Pisa, dove la sua famiglia si era trasferita nel 1911 da Livorno. Era il quarto dei cinque figli di Alfredo Bigongiari, ferroviere, e di Elvira Noccioli.[4]
A Pistoia conobbe Roberto Carifi: vivevano a pochi metri di distanza ed ebbero importanti momenti di scambio intellettuale.
Nel 1936 si laureò con il professor Attilio Momigliano, discutendo una tesi su Leopardi, “L’elaborazione della lirica leopardiana”, pubblicata pochi mesi dopo dall’editore Le Monnier.
Nel 1941 Bigongiari sposò Donatella Carena, figlia del pittore Felice Carena, e si trasferì a Firenze, in Piazza dei Cavalleggeri 2, zona Santa Croce, dove vivrà fino alla morte. Ebbero un figlio, Lorenzo, ma il matrimonio naufragò quasi subito e si arrivò addirittura alla dichiarazione di nullità.[4]
Nel 1942 pubblicò il suo primo volume di poesie, “La figlia di Babilonia”. Nello stesso anno ebbe inizio la sua amicizia con Giuseppe Ungaretti, solitamente considerato l’ispiratore e il primo vero poeta dell’ermetismo.
Nel 1948 conobbe Elena Ajazzi Mancini, la donna che diventerà la sua seconda moglie e dalla quale avrà un secondo figlio, Luca, nato nel 1952. Con Elena il poeta condivise, fino agli ultimi giorni, l’esistenza, le amicizie e le passioni, soprattutto quelle per l’arte (in particolare per il “Seicento fiorentino”, di cui furono grandi collezionisti e di cui Bigongiari fu anche esperto critico) e per la cultura francese.[4]
Negli anni cinquanta iniziò la collaborazione ai programmi radiofonici della RAI“L’Approdo” e “L’Approdo letterario” e, su invito dell’amico Romano Bilenchi, iniziò a fornire il suo contributo ai quotidiani Il Nuovo Corriere e, in un secondo momento, La Nazione. Nel 1951 iniziò la traduzione e la cura dell’opera completa di Joseph Conrad (che completerà nel 1966, in ventiquattro volumi) e diventò redattore della rivista Paragone, appena fondata dallo storico dell’arte Roberto Longhi (incarico che manterrà per circa dieci anni e che abbandonerà nel 1960 in polemica con Giorgio Bassani[4]).
Benché si definisse «un sedentario che si sposta»[10], Bigongiari, soprattutto nei primi anni cinquanta, compì una serie di viaggi in Francia e in Medio Oriente, e lunghi soggiorni in Grecia e in Egitto con l’amico Giovanni Battista Angioletti, e con il giornalista Sergio Zavoli, traendone suggestivi reportage, poi pubblicati con i titoli “Testimone in Grecia” (1954) e “Testimone in Egitto” (1958).[10] Nel 1952 uscì il suo secondo libro di versi “Rogo”, seguito tre anni dopo da “Il corvo bianco” (1955) e, dopo altri tre anni, da “Le mura di Pistoia” (1958). Sulla rivista La Palatina comparve il suo primo importante saggio d’arte contemporanea, su Jackson Pollock.
La maturità e l’ultimo periodo
Nel 1965 vinse il concorso per la cattedra universitaria in Letteratura italiana moderna e contemporanea e cominciò a insegnare alla Facoltà di Magistero dell’Università di Firenze, incarico che mantenne fino al 1989. Nel 1977 dette vita alla rivista di “studi e testi” Paradigma, pubblicata internamente alla Facoltà di Magistero, chiamando a collaborarvi i suoi assistenti e allievi dell’Istituto di Letteratura italiana moderna e contemporanea.[4]
Dal punto di vista dell’attività letteraria, il periodo che va dai primi anni sessanta fino alla sua morte, vide Bigongiari impegnato in un’incessante ed eterogenea produzione, che mette in luce la molteplicità dei suoi interessi e la sua versatilità.
Tra le principali opere poetiche di questo periodo si segnalano le raccolte “La torre di Arnolfo” (1964), “Antimateria” (1972), “Moses” (1979), “Col dito in terra” (1986), “Diario americano” (1987), “Nel delta del poema” (1989), “La legge e la leggenda” (1992). Nel 1985 pubblicò anche la selezione antologica “Autoritratto poetico”.[7] Nel 1994, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi fu pubblicato il primo volume (poesie del 1933–1963) della raccolta antologica‘Tutte le poesie’ , ed insieme la raccolta inedita degli anni 1933-1942, con il titolo “L’arca”. Come ultime opere poetiche di Bigongiari sono da considerare le due raccolte “Dove finiscono le tracce” e “Nel giardino di Armida” (entrambe uscite nel 1996).
fu sempre affiancata da quella di traduttore, che riguardò testi di Rainer Maria Rilke, dei francesi René Char e Francis Ponge (“Poesia francese del Novecento”, 1968), oltre ai già citati Joseph Conrad e Dylan Thomas. Fu anche autore di importanti studi critici, tra i quali “Poesia italiana del Novecento” (1960), “Leopardi” (1962), in cui riunì tutti i suoi saggi scritti fino a quel momento sul poeta di Recanati, “La poesia come funzione simbolica del linguaggio” (1972), “Visibile invisibile” (1985) e “L’evento immobile” (1987).[4]
Collezionista e studioso di pittura, nel 1975 pubblicò il testo d’arte “Il Seicento fiorentino”. I suoi numerosi saggi brevi su temi artistici furono riuniti nel 1980 in “Dal Barocco all’Informale”, che è la testimonianza del suo costante interesse per la pittura contemporanea (da Paul Klee a Giorgio Morandi, da Max Ernst a Ennio Morlotti, da Jackson Pollock a Balthus).[4]
La vedova Elena Ajazzi Mancini donò, con lascito testamentario alla sua morte, la biblioteca (oltre 6.000 volumi) alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia, dove la maggior parte dei volumi sono conservati in una saletta intitolata al poeta.[12][13]
Sempre a Pistoia, presso i Musei dell’Antico Palazzo dei Vescovi,[14] è conservata la collezione dei quadri del Seicento Fiorentino, messa insieme negli anni dai coniugi Bigongiari e acquisita dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia alla morte della signora Ajazzi Mancini.
«Con la sua parola calma, discreta, impastata in quel silenzio da dove provengono le parole vere, Bigongiari raccontava la sua poesia. Poche esperienze poetiche e di pensiero di questo secolo sembrano al pari di quella di Bigongiari, la parola donata nella comune memoria del Bene. Un cammino in cui la poesia, nota che accomuna maestro e discepolo, è un luogo dove nessuno sarà mai a tal punto straniero da non potervi trovare l’accoglienza.»
Archivio
Il fondo Piero Bigongiari[16] è stato donato nel 2007 alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia in base alle disposizioni testamentarie di Elena Ajazzi Mancini, vedova di Piero Bigongiari. Il versamento è stato curato da Paolo Fabrizio Iacuzzi, curatore delle opere di Bigongiari, che si è occupato anche dell’ordinamento del fondo e ha redatto un Inventario topografico. L’archivio contiene materiale relativo a Bigongiari poeta, traduttore e narratore, traduttore e scrittore: autografi, dattiloscritti, minute, materiali preparatori, bozze manoscritte e dattiloscritte, fogli volanti, pubblicazioni in riviste ed opuscoli, suddivisi a seconda dei libri pubblicati e in cartolari cronologici di inediti dal 1972 al 1997.
Opere
Poesie
La figlia di Babilonia, Parenti, Firenze, 1942
Rogo, Ed. della Meridiana, Milano, 1952
Il corvo bianco, Ed. della Meridiana, Milano, 1955
Le mura di Pistoia (1955-1958), Mondadori, Milano, 1958
Il caso e il caos, Ediz. Salentina, Lecce, 1960
Antimateria, Mondadori, Milano, 1972
Moses, Mondadori, Milano, 1979
Autoritratto poetico, Sansoni, Firenze, 1985
Col dito in terra, Mondadori, Milano, 1986
Diario americano, Amadeus, Montebelluna, 1987
Nel delta del poema, Mondadori, Milano, 1989
La legge e la leggenda, Mondadori, Milano, 1992
L’arca, Le Lettere, Firenze, 1994
Dove finiscono le tracce (1984-1996), Le Lettere, Firenze, 1996
Nel giardino di Armida, Le Lettere, Firenze, 1996
Tra splendore e incandescenza, Pezzini Editore, Viareggio 1996
Saggi
L’elaborazione della lirica leopardiana, Le Monnier, Firenze, 1937
Il senso della lirica italiana e altri studi, Sansoni, Firenze, 1952
Poesia italiana del Novecento, Vallecchi, Firenze, 1960
Leopardi, Vallecchi, Firenze, 1962
Torre di Arnolfo, Mondadori, Milano, 1964
Capitoli di una storia della poesia italiana, Ediz. Felice Le Monnier, Firenze, 1968
La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli, Milano, 1972
Nel 1951, l’anno in cui pubblica Il brigante, Berto è già uno scrittore affermato. I due libri precedenti, Il cielo è rosso e Le opere di Dio, composti nell’isolamento del campo di prigionia di Hereford e apparsi tra il 1947 e il 1948, erano stati accolti favorevolmente in Italia e all’estero, dove la stampa non aveva mancato di accostare lo scrittore ai maestri del neorealismo cinematografico italiano. Con Il brigante, Berto decide dunque di rendere aperto omaggio al romanzo al cui centro vi siano scottanti problemi sociali – dirà successivamente di aver scritto un libro «marxista» –, alla maniera dei narratori che, come mostra Gabriele Pedullà nello scritto che accompagna questa edizione, orbitano, in quella stagione letteraria, «attorno a Elio Vittorini e si riconoscono genericamente in un movimento neorealista dalle molte facce diverse». Traendo ispirazione da un fatto di cronaca, Berto narra la vicenda di Michele Renda, giovane reduce di guerra che, tornato nel villaggio natio tra i monti della Calabria, ingiustamente accusato di omicidio, si dà alla macchia e diventa un brigante. Una storia che consente all’autore del Cielo è rosso di porre in risalto «il conflitto assoluto di Bene e di Male, lo scandalo della virtú perseguitata, la riscossa delle vittime innocenti» (Gabriele Pedullà), e di comporre pagine particolarmente felici sulla vita delle campagne calabresi in un momento di radicale trasformazione. Come, tuttavia, Berto farà notare nella prefazione all’edizione del 1974, Il brigante non è un romanzo interamente ascrivibile al neorealismo, al movimento culturale, cioè, che mirava alla «rigenerazione morale del paese» e al «raggiungimento d’una decente giustizia sociale». Michele Renda, il suo protagonista, è un «sorpassato», un uomo «indissolubilmente legato al mondo arcaico dell’odio, del tradimento, della vendetta» e la comunità in cui si muove, animata da dicerie, è quanto di piú lontano dal grande mito della «comunità organica». In realtà, gli elementi psicologici propri della scrittura di Berto, quelli che troveranno la loro massima espressione nel Male oscuro, sono già presenti in questo romanzo in cui un eroe, estraneo e irriducibile al suo mondo, è mosso da un universo interiore nel quale bene e male sono divisi soltanto da un esile filo. Nel 1961, Renato Castellani trasse dal Brigante un film giudicato da Berto il migliore di tutti i film tratti dai suoi romanzi, e dalla critica odierna un capolavoro della cinematografia italiana.
RECENSIONI
«Uno dei piú belli e tragici romanzi che siano apparsi da anni, veramente un piccolo capolavoro». Time Magazine
«Volgendosi “in presa diretta” alla Calabria piú povera e afflitta, Il brigante ripete il gesto compiuto da Berto nei primi due romanzi, dove campeggiano le distruzioni della guerra, ma il senso dell’operazione è diverso perché questa volta Berto ambisce consapevolmente a iscriversi nella letteratura impegnata del periodo». Gabriele Pedullà
Breve biografia di Giuseppe Berto nasce a Mogliano Veneto il 27 dicembre 1914. Nel 1947 pubblica presso Longanesi Il cielo è rosso, su segnalazione di Giovanni Comisso. Tra il 1955 e il 1978, anno in cui si spegne a Roma, dà alle stampe, oltre al Male oscuro (Neri Pozza, 2016), Guerra in camicia nera e Oh Serafina!. Con Neri Pozza sono stati ripubblicati La gloria (2017) e Anonimo veneziano (2018), per restituire all’apprezzamento dei lettori e della critica odierna l’opera di uno dei grandi autori del nostro Novecento.
Salvatore Quasimodo,Premio Nobel 1959, le 5 poesie più belle
Ed è subito sera
Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera
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Ora che sale il giorno
Finita è la notte e la luna si scioglie lenta nel sereno, tramonta nei canali.
È così vivo settembre in questa terra di pianura, i prati sono verdi come nelle valli del sud a primavera. Ho lasciato i compagni, ho nascosto il cuore dentro le vecchi mura, per restare solo a ricordarti.
Come sei più lontana della luna, ora che sale il giorno e sulle pietre bette il piede dei cavalli!
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Già la pioggia è con noi
Già la pioggia è con noi, scuote l’aria silenziosa. Le rondini sfiorano le acque spente presso i laghetti lombardi, volano come gabbiani sui piccoli pesci; il fieno odora oltre i recinti degli orti.
Ancora un anno è bruciato, senza un lamento, senza un grido levato a vincere d’improvviso un giorno.
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Fresche di fiumi in sonno
Ti trovo nei felici approdi, della notte consorte, ora dissepolta quasi tepore d’una nuova gioia, grazia amara del viver senza foce.
Vergini strade oscillano fresche di fiumi in sonno:
E ancora sono il prodigo che ascolta dal silenzio il suo nome quando chiamano i morti.
Ed è morte uno spazio nel cuore.
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Imitazione della gioia
Dove gli alberi ancora abbandonata più fanno la sera, come indolente è svanito l’ultimo tuo passo che appare appena il fiore sui tigli e insiste alla sua sorte.
Una ragione cerchi agli affetti, provi il silenzio nella tua vita.
Altra ventura a me rivela il tempo specchiato. Addolora come la morte, bellezza ormai in altri volti fulminea. Perduto ho ogni cosa innocente, anche in questa voce, superstite a imitare la gioia.
Biografia di Salvatore Quasimodo
Salvatore Quasimodo nasce a Modica nel 1901. Il padre è capostazione, e da piccolo Salvatore viaggia molto; anche la sua adolescenza trascorre serena, all’insegna degli spostamenti in diversi paesi siciliani per via del lavoro paterno.
Eclettico per natura, Quasimodo si stanca subito delle attività cui si dedica. Nel corso dell’età adulta si destreggia con vari mestieri, fra cui il commesso, il disegnatore tecnico, il contabile, l’impiegato al genio civile… tutte mansioni che può svolgere grazie al suo diploma da geometra. Ma ciò che non lo stanca mai è lo studio delle lettere, a cui si dedica parallelamente alle attività saltuarie. Si appassiona così tanto ai classici e all’arte della scrittura che ben presto comincia a scrivere.
Intanto, a Milano ottiene una cattedra per l’insegnamento della letteratura. Il cognato Elio Vittorini ha un grande ruolo nella carriera di Salvatore Quasimodo: è proprio lui che presenta lo scrittore agli intellettuali legati alla rivista letteraria Solaria, dove vengono pubblicate le prime poesie dell’autore.
Presto, Quasimodo si lega ai poeti ermetici e fa dell’ermetismo la sua cifra poetica. Le sue raccolte affrontano i temi più disparati ma, soprattutto dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, larga parte della sua produzione è dedicata esclusivamente alla tematica bellica e all’impegno civile. Nel 1959 gli viene conferito il Premio Nobel per la Letteratura. Muore improvvisamente a Napoli, nel 1968.
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