Sinossi del libro di Cauvain Henry-L’investigatore Maximilien Heller-Un ricchissimo banchiere parigino viene ucciso. La polizia, il procuratore del re, il giudice istruttore accusano senza esitare un poveraccio, Guérin, servitore del banchiere. Avrebbe ucciso il padrone per un pugno di denaro, usando l’arsenico, il classico veleno per topi. La fortuna di Guérin è di essere il vicino di casa, o meglio: di soffitta, di Maximilien Heller, un giovane avvocato che ha lasciato anzitempo la professione, misantropo e geniale. Sospetta subito che il servitore sia accusato ingiustamente, perché i segni che ha potuto osservare sul cadavere non confermano la presenza della sostanza tossica. Così, con il suo attivismo, un po’ alacre un po’ pigro, che scopre tracce, ricostruisce fatti e deduce conclusioni, trova la verità. E, grazie ad astute dissimulazioni, sventa un complotto. Colpisce quante cose in comune con Sherlock Holmes (nato nel 1887) abbia Maximilien Heller che lo precede di sedici anni (1871). Compreso il medico narratore e amico protettivo, e tranne il fatto che l’investigatore di Cauvain vanta una cultura pressoché illimitata, mentre Sherlock cancella sistematicamente tutte le nozioni che non gli sono utili. Tanto che si può sospettare che sia lui il modello per l’allampanato eroe di Conan Doyle. Il francese ha forse una maggiore sensibilità sociale. Comunque sia, Maximilien Heller è evidentemente uno dei prototipi originari di tutti gli investigatori deduttivi. Ama i gatti come Baudelaire, conduce vita bohémienne e si muove tra languori decadenti e orgoglio positivista.
Antonia Pozzi –Poesia “Indugiano” da Brughiera del 1937
Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
Indugiano
carezze non date
fra le dita dei peschi
e gli sguardi
d’amore che mai non avemmo
s’appendono alle glicini sui ponti –
Ma il fiume
è densa furia d’acque senza creste, nel grembo
porta profondi visi di montagne:
e all’immenso
svolto dei boschi trova lieve il vento,
tocca le fresche nuvole
d’aprile.
(da Brughiera – Antonia Pozzi – 28 aprile 1937)
Per troppa vita che ho nel sangue
tremo nel vasto inverno.
(Antonia Pozzi)-Foto: Antonia, Casorate 1937
Biografia di ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)-Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzied Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita.
Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Onorina Dino
Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
Giudizio del critico Cesare Garboli sul poeta e saggista Franco Fortini
da MaledettiPoeti
Cesare Garboli :<<La verità è che Franco Fortini -(Firenze, 1917 – Milano, 1994)- era un grande letterato, un letterato che, ogni tanto, scriveva delle poesie bellissime e insuperabili. Solo che questo letterato incallito, con tutti i vizi, le qualità, le vanità dei letterati, è stato visitato un giorno dalla politica così come Cristo si è fatto visitare dal demonio.>>
L’Autore toscano è stato uno degli intellettuali più influenti del ‘900. In seguito alle leggi razziali dell’Italia fascista cambiò il cognome ebraico Lattes con quello materno, Fortini.
A proposito del suo scomodo ruolo nel dibattito culturale nazionale, dichiarò negli anni ’90: “Ho praticato l’isolamento per quasi trent’anni. Vivo da tempo incontrando pochissime persone, evito quanto posso le pubbliche occasioni e gli ambienti letterari, non leggo miei versi in pubblico. Per vent’anni non ho concorso a premi. Non mi perdonano, da sempre, certe posizioni e certi giudizi. L’Italia aveva avuto, dal Risorgimento in poi, quello che Edoarda Masi chiama un ‘ceto pedagogico’. Ossia intellettuali che si facevano latori di coscienza critica. Oggi tale categoria non esiste più. La sua goffa imitazione è quella dei moralisti da giornalismo corrente e da TV.”
Il suo impegno civile proseguì fino alla fine della sua vita. Pochi mesi prima di scomparire venne infatti pubblicato da Einaudi, all’interno della sua ultima raccolta di versi, ‘Composita solvantur’, un capitolo dedicato alla Guerra del Golfo, conflitto armato tra Iraq e Stati Uniti che divenne il più grande evento mediatico globale del ventesimo secolo. La sezione conteneva anche la esemplare lirica ‘Lontano, lontano’, ironico componimento sulla sanguinaria crudeltà bellica ‘anestetizzata’ e spettacolarizzata dal racconto televisivo.
Racconta in proposito l’accademico Donatello Santarone: “Nel febbraio 1994 Franco Fortini pubblicò ‘Sette canzonette del Golfo’. Fu tra i pochissimi intellettuali italiani ad avere la tragica consapevolezza di quanto stava accadendo. Di fronte all’orrore dell’Armada occidentale, il poeta sceglie la ‘distanza’ del registro ironico, tra Metastasio e Manzoni, come in questi distici in doppio senario a rima baciata di ‘Lontano, lontano’, ago doloroso contro l’ipocrisia dominante.”
Una curiosità sulla carriera di Fortini denota la sua profonda adesione allo spirito del tempo da lui vissuto. Come riferisce lo scrittore Gianni D’Elia, fu lui a ‘battezzare’ la famosa macchina da scrivere della Olivetti, emblema del Giornalismo dell’era pre-Internet, con il nome con cui è da tutti conosciuta, ovvero ‘Lettera 22’ (dal 1963, ‘Lettera 32), nel periodo in cui lavorava nella fabbrica informatica di Ivrea, dal ’48 al ’54.
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RAGIONE DEGLI ANNI
Si può ancora disperdersi, schiarite
dei mesi incerti, soli obliqui.
Si può ancora volare per la vostra
polvere tenera, schiarite.
Di rado il profondo su querce e vasche d’iride
Eliso azzurro meditando posa
e un chiù persuade il viale roseo
che l’affanno può sparire.
Ma gioventù ci aspetta in una sera
di calme stille dai rami e di passi
incerti. Una leggera chiara sera
avremo ragione degli anni.
AGLI DÈI DELLA MATTINATA
Il vento scuote allori e pini. Ai vetri, giù acqua.
Tra fumi e luci la costa la vedi a tratti, poi nulla.
La mattinata si affina nella stanza tranquilla.
Un filo di musica rock, le matite, le carte.
Sono felice della pioggia. O dèi inesistenti,
proteggete l’idillio, vi prego. E che altro potete,
o dèi dell’autunno indulgenti dormenti,
meste di frasche le tempie? Come maestosi quei vostri
Presentiamo alcune poesie di Verónica Jiménez: PoesÍa De Chile
Verónica Jiménez (Santiago del Cile, 1964) dal libro Nada tiene que ver el amor con el amor, pubblicato da Piedra de Sol Ediciones a Santiago nel 2011, e da noi, a cura di Sabrina Foschini, nel 2014 con il titolo L’amore non ha niente a che fare con l’amore. Verónica Jiménez ha ricevuto nel 2013 il premio Migliore Opera Letteraria del Consiglio della Cultura del Cile, per il suo saggio Cantores que reflexionan. Cultura y poesía popular en Chile.
L’amore non ha niente a che fare con l’amore
non ha niente a che fare la sete con l’acqua che dirompe
né la primavera con il fiore che si stacca dallo stelo.
Sono solo esempi.
L’amore ha a che vedere con l’abitudine di guardarsi più volte negli occhi
ha a che vedere con l’abitudine
di cercare negli occhi avversi l’eco di un lampo
o parole gentili dietro le maschere severe del silenzio.
Non hanno niente a che fare con l’amore i prolungamenti dell’estate
né le foglie che si staccano esauste dagli alberi
neanche quelle che agli alberi si aggrappano come tarli.
È un esempio.
L’amore ha a che fare con una casa distrutta dalla pioggia
con stanze al buio e le pozzanghere
con le tristi camicie avvinghiate al vuoto dell’aria
con i maglioni senza scopo sospinti nel fuoco
con un paio di occhi soffocati nel loro specchio.
L’amore ha a che fare con l’abitudine di guardarsi negli occhi più volte
e riattizzare le fiamme delle pozzanghere più volte
e ospitare la pioggia nelle stanze buie più volte.
L’amore ha a che fare con la fuga dalle nostre case
col fondare nel fango una nuova città per metterci al riparo
col vestirci in nome dell’amore di una nuova ghirlanda di grandine
col rinnegare nel suo nome i frutti e gli alberi.
L’amore non ha niente a che fare con l’amore.
Non ha niente a che fare l’amore con le parole che feconda.
CORPI AVVERSI
La luce è sedentaria, l’oscurità
ci spinge in quattro direzioni
alla velocità del riso o dello spavento
Abbi il coraggio di incrociare i corpi avversi
anche se ti accorgi che i piedi
sono la contraddizione dei piedi
cercando marciapiedi transitori
nella notte. Va e penetra
nei loro corpi
e se qualcuno ti chiede di trattenerti
nel momento in cui le tue mani
contano mani e quanto hai toccato
è preso da un vento verticale
non lo ascoltare, abbi il coraggio
di abitare solchi avversi, come
il nottambulo fa migrare
quanto ha toccato
verso una luce che sprofonda
nella lampada spenta.
Comprendere all’improvviso
il luogo più propizio per il fiore
l’esatta commemorazione del petalo
che si sfoglia, cade e si dissolve
in un sogno senza più sussulti.
La consunzione dello scheletro
la crescita tenace delle unghie
senza altro scopo
d’immaginari graffi nel legno.
Il fiore perde i nettari che lo intridono
la carne si ripiega verso il ventre del nulla.
I miraggi della luce
sulle steppe solitarie della pelle.
Sotto il suolo
i rituali funebri dell’amore
lacerano le foglie.
Una stella bagna l’altra
come prima bagnava il corpo irrigidito.
Acque di dolore, germoglio
estirpato.
Con la luce degli astri costruisce una lanterna
per cercare sotto le ceneri
statue immobili o cadaveri in movimento:
questo è un braccio e giace aggrappato alla lampada
questi sono gli occhi avvezzi a guardare all’interno.
La bocca lancia pietre nel precipizio
e il corpo
si svuota di tutti i nomi.
Il corpo tenta di entrare in quello che rimane
quando finisce l’accoppiamento degli astri.
Traduzioni di Sabrina Foschini
Verónica Jiménez (Santiago del Cile, 1964) dal libro Nada tiene que ver el amor con el amor, pubblicato da Piedra de Sol Ediciones a Santiago nel 2011, e da noi, a cura di Sabrina Foschini, nel 2014 con il titolo L’amore non ha niente a che fare con l’amore. Verónica Jiménez ha ricevuto nel 2013 il premio Migliore Opera Letteraria del Consiglio della Cultura del Cile, per il suo saggio Cantores que reflexionan. Cultura y poesía popular en Chile.
*Critico letterario. Nata a Napoli nel 1923, si spostò giovane nel Nord Italia, dove si laureò in Filosofia, all’Università di Milano. Allieva di Antonio Banfi, uno dei personaggi di spicco della cultura italiana del tempo, fu da questi fortemente influenzata. L’idea della responsabilità morale delle persone che hanno mente e agiscono nel mondo e la partecipazione politica alle lotte anti-fasciste, insieme alla militanza del suo professore nel Partito Comunista Italiano, indirizzarono Armanda Guiducci verso il coinvolgimento politico e l’attivismo culturale.
La scrittrice cominciò, quindi, un’associazione lunga e duratura con gli intellettuali e le pubblicazioni della Sinistra politica. Interessata alla produzione e alla diffusione della cultura, collaborò con quotidiani e settimanali che promuovevano confronti ideologici e dibattiti culturali.
Nel 1955, Franco Fortini, Luciano Amodio e Roberto Guiducci e lei, lanciarono l’acclamato giornale politico letterario Ragionamenti, di cui la Guiducci divenne direttore.
Negli Anni ’60 e ’70, pubblicò diversi libri di critica, tra i quali ricordiamo il più famoso, e spesso tradotto, Dallo zdanovismo allo strutturalismo (1967), e due libri su Cesare Pavese, Il mito Pavese (1967) e Invito alla lettura di Pavese (1950).
Si interessò anche di Sociologia, Psicoanalisi, Etnologia e Antropologia Culturale, scrivendo un saggio su La letteratura della nuova Africa (1979), in collaborazione con Lina Angioletti.
La Guiducci iniziò anche una carriera artistica, con due raccolte di versi: Poesie per un uomo (1965) che ebbe un enorme successo, e vinse il premio Cittadella, e A colpi di silenzio (1982), che vinse il premio Pisa, già vinto dalla scrittrice, nel 1967, con Il mito Pavese.
Negli Anni ’70, la Guiducci partecipò anche attivamente al dibattito femminista, producendo una serie di libri sulla condizione femminile, tra i quali ricordiamo: Due donne da buttare (1976), La donna non è gente (1977), All’ombra di Kalì (1979) e Donna e serva (1983).
In tempi più recenti, continuò a scrivere di femminismo, e pubblicò due volumi della storia delle donne, edita da Sansoni. Morì nel 1992 di cancro.
“Poesie per un uomo”, racchiude il “racconto” di un modo d’amare che è bisogno di totalità, di immediatezza, di forza:..E’ il prorompere di un amore certo, lontano dal dubbio che, dimentico delle stanche ombre notturne, sa cogliere negli occhi dell’amato la luminosità dell’alba.
Il suo è un io aperto, un io che vorrebbe abbracciare l’ALTRO e fondersi con lui, che si nutre nel desiderio della primigenia indivisione fra l’IO e l’ALTRO, la femmina e il maschio, questo io che ha ricevuto il dono di generare l’altro, si vede inesorabilmente negata la possibilità di ricongiungersi con lui nella pienezza di un amore. Non certo di separazione fisica qui si tratta, perchè l’oggetto amato si erge “contro” colei-che-ama non come differenza positiva, che è complementarità, ma come totale estraneità: “Altro da me in tutto… maschio, estraneo,/altra carne, altro cuore, altra mente, …”; è una estraneità tormentosa e feroce, piena di “una repressa voglia di ferire/chi, amando, ti augura il buongiorno” .
Eppure la constatazione che i due universi (il maschile e il femminile) sono retti da logiche totalmente dissonanti, che arrivano perfino a porre una differenza nelle strutture categoriali di percezione del reale “La femminile immagine del mondo/che mi separa da te (e a te mi attrae)/segue un tempo diverso. …” , non produce nelle “Poesie per un uomo” una vera e propria rottura o negazione dell’altro. Di fronte a tutto ciò, l’io femminile, pur incolmabilmente lacerato, si fa attonito, ma fermo e deciso ad affermare le proprie modalità, il proprio universo d’amore, anche se questo significherà assaggiare l’orrore dell’esclusione: “Ma neppure la lettura più azzardata/ha messo in dubbio te-come fai tu/ogni volta sull’asse di una pagina/che ti sposti un sistema costruito./T’ammiro, così astratto, e provo orrore/della tua incerta furia-forza maschile/e debolezza insieme; mancanza di natura/che mi relega in nota-a piè di pagina.”.
Approdata nel ’74 al femminismo, la Guiducci ha giustamente rifiutato di definire la sua opera “poesia femminile” ,perchè troppo spesso questa definizione è servita a mascherare una discriminazione e a rinchiudere la poesia delle donne nello spazio angusto di una sottopoesia, considerata incapace di realizzare quel salto “virile” che allarga l’esperienza individuale (l’autobiografia) alla dimensione universale. Al contrario la Guiducci, col suo linguaggio chiaro ma essenziale, con le sue metafore immediate, con i frequenti enjambements tesi a cadenzare il flusso gorgogliante del pensiero, è riuscita a trasformare il suo dialogo interiore in una riflessione che acquista la valenza di una esperienza doppiamente universale, perchè nella sua poesia l’universo femminile e quello maschile si delineano a vicenda, lentamente e dolorosamente, lasciando, nella scoperta dell’impossibilità di una loro comunicazione, un’anima ridotta a un “colpo di sera” .
“Le Sabine”opera di Jacques-Louis David è un dipinto ad olio su tela di grandi dimensioni – misura infatti 385 x 522 – eseguito da Jacques-Louis David tra il 1796 e il 1799 ed esposto a Parigi al Museo del Louvre. Il soggetto non rappresenta il RattodelleSabine da parte dei Romani, tema già trattato da Giambologna e Poussin, per esempio, ma un episodio leggendario delle origini di Roma nell’VIII secolo, di cui parlano Plutarco e Livio (Ab Urbe condita, I, 9, 5-10).Si tratta di un dipinto di genere storico appartenente alla corrente neoclassica, che segna un’evoluzione nello stile di David dopo la Rivoluzione francese e qualificato da lui stesso come puramente greco. David iniziò il dipinto all’inizio del 1796 e la sua realizzazione durò quasi quattro anni. Il maestro fu assistito da Delafontaine, responsabile della documentazione, e da Jean-Pierre Franque, che in seguito fu sostituito da Jérôme-Martin Langlois e da Jean-Auguste-Dominique Ingres. David dipinse Le Sabine senza aver ricevuto da qualcuno la commissione del quadro e alla fine del 1799 espose il dipinto al Louvre nell’ex gabinetto di architettura.
Nonostante la sua mostra fosse a pagamento, LeSabine attirò un gran numero di visitatori fino al 1805.
Anche la scelta di esporre un quadro e di farlo vedere previo pagamento di un biglietto d’entrata, può sembrare a noi moderni un fatto normale ma, nella mentalità del tempo, costituì un importante passo avanti nella definizione della libertà creativa dell’artista, il quale, precedentemente alla Rivoluzione, era stato in qualche modo sottomesso alla volontà della committenza: per la Francia, in particolare, a quella del re. In questa occasione, David scrisse un testo che giustificava sia questa forma di esposizione sia la nudità dei guerrieri che avevano scatenato grandi polemiche.
Dopo l’espulsione degli artisti dal Louvre tra cui lo stesso David, il dipinto fu spostato nell’ex chiesa del Collegio Cluny in Place de la Sorbonne che fungeva ormai da personale laboratorio di David. Nel 1819 David vendette LeSabine e la sua tela gemella LeonidaalleTermopili” ai musei reali per 100.000 franchi. Prima esposto al PalaisduLuxembourg e, dopo la morte del pittore, il dipinto tornò al Louvre nel 1826.
Al centro del dipinto di David si riconosce Ersilia, moglie di Romolo, che spalancando le braccia cerca di impedire lo scontro tra il marito e Tazio, re dei Sabini. Attorno a lei, le altre donne mostrano i bambini nati dall’unione con i Romani. La difesa della famiglia prevaleva sulla vendetta dell’onore ferito. Queste donne non sono diventate mogli e madri per loro scelta, ma tali oramai sono: sentono pertanto l’imperativo morale di preservare quanto è stato costruito.
Marta López Vilar- Poesie inedite-Rivista Atelier-
traduzione dallo spagnolo di Marcela Filippi Plaza
Marta López Vilar (Madrid, 1978) è una poetessa, traduttrice di letteratura, professoressa universitaria e scrittrice spagnola. Mantiene una partecipazione attiva a eventi culturali e letterari quali la distribuzione del Premio Cervantes, la gestione di attività di critica letteraria o commentatore radiofonico (SER) tra gli altri. Si è laureata in Filologia Spagnola e ha una vasta conoscenza del portoghese e del catalano. Ha realizzato diversi lavori di traduzione di poesia catalana, portoghese e greca contemporanea. Ha studiato lingua, letteratura e filosofia neo-elleniche all’Università di Atene. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Letteratura Spagnola presso l’Università Autonoma di Madrid, con una tesi sul misticismo e il simbolismo delle Elegie di Bierville di Carles Riba. Per il libro Di ombre e cappelli dimenticati nel 2003 ha vinto il premio di poesia “Blas de Otero” e nel 2007 ha vinto il premio “Arte Giovane di Poesia” della Comunità di Madrid col libro La parola attesa. La sua terza raccolta di poesie che si chiamerà Nelle e acque d’ottobre sta per giungere nelle librerie. Insegna presso l’Università di Alcalá. Ha trascorso un anno a Debrecen (Ungheria) contribuendo alla diffusione della lingua e cultura spagnola in Europa centro orientale.
Porto de Mágoas
Elegí los puertos que más se parecieran a tu voz.
Elegí los barcos, las olas, los peces
que tuvieron que morir entre cenizas…
Elegí los puentes desde donde mirar la noche.
Pero nada importa.
Elegí la vida y tus palabras nunca regresaron.
Porto de Mágoas
Ho scelto i porti che più somigliassero alla tua voce.
Ho scelto le navi, le onde, i pesci
che hanno dovuto morire nelle ceneri…
Ho scelto i ponti da dove guardare la notte.
Ma nulla importa.
Ho scelto la vita e le tue parole non sono mai ritornate.
Después de un sueño
De muy lejos vengo, como el viento claro
que abandoné en tu voz
para protegerte de la muerte.
No me despedí de tí.
Por eso ven a mí
y sálvame como tantas otras noches
de mis sueños.
Dopo un sogno
Da molto lontano vengo, come il vento chiaro
che ho lasciato cadere nella tua voce
per proteggerti dalla morte.
Non ti salutai.
Perciò vieni a me
e salvami come tante altre notti
dai miei sogni.
Melancolía de una statua
Cansada, reclinas la cabeza buscando tu memoria
entre esa pesadumbre.
Cierras los ojos en busca de ese mar
que a otros cuerpos se llevó de tu lado,
vuelto en cenizas y vejez, siendo calor
prematuro de la muerte.
Reclinas la cabeza y no sientes la mano
frágil que sostiene tu cansancio,
esa oscuridad que albergan tus ojos
en pleno amanecer.
Nada tienes salvo la soledad esculpida
en todo lo guardado, el oleaje minucioso
del dolor horadando el tiempo
hasta borrarte.
Cansada, te preguntas dónde se hará
el cántico hermoso de la noche,
en qué lugar recogerás tu luz y tu presencia,
y hacia qué lugar se marcharon las palabras
de todo lo perdido.
Malinconia di una statua
Stanca, inclini la testa cercando la tua memoria
in quella pena.
Chiudi gli occhi alla ricerca di quel mare
che portò via altri corpi che ti erano accanto,
trasformato in cenere e vecchiaia, essendo calore
prematuro della morte.
Inclini la testa e non senti la mano
fragile che sostiene la tua stanchezza,
quell’oscurità che i tuoi occhi ospitano
in piena alba.
Non hai nulla tranne la solitudine scolpita
in ciò che è custodito, il moto ondoso minuzioso
del dolore penetrando il tempo
fino a cancellarti.
Stanca, ti chiedi dove si farà
il bellissimo cantico della notte,
in quale luogo raccoglierai la tua luce e la tua presenza,
e in quale luogo sono andate le parole
di quel che è perduto.
Marta López Vilar (Madrid, 1978) è una poetessa, traduttrice di letteratura, professoressa universitaria e scrittrice spagnola. Mantiene una partecipazione attiva a eventi culturali e letterari quali la distribuzione del Premio Cervantes, la gestione di attività di critica letteraria o commentatore radiofonico (SER) tra gli altri. Si è laureata in Filologia Spagnola e ha una vasta conoscenza del portoghese e del catalano. Ha realizzato diversi lavori di traduzione di poesia catalana, portoghese e greca contemporanea. Ha studiato lingua, letteratura e filosofia neo-elleniche all’Università di Atene. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Letteratura Spagnola presso l’Università Autonoma di Madrid, con una tesi sul misticismo e il simbolismo delle Elegie di Bierville di Carles Riba. Per il libro Di ombre e cappelli dimenticati nel 2003 ha vinto il premio di poesia “Blas de Otero” e nel 2007 ha vinto il premio “Arte Giovane di Poesia” della Comunità di Madrid col libro La parola attesa. La sua terza raccolta di poesie che si chiamerà Nelle e acque d’ottobre sta per giungere nelle librerie. Insegna presso l’Università di Alcalá. Ha trascorso un anno a Debrecen (Ungheria) contribuendo alla diffusione della lingua e cultura spagnola in Europa centro orientale.
Marcela Filippi Plaza (1968) è una traduttrice cilena che vive in Italia. E’ impegnata da molti anni nello studio e nella traduzione della poesia contemporanea in lingua spagnola, portoghese e italiana. Ideatrice del progetto delle antologie bilingue Buena Letra 1 (2012) e Buena Letra 2 (2014) di scrittori ibero-americani tradotti per la prima volta in italiano, e della collana bilingue Fascinoso Verbum che, nei primi tre volumi, comprende il poeta e critico letterario italiano Domenico Cara, la poetessa cilena Jeannette N. Catalàn e il poeta spagnolo Miguel Veyrat. Per Atelier ha tradotto Edmundo Herrera.
La poesía de Marta López Vilar: Convivencia con la herida
Marta López Vilar (Madrid, 1978) es ganadora del Premio de Poesía Blas de Otero, con De sombras y sombreros olvidados (Amargord, 2007), y del Premio Arte Joven de la Comunidad de Madrid, con La palabra esperada (Hiperión, 2007). Continúa su andadura literaria al ritmo con el que regresan los ecos y recuerdos de personas y lugares que demandan una traducción en palabras precisas. La poeta y profesora vuelve con su nuevo poemario, En las aguas de octubre (Bartleby, 2016), y la antología (Tras)lúcidas, poesía escrita por mujeres (Bartleby, 2016). Como en el resto de sus anteriores trabajos, en estos se concentran, una vez más, el poso de una erudición y una sensibilidad tan penetrantes como prudentes.
Entiendo que, para los autores, no debe ser fácil —por no decir, no debe ser divertido— someterse a estos procesos inquisitoriales del periodismo y la crítica literaria que son las entrevistas. Sobre todo en los años en que, como es tu caso, son varias las obras que han salido a la luz. Me planteo: «seguro que piensan… otra vez las mismas preguntas, las mismas respuestas…» ¿Puede, entonces, el escritor sacar algún provecho de estos mecanismos mediáticos?
Personalmente, creo que sí que se puede sacar provecho. Es más, creo que siempre ayuda a comprender lo que se escribe. La mirada ajena —en este caso la del entrevistador— siempre saca a la luz cuestiones que, en el extraño e inexplicable proceso de escritura, nunca nos habíamos planteado. Esa misma mirada ajena genera preguntas. Responderlas hace que lo escrito tome cuerpo, lógica interna, cierto orden. Por todo esto, no pienso en absoluto que siempre sean las mismas preguntas ni respuestas. De hecho, esta pregunta es la primera vez que me la hacen, y me ha hecho comprender cómo el otro puede crear una nueva existencia ajena al escritor, convirtiendo la escritura —su creación— en un objeto nuevo para cada lectura, prismático.
¿La propia obra se puede enriquecer?
Sí que puede enriquecerse. Creo que siempre hemos cometido el error de pensar que una obra se acaba cuando el poeta decide concluir un libro. Bajo mi punto de vista, es un error porque la obra siempre está en continuo movimiento: nunca acaba, y no concluye tampoco cuando el poeta decide poner fin a un libro. Tras esa conclusión —ficticia— queda la otra mirada que da sentido, aquella que pertenece al lector que siente todo aquello amoldado a su mundo, a sus razones y necesidades. No hay libro sin escritor, como tampoco lo hay sin aquel que lo lea. Con ello no quiero decir que sea indispensable la publicación del libro. El propio escritor, pasado un tiempo, ya se ha convertido en el otro. Leer lo escrito tras las huellas del tiempo hace que el texto tenga otro lugar, otro sentido y necesidad.
Tu poesía brinda por la poesía, la respeta, se preocupa por ella, por la intimidad humana y el recuerdo. Además, no eres dada a la proliferación de textos ni a la publicidad, sino a la precisión y la brevedad. ¿Cómo lidiar, entonces, con los mecanismos a los que nos obliga el mercado literario?
Confieso que, para mí, es complicado. Siempre he sentido la poesía, su escritura, como un ejercicio íntimo, alejado del ruido. Me resulta muy difícil asimilar el proceso posterior de exposición pública. Por ello, aunque una vez que se publica un libro existen esos mecanismos del mercado literario que son inevitables, procuro que cada acto público sea un espacio cercano para «entregar» los textos a los asistentes, explicar cómo es ese lugar íntimo del que nacieron, para que ellos los acojan en sus espacios de intimidad.
¿Cómo congeniar la pureza con el comercio?
Es algo muy complicado. Por ello, más allá de estos gestos, procuro mantenerme alejada del ruido, permanecer en ese espacio silencioso y humilde que, sin embargo, provoca deslumbramiento cuando leo; y un encuentro callado conmigo misma, cuando escribo. Las excesivas voces del afuera, los movimientos muchas veces previsibles y, en otros casos, luciferinos, las muestras estruendosas de logros, me disuelven, no me siento cómoda en ellos, me dicen que ahí no estoy yo. Las redes sociales están ayudando mucho a generar ese ruido —con el añadido de la distancia que produce una pantalla de ordenador—, sin embargo, casi nunca uso las redes para difusión de mi propia obra, sino para compartir textos literarios de otros autores que me han conmovido, que me han dado una respuesta a algo que desconocía, con la esperanza de que para alguien signifiquen lo mismo que han significado para mí. En ese caso sí que siento que las redes sociales ayudan. Sólo siento la literatura desde el lugar interior. Comparto un fragmento literario con la esperanza de que, después, alguien a quien le ha conmovido se acerque a una librería o a una biblioteca a por ese mismo libro.
Como profesora, ¿qué se siente cuando pasamos de críticos a criticados? Supongo que debe de ser una de las mayores frustraciones eso de leer desvaríos sobre la obra propia.
Bueno, eso forma parte del mecanismo de publicación de un libro, y hay que aceptar las cosas. Creo que hay un tipo de crítica, cada vez más minoritario, que sí que construye de manera esclarecedora la obra que reseña, aunque pueda destacar cosas negativas. Ese tipo de crítica, constructiva, muestra un pensamiento estructurado y lúcido aunque, repito, muestre aspectos negativos de una obra. Pero hay otros tipos de crítica que, confieso, no entiendo: aquellas que sólo se escriben para hacer publicidad editorial, o bien para destruir.
Creo que nos equivocamos, porque cada lectura es subjetiva, y aquel crítico que parece mostrar su verdad como única no está siendo justo con su trabajo. Siempre me espantaron los pensamientos extremos. Por supuesto que he tenido situaciones en las que, si no he leído desvaríos completos —bueno, alguno sí—, sí que no he entendido realmente lo que el crítico quería decir, como si la reseña hubiera sido un medio para mostrar su teoría acerca de algo —generalmente sin mucho que ver con el libro del que tendría que hablar—, o para encapsular en la página su malestar por algo que poco tiene que ver con el libro. Eso no he llegado a entenderlo y creo que empobrece el concepto de la crítica literaria. Hace que deje de ser un género desde el momento en el que el crítico piensa que por destruirlo todo muestra mejor sus conocimientos, o es más lúcido, más llamativo. La destrucción empobrece en todos los aspectos. Mientras te estoy diciendo esto, recuerdo una carta que le escribió Walter Benjamin a Gershom Scholem en 1930, creo. En ella le decía que la crítica literaria ya no era considerada un género serio en Alemania. Creo que aquí está ocurriendo lo mismo aunque, afortunadamente, hay excepciones, por supuesto. Sigue leyendo en Revista Borrador
Ad Avellaneda, il padre lavorava come cuentenik, mestiere tipico ebreo: vendita porta a porta, a volte di gioielli, a volte di elettrodomestici[1].
L’infanzia fu complicata dagli echi della seconda guerra mondiale, soprattutto per il massacro di Rivne, di cui parte dei suoi parenti lontani rimase vittima. Ebbe inolte diversi problemi di salute, come asma, acne e tendenza ad aumentare di peso; questi fattori influenzarono la sua autopercezione fisica e la sua autostima, e, congiuntamente alle pressanti aspettative ”borghesi” dei suoi genitori, sono ritenute il punto di partenza dei suoi tormenti e dei suoi disturbi degli anni a seguire[2].
Nel 1954, dopo molti dubbi, entrò nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires, cambiando spesso indirizzo (dapprima Filosofia, poi Giornalismo poi Lettere). In seguito, si dedicò anche alla pittura col surrealista Juan Batlle Planas, per poi abbandonare definitivamente l’accademia e dedicarsi a pieno alla scrittura. Un incontro che la segnò in questo periodo fu con Juan Jacobo Bajarlia, detentore della cattedra di Lettere moderne, che fu un punto di riferimento e un aiuto per le prime pubblicazioni, sia per le correzioni delle bozze sia perché la introdusse personalmente ad editori (Antonio Cuadrado) e poeti (Oliverio Girondo).
I suoi primi maestri furono dunque esponenti del surrealismo, sebbene tra le sue letture e i suoi primi scritti figuri una fascinazione notevole per l’esistenzialismo e la psicoanalisi. Legge con fervore Sartre, Faulkner, Joyce ma anche Mallarmé, Artaud, Kierkegaard, incontrando in essi non solo temi e ispirazione ma anche “tracce della sua stessa identità”[2]. Ebbe diverse sessioni di psicoanalisi con León Ostrov (a cui poi dedicò la poesia “El despertar”) attraverso cui riuscì sia a lenire i suoi problemi sia ad innovare la sua poetica, unendovi l’esplorazione dell’inconscio e della soggettività[2].
Nel 1962 conobbe la poetessa italiana Cristina Campo, per cui provò una profonda attrazione e con cui scambiò per alcuni anni poesie e lettere. Dagli scritti emerge una la pulsione erotica di Alejandra che avvolge la “casta” Cristina, la quale ne resta sopraffatta ma distante[3]. Nonostante l’apparente inconciliabilità tra loro, le due donne accomunate dall’amore per il mistero della poesia[3] mantennero questa relazione epistolare forse fino all’ultima lettera mai spedita della poetessa argentina datata 1970, in cui accetta parzialmente la distanza e la divergenza tra i loro mondi. A Cristina Campo Alejandra Pizarnik dedicò la poesia Anelli di cenere.
Tornata a Buenos Aires scrisse alcuni dei lavori più conosciuti ed apprezzati, come I lavori e le notti, Estrazione della pietra della pazzia e L’inferno musicale.
I suoi diari personali, per molti anni tenuti nascosti da lei e successivamente dai suoi eredi testamentari, lasciano intendere la bisessualità o l’omosessualità della scrittrice.
Nel 1967 il padre morì di infarto; questo avvenimento viene descritto nei suoi diari come una “Morte interminabile, oblio del linguaggio e perdita di immagini. Come mi piacerebbe stare lontano dalla follia e la morte (…) La morte di mio padre rese la mia morte più reale” e segna l’inizio di un progressivo incupimento dei suoi scritti. In alcune lettere successive dichiara apertamente di provare una fatica nel riuscire a dire per davvero ciò che vorrebbe dire, di percepire una “abissale distanza tra desiderio e atto”. Sembra quasi che il linguaggio poetico che prima era stato il suo nutrimento ed il suo vestito si stesse dissolvendo, perdendo “la materica consistenza in grado di renderla corpo, vita, donna”[4].
Successivamente, andò ad abitare con la sua compagna fotografa, Martha Isabel Moia, mentre il suo stile di vita divenne decisamente più irregolare, acuendosi la sua dipendenza da farmaci.
Nel 1969 esce La contessa crudele (o sanguinaria), testo in prosa. Lo stesso anno va a New York per ricevere la borsa di studi Guggenheim,[5] e ne viene frastornata, percependo a pieno la “ferocia insostenibile” della città. Dopo due anni vince anche la borsa di studio Fulbright.
Compie un ritorno in Francia cercando un approdo verso ciò che credeva rimasto del suo precedente periodo parigino. Disillusa fa ritorno in Argentina, iniziando un processo di chiusura e disgregazione che culminerà in due tentativi di suicidio e un internamento in clinica psichiatrica.
Muore a 36 anni, il 25 settembre 1972, dopo aver ingerito cinquanta pastiglie di seconal, mentre era in permesso dalla clinica.
Sul suo letto di morte i suoi ultimi versi “non voglio andare / nulla più / che fino al fondo”
Dopo la sua morte, lo scrittore argentino Julio Cortázar le dedicò la poesia Aquí Alejandra.
Fu sepolta nel cimitero ebreo di La Tablada, ad est di Buenos Aires; ogni due o tre mesi scompare la sua foto dalla tomba[1].
La notte
Della notte so poco
ma di me la notte sembra sapere,
e più ancora, mi assiste come se mi amasse,
mi ammanta di stelle la coscienza.
Forse la notte è la vita e il sole la morte.
Forse la notte è nulla
e nulla le nostre congetture
e nulla gli esseri che la vivono.
Forse le parole sono l’unica cosa che esiste
nel vuoto enorme dei secoli
che ci graffiano l’anima coi ricordi.
Ma la notte conosce la miseria
che succhia il sangue e le idee.
Scaglia l’odio, la notte, sui nostri sguardi
che sa pieni di interessi, di incontri mancati.
Ma accade che la notte, ne senta il pianto nelle ossa.
Delira la sua lacrima immensa
e grida che qualcosa è partito per sempre.
Un giorno torneremo a esistere.
Poesia
Tu scegli il luogo della ferita
dove dicemmo il nostro silenzio.
Tu fai della mia vita
questa cerimonia troppo pura.
Anelli di cenere
a Cristina Campo
Stanno le mie voci al canto
perché non cantino loro,
i grigiamente imbavagliati nell’alba,
i camuffati da uccello desolato nella pioggia.
C’è, nell’attesa,
una voce di lillà che si spezza.
E c’è, quando si fa giorno,
una scissione del sole in piccoli soli neri.
E quando è notte, sempre,
una tribù di parole mutilate
cerca asilo nella mia gola,
perché non cantino loro,
i funesti, i padroni del silenzio.
Presenza
la tua voce
in questo non potersene uscire le cose
dal mio sguardo
mi spossessano
fanno di me un vascello in un fiume di pietre
se non è la tua voce
pioggia sola nel mio silenzio di febbri
tu mi liberi gli occhi
e per favore
parlami
sempre.
Gli occhi aperti
Qualcuno misura singhiozzando
l’estensione dell’alba.
Qualcuno pugnala il cuscino
in cerca del suo impossibile
spazio di quiete.
Questa notte, in questo mondo
a Martha Isabel Moya
questa notte in questo mondo
le parole del sogno dell’infanzia della morte
non è mai questo che si vuol dire
la lingua materna castra
la lingua è un organo di conoscenza
del fallimento di ogni poesia
castrata dalla sua stessa lingua
che è l’organo della ri-creazione
del ri-conoscimento
ma non della resurrezione
di qualcosa in forma di negazione
del mio orizzonte di maldoror col suo cane
e niente è promessa
tra il dicibile
che equivale a mentire
(tutto ciò che si può dire è menzogna)
il resto è silenzio
solo che il silenzio non esiste
no
le parole
non fanno l’amore
fanno l’assenza
se dico acqua berrò?
se dico pane mangerò?
questa notte in questo mondo
straordinario il silenzio di questa notte
con l’anima succede che non si vede
con la mente succede che non si vede
con lo spirito succede che non si vede
da dove viene questa cospirazione d’invisibilità?
nessuna parola è visibile
ombre
spazi viscosi dove si occulta
la pietra della follia
neri corridoi
li ho percorsi tutti
oh fermati un altro po’ tra di noi!
la mia persona è ferita
la mia prima persona singolare
scrivo come chi alza un coltello nel buio
scrivo come dico
la sincerità assoluta sarebbe sempre
l’impossibile
oh fermati un altro po’ tra di noi!
lo sfacelo delle parole
che sloggiano il palazzo del linguaggio
la conoscenza tra le gambe
che cosa hai fatto del dono del sesso?
oh miei morti
li ho mangiati mi sono strozzata
non ne posso più di non poterne più
parole camuffate
tutto scivola
verso la nera liquefazione
e il cane di maldoror
questa notte in questo mondo
dove tutto è possibile
tranne
la poesia
parlo
sapendo che non si tratta di ciò
sempre non si tratta di ciò
oh aiutami a scrivere la poesia più prescindibile
quella che non serva nemmeno
a essere inservibile
aiutami a scrivere parole
in questa notte in questo mondo
***
La poesia che non dico,
quella che non merito.
Paura di essere due
sulla via dello specchio:
qualcuno che dorme in me
mi mangia e mi beve.
***
no, la verità non è la musica
io, triste attesa di una parola
qual è il nome che cerco
e che cosa cerco?
non il nome della deità
non il nome dei nomi
ma i nomi precisi e preziosi
dei miei desideri nascosti
qualcosa in me mi punisce
da tutte le mie vite:
– Ti abbiamo dato tutto il necessario perché comprendessi
e hai preferito l’attesa,
come se tutto ti annunciasse la poesia
(quella che non scriverai mai perché è un giardino inaccessibile
sono solo venuta a vedere il giardino –)
BIOGRAFIA
-FONTE- Rivista «Avamposto»
Le Poesie sono pubblicate dalla Rivista di Poesia «Avamposto»è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Contatti
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
Rainer Maria Rilke poeta e drammaturgo austriaco di origine boema
nasceva a Praga il 4 dicembre del 1875-
“Da I quaderni di Malte Laurids Brigge”
“Rainer Maria Rilke” René Karl Wilhelm Johann Josef Maria Rilke (Praga, 4 dicembre 1875 – Les Planches, 29 dicembre 1926), è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo austriaco di origine boema. Viene riconosciuto come uno dei poeti austriaci in lingua tedesca più importanti dell’epoca e di sempre. Furono numerosi i suoi viaggi in molte parti d’Europa e in Russia dove conobbe personaggi come Lev Tolstoj, Leonid Pasternak e Paul Trubeckoj e Lou Salomé. In Italia dove soggiornò a Roma, e a Firenze dove conobbe Stefan George e Heinrich Vogeler. Soprattutto on Francia anche dove suddivise la convivenza con Jean Cocteau, Isadora Duncan e Rodin. La sua vita fu una vera e proprio conoscenza con altri artisti. Il 28 aprile 1901 Rilke sposò la scultrice Clara Westhoff. Il 4 dicembre del 1875 nasceva a Praga, Rainer Maria Rilke da Josef Rilke. Muore il 29 dicembre del 1926 a Les Planches, forse a causa di una leucemia acuta. E quale bellezza malinconica nelle donne, quand’erano gravide e si reggevano in piedi, e nel loro grosso ventre, su cui giacevano d’istinto le mani esili, c’erano due frutti: un bambino e una morte. Il loro sorriso denso e quasi nutriente nel volto svuotato non scaturiva forse dal loro capire, talvolta, che i due frutti crescevano insieme? “Da I quaderni di Malte Laurids Brigge”
Annunciazione
Tu non sei piú vicina a Dio di noi; siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende benedette le mani. Nascono chiare a te dal manto, luminoso contorno: Io sono la rugiada, il giorno, ma tu, tu sei la pianta.
Sono stanco ora, la strada è lunga, perdonami, ho scordato quello che il Grande alto sul sole e sul trono gemmato, manda a te, meditante (mi ha vinto la vertigine). Vedi: io sono l’origine, ma tu, tu sei la pianta.
Ho steso ora le ali, sono nella casa modesta immenso; quasi manca lo spazio alla mia grande veste. Pur non mai fosti tanto sola, vedi: appena mi senti; nel bosco io sono un mite vento, ma tu, tu sei la pianta.
Gli angeli tutti sono presi da un nuovo turbamento: certo non fu mai cosí intenso e vago il desiderio. Forse qualcosa ora s’annunzia che in sogno tu comprendi. Salute a te, l’anima vede: ora sei pronta e attendi. Tu sei la grande, eccelsa porta, verranno a aprirti presto. Tu che il mio canto intendi sola: in te si perde la mia parola come nella foresta.
Sono venuto a compiere la visione santa. Dio mi guarda, mi abbacina…
Mary Shelley scrittrice, saggista e biografa inglese
MARY SHELLEY nata Mary Wollstonecraft Godwin scompare a Londra il 1° Febbraio 1851, Mary Shelley è stata una scrittrice, saggista e biografa inglese. secondogenita di Mary Wollstonecraft, filosofa e promotrice dei Diritti delle Donne antesignana del femminismo, e primogenita del saggista e scrittore politico William Godwin. La madre morì dieci giorni dopo averla messa al mondo. Ricevette un’educazione ricca e informale e insieme alla sorellastra più grande Fanny vissero col padre William Godwin, di idee anarchico-comuniste che sposò Mary J.Clairmont, sua vicina di casa. La sua vita fu ricchissima di avvenimenti, segnata da passioni ma anche da lutti, la perdita dei figli e del marito morto per annegamento in Italia. All’età di 15 anni si legò a Percy B. Shelley, uno dei discepoli del padre, all’epoca già sposato, con cui poi fuggì in Francia. Nel maggio 1816 Mary viaggiò a lungo in Europa assieme a Percy, al loro figlio e alla sorellastra Claire. Mary Shelley è soprattutto nota per essere stata l’iniziatrice del romanzo di “fantascienza” del romanzo gotico. L’idea del romanzo risale al 1816, durante una vacanza a Ginevra dall’amico Lord Byron, Mary Shelley, in compagnia di suo marito, di Claire Clairmont e del loro comune amico che aveva avuto una relazione con Claire, costretti in casa per il maltempo, discutevano a lungo, da una di queste discussioni sulla letteratura tedesca che la scrittrice ebbe l’idea di un romanzo gotico che raccontasse la creazione di un uomo, senza essere Dio. Di qui il sottotitolo “Prometeo moderno” con chiara allusione al mito, tratto da Ovidio, del Titano che aveva dato il fuoco agli uomini. Il gruppo decise di intraprendere una gara letteraria per scrivere una storia sul soprannaturale.
La storia di Mary Shelley ebbe grande successo oggi è considerato il primo vero romanzo di fantascienza. Dopo il loro rientro a Londra a settembre Mary e Percy si trasferirono a Bath, Claire visse dimora vicino, nel 1817 dove nacque sua figlia Alba, ribattezzata poi da Byron Allegra.
Nel Kent nacque la terza figlia di Mary, Clara Everina. Viaggiarono verso l’Italia dove morirono entrambi i figli di Mary: Clara per dissenteria a Venezia, William morì invece di malaria a Roma. Queste perdite gettarono Mary in una profonda depressione che la allontanò da Percy, che dopo una gita in barca annegò presso Viareggio, Le spoglie di Percy furono mandate nel cimitero acattolico di Roma, vicino a quelle del figlio William.
Durante il periodo 1827-40 Mary fu occupata sia come scrittrice che come curatrice editoriale. Scrisse i romanzi The Fortunes of Perkin Warbeck, Lodore e Falkner. Contribuì ai cinque volumi di Lives’ of Italian, Spanish, Portuguese, and French author della Lardner’s Cabinet Cyclopedia. Scrisse storie per riviste femminili e cercò di risolvere i problemi economici del padre. Nel 1830 vendette i diritti di Frankenstein per una sua nuova edizione per la Standard Novels. Si occupò della frequenza agli studi del figlio, si iscrisse in seguito al Trinity College di Cambridge, scegliendo legge e politica, andò a vivere con sua madre, viaggiarono insieme per due anni. Mary visse con il figlio e la nuora a Field Place, Sussex, nella vecchia dimora degli Shelley, e a Chester Square a Londra e li accompagnò nei loro viaggi all’estero.Gli ultimi anni di Mary Shelley furono pesantementi segnati dalla malattia. Dal 1839 soffrì di gravi emicranie e colpi apoplettici in varie parti del corpo che le impedirono di leggere e scrivere. Il 1º febbraio 1851, a Chester Square, morì all’età di cinquantatré anni probabilmente per un tumore al cervello.
Figlia della filosofa Mary Wollstonecraft, antesignana del femminismo, e del filosofo e politico William Godwin, a 16 anni si dichiarò a Percy Bysshe Shelley, all’epoca già sposato, e i due fuggirono in Europa. A 18 anni scrisse quello che viene considerato il primo romanzo gotico di fantascienza, Frankenstein (Frankenstein; or, The Modern Prometheus), pubblicato nel 1818. Fu curatrice di diverse pubblicazioni postume del marito, che contribuì a far conoscere e comprendere.
Altri suoi scritti meno conosciuti, come il libro di viaggiA zonzo per la Germania e per l’Italia (1844) e gli articoli biografici scritti per la Cabinet Cyclopedia di Dionysius Lardner (1829-46), contribuirono ad avvalorare l’opinione che Mary Shelley sia rimasta una politica radicale per tutta la sua vita. Le opere di Mary Shelley sostengono spesso gli ideali di cooperazione e di comprensione, praticati soprattutto dalle donne, come strade per riformare la società civile. Questa idea era una diretta sfida all’etica individualista-romantica promossa da Percy Shelley e alle teorie politiche illuministe portate avanti da William Godwin.
Biografia
Infanzia
Mary Wollstonecraft Godwin nacque a Somers Town, Londra, nel 1797, secondogenita di Mary Wollstonecraft, filosofa e promotrice dei diritti delle donne antesignana del femminismo, e primogenita del saggista e scrittore politico William Godwin. La madre morì di setticemia dodici giorni dopo aver messo al mondo la figlia. Godwin fu così lasciato solo con la piccola Mary e Fanny Imlay, figlia primogenita della Wollstonecraft, alla quale decise di dare il proprio cognome[2] crescendola come fosse figlia propria. Un anno dopo la morte della moglie Godwin pubblicò Memorie dell’autrice della Rivendicazione dei diritti della donna (1798), con cui intendeva rendere omaggio al ricordo della moglie. Il contenuto dell’opera fu tuttavia considerato immorale a causa delle relazioni extraconiugali e dei figli illegittimi della Wollstonecraft, ripercuotendosi così sulla fama e sulle opere dell’autrice. Mary Godwin lesse queste memorie e le opere di Mary Wollstonecraft, il che contribuì a rinsaldare l’affetto di Mary nei confronti del ricordo della madre.[3]
I primi anni della vita di Mary furono felici, giudicando dalle lettere di Louisa Jones, governante e badante di William Godwin.[4] Godwin tuttavia era spesso in debito e, convintosi di non essere in grado di badare da solo a due bambine, cambiò le sue idee sul matrimonio decidendo di contrarne un secondo[5]; dopo due proposte fallite di matrimonio a due conoscenti[6] Godwin sposò la sua vicina di casa Mary Jane Clairmont, una casalinga con due figli illegittimi avuti probabilmente da due diversi compagni[7], Charles Gaulin Clairmont e Claire Clairmont.[8]
Molti degli amici di Godwin disprezzavano la nuova moglie, descrivendola spesso come una persona corrucciata e litigiosa[9], ma Godwin le era devoto e il matrimonio ebbe successo;[10] la piccola Mary Godwin invece detestava la sua matrigna.[11] Il biografo di Godwin, C. Kegan Paul, suggerì che forse la signora Godwin favoriva i propri figli a scapito di quelli della Wollstonecraft.[12]
Nel 1805, dietro suggerimento della moglie, i coniugi Godwin fondarono una casa editrice per l’infanzia, la Juvenile Library, che pubblicò opere come Mounseer Nongtongpaw (opera attribuita a Mary Shelley) e Tales from Shakespeare di Charles e Mary Lamb, oltre che le opere stesse di Godwin scritte sotto lo pseudonimo di Baldwin.[6] La casa editrice però non fruttò guadagno, al punto che Godwin fu costretto a prendere in prestito una sostanziosa somma di denaro per tirare avanti.[13] Godwin continuò a farsi prestare soldi per cercare di rimediare ai debiti contratti, peggiorando così la propria situazione finanziaria. Dal 1809 i suoi affari fallirono e lui si sentì “vicino alla disperazione”.[14] Si salvò dalla prigione grazie ad alcuni sostenitori delle sue teorie filosofiche tra i quali Francis Place, che gli prestò una considerevole somma di denaro.[15]
Sebbene Mary Godwin avesse ricevuto poca istruzione formale, suo padre contribuì alla sua formazione anche in vari altri campi. Spesso portava i figli e le figlie in viaggi di istruzione, dava loro libero accesso alla biblioteca di casa e li faceva assistere alle visite di alcuni intellettuali, come Samuel Taylor Coleridge (Mary e Claire assistono alla lettura da lui fatta de La ballata del vecchio marinaio[16]) e il futuro vicepresidente degli Stati UnitiAaron Burr.[17]
Godwin ammise di non essere d’accordo con le concezioni educative di Mary Wollstonecraft presenti nell’opera Rivendicazione dei diritti della donna (1792); nonostante ciò Mary Godwin ricevette un’istruzione inusuale e avanzata per una ragazza del suo tempo. Ebbe infatti una governante, un tutore ed ebbe l’opportunità di leggere i manoscritti dei libri per bambini redatti dal padre sulla storia greca e romana.[18] Nel 1811 Mary frequentò per un periodo di sei mesi un college a Ramsgate.[19] All’età di quindici anni suo padre la descriveva come “straordinariamente audace, piuttosto imperiosa e attiva di mente. Il suo desiderio di conoscenza è grande e la sua perseveranza in tutto ciò che intraprende quasi invincibile”.[20]
Nel giugno del 1812, Godwin mandò Mary a risiedere dalla famiglia radicale di William Baxter, amico del padre, vicino Dundee, in Scozia.[21] A Baxter scrisse: “Voglio che lei cresca (…) come un filosofo, anzi come un cinico.”[22] Vari studiosi hanno ipotizzato che il motivo di questo viaggio avesse a che fare con problemi di salute di Mary (Muriel Spark nella sua biografia di Mary Shelley ipotizza che la debolezza al braccio di cui Mary soffriva in certi periodi potesse derivare da motivi nervosi dati dai cattivi rapporti con la Clairmont[23]), per allontanarla dalla sgradevole situazione finanziaria della famiglia, oppure per introdurla alle idee politiche radicali.[24] Mary Godwin trascorse momenti felici a Baxter; il soggiorno fu però interrotto dal ritorno a casa con una delle figlie di Baxter nell’estate del 1813; sette mesi dopo però Mary vi ritornò, accompagnando l’amica, restandovi poi per altri dieci mesi.[25] Nella prefazione di Frankenstein del 1831 Mary, ricordando con nostalgia quel periodo, scrisse: “A quel tempo scrivevo, ma nello stile più banale. Era sotto gli alberi del parco attorno alla nostra casa o sui pendii squallidi delle brulle montagne poco distanti, che le mie vere composizioni, i voli aerei della mia fantasia nascevano e crescevano.”[26]
L’incontro e la fuga con Percy Bysshe Shelley
Mary incontrò per la prima volta il poeta e filosofo radicale Percy Bysshe Shelley nel periodo intercorso fra i due viaggi in Scozia.[27] Il suo secondo rientro a casa avvenne il 30 marzo 1814: Percy Shelley era oramai, assieme a sua moglie Harriet Westbrook, ospite abituale di Godwin, che aiutava nel sanare i suoi debiti.[28] Il radicalismo di Percy Shelley, e soprattutto le sue idee economiche apprese mediante la lettura del trattato Political Justice (1793) di Godwin, furono la causa dell’allontanamento dalla sua famiglia aristocratica: essa voleva infatti che Percy continuasse a seguire il tradizionale modello dell’aristocrazia terriera, mentre egli preferiva utilizzare la maggior parte del patrimonio familiare per aiutare i bisognosi. A causa di questo progetto di “Giustizia politica”, Percy Shelley si ritrovava ad avere notevoli difficoltà ad accedere al patrimonio familiare; a causa di ciò, dopo diversi mesi di promesse, Shelley annunciò a Godwin, sempre in difficoltà economiche, che non poteva e non voleva risanare tutti i suoi debiti. A causa di ciò Godwin si arrabbiò e si sentì tradito dal discepolo.[29]
Mary e Percy si incontrarono segretamente alcune volte presso la tomba di Mary Wollstonecraft, nel cimitero di Saint Pancras, dove si confidarono il loro amore[30] (Muriel Spark nella sua biografia di Mary Shelley ipotizza che fosse il 27 giugno).[31] Con grande scoramento di Mary, Godwin disapprovò questa unione e provò a ostacolarla per salvare la reputazione di sua figlia. All’incirca nello stesso momento, Godwin ebbe notizia dell’impossibilità di Shelley di saldare i prestiti che gli aveva concesso.[32] Mary, che più tardi scrisse del suo “eccessivo e romantico attaccamento”[33] al padre, si sentì confusa. Vedeva Percy Shelley come un’incarnazione delle idee riformistiche e liberali del 1790 dei suoi genitori, in particolare l’idea di Godwin del matrimonio come un “repressivo monopolio”, idea che aveva argomentato nella sua edizione del 1793 di Political Justice ma che avrebbe in seguito rivisto.[34] Il 28 luglio 1814 la coppia fuggì in segreto in Francia, portando con sé la sorellastra di Mary, Claire Clairmont.[35] Il commento di Godwin fu “Entrambi mi hanno deluso”.[36]
Dopo aver convinto Mary Jane Godwin, che li aveva inseguiti fino a Calais[37], della loro intenzione di non ritornare a casa, il trio viaggiò verso Parigi e quindi, a dorso di mulo o di asino o su carrettini, attraversarono la Francia, recentemente dilaniata dalla guerra, fino a raggiungere la Svizzera. “Era come recitare un romanzo, divenire un romanzo vivente”, scrisse Mary ricordandosene nel 1826.[38] Viaggiando, Mary e Percy leggevano le opere di Mary Wollstonecraft e di altri autori come l’abate Barruel[39], tenevano un diario comune e continuavano le proprie scritture[40] A Lucerna a causa della penuria di denaro decisero tuttavia di tornare indietro. Costeggiarono il Reno raggiungendo via terra il porto di Maassluis (dove Mary scrisse l’abbozzo di un racconto mai terminato intitolato Hate[41]), arrivando poi a Gravesend, nella contea inglese del Kent, il 13 settembre 1814.[42] Tre anni più tardi, nel 1817, il diario di questo loro viaggio fu riadattato per essere pubblicato come opera narrativa dal titolo Storia di un viaggio di sei settimane (History of Six Weeks’ Tour through a Part of France, Switzerland, Germany, and Holland, with Letters Descriptive of a Sail round the Lake of Geneva, and of the Glaciers of Chamouni), a cui Percy diede uno piccolo contributo.[43]
La situazione in Inghilterra fu ricca di complicazioni, molte delle quali Mary non aveva previsto. Durante, o dopo, il loro viaggio, Mary era infatti rimasta incinta. Inoltre si ritrovarono di nuovo senza soldi e, con grande sorpresa da parte di Mary, suo padre si rifiutava di avere con loro il minimo contatto, sebbene poi accettasse senza troppi problemi del denaro da Percy[44]. La coppia trovò alloggio assieme a Claire nei pressi di Somers Town[45] e quindi a Nelson Square. Vissero questo periodo mantenendo il loro intenso programma di letture, leggendo il Caleb Williams di Godwin[45] e di scrittura, ricevendo gli amici di Percy Shelley, come Thomas Jefferson Hogg e lo scrittore Thomas Love Peacock.[45] A volte Percy si allontanava da casa per sfuggire ai numerosi creditori, rischiando a volte di finire in prigione.[46] Le lettere scambiate dai due amanti in questo periodo rivelano la loro pena a causa della separazione forzata.[47]
Incinta e spesso malata, Mary Godwin si trovò a far fronte alla gioia di Shelley per la nascita di Charles, figlio del poeta e di Harriet, e al rapporto sempre più difficile con Claire, la quale cominciò ad attirare l’attenzione della coppia perché si sentiva trascurata.[48] Mary trovò parziale conforto in Hogg, che all’inizio non trovava molto simpatico ma che col tempo cominciò a considerare un amico. Percy spinse i due a diventare amanti in nome dell’ideale dell’amore libero;[49] si suppone che Mary non abbia disprezzato l’idea, condividendo anche lei gli stessi ideali,[50] ma non si hanno prove certe dell’attuazione di tale relazione. Uniche testimonianze sono gli affettuosi scambi epistolari fra Mary ed Hogg, che comunque non chiariscono con esattezza la situazione. In pratica però Mary continuò ad amare Percy e non mise mai in dubbio il suo amore per lui, come del resto afferma chiaramente in una lettera diretta ad Hogg: “So quanto mi ami e con quale tenerezza, e mi piace pensare che posso costituire la tua felicità. (…) ma la nostra ancora più grande felicità sarà in Shelley – che io amo così teneramente e interamente, la mia vita è nella luce dei suoi occhi e la mia intera anima è completamente assorbita da lui”.[51] Il 22 febbraio 1815 Mary diede alla luce una bimba prematura, Clara, che morì circa due settimane dopo.[51] A seguito della morte della piccola, Mary contattò Hogg mediante una lettera, che in quel frangente si rivelò un buon amico:
«Mio caro Hogg la mia bambina è morta – vieni il più presto possibile. Voglio vederti – Stava perfettamente bene quando sono andata a letto – mi sono svegliata nella notte per darle il latte e sembrava dormire così tranquillamente che non ho voluto svegliarla. Era già morta, ma non lo abbiamo saputo che al mattino – e dall’aspetto è evidentemente morta di convulsioni – Vieni – tu sei una creatura così calma e Shelley teme che mi venga una febbre da latte – perché ora non sono più una madre.[52]»
La perdita della figlia precipitò Mary in una profonda depressione, spesso ossessionata proprio dalla visione della bimba;[53] presto tuttavia si riprese ed entro l’estate si ristabilì. A seguito del risanamento delle finanze di Percy – seguito alla morte di suo nonno, sir Bysshe Shelley – la coppia trascorse un periodo di vacanza a Torquay e in seguito affittò una casa a due piani a Bishopsgate, vicino al parco di Windsor.[54] Poco si sa di questo periodo, dato che il diario di Mary che va dal maggio 1815 al luglio 1816 è andato perduto; Percy scrisse il suo poema Alastor e il 24 gennaio 1816 nacque il secondo figlio di Mary e Percy, che fu chiamato William in onore di Godwin e soprannominato dalla coppia “Willmouse”.
Lago di Ginevra e Frankenstein
Nel maggio 1816 Mary e Percy si diressero assieme al figlio verso Ginevra, accompagnati da Claire Clairmont. L’eruzione del vulcano Tambora, in Indonesia, avvenuta l’anno prima, causò temperature rigidissime, anche d’estate. I tre avevano pianificato di trascorrere l’estate con il poeta Lord Byron, che di recente aveva cominciato una relazione con Claire, la quale era rimasta incinta.[55] Lo scopo di tale incontro era infatti quello di prendere decisioni sul da farsi nei confronti della creatura che stava venendo al mondo. Il gruppo raggiunse Ginevra il 14 maggio 1816, prendendo in affitto una casa chiamata Maison Chapuis nei pressi della villa in cui Byron risiedeva, villa Diodati, vicino al villaggio di Cologny[56]; Mary in quel periodo cominciò a definirsi “Signora Shelley”. Byron, accompagnato dal medico John William Polidori, incontrò il gruppo il 25 maggio; trascorrevano le giornate scrivendo, andando in barca e parlando fino a notte fonda.[57]
“Ma fu un’estate piovosa e poco clemente”, ricorda Mary nel 1831, “la pioggia incessante ci costrinse spesso in casa per giornate intere”.[58][59] In queste giornate vari furono gli argomenti affrontati dalla compagnia: gli esperimenti condotti nel XVIII secolo da Erasmus Darwin, il quale affermò di esser riuscito a rianimare la materia morta, il galvanismo e la possibilità di ricomporre e ridare vita alle parti di un essere vivente.[60] Sedendosi davanti al fuoco della casa di Byron, Villa Deodati, la compagnia si divertiva leggendo storie tedesche di fantasmi tradotte in francese e raccolte nell’antologia Fantasmagoriana. Byron propose poi un gioco: ognuno avrebbe dovuto scrivere una storia di fantasmi; poco tempo dopo Mary nel dormiveglia ebbe l’idea, che divenne il romanzo Frankenstein:
“Vedevo -a occhi chiusi ma con una percezione mentale acuta- il pallido studioso di arti profane inginocchiato accanto alla “cosa” che aveva messo insieme. Vedevo l’orrenda sagoma di un uomo sdraiato, e poi, all’entrata in funzione di qualche potente macchinario, lo vedevo mostrare segni di vita e muoversi di un movimento impacciato, quasi vitale. Una cosa terrificante, perché terrificante sarebbe stato il risultato di un qualsiasi tentativo umano di imitare lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo.”[61]
Mary cominciò a scrivere la storia dandole l’impostazione di un racconto breve. Percy, dopo aver visto la prima bozza, la incoraggiò tuttavia a proseguire ed espandere il racconto in ciò che sarebbe divenuto il romanzo d’esordio di Mary: Frankenstein; ovvero il moderno Prometeo, pubblicato anonimo nel 1818.[62] In seguito Mary definì il periodo svizzero come “il momento in cui passai dall’adolescenza all’età adulta.”[63]
Bath e Marlowe
Dopo il loro rientro a Londra a settembre Mary e Percy presero casa a Bath, sempre accompagnati da Claire, la quale prese dimora vicino a loro. Motivo principale di questo loro spostamento a Bath fu la speranza di riuscire a tenere nascosta la gravidanza, oramai evidente, di Claire.[64] Quando erano ancora a Cologny, Mary aveva ricevuto lettere dalla sorella Fanny Imlay la quale si lamentava della propria “infelice vita”[65]; il 9 ottobre[66] Fanny scrisse una “lettera allarmante”[67], che spinse Percy a correre da lei, ma oramai era troppo tardi. Il 10 ottobre Fanny fu trovata morta in una camera a Swansea con una bottiglietta di laudano e una lettera di suicidio:
«Da tempo ho deciso che la cosa migliore che io potessi fare era di porre fine all’esistenza di una creatura sfortunata dalla nascita, la cui vita è stata soltanto una serie di dispiaceri per coloro che si sono rovinati la salute per procurarle benessere. Forse la mia morte vi addolorerà, ma avrete presto la fortuna di dimenticare che una creatura simile è esistita come …[67]»
Vi aveva rimosso la firma, probabilmente per rispetto al nome Godwin.[67] Il suicidio fu tenuto segreto; Godwin sparse la voce che Fanny era morta di malattia in Irlanda e impedì a Mary di andare a farle visita.[68] La reputazione di Fanny era così salva. Poco tempo dopo a questa si aggiunse un’altra disgrazia: il 10 dicembre infatti Harriet, moglie di Percy, fu trovata affogata nel Serpentine, un laghetto di Hyde Park a Londra.[69] Come accadde per quello di Fanny, anche questo suicidio fu tenuto nascosto. I familiari di Harriet contrastarono il tentativo di Percy (appoggiato anche da Mary) di ottenere l’affidamento dei due bambini di Harriet. Gli avvocati di Percy, per favorire l’affidamento, gli consigliarono di sposarsi; così lui e Mary, di nuovo incinta, si sposarono il 30 dicembre 1816 nella chiesa di San Mildred, a Bread Street (Londra),[70] alla presenza dei coniugi Godwin.[71]
Il 13 gennaio 1817 nacque la figlia di Claire, Alba, ribattezzata poi da Byron Allegra nel 1818.[72] Nel marzo dello stesso anno Percy fu dichiarato “moralmente inadatto a ottenere la tutela dei figli”, che furono così affidati alla famiglia di un ecclesiastico del Kent.[73] Nello stesso periodo gli Shelley, con Claire e Alba, traslocarono in una casa ad Albion, presso Marlow, nel Buckinghamshire, sulle rive del Tamigi. Qui il 2 settembre nacque la terza figlia di Mary, Clara Everina.[74] A Marlow incontrarono Marianne e Leigh Hunt, lavorarono alle loro opere e discussero spesso di politica.
Nel maggio del 1817 Mary terminò di scrivere Frankenstein, che fu pubblicato anonimo nel 1818 con una prefazione scritta da Percy. Critici e lettori affermarono che Percy Shelley fosse il vero autore, probabilmente anche perché l’opera era dedicata a William Godwin.[75] Fu proprio a Marlow che Mary sistemò le carte del viaggio del 1814, aggiungendoci degli appunti scritti in Svizzera nel 1816 e il poema di Percy Mont Blanc, pubblicando così nel 1817 Storia di un viaggio di sei settimane. Quell’autunno Percy si allontanò frequentemente da Londra per sfuggire ai creditori. La minaccia di prigione da parte dei creditori, la sua debole salute e la continua paura di perdere anche l’affidamento dei figli avuti con Mary spinsero la coppia a lasciare per sempre l’Inghilterra per raggiungere l’Italia. Il 12 marzo 1818 partirono, portando con loro anche Claire e Alba.[76]
Italia
Uno dei primi impegni che ebbe il gruppo una volta raggiunta l’Italia fu di portare Alba da suo padre Byron, che viveva a Venezia. Byron accettò di allevare ed educare la figlia, a patto che però Claire ne stesse alla larga; non voleva avere più niente a che fare con lei.[77] Cominciarono così il loro viaggio in Italia, visitando molte città senza mai fermarsi troppo a lungo in un posto.[78] Lungo la via fecero nuove amicizie e conoscenze, spesso viaggiando insieme al nuovo gruppo di amici. La coppia dedicava il proprio tempo alla scrittura, alla lettura, visitando le città, imparando la lingua e socializzando. L’avventura italiana fu comunque rovinata dalla morte di entrambi i figli di Mary: Clara morì per dissenteria a Venezia nel febbraio 1818, William morì invece di malaria a Roma nel giugno del 1819.[79] Queste perdite gettarono Mary in una profonda depressione che la allontanò da Percy[80], il quale scrisse:[81]
«My dearest Mary, wherefore hast thou gone,
And left me in this dreary world alone?
Thy form is here indeed—a lovely one—
But thou art fled, gone down a dreary road
That leads to Sorrow’s most obscure abode.
For thine own sake I cannot follow thee
Do thou return for mine.»
«Mia carissima Mary, per quale ragione te ne sei andata,
E mi hai lasciato solo in questo mondo desolato?
Il tuo corpo è qui in verità -un corpo piacevole-
Ma tu sei fuggita, ti sei inoltrata per una strada desolata
Che porta alla più tetra dimora del Dolore
Dove anche per amor tuo io non posso seguirti
Ritornerai per me?»
Per un po’ di tempo Mary trovò come unico conforto la scrittura.[82] La nascita a Firenze di un altro figlio, Percy Florence, il 12 novembre 1819, la aiutò a riprendersi,[83] sebbene Mary serbasse il ricordo dei propri figli sino alla fine della propria vita.[84]
L’Italia consentiva agli Shelley, a Byron e agli altri esuli una libertà politica irrealizzabile in patria. Malgrado le perdite personali, diventò per Mary “un paese nel quale la memoria viene dipinta come il paradiso”[85] Gli anni italiani furono intensi sia dal punto di vista intellettuale che creativo per entrambi i coniugi Shelley. Mentre Percy compose la maggior parte dei suoi poemi, Mary scrisse la novella semi autobiografica Matilda, il romanzo storicoValperga e le opere teatrali Proserpina e Mida.
Mary scrisse Valperga per aiutare la situazione finanziaria del padre, dato che Percy si rifiutò di assisterlo ulteriormente.[86] In questo periodo era spesso malata e facilmente cadeva in depressione; inoltre fu costretta ad affrontare l’interesse di Percy verso altre donne come Sophia Stacey, Emilia Viviani e Jane Williams.[87] Dato che Mary condivideva l’idea di Percy della non esclusività del matrimonio, decise di riorientare le proprie emozioni, rafforzando i legami fra gli uomini e le donne all’interno del loro circolo ed in particolare si affezionò al principe Alessandro Mavrocordato, rivoluzionario greco, a Jane ed Edward Williams[88].
Nel dicembre 1818 gli Shelley si diressero verso Napoli, dove rimasero tre mesi, ricevendo come ospite soltanto un visitatore, un medico.[89] Proprio a Napoli Mary trasse ispirazione per la realizzazione del romanzo apocalitticoL’ultimo uomo.[90] Nel 1820 si trovarono a dover affrontare le accuse e le minacce di Paolo e Elise Foggi, ex domestici che Percy aveva licenziato a Napoli dopo che la coppia Foggi si era sposata.[91] I due avevano scoperto che il 27 febbraio 1819, a Napoli, Percy aveva registrato come figlio suo e di Mary una bambina di due mesi chiamata Elena Adelaide Shelley,[92] affermando inoltre che la vera madre non fosse Mary, ma Claire.[93] I biografi hanno offerto varie interpretazioni di questa vicenda: che Shelley avesse deciso di adottare una bambina del luogo per lenire il dolore di Mary dopo la perdita della figlia[94]; che la figlia fosse sua e di Elise, oppure di Claire o di un’altra donna; o anche che la bambina fosse nata da una relazione di Elise con Byron.[95] Mary Shelley affermò più volte che se Claire fosse stata incinta lei lo avrebbe certamente saputo, ma in realtà non è molto chiaro ciò che effettivamente Mary sapeva della situazione.[96] Gli eventi di Napoli, città che Mary più tardi definì come un “paradiso abitato da demoni”[97], rimangono avvolti dal mistero. L’unica cosa certa era che Mary non era la madre della bambina.[97] Elena Adelaide Shelley morì a Napoli il 9 giugno 1820.[98]
Nell’estate del 1822 Percy e Mary (nuovamente incinta) si diressero, assieme a Claire e Williams, a Villa Magni, a San Terenzo, nella baia di Lerici. Una volta sistematisi nella nuova dimora, il clima di tranquillità fu spezzato dall’annuncio della morte di Allegra, figlia di Claire, deceduta di tifo nel convento a Bagnacavallo in cui Byron aveva voluto educarla.[99] Questo evento gettò sia Claire che Mary in una profonda depressione.[100] Mary Shelley era distratta e infelice nella ristretta e remota Villa Magni, nella quale si sentiva come in prigione.[101] Il 16 giugno ebbe un aborto spontaneo e rischiò di morire. Percy intervenne prontamente, immergendo Mary in una vasca con ghiaccio per rallentare l’emorragia prima dell’arrivo del medico, salvandole così la vita.[102] I rapporti fra Mary e Percy comunque non migliorarono durante l’estate e Percy trascorse molto più tempo con Jane Williams che non con la moglie debilitata.[103] La maggior parte delle poesie che Percy scrisse erano rivolte a Jane e non a Mary.
La vicinanza col mare permise a Percy Shelley e a Edward Williams l’occasione di divertirsi navigando con la loro nuova barca.[104] La barca era stata progettata da Daniel Roberts e da Edward Trelawny, un ammiratore di Byron che aveva raggiunto il gruppo nel gennaio del 1822. Il 1º giugno 1822 Percy, Edward Williams e il capitano Daniel Roberts salparono diretti verso la costa di Livorno. Là Percy doveva discutere con Byron e Leigh Hunt sulla possibilità di avviare una rivista radicale chiamata The Liberal.[105] L’8 luglio Percy e Edward salparono di nuovo, accompagnati dal marinaio Charles Viviani, per fare ritorno a Villa Magni.[106] Non arrivarono mai a destinazione. Giunse a Villa Magni una lettera di Hunt per Percy datata all’8 luglio, in cui Hunt chiedeva come fossero riusciti a tornare a casa dato il brutto tempo il giorno della loro partenza. Mary e Jane Williams partirono subito verso Livorno e quindi alla volta di Pisa, con la speranza di trovare i mariti salvi. Dieci giorni dopo la partenza i tre corpi furono rinvenuti presso la costa di Viareggio. Trelawny, Byron e Hunt cremarono il corpo di Shelley sulla spiaggia di Viareggio[107], come disponeva la legge dell’epoca. Per volontà di Mary, durante il rogo furono versati sul corpo di Percy profumi, incensi e oli aromatici procurati da Byron, come avvenne durante il funerale di Miseno descritto nel sesto libro dell’Eneide.[108] Una leggenda narra che Trelawny riuscì a sottrarre dalle fiamme il cuore di Percy che non bruciava e lo consegnò a Mary in una scatola di legno.[108] Le spoglie di Percy furono mandate nel cimitero acattolico di Roma, vicino a quelle del figlio William.[109]
Rientro in Inghilterra, la carriera di scrittrice
Dopo la morte del marito Mary Shelley visse per un anno a Genova, affittando una casa con gli Hunt.[110] Non fu un periodo facile per Mary: la situazione non le permetteva di dedicarsi alla scrittura, il suo unico conforto, inoltre scoprì che Hunt covava amarezza nei suoi confronti a causa del comportamento che ella aveva avuto nei confronti di Percy negli ultimi suoi giorni di vita. Ciò creò un senso di colpa in Mary, che cominciò a pentirsi e ad autoaccusarsi.[111]
Mary decise di vivere unicamente per suo figlio e per la scrittura, ma la sua situazione finanziaria era precaria. Il 23 luglio 1823 lasciò Genova per tornare in Inghilterra, dove visse per un breve periodo al nr. 195 dello Strand (Londra) assieme a suo padre e alla matrigna.[112]. Suo suocero, Sir Timothy Shelley, le offrì sostegno finanziario a patto di non pubblicare più nessun manoscritto del marito, di non usare il cognome da sposata “Shelley” come firma nelle sue pubblicazioni[113] e di rinunciare alla custodia di suo figlio, che non avrebbe dovuto più avere contatti con lei[114].
Mary rifiutò la proposta[115] e decise invece di investire in una carriera di scrittrice, in modo da potersi mantenere insieme al figlio.
Mary Shelley si occupò della revisione delle edizioni delle poesie di Percy, dato che possedeva molti manoscritti del marito e informazioni riguardanti le poesie che scrisse. Dedicò anche del tempo a dei tentativi letterari, preferendo però concentrare i suoi sforzi nel mantenimento del figlio. Sir Timothy però minacciò di bloccare la rendita al nipote se fosse stata pubblicata una biografia riguardo a suo figlio Percy.[116] Nel 1826 Percy Florence divenne l’unico erede del patrimonio degli Shelley a causa della morte di Charles Shelley, il figlio che Percy ebbe con Harriet. Sir Timothy alzò l’assegno per Mary da 100 a 250 sterline l’anno, ma nonostante ciò le difficoltà economiche non mancarono.[117] Mary poté comunque godere della compagnia degli intellettuali del circolo di Godwin, incontrando personalità come William Hazlitt, Charles Lamb e Samuel Taylor Coleridge; a causa però della sua povertà che non le permetteva di ricambiare l’ospitalità fu costretta a interrompere queste relazioni sociali.[118] Dovette inoltre sopportare l’ostracismo di chi, come sir Timothy, disapprovava la sua relazione con Percy Shelley.[119]
Nell’estate del 1824 Mary Shelley si trasferì a Kentish Town, nel nord di Londra, vicino a Jane Williams. Il rapporto con Jane fu particolare: Mary le voleva molto bene (Muriel Spark nella sua biografia la definì come “un po’ innamorata”[120]) e credeva di aver trovato una buona amica, mentre Jane più tardi la disilluse facendo circolare la voce che Percy preferisse lei a Mary, la quale non sarebbe stata capace di essere una buona moglie.[121]
In questo periodo Mary fu impegnata nella stesura del romanzo L’ultimo uomo (1826), dove sono ben riconoscibili i ritratti di persone lei care come il marito Percy e Lord Byron[122] (morto nel 1824 a Missolungi). Nello stesso anno fece inoltre conoscenza dell’attore John Howard Payne che chiese a Mary di sposarlo nell’estate del 1825, ottenendo tuttavia un rifiuto.[123] Payne accettò il rifiuto e tentò di fare da tramite fra lei e il suo amico Washington Irving, scrittore statunitense di successo che Mary ammirava; fra i due non ci fu mai una vera e propria relazione ma solo stima reciproca.[124]
Nel 1827 Mary partecipò a un piano messo in atto per permettere alle sue amiche Isabel Robinson e Mary Diana “Doddy” Dods, scrittrice che pubblicava opere sotto lo pseudonimo di David Lyndsay, di cominciare una vita insieme in Francia come marito e moglie.[125] Con l’aiuto di Payne, Mary riuscì a ottenere dei passaporti per la coppia.[126] Nel 1828, quando si recò a Parigi per far visita alle amiche, Mary contrasse la variola vera. Guarì dopo diverse settimane, senza cicatrici ma perdendo la sua bellezza giovanile.[127]
Durante il periodo 1827–40 Mary fu occupata sia come scrittrice che come curatrice editoriale. Scrisse i romanzi The Fortunes of Perkin Warbeck (1830), Lodore (1835) e Falkner (1837). Contribuì ai cinque volumi di Lives’ of Italian, Spanish, Portuguese, and French author della Lardner’s Cabinet Cyclopedia. Scrisse storie per riviste femminili e cercò di risolvere i problemi economici del padre.[128] Nel 1830 vendette i diritti di Frankenstein per una sua nuova edizione a Henry Colburn e Richard Bentley che lo pubblicarono nella collana Standard Novels.[129] Dopo la morte del padre William Godwin, nel 1836, Mary cercò di scrivere una biografia su di lui, come egli stesso aveva desiderato nelle sue ultime volontà; il progetto fu però abbandonato dopo due anni.[130] In tutto questo periodo continuò a lavorare alla raccolta delle poesie del marito, tentando di farne un’unica pubblicazione, dato che la fama di Shelley dopo la sua morte era aumentata.[131] Nell’estate del 1838 Edward Moxon, genero di Charles Lamb, si propose per pubblicare le opere di Shelley. Mary pagò così 500 sterline per la loro pubblicazione sotto il titolo di Poetical Works (1838), nella quale, a causa dell’insistenza del suocero sir Timothy, non poté includere una vera e propria biografia. Mary riuscì comunque ad aggirare il problema aggiungendo delle note biografiche alle poesie in cui venivano narrati i contesti in cui Percy le compose.[132]
Mary Shelley curò i suoi pretendenti con molta attenzione: nel 1828 ebbe una relazione con l’autore francese Prosper Mérimée; l’unica lettera che ci è giunta che lo riguarda sembra però aberrare la sua dichiarazione d’amore.[133] Al ritorno di Edward Trelawny dall’Italia i due scherzavano su un loro eventuale matrimonio.[134] La loro amicizia però venne alterata dal rifiuto da parte di Mary di collaborare alla stesura di una biografia su Percy (sempre a causa della minaccia di sir Timothy di togliere l’assegno annuale a Percy Florence): più tardi Trelawny si adirò per l’omissione di Mary della parte sull’ateismo nel poema di Shelley Queen Mab.[135] Alcune informazioni che si ricavano dal diario di Mary dei primi del 1830 fanno supporre che avesse un’infatuazione per il politico radicale Aubrey Beauclerk; infatuazione che però terminò con il successivo matrimonio di Beauclerk.[136]
La prima preoccupazione di Mary comunque fu sempre il benessere dell’unico figlio rimastole, Percy Florence. Onorò il volere del padre che Percy frequentasse una scuola pubblica e più tardi, con un piccolo aiuto da parte di sir Timothy, riuscì a iscriverlo a Harrow. A causa delle tasse elevate Mary si trasferì a Harrow, dove Percy Florence sarebbe stato uno studente non residente, con una conseguente riduzione della retta.[137] Percy tuttavia si iscrisse in seguito al Trinity College di Cambridge, scegliendo gli studi di legge e politica, mostrando così di non aver ereditato il talento e le aspirazioni dei genitori.[138]
Fu un figlio devoto alla madre e dopo aver lasciato l’università nel 1841 decise di andare a vivere con lei.
Ultimi anni
Fra il 1840 e il 1842 madre e figlio viaggiarono insieme per il continente. Il viaggio sarà descritto nell’opera A zonzo per la Germania e per l’Italia (1844).[139] Nel 1844 sir Timothy Shelley morì all’età di novant’anni, “cadendo dallo stelo come un fiore spampanato”,[140] come disse Mary a Hogg; per la prima volta Mary e suo figlio erano finanziariamente indipendenti, anche se l’eredità lasciata era inferiore a quella sperata.[141]
Intorno al 1845 Mary finì sul mirino di tre diversi ricattatori. Il primo, un esule politico italiano chiamato Gatteschi, che Mary aveva già incontrato a Parigi, minacciò di pubblicare delle lettere che lei gli aveva scritto. Un amico di suo figlio la aiutò a recuperarle corrompendo un comandante di polizia e le lettere furono subito distrutte.[142] Poco tempo dopo fu costretta ad acquistare delle lettere sue e di Percy Shelley (lettere probabilmente perse nel loro viaggio del 1814) da un uomo che si faceva passare per il figlio illegittimo di Byron, tale G. Byron.[143] Infine, sempre nel 1845, Thomas Medwin, cugino di Shelley, minacciò di pubblicare una biografia molto compromettente di Percy se lei non avesse pagato la somma di 250 sterline; Mary rifiutò e la biografia venne pubblicata, senza però provocare lo scalpore previsto.[144]
Nel 1848 Percy Florence sposò Jane Gibson St John. Il matrimonio fu felice e Mary e Jane si affezionarono l’una all’altra.[145] Mary visse con il figlio e la nuora a Field Place, Sussex, nella vecchia dimora degli Shelley, e a Chester Square a Londra e li accompagnò nei loro viaggi all’estero.
Gli ultimi anni di Mary Shelley furono pesantemente segnati dalla malattia. Dal 1839 soffrì di gravi emicranie e colpi apoplettici in varie parti del corpo che le impedirono di leggere e scrivere.[146] Il 1º febbraio 1851, a Chester Square, morì all’età di cinquantatré anni per quello che venne definito un probabile tumore al cervello.[147]
Mary Shelley aveva chiesto di essere sepolta con suo padre e sua madre; Percy e Jane però definirono “atroce” il cimitero di St Pancras, preferendo invece quello della chiesa di St Peter a Bournemouth, vicino alla loro nuova casa di Boscombe. Nella nuova tomba furono trasferite le ceneri di William Godwin e Mary Wollstonecraft e in seguito anche quelle di Percy e Jane Shelley.[148] Per il primo anniversario della morte di Mary, la coppia decise di aprire il cassetto della sua scrivania. All’interno trovarono le ciocche dei capelli dei suoi figli, un quaderno compilato assieme a Percy e una copia del suo poema Adonais con una pagina ripiegata attorno a un involto di seta contenente le ceneri del cuore di Shelley.[84]
I temi della sua poetica
«Mary Shelley è nata ed è vissuta nel sangue, e se è possibile usare una metafora squisitamente romantica, ha scritto con il sangue. Non il flusso vitale e furioso della vita, ma piuttosto un rivolo scuro, raggrumato, il rivolo che scivola via dal corpo e che conduce verso la morte»
Scorrendo la vicenda umana di Mary Shelley non si trovano gioie durature: dalla nascita alla maternità, fino all’amore per il suo compagno e sposo sembra ripetersi sempre un identico modello di catastrofe che conduce da un attimo di felicità al precipizio del dramma.
Bimba cresciuta nell’idealizzazione di una madre cui aveva di fatto tolto la vita nascendo, adolescente entrata nel mondo di una sessualità subito associata a maternità luttuose, emarginata per ragioni sociali e politiche, a ventiquattro anni infine vedova dopo il naufragio del marito.
Fa della scrittura il mezzo di sostentamento suo e dell’unico figlio rimastole. Mary scriverà per lo più versi di disperazione e di ricordi laceranti: la caduta tragica nella morte e nella privazione è la sostanza delle sue poesie, da The choice (La scelta) del 1823, che è quasi un poemetto in versi sulla morte dei figli e del marito, a quelle scritte successivamente.
Al suo ritorno da vedova in patria sir Timothy, suo suocero, che non perdonava nemmeno alla memoria del figlio, le pose una serie di divieti come condizione per mantenere una rendita a favore del figlio: non doveva scrivere sul marito, né doveva scrivere lei stessa, e non doveva allontanarsi più dall’Inghilterra. Finché, finalmente, nel 1837 il vecchio baronetto, mutando in parte il suo atteggiamento, comunicò che avrebbe consentito la pubblicazione, con note da lei redatte, delle opere di Percy, purché non si parlasse degli episodi che avrebbero turbato la moralità pubblica e la sensibilità dello stesso sir Timothy.
Nella sua ultima e incompleta opera Mary Shelley parla del trionfo della vita, mentre ne L’ultimo uomo Mary parla del trionfo della morte attraverso la peste che stermina l’umanità.
A ogni modo il rapporto tra lei e Percy fu sempre molto profondo non solo sul piano sentimentale ma anche artistico.
La più nota opera di Mary Shelley è Frankenstein, o il moderno Prometeo, scritto nel 1818. L’idea del romanzo risale al 1816, quando Mary Shelley era in vacanza a Bellerive, nei pressi di Ginevra, in compagnia di suo marito, della sorellastra Claire Clairmont e del loro comune amico Lord Byron, che aveva avuto una relazione con Claire. La stagione era molto piovosa e gli amici, costretti in casa, discutevano a lungo; è da una di queste discussioni sulla letteratura tedesca che la scrittrice ebbe l’idea di un romanzo gotico che raccontasse la creazione di un uomo, senza essere Dio, ma utilizzando un’energia di essenza divina il cui uso era considerato da Plinio il Vecchio un sacrilegio dalle terribili conseguenze. Di qui il sottotitolo “Prometeo moderno” con chiara allusione al mito, tratto da Ovidio, del Titano che aveva dato il fuoco agli uomini. Il gruppo decise di intraprendere una gara letteraria per scrivere una storia sul soprannaturale. Un altro ospite, il Dott. John William Polidori, scrisse in quell’occasione Il vampiro, che in seguito avrebbe avuto una forte influenza sul Dracula di Bram Stoker. La storia di Mary si dimostrò di ancora maggior successo ed è oggi generalmente considerata il primo vero romanzo di fantascienza.[149]
Altre opere
Mounseer Nongtongpaw or The Discoveries of John Bull in a Trip to Paris, Juvenile Library, 1808
Storia di un viaggio di sei settimane (History of Six Weeks’ Tour through a Part of France, Switzerland, Germany, and Holland, with Letters Descriptive of a Sail round the Lake of Geneva, and of the Glaciers of Chamouni), con il contributo di Percy Bysshe Shelley, 1817
L’ultimo uomo (The Last Man), 1826, una storia pioniera della fantascienza che narra dell’apocalisse dell’umanità nel XXI secolo, da alcuni considerata la sua opera migliore;
contribuì a Lives of the Most Eminent Literary and Scientific Men, parte della Lardner’s Cabinet Cyclopedia, costituita da saggi sulle vite di molti illustri personaggi (Petrarca, Boccaccio, Goldoni, Cervantes, Molière, Voltaire, Rousseau), 1835-1839
Mary Shelley non pubblicò mai una vera e propria raccolta dei propri racconti, ma si limitò a scriverli destinandoli a riviste come il The Keepsake. La maggior parte delle storie, a carattere prevalentemente gotico–romantico e politico, sono ambientate in periodi che vanno dal XIX secolo britannico, alla guerra d’indipendenza greca e al XIV secolo italiano.
Lista dei racconti in ordine cronologico:
Una storia di passioni o la morte di Despina (A Tale of the Passions, or, the Death of Despina). The Liberal 1 (1822): 289–325.
The Convent of Chailot. The Keepssake for MDCCCXXVIII.[151]
The Sisters of Albano. The Keepsake for MDCCCXXIX. Ed. Frederic Mansel Reynolds. Londra: Pubblicata per il Proprietario, da Hurst, Chance, and Co., e R. Jennings, 1828.
Ferdinando Eboli (Ferdinando Eboli. A Tale). The Keepsake for MDCCCXXIX. Ed. Frederic Mansel Reynolds. Londra: Pubblicata per il Proprietario, da Hurst, Chance, and Co., e R. Jennings, 1828.
The Mourner. The Keepsake for MDCCCXXX. Ed. Frederic Mansel Reynolds. Londra: Pubblicata per il Proprietario, da Hurst, Chance, and Co., e R. Jennings, 1829.
The Evil Eye. A Tale. The Keepsake for MDCCCXXX. Ed. Frederic Mansel Reynolds. Londra: Pubblicata per il Proprietario, da Hurst, Chance, and Co., e R. Jennings, 1829.
The False Rhyme. The Keepsake for MDCCCXXX. Ed. Frederic Mansel Reynolds. Londra: Pubblicata per il Proprietario, da Hurst, Chance, and Co., e R. Jennings, 1829.
Metamorfosi (Transformation). The Keepsake for MDCCCXXXI. Ed. Frederic Mansel Reynolds. Londra: Pubblicata per il Proprietario, da Hurst, Chance, and Co., e R. Jennings e Chaplin, 1830.
The Swiss Peasant. The Keepsake for MDCCCXXXI. Ed. Frederic Mansel Reynolds. Londra: Pubblicata per il Proprietario, da Hurst, Chance, and Co., e R. Jennings e Chaplin, 1830.
The Dream, A Tale. The Keepsake for MDCCCXXXII. Ed. Frederick Mansel Reynolds. Londra: Pubblicato da Longman, Rees, Orme, Brown, e Green, 1831.
The Pole. The Court Magazine and Belle Assemblée. 1 (1832): 64–71.
The Brother and Sister, An Italian Story. The Keepsake for MDCCCXXXIII. Ed. Frederick Mansel Reynolds. Londra: Pubblicato da Longman, Rees, Orme, Brown, Green, e Longman/Parigi: Rittner e Goupill/Francoforte: Charles Jügill, 1832.
La ragazza invisibile (The Invisible Girl). The Keepsake for MDCCCXXXIII. Ed. Frederick Mansel Reynolds. Londra: Pubblicato da Longman, Rees, Orme, Brown, Green, e Longman/Parigi: Rittner and Goupill/Francoforte: Charles Jũgill, 1832.
Il mortale immortale (The Mortal Immortal). The Keepsake for MDCCCXXXIV. Ed. Frederick Mansel Reynolds. Londra: Pubblicato da Longman, Rees, Orme, Brown, Green, e Longman/Parigi: Rittner and Goupill/Berlino: A. Asher, 1833.
The Elder Son. Heath’s Book of Beauty. 1835. Ed. Countess of Blessington. Londra: Longman, Rees, Orme, Brown, Green, e Longman/Parigi: Rittner e Goupil/Berlino: A. Asher, 1834.
The Trial of Love. The Keepsake for MDCCCXXXV. Ed. Frederick Mansel Reynolds. Londra: Pubblicato per Longman, Rees, Orme, Brown, Green, e Longman/Parigi: Rittner and Goupill/Berlino: A. Asher, 1834.
The Parvenue. The Keepsake for MDCCCXXXVII. Ed. The Lady Emmeline Stuart Wortley. Londra: Pubblicato per Longman, Rees, Orme, Green, e Longman/Parigi: Delloy and Co., 1836.
The Pilgrims. The Keepsake for MDCCCXXXVIII. Londra: Pubblicato da Longman, Orme, Brown, Green, e Longmans/Parigi: delloy and Co., 1837.
Eufrasia (Euphrasia, a A Tale of Greece). The Keepsake for MDCCCXXXIX. Ed. Frederic Mansel Reynolds. Londra: Pubblicato per Longman, Orme, Brown, Green, e Longmans/Parigi: Delloy e Co., 1838.
The Heir of Mondolpho. Appleton’s Journal: A Monthly Miscellany of Popular Literature (NY) N.S. 2 (1877): 12–23.
In italiano sono state tradotte poche raccolte dei suoi racconti, la maggior parte dei quali è ancora inedita:
La sposa dell’Italia moderna e altri racconti, Ladisa, 1993, p.120. ISBN 8872900700.
Racconti scelti, Aletheia, Firenze 2002, p. 142. ISBN 888536831X.
La Ragazza Invisibile, racconti, Barbieri Editore, Taranto 2005, p.117. ISBN 8875330166.
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