Articolo di Oscar Nicodemo-Se non avete ancora letto “Il Maestro e Margherita”, opera postuma di Michail Bulgakov, è venuto il momento di farlo! Rendetevi disponibili, prego, per una lettura intensa quanto sorprendente e assurda. Diversamente, nel caso lo aveste già letto, spero che le mie parole, qui, in questo confidenziale e prezioso spazio, vi rimandino alla sua rilettura. A me è capitato di riprenderlo tra le mani dopo vent’anni dalla prima volta, chiedendomi cosa, esattamente, avessi letto, giacché non era del tutto svanito il ricordo di essere stato letteralmente rapito dall’esposizione di quelle pagine, così ben lavorate da raccordarsi con il genio dei grandi maestri dello spirito russo. Tradotto e pubblicato da Einaudi, nel 1968, a vent’otto anni dalla morte dell’autore, il libro viene recensito sul “Corriere della Sera” da Eugenio Montale, che definisce il romanzo “un miracolo che ognuno deve salutare con commozione”.
Il poeta italiano scrive: “Un romanzo-poema o, se volete, uno show in cui intervengono numerosissimi personaggi, un libro in cui un realismo quasi crudele si fonde o si mescola col più alto dei possibili temi – quello della Passione – non poteva essere concepito e svolto che da un cervello poeticamente allucinato. È qui che il poco noto Bulgakov si congiunge con la più profonda tradizione letteraria della sua terra: la vena messianica, quella che troviamo in certe figure di Gogol’ e di Dostoesvkij e in quel pazzo di Dio che è il quasi immancabile comprimario di ogni grande melodramma russo.”
Cosa dovremmo sapere, dunque, di un’opera che quasi tutti gli esperti metterebbero nella lista dei migliori libri di sempre? Non possiamo ignorare, per esempio, che Bulgakov iniziò a scriverla nel 1928 e che ne distrusse la prima versione, lavorando in seguito a diverse altre, fino ad arrivare, aiutato dalla moglie Elena, a quella definitiva del 1940, portata al termine poco prima di lasciare questo mondo.
Il tema della distruzione del romanzo viene ripreso anche dalla testimonianza della storia d’amore tra il Maestro e Margherita, un punto di forza irrinunciabile dell’intera vicenda narrata, ma non il solo. Cosa ci fa, infatti, il Diavolo a Mosca, nelle vesti di Woland, accompagnato da personaggi memorabili, tra cui il maggiordomo stravagante, Korov’ev, e il clownesco gatto sovrappeso, Begemont? Certamente, insieme, daranno luogo a un esilarante e sconvolgente mulinello di accadimenti che vi terranno fermi alle pagine mediante un racconto che procede su due piani: in uno si narrano le vicende che si susseguono a Mosca, nell’altro si sviluppa il romanzo scritto dal Maestro, ambientato durante la Pasqua, ai tempi di Ponzio Pilato e Gesù.
E qui il tema tra il bene e il male si complica a tal punto che la stessa distinzione tra buoni e cattivi non è affatto netta. Satana appare quasi benevolo e si prende gioco della mediocrità e della vacuità delle persone. Mentre, Margherita, nella sua grazia e bellezza, mostra il suo lato oscuro e distruttivo. Quanto, a Ponzio Pilato, lavandosi le mani non dissolve la sua fragilità e la solitudine.
Il testo sfoglia con maestria elementi bizzarri e surreali, che si mescolano con la denuncia politica e sociale, con la religione, la giustizia, l’amore, l’illusione e il potere. E come ogni grande classico, il capolavoro di Bulgakov ci lascia alle nostre domande e riflessioni, magari aprendoci la strada a qualche dubbio, ma nella certezza di aver letto un’opera intramontabile e senza tempo, che avrà sempre qualcosa da insegnare a ogni nuova generazione.
I lettori di ogni epoca potranno considerare come difronte a tanta sofferenza e ai diritti negati, i protagonisti di questa grande opera letteraria abbiano ancora voglia di fare cose folli e innamorarsi del rischio. Margherita è desiderosa di vita e avventura e non è al corrente dei particolari del suo viaggio: sa solo che quando arriverà alla meta, potrà finalmente chiedere pace e redenzione per lei e per l’uomo che ama. Pertanto, la donna si lancia nuda, in volo, fluttuando come in un quadro di Chagall, sulla città di Mosca e i suoi dintorni, tra boschi e un paesaggio lacustre.
“In fil di trama”- è la nuova raccolta di poesie di Stefania Rabuffetti
Stefania Rabuffetti, in libreria per Castelvecchi Editore con una prefazione di Massimo Arcangeli-100 parole – una per poesia – concatenate una con l’altra a intessere una trama, come fa un ragno con la sua ragnatela. Non a caso, sono proprio questi i due vocaboli che aprono e chiudono l’antologia. I versi qui raccolti, esito di un’intensa indagine su di sé resa possibile da una lunga pratica poetica, abbracciano molteplici contrasti: vita/morte, nulla/tutto, prigione/libertà, pace/guerra, notte/giorno, sorriso/pianto, per citarne alcuni. Queste dicotomie sono fondanti della vita stessa e necessarie per una visione universale, che abbraccia il mondo, l’infinito e il tempo nella sua interezza, «ciò che non ha dimensione», e – spingendosi ancora più in alto – lo Spirito.
La raccolta è frutto di un richiamo irresistibile della poesia. Come spiega l’italianista Massimo Arcangeli nella prefazione: «Se la poesia ti detta dentro non puoi farci niente. La cerchi, e non sempre la trovi (e, se anche la trovi, non sempre ti ascolta), ma quando è lei a trovarti, stanandoti da infingimenti e paure, non puoi resisterle, sei costretto a riportarne le parole. Stefania Rabuffetti vive l’esperienza poetica in questa misura». L’atto di scrivere diventa quindi atto necessario, l’autrice ha bisogno in modo insaziabile della poesia per dar voce a se stessa e ritrovarsi. Nei suoi versi si incontra una fame sazia di parole, e ancora un’infinita voglia di lasciare traccia della vena creativa.
La ruota gira la mente si muove il pensiero respira germogliano parole la penna scivola sul foglio l’inchiostro scrive la poesia rivive.
La scrittura è, dunque, per la poetessa lo specchio dell’anima: riflette la sua irrequietudine e le sue debolezze, ma è anche testimone di una costante ricerca di senso e della volontà di seguire il filo che si intreccia con al vortice/labirinto della vita, in «un abbraccio mortale che – come scrive Arcangeli – in realtà, è una promessa di rinascita.»
Stefania Rabuffetti è nata a Roma, dove vive. Per dieci anni ha lavorato nella redazione di programmi televisivi della Rai. Le sue poesie hanno dato vita a diverse raccolte, pubblicate da Manni: Il perimetro dell’anima (2009, Premio Minturnae 2010), Libertà vigilata (2011), Vietati gli specchi (2016), Cartoline dall’universo (2017, finalista al 44° Premio internazionale Città di Marineo), Parole affamate di parole (2019).
In fil di trama è la nuova raccolta di poesie di Stefania Rabuffetti, in libreria per Castelvecchi Editore con una prefazione di Massimo Arcangeli (pp. 112 – euro 14,50).
Jack Kerouac,Scrittore e poeta, nato giovedì 12 marzo 1922 a Lowell, Massachusetts (USA – Stati Uniti d’America), morto martedì 21 ottobre 1969 a St. Petersburg, Florida (USA – Stati Uniti d’America)
Jack Kerouac, E’ uno dei padri della beat generation, l’autore di Sulla strada (1957), lo scrittore che seppe intercettare in anticipo lo spirito di un Paese che stava cambiando, l’interprete di un desiderio di libertà e di profondità spirituale che erano nell’aria, prima degli hippy, di una ribellione contro la civiltà occidentale. I grandi spazi dell’America da attraversare coincidevano con quelli della coscienza. Ha ispirato molti, come Bob Dylan, come i movimenti pacifisti, con le sue idee e con il suo stile immediato, la prosa spontanea, rapsodica e jazz; e continua a ricorrere ancora oggi, nella nostra cultura, ad essere evocato, attraverso quel suo concetto geniale di vivere “on the road”. Jack Kerouac è nato cento anni fa, il 12 marzo 1922, a Lowell (Massachusetts), ed è morto giovane, a 47 anni nel 1969, per una emorragia addominale causata dall’alcolismo.
Poesie di Jack Kerouac
DULUOZ
Nome tratto da fonti
di primo mattino
Nella sede di un giornale
Tanti Anni Fa a Lowell Mass
Mentre gli uccelli cacavano
Sul canale
E Sperma galleggiava
Tra i Muri di Mattone
Di un Albeggiar di Fumo
Che usciva da un Camino
di Chtistian Hill
Ah Sire, Duluoz,
Re dei miei Pensieri,
Salve a te!
(Caccia un’altra lattina di birra)
QUALUNQUE MOMENTO
Qualunque momento hai voglia
Di scrivere una cazzuta poesia
Apri ‘sto libro
& Strilla nient’ altro
Che Crema
Strilla
Non ti scomare
Scorri
Scortica
Scrosta i bordi di Scrono
AllitteRa le Rane
Bekkek! Bekkek!
Koax! Koax!
Carra Quax!
Carra qualquus
Kerouacainius!
PERSINO JOYCE
Persino lui, Joyce,
ha avuto l’amore
Persino i poeti ciechi.
IL POETA
Quante volte da quando
Ho visto il poeta
di Greenwich Village
Scorciare al lavoro nell’ alba grigia
Con la gavetta &
il taglio di capelli fuori moda
Occhi allo Hudson
Narici alla strada
All’inverno, al lavoro, alla carità,
Ai pasti, cibo di follia
Tante volte da quando
Ho visto il poeta
Che scriveva ritmi & rime
Incazzato tra Minetta’s
E Minetta Lane
Affrettarsi al Lavoro
Sessosico, sessitico, psico
analizzato?
Al lavoro nell’alba impoetica
Le mattine dopo essermi sbronzato
con Lucien & Allen
& gli Angeli Alleati
Nella Vasta Pesciaia
di Manhattan
O America!
O canti!
Poesie!
o Sax Alti! o Tenori!
Suonate!
(il Poeta è Morto).
TUONO
Il tuono fa un frastuono
di rumore come finestre
Chiuse in silenzio
istericamente
Perciò Papi è caduto dalle scale
del tempo
Malgrado l’acquasanta
E tutti i vs. beveroni
nell’
Eternità.
LA ROSA
«Ah, Rosa»ho gridato,
«Risplendi nella Fosforescente
Notte.»
L’INSETTO
E al piccolo insetto che io sono
ho detto
«Insetto, detto, vetta, tetta del tempo,
Prova, prendi, prendi, spremi, vola,
L’amore traversa i t.i zigomi
Sulla fosforescente trasparente
ala
Del Metamorfosato Insetto
Kafkiano divora formaggio»
L’ORRORE
Quindi ho visto l’orrore,
E ho gridato,
«Toglitimi di do sso».
L’errorrore mi ha messo osso
Per osso in un sacco di terra,
Poi mi ha arrostito in forno
D’infernocielo nell’alluminio
Di Diavolo Dio Gesù ,
Cioè la Vs. Santa Trinità.
I SORRISI
I sorrisi scostano la pelle delle guance
Da perle d’osso
E mostrano a chi guarda
Tremolare la crema
In occhi di pietra.
SULLE LACRIME
Lacrime è la mia fronte che si rompe,
Il lunato agitato
sedersi
In bui cimiteri di treni
Quando per vedere il volto di mia madre
Che richiamava dalla sua visione
Piansi alla comprensione
Della trappola mortalità
E del sangue personale della terra
Che mi aspettavano
Padre padre
Perché mi hai abbandonato?
Mortalità & repulsione
Scorrazzano per questa città
Infelicità è il mio secondo nome
Voglio essere salvato,
Affondato-non può essere
Non vuole essere
Mai fu fatta per essere
Così da vomitare!
DA VECCHIO
Quando comincerò a invecchiare
E forse sentirò .il braccio sinistro
intorpidirsi
E il cervello resistita speranza,
Siederò addormentato
L’energia soffocata esaurita
nel mio occhio
E l’amore fuggito da me
Quando la peggior notizia
Mi fu portata
Ed esultai di essere solo
Di ormai essere morto
Ho avuto la visione del
santo
Misconosciuto & troppo stanco
per spiegare il perché
E di dolci intenzioni
un altro giorno-
Persino Stanley Gould
andrà in cielo.
LO SO
Lo so che non so scrivere
versi
Ma questo è il mio libro
di righine lattine
Di birra e allora compatiscimi
invisibile
Lettore lasciami pasticciare
anche
Quando ho i postumi & sono senza
idee.
DIO
Seduto sui nostri significati
Egomaniaco Dio,
Solitaria macchia d’olio luccico di pioggia
È solito irritarci per di più
Nel Reale.
SPERANZE
La poesia non lo sa:
Il condizionatore
Disusato d’inverno
È come le mie speranze
Un po’ dentro, un po’ fuori,
Verdi su ruota bianca,
Buone solo a gettare
Un’ombra lunga
Nella livida luce della strada.
55° Chorus
Un giorno o l’altro alzeranno monumenti
costruiti in onore dei folli
quelli che oggi stanno in manicomio
Come primi pionieri del concetto
per il quale se perdi la ragione
attingi al sapere più perfetto
Il quale è immune da predicati
quali «lo sono,. io voglio, io ragiono -»
-immune dal dire: «Lo farò»
– Immune
Immune anche da follia in virtù
del non contatto
Ma per intanto questi medici
deterministi credono davvero
che un matto è matto –
E per questo hanno eretto una religione
da un miliardo di dollari, detta Psico-medicina,
e ah –
Be’ apprenderemo la normalità
dell’Ard Bar
Al mattino, alle volte, da soli
Blues
Parte delle stelle mattutine
La luna e la posta
L’insaziabile X, il dolore delirante,
– la luna Sittle La
Pottle, teh, teh, teh, –
I poeti in vecchie stanze gufose
che scrivono curvi parole
sanno che le parole furono inventate
perché il nulla era nulla
Usando le parole, usate le parole,
le X e gli spazi vuoti
E la pagina bianca dell’Imperatore
E l’ultimo dei Tori
Prima che la primavera si metta in moto
Sono una montagna di nulla
di cui volenti o nolenti disponiamo
Così di notte contratteremo
nel mercato delle parole.
Poesia
Il jazz s’è suicidato
Fate che la poesia non faccia la stessa fine
Non temiate
l’aria fredda della notte
Non date retta alle istituzioni
quando trasformate i manoscritti in
arenaria
non inchinatevi né fate a cazzotti
per i pionieri di Edith Wharton
o per la prosa alla nebraska di ursula major
no, statevene nel vostro giardinetto
& ridete, suonate
il trombone di mollica
& se poi qualcuno vi regala perline
ebree, marocchine, o vattelappesca,
addormentatevi con quella collana al collo
È probabile che facciate sogni più belli
La pioggia non c’è
non ci sono più me
te lo dico io, ragazzo,
affidabile come la merda.
Welso Giovanni Mucci (Giòanin per gli amici) nacque a Napoli il 29 maggio del 1911 da Ranieri, abruzzese e maestro di musica nel Regio Esercito, e Domenica Boglione di Bra. Rimase affezionato a questa cittadina tutta la vita, passandovi nell’età matura lunghi periodi.
OTTO DOZZINE DI VERSI PER IL COMPAGNO VENUTO A TENERE LA RIUNIONEI
Il compagno è senza un soldo Senza un soldo di lontano
E’ venuto con la pioggia
Con la pioggia e per le strade Di collina e poi del piano Con la moto e con la giubba Con la giubba sua di cuoio Che è solcata dalla pioggia Come a marzo una vallata
Il compagno è qui venuto
E ha tenuto
La riunione.
II Ha tenuto la riunione
Han parlato dei bollini
Dei bollini delle tessere
Dei problemi del Comune Hanno messo insieme i soldi Per la rata che si deve
Che si deve al fornitore
Che ha fornito il ciclostile
Poi qualcuno ha detto andiamo Chè alle cinque debbo alzarmi.
III Alle cinque hanno da alzarsi Per andare a lavorare
Al padrone non puoi dire Questa notte ho fatto tardi Nel Partito Comunista
Per discuter dei problemi Dei problemi del Comune Dei bollini delle tessere Delle rate da pagare
Se poi dice il ciclostile
Cose invise
Al padrone.
IV Ma quest’anno è un mostro il tempo Se pioveva un’ora fa
Marzo adesso è freddo e nevica
Il compagno che è venuto
Pioggia e fango ha già passati
Con la giubba e con la moto
Fango e pioggia può passare
Ma se nevica è un disastro
E’ un disastro da finire
Da finire dentro un fosso
Con al neve nei due occhi.
V Con al neve nei due occhi
Nei due occhi che hanno sonno Il compagno resta qui
Resta qui ma senza un soldo
A dormire dove va
La locanda che fa credito
Ma il portone già sprangato Sulla via che è bianca, è nero
Il portone, è nero il muro
Il compagno senza un soldo Non può andare
Nell’Hotel
VI Non può andare nell’Hotel Questo è chiaro a tutti quanti
Tutti quanti son persuasi
Che il compagno che è venuto Non può andare e non può stare E continuano a parlare
Dei problemi del Paese
Della guerra e della pace
Del Congresso del Partito
Del Partito dell’Unione
Della Cina
Della vita.
VII Della Cina della vita
Nelle strade che son bianche Lungo i muri che son neri Questi qui vanno parlando Come un tempo già i poeti
I poeti che ora stanno
Chiusi e freddi e muti e stanchi Senza un soldo dentro il cuore Con la resa dentro gli occhi Con la stizza sulla pelle
Di domani
Non si sa.
VIII
Di domani non si sa
Ma lo sanno questi qui Questi qui lo sanno, ché Ogni giorno un po’ lo fanno Il domani un po’ lo fanno Anche adesso che si parla Del lavoro e della vita Mentre portano il compagno A dormire sopra un tavolo Del Partito, con la testa Appoggiata al
Ciclostile.
LETTERA AI MEMBRI DEL CC E DELLA CCC DEL PCI
ascolto i vostri dibattiti come si ascolta il gorgo dei cassoni dell’acqua durante
le notti d’insonnia
reumatica.
(stando al piano delle lavanderie
com’io sto da quando ho memoria
si potrebbe anche tentare d’essere lucidi e assegnare più origini
a questi singulti del ferro
ma tutto
arriva qui col medesimo tuono) scusate dunque
la confusione che i vostri canali mettono nelle mie arterie infreddolite
non è un caso
che proprio il mio reuma più acuto sia accaduto insieme
con i vostri dibattiti
siamo stati aggrediti
da un medesimo vento
che le mie ossa ricevono gelido
e che molti di voi definiscono caldo vedete
che per poco che i miei versi
si prolunghino nella notte
come larve di antichi dolori
c’è rischio che anch’io entri tra voi a dibattere
sulla qualità
da dare
a quel vento
ora
ciò che manca nei vostri dibattiti (perché tutti noi si sappia che fare) è proprio
quel che una gran base
del Partito
vi addita
(se voi foste più logici)
un pizzico di
silenzio dicembre 1961
TEMPO E MAREE –da Continuum 1962-1963
Will it bloom this year?T.S.Eliot
noi viviamo in un tempo
che la Morte è sospesa
vola un piccione grigio alla lavagna
del cielo di Charing Cross
i più vecchi tra noi
hanno strani ricordi
a quest’ora
nella piana di Pimlico
la Luna alza le strade
e sul Ponte di Londra
le acque umane si gonfiano
da un limo all’altro del fiume
se la memoria indugia
è sommersa
questo è l’ultimo tonfo della chiatta
alla chiatta che attracca
c’è il sottoterra e le domeniche
per covare i ricordi
noi viviamo in un tempo
che la Morte è sospesa
e i più vecchi tra noi
non hanno il cuore facile
se qualcuno verrà dopo di noi
in questi cunicoli
dove i treni biforcano
e i nostri giorni in piena ebbero pausa
sotto il crinale
ventoso della brughiera di Hampstead
non badi alle nostre ossa
ma alla vita che avemmo
per toglier di mezzo la Morte
questo è un tempo che torce ogni nostra ora
è lontano lo sparo
del suicida alla prua della sirena
il futuro è a portata di mano
ma nessuno verrà dopo di noi
a ruspare nel limo
delle basse maree vetri di guinness
o qualche magro rame
d’Elisabetta la Seconda
se al pelo morto delle acque
approda solitario un coccio bianco
dell’umano deterrent
corriamo un Sole basso all’orizzonte
sopra spalti di neve e sulla Terra obliqua
un cielo freddo si schiaccia
fino al ventre delle nostre memorie
………………
Londra, gennaio-febbraio 1963
ZONA
Ad Anna.
Nell’officina che ha le finestre sulla campagna
e lontano si vede il muretto
del cimitero ov’è la tua tomba,
quest’oggi tuo padre ed io litigavamo;
tra i ferri e le incudini
noi si gridava e scherzava
con queste giornaliere passioni,
come quando tu eri tra noi
ancora nel giuoco della vita.
Larve inconsapevoli
e accalorate
noi parlavamo di guerre
e di padroni del mondo;
e non capivamo che il tumulto
di questa età
è il rimbombo delle nostre voci
nel cavo del vostro silenzio.
Bra, settembre 1935.
A DORA
Qualche volta un ricordo mi rosica il cuore in silenzio
Puškin
Tu mi domandi perché amor non sciolga
mai la tristezza nel mio solitario
e pigro sangue. Non sai quale ossario
di alterchi è la memoria in me. Si volga
pure ogni anno: non c’è ch’io non mi dolga
di affrettati abbandoni. Era un orario
di scontri e buie morti e di afe il vario
apparir dell’età. Vuoi tu ch’io tolga
melanconica carne ormai dal cuore
che gli anni irosi han chiuso in questa dura
maschera? È segno che scordi il dolore
che mi costò anche il tuo dono; e ho paura,
se tu scordi, che il poco e lento amore
si perda ancor nella mia vita oscura.
Roma, 14 ottobre 1946
ISPEZIONE
Ho fatto per tanti anni la vita di trincea
in camere sudice con qualche libro
e un letto disfatto da mesi,
che neanch’io so più da che parte sia il nemico.
So che se tento un’uscita,
non vedo che facce pronte e ostili
a un mio passo sbagliato.
Né mi è valso mutar stanza e città,
ché mi trovo assediato nella polvere
con un sorso di grappa.
Tuttavia ho sempre guardato con piacere
nel vetro delle finestre
questa dura cosa
che è ancora la vita d’un uomo.
E un giorno
morirò nella strada.
Roma, dicembre 1948
A DORA, DURANTE UNA SUA LONTANANZA
Quando io muoio
vorrei che tu mi chiudessi gli occhi
e mi lasciassi sulle labbra
la pressione di un bacio.
Ci siamo incontrati a vivere
in questi
dei molti anni, da che esiste l’uomo
sopra la Terra;
e abbiamo avuto gli stessi giri di Sole
e le stesse piogge e gl’inverni
e gli umori primaverili.
Con qualche leggera fatica
abbiamo anche avuto gli stessi moti,
poiché insieme imparammo a conoscere
quali sono
questi dei molti
anni da che esiste l’uomo.
Andrò nella terra senza rimpianto.
E se i posteri dei posteri
scaveranno le nostre tombe,
vorrei che trovassero
accanto alla nostra polvere
la palla di gomma con cui giocavamo
un’estate
nelle ore di bassa marea.
Questa mia volontà
anche se immagino che non sarà rispettata,
fa capo al mio più gaio ricordo:
di te che corri lontana sulla riva
e che torni ridendo con gli occhi,
in uno degli anni
che ci siamo trovati a vivere
e a muoverci insieme.
Bra, 15 settembre 1955
DISINTOSSICAZIONE
Uno di questi giorni mi vedrai sparire,
inghiottito dai ricordi.
Quando i veleni quotidiani
cominciano a venir meno,
la memoria diventa un oceano.
Per qualche istante sarò anche buffo da vedere,
mentre mi dimeno
sulla cresta d’un ricordo più alto degli atri;
poi il risucchio sarà così forte,
che colerò per sempre a picco
nelle profondità della memoria.
Novara, aprile 1959
POESIE DI MAO
……………………..
Questa poesia, che tanti voli d’anatre
ha visti ai confini dello sguardo nel sud,
e dal massiccio K’un Lun
da cui il cielo dista non più di tre pollici
ha guardato
tutti i colori e i tempi della Cina,
deve farsi ora più esile e obliqua,
come dopo la pioggia torna obliquo il sole,
per attraversare i gioghi dell’Appennino
e la grigioverde Provenza
e le coste del Levante di Spagna,
fino a posarsi sui tetti infuocati d’Alicante
dove vive il mio amico.
Io da Roma,
quale un agente dei re della droga,
travaso in cartine di sillabe
questa polverina azzurra e dorata.
La poesia di Mao, come la Rossa Armata,
non ha temuto la difficile lunga marcia,
ha passato diecimila fiumi e mille montagne
e ha disteso il volto al sorriso.
Ora però deve ricordare
che la visuale cresce secondo la misura dell’occhio,
e mettersi ancora in cammino
senza perdere un segno
per le forre e le crepe di quelle arse pianure.
MUSEO DELLE FACCE CHE DANNO SPAVENTO AGLI UOMINI
a Bertolt Brecht
…………………………..
In questo Museo
non cercate le facce
di ladri, assassini,
briganti o bari.
Ci sono al mondo, badate,
facce cattive,
facce mostruose,
facce che non promettono nulla di buono,
ma sono facce umane,
facce che si esprimono,
e di fronte alle quali
uno che per disgrazia si trovi a passare
sa subito
che deve difendersi
e magari perire in quel punto
per mano di uno
che porta scritto in viso
il nome della sua solitudine.
Ma di fronte a una faccia
di quelle che danno spavento agli uomini,
non è un solitario, né un misero,
che abbiamo davanti:
è un essere superiore,
che è sicuro di essere meglio
di te e di me,
e sa che ogni ragione
è dalla sua,
perchè sente di avere dietro di sé
una forza, la forza
dei suoi padroni, capace di far prediligere
le sue viltà più discordi,
da chiunque.
Anche se non ricorda,
nel punto che ci schiaccia,
di essere un servo, un braccio, un’unghia
di padroni,
che non vogliono mostrare la faccia
e hanno preso la sua.
E così,
se sorride,
dà spavento agli uomini.
————————-
Ma il giorno che avremo finito
di toglier di mezzo la forza
dei padroni di facce che danno spavento,
e avremo messo le altre
che ancora potrebbero crescere,
a far da custodi
nel Museo delle loro antenate,
con la mansione di tenere,
sia pure di pessimo umore,
spolverate le facce
che diedero spavento agli uomini,
quel giorno i ragazzi,
senza un’ombra,
giocheranno sui prati.
Bra, 29 settembre 1955
DELL’AMORE E DI QUALCHE ALTRA PASSIONE
Il giorno che le mie stanche ossa
e i nervi
cadranno in terra,
alle marcite gore del sangue
andranno i volti amati
e le ore
e i paesi più cari.
Anche se snervi
tutto questo la morte,
è questo il cuore
che sospinto m’avrà
sotto protervi cieli,
che tanto odiai.
Ti perderò per sempre,
amato volto del padre!
E tu
da quell’alba lontana,
che sopra un colle di ulivi
alla piana fresca del mare
il fiato ultimo hai colto,
in fondo agli occhi miei avrai fine.
Ascolto
le tue sbiadite tracce,
in questa frana
che fa il mio tempo;
e se incontro una tana
più calda al viver mio,
qui c’è più folto
un ricordo di te.
Sempre che ai vecchi portici io torni,
troverò ai miei passi
il tuo braccio affettuoso.
Anche al quartiere
dove ira ci spezzò,
son vivi i sassi.
E con noi scherzerà le estreme sere
il calabrone intorno agli arti secchi.
È raro che io t’incontri, o madre.
Vaghi
tu in età più remote;
e se a parlarti mi scopro,
è antico vizio.
Alle tue parti
spira un vento leggero e chiaro:
draghi luminosi di carta, le ansie;
e laghi docili d’acque, i giorni.
Ma se rasento il ciglio ove ti apparti;
giovane madre, e sconsolata indaghi
negli ultimi anni tuoi
cosa è che strugge
la fresca vita,
io ti vedo che ancora
pieghi il capo
a nascondere una lacrima.
Vuoi
che allegri io ricordi gli occhi,
e di acri tuoi pensieri non sappia!
Ma una ruggine
ogni costrutto tuo
presto divora.
——————–
E pur se il capo
ci confuse una tenebra,
or che stesi, e con i corpi stretti,
alle tue palpebre accosto
le mie labbra,
il sangue ha un caldo
che arde anche i più tristi arnesi
delle nostre paure;
e a me fa dolce
il tempo che verrà dopo queste ore,
e il ricordar gli amici che eran vivi
or son pochi anni,
e riguardar le cose
che lasceremo in breve.
Così andiamo alla notte
abbracciati,
o moglie mia;
e io sento ancora il tuo bel viso acceso,
che in me dileguerà l’ora ch’io muoio.
Roma, maggio 1960
QUEST’UOMO
conoscete quest’ uomo
a quale perielio
bruci la domanda
e quale fossa del tempo
sempre un attimo sfiori
conoscete quest’ uomo
quale che sia le tenebra
a cui d’un alito fugge
e da che cieli defunti
guardi ancora la fine
bianca
d’una qualsiasi notte
conoscete quest’uomo
come che sia la specie
ancora accesa e la piazza
dove il saluto o il ricordo sta inciso
nella polvere delle pietre
come un incontro all’angolo
o come una storia estinta
dietro fogli d’alluminio
che presto un vento sopra la città
farà volare pesanti
…………………………
in quale mai folgore di tempo
conoscete quest’uomo
perchè sia necessario entrare
in orbite più minute
o cercare tra rughe
d’uno spazio meno feroce
ognuno potrà a prima vista distinguere
mané i bicchieri toccati al vertice dell’allegria
né le ruote dei primi carri
sapranno da soli tirarci dal groviglio
dei giri
che ci confondono
…………………………..
conoscete quest’uomo
è una domanda che mozza
il fiato delle galassie
e qui scatta a ripetersi
come un segmento
di monotone dinastie terrestri
in cui l’insipienza dei gesti
è il solo universo
cocciuto di qualsiasi gendarme abbia ordine
e maschera
d’intersecare una traccia
……………………..
nell’insieme degli uomini
dalle caverne agli astri
sola grandezza
che le galassie lascino
a ciascuno di noi ch’è niente
tra le scorie
di qualche stagione
che si mescoleranno forse alle ore
sempre incerte da vivere
se non odia e non lotta
con l’insieme degli uomini
a dare fossa
ai secoli che ci dànno la caccia
su un grumo di terra sperduto
in fondo agli universi
per questa nostra folgore di tempo
Parigi-Basilea-Roma, gennaio-febbraio 1962-
Welso Giovanni Mucci (Giòanin per gli amici) nacque a Napoli il 29 maggio del 1911 da Ranieri, abruzzese e maestro di musica nel Regio Esercito, e Domenica Boglione di Bra. Rimase affezionato a questa cittadina tutta la vita, passandovi nell’età matura lunghi periodi.
Da ragazzo dovette seguire le peregrinazioni per tutta Italia del padre, fino a stabilirsi a Torino, dove si laureò in filosofia estetica. Durante il periodo dell’Università giocò nelle riserve della Juventus, bohémien nel cosiddetto fascismo di sinistra. Romano Bilenchi ricorda nel suo libro “Amici” l’epico pestaggio a cui fu sottoposto allora con Primo Zeglio da parte di alcuni esagitati del Guf.
Fu proprio a Torino che esordì sul “Selvaggio” di Maccari come critico musicale (si firmava ancora Welso),e conobbe gli artisti che rimasero i suoi amici per tutta la vita (Spazzapan, Menzio, Cremona, Rosso e tanti altri)
Nel 1934 si trasferì a Parigi, dove aprì con il cugino Sandrino Alberti una libreria antiquaria. Qui tennero anche mostre dei loro amici pittori fino allo scoppio della guerra che pose fine a tutto. A Parigi poterono frequentare le avanguardie artistiche e letterarie del tempo.
Pubblicò in quel periodo i suoi scritti e le poesie giovanili in brochures semiclandestine oggi introvabili.
Ma fu a Roma, nel dopoguerra, che iniziò il suo periodo creativo più felice.
Insieme a Leonardo Sinisgalli, Nicola Ciarletta e Aldo Gaetano Ferrara fondò la rivista bimestrale “Il Costume politico e letterario”, dove per cinque anni raccolse le firme migliori dell’Italia letteraria di allora.
Poi ideò con Dora, la sua moglie-donna-compagna, le tredici superbe cartelle del “Concilium Lithographicum”, dove alle litografie di De Chirico, Maccari, De Pisis, Fazzini e altri erano affiancati gli scritti di Ungaretti, Palazzeschi, Cardarelli, Sinisgalli.. Dora gliel’aveva presentata Maccari nel ’39 a Roma, e lo amò sempre, fino all’ultimo.
La moglie di Sinisgalli, Giorgia de Cousandier, rievocherà nel 1965 in un commosso ricordo di Mucci sulle pagine della rivista “La botte e il violino” anche la gestazione del “Concilium” e del “Costume”.
Sempre negli anni cinquanta venne la sua collaborazione con il ”Contemporaneo”, la rivista politico-letteraria di ispirazione marxista diretta da Antonello Trombadori. (Mucci aveva preso la tessera del PCI nel ’45). Diresse anche “La Voce“ di Cuneo, e pubblicò i suoi saggi nel volume “L’azione letteraria 1.”
Ma fu solo nel 1962 che una grande casa editrice, la Feltrinelli, pubblicò per la prima volta le sue poesie in “L’età della Terra”. Ne scrisse la prefazione Natalino Sapegno, e vinse il premio Chianciano ex-aequo con Andrea Zanzotto. Fu anche in Spagna a prendere contatti per il PCI con l’opposizione antifranchista, e da questo viaggio nacque uno storico numero del Contemporaneo. Sempre nel 1962 fu inviato dall’Unità al Giro d’Italia, e ne fu il cronista attento e polemico.
La sua ultima stagione iniziò a Londra, dove si era trasferito per imparare l’inglese alla perfezione. Ufficialmente era per poter leggere l’Ulisse di Joyce in lingua originale, che aveva già scoperto a Torino in francese tanti anni prima. Il suo vero sogno, però, era di andare come inviato dell’Unità a Pechino. Aveva cominciato a coltivarlo nel ’58 a Tashkent, quando aveva partecipato alla Conferenza degli scrittori afro-asiatici e conosciuto Nazim Hikmet, il grande poeta turco che aveva tradotto in italiano. In quell’occasione aveva conosciuto i compagni del Partito comunista cinese, con i quali aveva fraternizzato.
A Londra scrisse le 200 cartelle del suo romanzo, “L’uomo di Torino”. Ci mise sei mesi, dal 7 novembre del 1963 all’aprile seguente. A maggio lo colse il primo infarto. Dora disse che non smise di fumare dopo questo. Il secondo, la notte fra il 5 e il 6 settembre 1964, gli fu fatale.
Le sue opere uscirono postume, lentamente, nell’arco di quasi quindici anni. Feltrinelli pubblicò nel 1967 “L’uomo di Torino” e l’anno dopo la raccolta di tutte le sue poesie “Carte in tavola”. Nel 1973 uscirono le sue “Carte di un italiano dell’11”, e l’antologia dei suoi saggi filosofici e letterari curata da Mario Lunetta fu pubblicata nel 1977 con il titolo “L’azione letteraria”. Poi più nulla fino al 2009, quando uscì una plaquette con una scelta delle sue poesie a cura di Massimo Raffaeli.
Lo conobbe e lo apprezzò praticamente tutta la critica militante italiana del ‘900, dalla quale non ricevette quasi mai stroncature, anche se lui invece non le risparmiò. Clamorose furono quelle di Louis Aragon che lodava il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e del Dottor Zivago di Pasternak. Nel 2008 gli fu conferito, postumo, il premio letterario Feronia.
Biografia di Velso Mucci (Napoli, 29 maggio 1911 – Londra, 5 settembre 1964)è stato uno scrittore italiano. Durante gli anni del fascismo, per le idee politiche comuniste, è costretto a peregrinare in molte città italiane dove alternò la passione per le lettere alla professione di libraio. pur nelle difficoltà del periodo, continuò a scrivere (“Scartafaccio” viene pubblicato nel ’48 ma è presumibilmente scritto nei primi anni Trenta), fondando e dirigendo nel ’45 la rivista “Il costume politico e letterario”. Negli anni Cinquanta si trasferisce a Bra dove ha modo di proseguire la sua attività letteraria ed impegnarsi politicamente. Nel 1956 viene eletto consigliere comunale, carica che manterrà fino al 1960, ed è chiamato a dirigere il settimanale politico cuneese “La Voce”. Il suo capolavoro letterario è il romanzo “L’uomo di Torino”, che offre uno spaccato della realtà cittadina ai tempi delle prime industrie conciarie negli anni Venti.
Visse in diverse parti d’Italia a seguito degli spostamenti del padre, militare e maestro di musica, fino a stabilirsi definitivamente nel 1924 a Torino, dove frequentò il Liceo classico Cavour, conoscendovi, tra gli altri, Giancarlo Pajetta. All’inizio degli anni ’30 entrò come critico musicale nella redazione de “Il Selvaggio”, dove conobbe, oltre al direttore Mino Maccari, personaggi come l’architetto Carlo Mollino e artisti come Carlo Carrà, Filippo De Pisis, Giorgio Morandi e Luigi Spazzapan, che ospitò poi nella libreria antiquaria aperta sulla Rive Gauche a Parigi, dove si era trasferito nel 1934. Il suo profilo letterario, legato nelle prime esperienze degli anni ’20 soprattutto alla personalità di Vincenzo Cardarelli, di cui più tardi curerà le edizioni delle Lettere non spedite (Roma, Astrolabio, 1946) e dei Prologhi viaggi favole (Milano, Mondadori, 1946), si arricchì a Parigi grazie alla frequentazione di intellettuali come Paul Éluard, Tristan Tzara, Nazim Hikmet, di cui tradusse più tardi le Poesie (Roma, Editori riuniti, 1960). Dopo la guerra si trasferì a Roma, dove fondò e diresse Il costume politico e letterario, bimestrale dove pubblicarono, tra gli altri, Leonardo Sinisgalli, Umberto Saba, Giorgio Bassani, Mario Tobino, Giuseppe Raimondi, Giuseppe Ungaretti. Nel 1947, dopo essersi iscritto al Partito comunista italiano, entrò in contatto con scrittori quali Niccolò Gallo, Mario Socrate, Giuseppe Dessì, e venne chiamato nel 1958 a far parte del comitato direttivo del Contemporaneo.
Opere principali
Esercizi: 1927-1933 (liriche), Torino, Il Portico, 1935
Le carte (prose e versi liberi), Roma, Il Selvaggio, 1936
Scartafaccio 1930-1946 (versi e prose), Roma, Tip. Ist. Grafico Tiberino, 1948
L’ umana compagnia, con un disegno di Giorgio De Chirico e due incisioni di Mino Rosso, Roma, Il Costume editoriale, 1953
L’ azione letteraria, Roma, Il Costume editoriale, 1958
L’ età della terra (versi), Milano, Feltrinelli, 1962 (premio Chianciano ex aequo con Andrea Zanzotto)
L’ uomo di Torino (romanzo), Milano, Feltrinelli, 1967, ripubblicato nel 2012, Milano, Scalpendi ed.
Carte in tavola (versi), prefazione di Natalino Sapegno, Milano, Feltrinelli, 1968
L’azione letteraria (raccolta di saggi filosofici e letterari, a cura di Mario Lunetta), Roma, Ed. riuniti, 1977
Bibliografia
Dizionario generale degli autori italiani contemporanei, vol. II, Firenze, Vallecchi, 1974, ad vocem
Quest’uomo: Velso Mucci: contributi sulla figura e l’opera, Cosenza, Mondo Nuovo, 1974
Alberto Asor Rosa, Dizionario della letteratura italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1992, ad vocem
Conoscete quest’uomo (Atti del convegno in occasione del centenario della nascita, a cura di Alberto Alberti) Milano, Scalpendi ed., 2012
Mercato delle pulci – Scritti inediti e rari 1930-1963, a cura di Alberto Alberti, prefazione di Massimo Raffaeli, Scalpendi ed., Milano maggio 2015
C’è ancora molto sulla terra – Antologia poetica di Velso Mucci, a cura di Alberto Alberti e Nicola Vacca, Collana “Agorà”, L’Argolibro ed. giugno 2021
Bibbiena | Arezzo- Dal 01 Aprile 2023 al 04 Giugno 2023
Il CIFA, Carla Cerati – Le scritture dello sguardo”–Centro Italiano della Fotografia d’Autore, ente nato per volontà della FIAF – Federazione Italiana Associazioni Fotografiche,associazione senza fini di lucro che si prefigge lo scopo di divulgare e sostenere la fotografia su tutto il territorio nazionale, presenta la nuova mostra “Carla Cerati – Le scritture dello sguardo” che inaugurerà sabato 1 aprile 2023 alle ore 16.30 presso il CIFA e il nuovo libro a lei dedicato per la collana “Grandi Autori della fotografia contemporanea”.
L’esposizione fotografica proposta da FIAF e curata da Roberto Rossi, Presidente FIAF, presenta una parte importante, ed in alcuni casi meno conosciuta, del lavoro fotografico di Carla Cerati. Il libro che accompagna la mostra, curato da Lucia Miodini ed Elena Ceratti, è l’occasione per continuare l’esplorazione promossa dall’editoria FIAF del mondo delle Fotografe Italiane iniziato nell’anno 2000 con il volume dedicato a Giuliana Traverso e che annovera nelle sue due principali collane, quella delle Monografie e quella dei Grandi Autori, nomi come Eva Frapiccini, Patrizia Casamirra, Antonella Monzoni, Paola Agosti, Angela Maria Antuono, Chiara Samugheo, Stefania Adami, Lisetta Carmi, Cristina Bartolozzi, Giorgia Fiorio.
Ben più di un’antologica della sua produzione, la mostra ci aiuta ad entrare in contatto con la forte personalità di questa Autrice espressa nell’impegno civile e alimentata dalle passioni per la scrittura e per la fotografia. “L’una e l’altra”, affermava Carla Cerati: sono due attività che coesistono, ma non si fondono. È sempre un’osservazione della realtà: la fotografia le serve per documentare il presente, la parola per recuperare il passato. L’incontro tra fotografia e testo caratterizza il percorso di Cerati.
La Cerati si avvicina alla fotografia agli inizi degli anni ‘60 fotografando il suo ambiente famigliare. È un periodo in cui anche grazie al crescente sviluppo economico del dopoguerra, la fotografia diventa una pratica personale diffusa e alla portata anche dei ceti sociali meno abbienti. Per chi come Cerati desidera andare oltre la cosiddetta foto di famiglia e vuole approfondire contenuti e tecnica fotografica, non esistono in Italia, salvo rarissime eccezioni come il Bauer, prima scuola pubblica di fotografia fondata nel 1954, altri luoghi da frequentare che i circoli fotografici.
Un percorso analogo è stato compiuto da altri fotografi della sua generazione, come ad esempio Gianni Berengo Gardin, Mario De Biasi, Nino Migliori, Fulvio Roiter, che, avvicinatisi alla fotografia frequentando le associazioni fotografiche fin dall’immediato dopo guerra, hanno poi scelto la strada del professionismo sotto varie forme. Cerati per un certo periodo frequenta il Circolo Fotografico Milanese, che in quegli anni è animato da un intenso dibattito tra coloro che privilegiano visioni di tipo estetico-formale e altri interessati alla ripresa del reale. Fa sua questa seconda visione e decide di avvicinarsi al professionismo.
Nata a Bergamo da una famiglia di origine borghese con regole e principi tradizionali molto rigidi, se ne allontana sposandosi a 21 anni. La vita nell’immediato dopo guerra può essere economicamente difficile per dei giovani sposi e per contribuire al bilancio familiare lavora come sarta, prima a Legnano e poi a Milano, dove la coppia si trasferirà nel 1952. Quando alla fine degli anni ’50 decide di acquistare dal padre una Rollei, ha già potuto assistere al tumultuoso e complesso sviluppo del capoluogo milanese e non resta indifferente ai cambiamenti che ne derivano: il suo stile documentario caratterizzato da un rapporto immediato con il reale, sfocia in una capacità narrativa di tipo sociologico. Guarda ai piccoli eventi del quotidiano e rifugge dagli stereotipi e dalla retorica avvicinandosi per affinità di pensiero e di impegno civile alla concerned photography promossa da Cornel Capa.
“Con questa mostra e la monografia a lei dedicata, la FIAF desidera rendere omaggio ad un’Autrice che si è sempre impegnata attivamente sul fronte della tutela della professione” – ha dichiarato Roberto Rossi, Presidente FIAF.
Carla Cerati è stata parte attiva e segretaria della sezione Milanese dell’AIRF (Associazione Italiana Reporters Fotografi), fondata nel 1966, in un momento in cui i fotoreporter lottavano perché il loro lavoro e la loro professionalità venissero riconosciuti. E nel 1976, a seguito della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Legge Bonifacio che sanciva i diritti dei fotogiornalisti, è stata tra i firmatari insieme a Uliano Lucas, Carlo Arcadi, Walter Battistessa, Giancarlo De Bellis, Alberto Roveri e Mauro Vallinotto, di un documento che, a partire dall’analisi dei punti di criticità del lavoro del fotogiornalista, propone una visione non individualistica della professione. Non ultimo il suo impegno nell’approfondire e diffondere la conoscenza dei suoi colleghi fotografi, come ad esempio Paolo Monti e Gabriele Basilico, pubblicandola in interviste video conservate nelle Teche RAI.
“Siamo veramente felici di poter ospitare al CIFA i lavori di Carla Cerati e di dare al pubblico la possibilità di immergersi nelle scritture del suo sguardo – ha dichiarato Claudio Pastrone, Direttore del CIFA – Passando dal corridoio principale ed entrando e uscendo dalle 16 celle del Centro il visitatore ha la possibilità di comprendere la sua storia umana e professionale. Cerati fotografa dai primi anni Sessanta, inizialmente rivolge il proprio sguardo all’ambiente che le è prossimo. Poi con occhi disincantati fotografa il mondo che le sta attorno. Convinta, lo dichiarerà più tardi, che la fotografia possa contribuire a cambiare la società. Il suo percorso, complesso e impegnato su vari fronti, mantiene una propria unità e coerenza nell’attenzione per la condizione umana, per la dimensione esistenziale; nella sua capacità di raccontare fuori da ogni retorica con uno sguardo intenso, partecipe e al contempo unico ed efficace, le contraddizioni della contemporaneità”.
Dal 01 Aprile 2023 al 04 Giugno 2023
Bibbiena | Arezzo
Luogo: CIFA – Centro Italiano della Fotografia d’Autore
-Il Poeta Rocco Scotellaro nasceva il 19 aprile del 1923-
Breve biografia di Rocco Scotellaro(Tricarico, 19 aprile 1923 – Portici, 15 dicembre 1953), scrittore, poeta e politico italiano impegnato nella lotta per miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei contadini. La sua poesia è caratterizzata da da un’ambientazione pastorale serena, da un’armonia di immagini e visioni che esaltano la vita bucolica.Nell’opera poetica del lucano Rocco Scotellaro si impone costantemente l’urgenza di una comunanza: una comunanza che è tutt’uno con l’idea stessa di poesia come valore sociale, nel quadro di quel Sud arretrato e postbellico, ansioso di rivendicazioni e allineamenti, in cui la sua presenza letteraria e umana, da impegnato sindaco-poeta socialista di Tricarico (eletto nel 1946, quando Rocco aveva solo ventitré anni), si affermò. Questa impellenza sinteticamente si articola e si lascia cogliere in un suo celebre testo dal titolo Sempre nuova è l’alba: «i vostri fiato caldi, contadini», «il nostro vento disperato»; e tra quei due possessivi un verso come «Beviamoci insieme una tazza di vino!», in cui linguisticamente la contraddizione esplode tra l’uso verbale riflessivo-popolaresco di quel «beviamoci insieme» e quella «tazza di vino» classicheggiante, da Alceo tradotto sub specie quasimodea. Altrove l’esito contrappositivo è più piano, quasi didattico nell’ancor più evidente, concentrata giustapposizione dei suoi indicatori sensibili: «Mettete il vino, beviamo stasera» («La pioggia»). E si ricordi la tarda «Cena», scritta a Portici sullo scorcio del 1952, dove di nuovo a sera – ed è già memoria – il poeta dichiara di volersi sentire come un tempo ancora in compagnia. Ricordando che a Tricarico, in provincia di Matera, il 19 aprile 1923 nasceva Rocco Scotellaro.
poesie di ROCCO SCOTELLARO
Passaggio alla città Ho perduto la schiavitù contadina, non mi farò più un bicchiere contento, ho perduto la mia libertà. Città del lungo esilio di silenzio in un punto bianco dei boati, devo contare il mio tempo con le corse dei tram, devo disfare i miei bagagli chiusi, regolare il mio pianto, il mio sorriso. Addio, come addio? Distese ginestre, spalle larghe dei boschi che rompete la faccia azzurra del cielo, querce e cerri affratellati nel vento, pecore attorno al pastore che dorme, terra gialla e rapata.
È calda così la malva È rimasto l’odore della tua carne nel mio letto. È calda così la malva che ci teniamo ad essiccare per i dolori dell’inverno.
Improvvisa la sera Improvvisa la sera ci ha toccati me, le mie carte, la pezza di luce sui mattoni della stanza.
È tanto imbrunito che mi sento addosso paura. Ha ripreso la vita dei piccoli rumori. Sono sui tetti le anime dei morti del vicinato, camminano sulle zampe dei gatti.
La luna piena La luna piena riempie i nostri letti, camminano i muli a dolci ferri e i cani rosicchiano gli ossi. Si sente l’asina nel sottoscala, i suoi brividi, il suo raschiare. In un altro sottoscala dorme mia madre da sessant’anni.
Tu sola sei vera Colei che non mi vuol più bene è morta. È venuta anche lei a macchiarmi di pause dentro. Chi non mi vuol più bene è morta. Mamma, tu sola sei vera. E non muori perché sei sicura.
Giovani come te Quanti ne fissi negli occhi superbi della strada, erranti giovani come te. Non hanno in ogni tasca che mozziconi neri di sigarette raccattate. Non sanno che sperdersi davanti alle lucide vetrine alle chiacchiere dei bar ai tram in rapida corsa alla pubblicità padrona delle piazze. Tanto perché il tempo si ammazzi cantano una qualsiasi canzone, in cui si chiamano fuorviati, si dicono amanti del bassifondo e si ripagano di comprensione. Una canzone è per covare insano amore contro le ragazze cioccolato che sono un po’ le stelle sempre vive che sono la speranza d’una vita sorpresa in un sorriso.
E quanti, ma quanti vorrebbero la luna nel pozzo una loro strada sicura che non si rompa tuttora nei bivii. Quando compiono un gesto il solo gesto son lì coi mietitori addormentati ai monumenti che aspettano la mano sulla spalla del datore di lavoro. Sono coi facchini di porto contenti della faccia sporca e le braccia penzoloni dopo che il peso è rovesciato. Son sprofondati talvolta in salotti a far orgia di fumo e d’esistenzialismo giovani malati come te di niente.
Spiriti pronti a tutte le chiamate angeli maledetti coscritti e vagabondi, compagni dei cani randagi, la nostra è la più sporca bandiera la nostra giovinezza è il più crudo dei tormenti. Or quando la terra accaldata ci mette addosso la smania del fuoco nei lunghi meriggi d’estate, è tempo di crucciarsi di dir di sì all’Uomo che saremo e che ci aspetta alla Cantonata con falce e libro in mano!
Noi non ci bagneremo Noi non ci bagneremo sulle spiagge a mietere andremo noi e il sole ci cuocerà come la crosta del pane. Abbiamo il collo duro, la faccia di terra abbiamo e le braccia di legna secca colore di mattoni. Abbiamo i tozzi da mangiare insaccati nelle maniche delle giubbe ad armacollo. Dormiamo sulle aie attaccati alle cavezze dei muli. Non sente la nostra carne il moscerino che solletica e succhia il nostro sangue. Ognuno ha le ossa torte non sogna di salire sulle donne che dormono fresche nelle vesti corte.
Ho capito fin troppo Ho capito fin troppo gli anni e i giorni e le ore gl’intrecci degli uomini, chi ride e chi urla giura che Cristo poteva morire a vent’anni le gru sono passate, le rondini ritorneranno. Sole d’oro, luna piena, le nevi dell’inverno le mattine degli uccelli a primavera le maledizioni e le preghiere.
I versi e la tagliola Con la neve si para la tagliola e si aspettano i gridi dei fringuelli. La maestra ai bimbi della scuola legge un verso d’amore per gli uccelli. Mi piacevano i versi e la taglìola.
Padre mio che sei nel fuoco Padre mio che sei nel fuoco, che brulica al focolare, come eri una sera di Dicembre a predire le avventure dei figli dai capricci che facevamo. Tu pure non farai bene dicevi vedendomi in bocca una mossa che forse era stata anche tua che l’avevi da quand’eri ragazzo.
HO CAPITO FIN TROPPO
Ho capito fin troppo gli anni e i giorni e le ore
gl’intrecci degli uomini, chi ride e chi urla
giura che Cristo poteva morire a vent’anni
le gru sono passate, le rondini ritorneranno.
Sole d’oro, luna piena, le nevi dell’inverno
le mattine degli uccelli a primavera
le maledizioni e le preghiere.
(da Margherite e rosolacci, Mondadori, 1978)
. Io senta la neve ancora
io senta il suo cadere placido
dal mio mondo sparuto.
Le mie piccole cose qui,
la mezza matita che non mi abbandona.
I miei volti nelle fiamme tanti
che hanno lo stesso colore.
E gli anni passano così
nel cuore della notte di neve.
Il giorno, Isabella, maturerà.
Sentirai le raganelle suonare;
il tempo nascosto tra le viole.
E se farai ch’io non sia solo
quando l’aria s’intinge di burrasca
e i gheppi son cacciati nella mischia
e cantano la morte del Signore
solo gli angioli deturpati, allora
con tutta l’ansia che non ti so dire
potremo insieme vivere e morire.
Breve biografia di Rocco Scotellaro(Tricarico, 19 aprile 1923 – Portici, 15 dicembre 1953), scrittore, poeta e politico italiano impegnato nella lotta per miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei contadini. La sua poesia è caratterizzata da da un’ambientazione pastorale serena, da un’armonia di immagini e visioni che esaltano la vita bucolica.Nell’opera poetica del lucano Rocco Scotellaro si impone costantemente l’urgenza di una comunanza: una comunanza che è tutt’uno con l’idea stessa di poesia come valore sociale, nel quadro di quel Sud arretrato e postbellico, ansioso di rivendicazioni e allineamenti, in cui la sua presenza letteraria e umana, da impegnato sindaco-poeta socialista di Tricarico (eletto nel 1946, quando Rocco aveva solo ventitré anni), si affermò. Questa impellenza sinteticamente si articola e si lascia cogliere in un suo celebre testo dal titolo Sempre nuova è l’alba: «i vostri fiato caldi, contadini», «il nostro vento disperato»; e tra quei due possessivi un verso come «Beviamoci insieme una tazza di vino!», in cui linguisticamente la contraddizione esplode tra l’uso verbale riflessivo-popolaresco di quel «beviamoci insieme» e quella «tazza di vino» classicheggiante, da Alceo tradotto sub specie quasimodea. Altrove l’esito contrappositivo è più piano, quasi didattico nell’ancor più evidente, concentrata giustapposizione dei suoi indicatori sensibili: «Mettete il vino, beviamo stasera» («La pioggia»). E si ricordi la tarda «Cena», scritta a Portici sullo scorcio del 1952, dove di nuovo a sera – ed è già memoria – il poeta dichiara di volersi sentire come un tempo ancora in compagnia. Ricordando che a Tricarico, in provincia di Matera, il 19 aprile 1923 nasceva Rocco Scotellaro.
RIETI- La storia d’amore tra la scrittrice americana Margaret Fuller Ossoli e il marito marchese Giovanni Angelo Ossoli ,
garibaldini della Repubblica Romana del 1849-Storia di un amore contrastato dalla famiglia di Ossoli.
Margaret Fuller -Nata nel Massachussetts nel 1810,pubblicò nel 1844 la sua celebre opera ” Estate sui laghi” dove inserì le sue idee progressiste e femministe “ante litteram”. Fu proprio la pubblicazione del libro che le procurò una certa notorietà e l’assunzione al New York Tribune. Senza dubbio, fu la prima giornalista donna ad essere assunta da un giornale importante.
Nel 1846, con il vecchio continente scosso dalle idee libertarie e rivoluzionarie, la Fuller, che conosceva bene le principali lingue europee, fu inviata come corrispondente a Londra. Qui fu accolta entusiasticamente da molti intellettuali dell’epoca ed in particolare, da Giuseppe Mazzini. Fu poi a Parigi, dove intervistò George Sand e poi nel 1847, a Roma. E’ qui che incontrò il marchese Giovanni Angelo Ossoli, di dieci anni più giovane. Dal loro matrimonio, osteggiato fortemente dalla famiglia del nobile italiano, nacque a Rieti, nel settembre del 1848, Angelo Eugenio Filippo Ossoli, detto Angelino.
Per timore che la famiglia Ossoli diseredasse il rivoluzionario Angelo, sposato con una donna di non nobili origini e di fede protestante, il matrimonio fu tenuto segreto. Margaret si rifugiò a Rieti in attesa di tempi migliori anche se la distanza da Roma creava impedimento al suo lavoro per il New York Tribune . Avendo affittato una casa in via della Verdura, lasciò il figlio a Rieti, affidandolo a una balia.
Riprese le sue corrispondenze dall’Italia, facendo la spola tra la Capitale e il centro sabino. Nel febbraio 1849, iniziò la breve e avventurosa storia della rivoluzione di Roma. Fu proclamata la Repubblica e Margaret, non solo come giornalista, ma per il suo fervido impegno, ebbe un ruolo di primo piano. In quei pochi mesi, Roma, tra le realtà le più arretrate in Europa, divenne un faro per il mondo, trasformandosi in un fervente laboratorio a cielo aperto grazie al quale fu abolita la pena di morte, permessa la libertà di culto e riconosciuto il valore del suffragio universale, seppur limitato ai soli maschi.
Roma 30 aprile 1849 “Cara Miss Fuller, Siete stata nominata Regolatrice dell’Ospedale Dei Fate Bene Fratelli. Andatevi alle 12 se la campana di allarme non è suonata prima. Arrivata là riceverete tutte le donne che vengono pei feriti, darete loro i vostri ordini tanto da essere sicura di avere un certo numero di esse notte e giorno. Che Dio ci aiuti. Cristina Trivulzio di Belgioioso.”
Durante la Repubblica Romana, mentre il suo compagno, il reatino marchese Giovanni Angelo Ossoli, combatteva sulle mura vaticane, a Margaret fu affidata la direzione dell’ambulanza presso l’ospedale Fatebenefratelli e successivamente presso il Quirinale. Potè tornare a Rieti solo dopo la sconfitta della Repubblica Romana, operata dalle truppe francesi. E’ qui che Margaret e Giovanni trovarono il figlio fortemente denutrito. La balia , infatti, non ricevendo più denaro per il blocco francese, aveva smesso di occuparsi del piccolo. Ci volle un mese di cure intense prima che Angelino potesse ristabilirsi in salute. Temendo ritorsioni dal governo pontificio, i tre si rifugiarono prima a Perugia e poi a Firenze dove, nonostante l’invasione del feldmaresciallo d’Aspre, Margaret riuscì a lavorare sul suo saggio “Storia della Rivoluzione Italiana”, opera dedicata alle vicende della Repubblica Romana e ai suoi protagonisti. Nel maggio 1850, la famiglia Ossoli riuscì ad arrivare a Livorno e a salpare verso New York con il vascello Elisabeth, un mercantile che trasportava marmo e tessuti. Proprio in vista del porto della città americana, la nave s’incagliò e in poche ore fu inghiottita dai flutti. Lo stewart cercò di salvare Angelino ma entrambi, spinti dalla forza delle onde, furono ritrovati a riva senza vita. Margaret e Giovanni furono visti per l’ultima volta, mentre si aggrappavano disperatamente all’albero di prua. Con loro scomparve per sempre, anche il manoscritto su una delle pagine più ardite e avventurose della nostra storia.
Era il 19 luglio 1840. Nel febbraio del 1849 nasce la Repubblica Romana e per giorni ci furono feste e cortei per le strade di Roma. E tra i vari canti, che il popolo cantava spontaneamente, ce n’era soprattutto uno, un canto-inno semplice, appassionato, allegro, sarcastico e anticlericale. Fu quasi certamente l’inno popolare della Repubblica Romana del 1849 e ne sintetizza con simpatia gli ideali di libertà da ogni tirannia e dal potere temporale della Chiesa.
L’inno è stato ricostruito sulla base di testimonianze storiche ed inserito nella colonna sonora del film “In nome del popolo sovrano” (Ita 1990) del regista Luigi Magni, recentemente scomparso, mentre l’arrangiamento musicale è del maestro Nicola Piovani. Si dice che l’autore del canto, eseguito anche nei giorni drammatici della difesa della Repubblica Romana nel giugno del 1849, sia Goffredo Mameli, l’ autore dell’inno italiano “Fratelli d’Italia“. Certamente il canto si può considerare un arrangiamento di una composizione poetica -quasi esattamente con le stesse parole- che Mameli, poco prima della morte nella difesa della Repubblica Romana, aveva inserito in una raccolta che aveva progettato di pubblicare.
Breve biografia di Nicole Brossard-Poetessa, narratrice e saggista del Québec, Nicole Brossard è nata a Montréal nel 1943. A partire dal 1965 ha elaborato un’opera – nei vari campi della scrittura – tra le più importanti del periodo contemporaneo, riuscendo ad immergersi in modo dirompente nel tumulto della modernità. L’autrice ha infatti rinnovato, in modo radicale, con rigore e lucidità, il campo letterario precedentemente esistente, diventando “l’emblema stesso della nuova scrittura quebecchese” (Pierre Nepveu, ndr). Non meno importante l’attività di divulgatrice e teorica della letteratura del Québec.
La voce di Nicole Brossard, definita in un primo tempo “femminista”, è quella sontuosa e mai scontata di una cittadina del pianeta che naviga al di sopra della questione dei generi, nei mari aperti della parola piena e consapevole. È colei che osa dire: “ascolto ancora / al confine delle lingue / il rumore degli incendi / le domande, l’arte”. Sa benissimo che l’inferno è qui “sul bordo rovesciato di vivere”, ma continua per la sua strada avendo davanti a sé l’infinito da esplorare, per quel desiderio inarrestabile di “spargere baci tra i continenti” e forse per l’utopia di lenire il dolore del mondo.
Va detto, in conclusione, che Nicole Brossard non si compiace nei propri sogni, va oltre, tuffandosi “nel gran vivaio dei mormorii” (non a caso nella sua poesia appaiono Joyce e Svevo) per donare una parola d’eclissi e di riflessi capace di fondare le relazioni tra le cose, tra gli esseri.
Nicole Brossard ha pubblicato una trentina di libri tra i quali Le Centre blanc, La lettre aérienne, Le désert mauve, Hier, Cahier de roses et de civilisation. I più recenti sono: Je m’en vais à Trieste (2003) e L’horizon du fragment (2004). Le è stato conferito due volte il Prix du Gouverneur Général (1974, 1984) per la poesia. Ha cofondato nel 1965 la rivista letteraria “La Barre du Jour” e, nel 1976, il giornale femminista “Les Têtes de Pioche”. Ha corealizzato il film Some American Feminists (1976). Nel 1991, ha pubblicato insieme a Lisette Girouard Anthologie de la poésie des femmes au Québec (Des origines à nos jours), e nel 2002 l’antologia Poèmes à dire la francophonie. Nel 1991, le è stato conferito il Prix Athanase-David, la più alta onorificenza letteraria del Québec, e nel 1994 è entrata a far parte della Académie des Lettres du Québec. Nel 1999, ha ricevuto per la seconda volta il Grand Prix du Festival International de la Poésie de Trois-Rivières per le raccolte poetiche Musée de l’os et de l’eau e Au présent des veines. Premio W.O. Mitchell (2003). Inoltre: Prix Molson del Conseil des Arts du Canada (2006) e il titolo di Chevalier de l’Ordre de la Pléiade e Membre de la Société Royale du Canada.
L’insieme della sua opera, tradotta in molte lingue, fa di Nicole Brossard una scrittrice di livello internazionale.
ogni sete è una conca di luce
nel dolore ancestrale
nel grande casellario dei pronomi
dimmi se la mia morte va veloce dall’uno
all’altro secolo se con gli anni dovrò dimenticare
l’orchidea, aggiornare il delirio
dimmi se questa fame che ho dell’alba
si aggirerà tra i campi
tremante come un’ossessione, un orizzonte
*
non sarà facile dire io
se tutto questo gira male, valanga
o eternità e malinconia
so che abbiamo toccato
troppi orizzonti
l’infinito nelle nostre bocche
tradotto con pazienza
*
non ho ancora parlato di scomparsa
qualche detrito a monte di tutti i pronomi
la vita prende delle decisioni
e sotto la pelle ci prepara
ruote della fortuna e rompicapi
futuro e funerali
adesso ecco i ghiacciai
qualche materiale
di alba e sofferenza
*
essere là tutta una vita nella specie flessibile
con questo riflesso che persiste a volere
rappresentare tutto dell’ebbrezza e dei gesti
i morsi, le camere con le loro nicchie
di ombra soffice, le fronti preoccupate
nostra fragilità
e certo siamo senza risposta
ad ogni bacio!
*
idee di caduta e labirinto
come se al fondo delle nostre braccia
tutto quello che esiste fosse
fatto nell’attesa di spostare l’alba
scoprire il velo sopra il regno animale
allora io resto sveglia
tra temperini e cenere
*
non ci sarà ritratto
di mia madre né un’acquaforte o un gesto
né frase memorabile
o resisterà una scena ancora in piedi
nella città e nel vento
un fruscio di sciami che l’alba
avrà rapito veloce e intenso
*
e se l’angoscia se ciò che anima
le tue notti di letture e sogni
if dust on you fingers vibrates
avvolgiti nell’ombra
in un posto con del blu e del vuoto
ci sarà certo dell’acqua nei tuoi occhi
modernità e paura nei tuoi vestiti
*
stringiti al silenzio
all’alba il verbo essere pulsa più veloce
dentro le vene, fila una cometa
come dopo l’amore o un granello di sale
sulla lingua di mattina, gusto d’immensità
che ci riporta
dentro la primigenia umidità
abbracciami
l’acqua può fare di noi due
lo stesso luogo
Bell Hooks è morta, fu l’ispiratrice del femminismo “radicale”e intersezionale.
Bell Hooks –Gloria Jean Watkins (Hopkinsville, 25 settembre 1952 – Berea, 15 dicembre 2021) -Nata a Hopkinsville, in Kentucky, Stato segregazionista, figlia di un bidello scolastico e di una donna di servizio, frequenta una scuola per soli neri fino a fine anni Sessanta, quando il Kentucky finalmente recepisce pienamente la direttiva della sentenza del 1954 Brown v. Board of Education.-
Per celebrare le opere della scrittrice femminista, scomparsa il 15 dicembre 2021 a 69 anni, pubblichiamo un estratto del suo “Insegnare a trasgredire” (Meltemi edizioni)
Il 15 dicembre è morta la scrittrice e intellettuale bell hooks, punto di riferimento del pensiero femminista. Per sé e le sue opere scelse uno pseudonimo da usare rigorosamente con le lettere minuscole perché fosse data più importanza alle sue idee che al suo nome. Per ricordarla e celebrarla, oggi ancora di più, pubblichiamo un estratto del suo “Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà”, pubblicato da Meltemi nel 2020.
“Estasi. Insegnare e apprendere senza limiti
In una splendida giornata estiva del Maine, sono ruzzolata da una collina e mi sono rotta il polso in maniera grave. Mentre stavo seduta in terra attanagliata da un dolore lancinante, più intenso di qualsiasi altro avessi mai provato in vita mia, un’immagine mi attraversò la mente. Ero io, ragazzina, che ruzzolavo da un’altra collina. In entrambi i casi, la causa della mia caduta era il tentativo di superare i miei limiti. Da bambina era il limite della paura. Da adulta, era il limite della stanchezza, direi persino dell’esaurimento fisico. Ero giunta a Skowhegan per tenere una conferenza nell’ambito di un programma estivo di studi artistici. Alcuni studenti non bianchi mi avevano confidato che raramente il loro lavoro veniva preso in considerazione da studiosi e artisti di colore. Anche se mi sentivo stanca e nauseata, volevo supportare il loro lavoro e i loro bisogni, così mi svegliai al mattino presto per salire sulla collina e visitare gli atelier.
Un tempo Skowhegan era una fattoria funzionante, mentre ora i vecchi granai erano stati convertiti in atelier. Quello che stavo lasciando, dopo un’intensa discussione con alcuni giovani artisti neri, maschi e femmine, portava a un pascolo di mucche. Seduta dolorante in fondo alla collina, vidi nel volto dell’artista nera di cui avevo cercato di raggiungere la porta dell’atelier una delusione incredibile. Quando venne ad aiutarmi espresse preoccupazione, eppure quello che percepii era un altro sentimento. Aveva davvero bisogno di parlare del suo lavoro con qualcuno di cui potersi fidare, che non l’avrebbe affrontato con pregiudizio razzista, sessista o classista, qualcuno il cui intelletto e la cui visione sentiva di rispettare. Quando penso alla mia vita da studente, ricordo vividamente i volti, i gesti e i modi di essere di tutti i diversi insegnanti che mi hanno educato e guidato, che mi hanno offerto l’opportunità di provare gioia nell’apprendimento, che hanno reso la classe un luogo di pensiero critico, che hanno reso lo scambio di informazioni e idee una sorta di estasi. Senza la capacità di pensare criticamente a noi stessi e alle nostre vite, nessuno di noi è in grado di andare avanti, cambiare, crescere, indipendentemente dalla classe, dalla razza, dal genere o dalla posizione sociale di una persona. Nella nostra società, che è fondamentalmente anti-intellettuale, non viene incoraggiato il pensiero critico. La pedagogia impegnata è stata essenziale per il mio sviluppo come intellettuale e insegnante, perché il cuore di questo approccio all’apprendimento è il pensiero critico. Negli ambiti di apprendimento in cui studenti e insegnanti celebrano la propria capacità di pensare in modo critico e di impegnarsi nelle prassi pedagogiche si manifestano le condizioni di un’apertura radicale.
La scelta di andare controcorrente, di sfidare lo status quo, ha spesso conseguenze negative. E questo è parte di ciò che rende tale scelta politicamente non neutra. Nei college e nelle università, l’insegnamento è spesso il meno apprezzato dei nostri numerosi compiti professionali. Idealmente, l’educazione dovrebbe essere tale per cui la necessità di diversi metodi e stili di insegnamento venga considerata importante, incoraggiata, vista come essenziale per l’apprendimento. Durante la mia carriera di insegnante i miei corsi sono stati troppo frequentati per essere efficaci quanto potevano essere. Nel corso del tempo, ho compreso che la pressione dei dipartimenti volta a spingere i docenti “popolari” ad accettare classi più grandi è anche un modo per minare la pedagogia impegnata. Una strategia utile che ho utilizzato è stata quella di incontrare ogni studente delle mie lezioni, anche se solo per breve tempo. Piuttosto che sedermi nel mio ufficio per ore ad aspettare che i singoli studenti scegliessero di incontrarmi o che i problemi si manifestassero, ho preferito programmare pranzi con gli studenti.
La pedagogia impegnata (in una delle sue molte varianti) è davvero l’unico tipo di insegnamento che genera realmente eccitazione in classe, che consente agli studenti e ai docenti di provare la gioia di apprendere.
Questa evidenza si è manifestata nuovamente durante il mio viaggio al pronto soccorso, dopo essere caduta da quella collina. Ho discusso così intensamente delle mie idee con i due studenti che mi stavano portando di corsa in ospedale, che ho dimenticato il dolore che stavo provando. È questa passione per le idee, per il pensiero critico e per lo scambio dialogico che voglio celebrare in classe, che desidero condividere con gli studenti.
È stata la reciproca interazione tra il pensare, lo scrivere e il condividere idee come intellettuale e insegnante che ha dato vita a ogni intuizione presente nel mio lavoro. La mia devozione a tale interazione mi costringe a insegnare in contesti accademici, nonostante la loro difficoltà.
Quando ho letto Strangers in Paradise: Academics from the Working Class, sono rimasta colpita dall’intensa amarezza espressa nelle singole narrazioni. Questa amarezza non mi era sconosciuta. Ho capito cosa intendeva Jane Ellen Wilson quando ha dichiarato: “Conquistare un alto livello di istruzione ha rappresentato per me un processo di perdita di fede”. Ho provato in particolare quell’amarezza nei confronti dei colleghi accademici. Emergeva dalla mia convinzione che così tanti di loro avessero tradito volentieri la promessa di comunione intellettuale e apertura radicale che credo siano il cuore e l’anima dell’apprendimento. Quando sono andata oltre quei sentimenti per focalizzare la mia attenzione sull’aula, l’unico posto nell’accademia in cui avrei potuto avere il massimo impatto, sono diventati meno intensi. Sono diventata più appassionata nel mio impegno per l’arte dell’insegnamento. Viaggio al fianco degli studenti mentre vivono la loro vita al di là della nostra esperienza in aula. In molti modi, continuo a insegnare loro, anche se loro diventano più capaci di insegnare a me. La lezione importante che impariamo insieme, la lezione che ci consente di muoverci insieme all’interno e oltre l’aula, è quella dell’impegno reciproco. Non potrei mai dire di non avere idea del modo in cui gli studenti rispondono alla mia pedagogia; mi danno un feedback costante.
Agli studenti non piace sempre studiare con me. Spesso si sentono sfidati dai miei corsi, e questo li destabilizza molto. Affrontare questo aspetto si è rivelato particolarmente difficile all’inizio della mia carriera di insegnante, perché volevo essere apprezzata e ammirata. Sono stati necessari tempo ed esperienza per capire che i vantaggi della pedagogia impegnata potevano non emergere nella durata di un corso. Fortunatamente, ho insegnato a molti studenti che si sono presi il tempo di ricontattarmi e condividere con me l’impatto del nostro comune lavoro sulla loro vita. E così il mio lavoro di insegnante ottiene riconoscimenti continui, non solo quelli che mi sono stati elargiti, ma anche quelli derivanti dalle scelte professionali degli studenti, dai loro modi di essere.
Ho iniziato questa raccolta di saggi confessando di non aver voluto diventare un’insegnante. Dopo vent’anni di insegnamento, posso affermare di essere spesso più felice in classe, più vicina al Nirvana qui che nella maggior parte delle mie esperienze di vita. In un recente numero di Tricycle, una rivista sul pensiero buddista, Pema Chodron parla dei modi in cui gli insegnanti diventano modelli di vita, descrivendo coloro che più hanno toccato il suo spirito:
[…] i miei modelli erano persone che uscivano dagli schemi convenzionali e che erano veramente in grado di fermare i miei pensieri, aprirmi la mente e liberarla, anche solo per un momento, dal modo convenzionale e abituale di guardare alle cose… Quando ci si prepara per davvero all’impermanenza, alla realtà dell’esistenza umana, si vive sul filo del rasoio e bisogna abituarsi a una realtà di cambiamenti continui. Nulla è certo ed eterno, e non sappiamo cosa accadrà. I miei insegnanti mi hanno sempre spinta ad andare oltre…
Leggendo quel passaggio ho avvertito un’intensa sintonia, poiché in tutti gli aspetti della mia vita ho cercato insegnanti capaci di sfidarmi ad andare oltre ciò che avrei potuto scegliere per me stessa, e attraverso quella sfida mi hanno permesso di sperimentare uno spazio di apertura radicale nel quale sono veramente libera di scegliere, in grado di imparare e crescere senza limitazioni. L’accademia non è il paradiso. Ma l’apprendimento è il luogo in cui è possibile creare il paradiso. L’aula, con tutti i suoi limiti, rimane un luogo di possibilità. In quel campo di possibilità abbiamo l’opportunità di lavorare per la libertà, di chiedere a noi stessi e ai nostri compagni un’apertura di mente e cuore che ci consenta di affrontare la realtà anche mentre immaginiamo collettivamente dei modi di oltrepassare i confini, di trasgredire. Questa è l’educazione come pratica della libertà”.
Fonte il Fatto Quotidiano di F. Q. | 16 Dicembre 2021
Dorothea Lange ha scattato Foto fra il 1930 e il 1950
che l’hanno resa tra le più importanti fotografe del Novecento
Dorothea Lange nacque a Hoboken, in New Jersey, nel 1895 e morì di cancro a 70 anni, nel 1965. È stata una delle più importanti e famose fotografe del Novecento, conosciuta soprattutto per il suo lavoro al progetto fotografico della Farm Security Administration (FSA) – l’agenzia federale statunitense fondata nel 1937 dal presidente Franklin Delano Roosevelt per contrastare la povertà nelle zone rurali degli Stati Uniti, aggravata in quegli anni dalla Grande Depressione – con l’obiettivo di documentare la povertà di alcune fasce della popolazione americana.
Lange fotografò soprattutto i contadini che avevano abbandonato la campagna a causa del cosiddetto “Dust Bowl”, la siccità e le tempeste di sabbia che negli anni Trenta desertificarono grandi zone del Texas, del Kansas, dell’Oklahoma e delle aree attorno. Una delle sue foto è tra le più famose del Novecento: si intitola Migrant Mother e fa parte di una serie di ritratti a Florence Owens Thompson e ai suoi figli che Lange scattò tra febbraio e marzo nel 1936 a Nipomo, in California. Negli anni successivi continuò a occuparsi di reportage a sfondo sociale viaggiando in diversi paesi con il marito, l’economista Paul Taylor.
«La macchina fotografica è uno strumento che insegna alle persone come vedere senza la macchina»
Dorothea Lange fu una delle più importanti e famose fotografe del Novecento, tra i fondatori dell’agenzia Magnum. Lavorò al progetto fotografico della Farm Security Administration (FSA) – l’agenzia federale statunitense fondata nel 1937 dal presidente Franklin Delano Roosevelt per contrastare la povertà nelle zone rurali degli Stati Uniti, aggravata in quegli anni dalla Grande Depressione – con l’obiettivo di documentare la miseria di alcune fasce della popolazione americana. Lange fotografò soprattutto i contadini che avevano abbandonato la campagna a causa del cosiddetto Dust Bowl, la siccità e le tempeste di sabbia che negli anni Trenta desertificarono grandi zone del Texas, del Kansas, dell’Oklahoma e dalle aree attorno. Negli anni successivi continuò a occuparsi di reportage a sfondo sociale, raccontando la vita di operai, immigrati e senzatetto.
Almeno una sua foto la conoscete tutti: si intitola Migrant Mother e fa parte di una serie di ritratti a Florence Owens Thompson e ai suoi figli che Lange scattò tra febbraio e marzo nel 1936 a Nipomo, in California. La donna aveva 32 anni e sette figli. Nel 1960 Lange raccontò che:
«Vidi quella madre affamata e disperata e mi avvicinai, come attratta da un magnete. Non ricordo come le spiegai perché ero lì e che ci facevo con la macchina fotografica, ma ricordo che non mi fece domande. Feci cinque scatti, avvicinandomi sempre di più nella stessa direzione. Non le chiesi come si chiamava, né qual era la sua storia. Lei mi disse la sua età, aveva 32 anni. Mi raccontò che vivevano mangiando verdura gelida dai campi vicini, e uccelli catturati dai bambini. Aveva appena venduto le gomme dell’auto per comprarsi il cibo. Se ne stava seduta con i suoi figli accovacciati attorno a lei, e sembrava consapevole che la mia fotografia l’avrebbe potuta aiutare, e per questo lei aiutò me. Ci fu una sorta di equo scambio».
La vita e la carriera della grande fotografa americana Dorothea Lange con le immagini che scattò fra il 1930 e il 1950, per cui è considerata tra le più importanti fotografe del Novecento.
La mostra Dorothea Lange. Racconti di vita e lavoro, che si compone di 200 immagini ed è curata dal direttore artistico di CAMERA Walter Guadagnini e dalla curatrice Monica Poggi, presenta la carriera di Dorothea Lange (Hoboken, New Jersey, 1895 – San Francisco, 1965), autrice che è stata, come scrisse John Szarkowski, “per scelta un’osservatrice sociale e per istinto un’artista”.
Il percorso di mostra, visitabile dal 19 luglio all’8 ottobre , si concentra in particolare sugli anni Trenta e Quaranta, picco assoluto della sua attività, periodo nel quale documenta gli eventi epocali che hanno modificato l’assetto economico e sociale degli Stati Uniti. Fra il 1931 e il 1939, il Sud degli Stati Uniti viene infatti colpito da una grave siccità e da continue tempeste di sabbia, che mettono in ginocchio l’agricoltura dell’area, costringendo migliaia di persone a migrare. Dorothea Lange fa parte del gruppo di fotografi chiamati dalla Farm Security Administration (agenzia governativa incaricata di promuovere le politiche del New Deal) a documentare l’esodo dei lavoratori agricoli in cerca di un’occupazione nelle grandi piantagioni della Central Valley: Lange realizza migliaia di scatti, raccogliendo storie e racconti, riportati poi nelle dettagliate didascalie che completano le immagini.
È in questo contesto che realizza il ritratto, passato alla storia, di una giovane madre disperata e stremata dalla povertà (Migrant Mother), che vive insieme ai sette figli in un accampamento di tende e auto dismesse.
La crisi climatica, le migrazioni, le discriminazioni: nonostante ci separino diversi decenni da queste immagini, i temi trattati da Dorothea Lange sono di assoluta attualità e forniscono spunti di riflessione e occasioni di dibattito sul presente, oltre a evidenziare una tappa imprescindibile della storia della fotografia del Novecento.
La mostra offre quindi ai torinesi e ai turisti un’occasione imperdibile per conoscere meglio l’autrice di una delle immagini simbolo della maternità e della dignità del XX secolo e interrogarsi sul presente.
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