IL MIGLIOR ROMANZO STORICO POLIZIESCO DI QUESTO ANNO. The Times
Londra, 1782. È una tiepida sera d’agosto e i vialetti lastricati dei Vauxhall Pleasure Gardens sono gremiti di londinesi che passeggiano allegramente sotto le stelle. L’animo gravato da un doloroso segreto, il cappuccio del mantello ben calato sulla testa, Caroline Corsham, moglie del Capitano Henry Corsham, si addentra nel Dark Walk, un sentiero stretto tra gli alberi, dove ha appuntamento con una nobildonna italiana, Lucia di Caracciolo, che ha promesso di aiutarla. Lungo il sentiero incrocia una figura singolare, un uomo con un cappotto nero e una maschera da medico della peste, che procede a passo spedito nella direzione opposta. Giunta sul luogo dell’incontro, una scena raccapricciante si schiude davanti ai suoi occhi: l’amica è riversa a terra, ferita gravemente e agonizzante. Caro fa in tempo a raccogliere le sue ultime, misteriose parole: «Lui lo sa», prima di assistere alla sua morte.
L’indomani, interrogata da Sir Amos Fox, giudice di Bow Street, scopre con sgomento che la donna che credeva amica non era affatto una nobildonna italiana, né si chiamava Lucia di Caracciolo. Tra i pergolati di Vauxhall e nelle taverne e nei caffè di Londra era nota come Lucy Loveless, il nome di una prostituta d’alto bordo. Benché profondamente turbata, quando Sir Amos Fox liquida il caso come una faccenda di poca importanza, Caro insorge. Racconta dell’uomo col cappotto nero, del documento macchiato di sangue che giaceva accanto a Lucy e che sembra svanito nel nulla, ma le sue parole cadono nel vuoto. A Bow Street non si curano certo della morte di una giovane donna nota come prostituta. Caro decide allora di affidarsi a
. Ex giudice di Deptford, Child in passato ha goduto di prestigio e rispetto. Ora è ufficialmente un detective privato ridotto a dar la bassa lega e a perdere tempo tra i balordi del Red Lion, una taverna di furfanti da tempo immemorabile. Che il caso di Lucy Loveless, un caso che sembra celare un intricato mondo di artifici, inganni e vite segrete, possa rappresentare, finalmente, il suo riscatto?
Dai bordelli di Covent Garden alle eleganti case di Mayfair, “Figlie della notte” è un avvincente giallo storico ambientato nella Londra georgiana e, insieme, il vivido affresco di un’e¬poca in cui soprusi, vizi e bugie si annidano sotto la maschera della virtù.
AUTORE
Laura Shepherd-Robinson
Laura Shepherd-Robinson è nata a Bristol nel 1976. Ha una laurea in scienze politiche all’Università di Bristol e un master in teoria politica alla London School of Economics. Ha lavorato in politica per quasi vent’anni prima di dedicarsi alla scrittura. È autrice del romanzo Blood and Sugar, sempre con protagonista Caroline Corsham.
Diego Dilettoso-La Parigi e la Francia di Carlo Rosselli
Editore Biblion
Descrizione-Questo saggio ripercorre gli ultimi otto anni della biografia di Carlo Rosselli (1929-1937), che il militante antifascista trascorre principalmente in Francia e, più precisamente, a Parigi. Gli anni dell’esilio non costituiscono per Rosselli soltanto un momento cruciale della lotta antifascista, con la fondazione di Giustizia e Libertà, la pubblicazione del saggio “Socialisme libéral” (Parigi, 1930), la partecipazione in prima persona ai combattimenti della guerra civile spagnola, fino al tragico assassinio, con il fratello Nello, a Bagnoles-de-l’Orne. L’esperienza d’oltralpe permette a Roselli – in misura senz’altro maggiore rispetto agli altri dirigenti dell’antifascismo in esilio – di entrare in contatto con i milieux politici ed intellettuali locali, lasciando tracce significative del suo passaggio e allargando i propri orizzonti culturali sulla Francia, paese al cuore di quella civilizzazione europea che Rosselli concepiva come naturalmente contrapposta alla barbarie fascista.
Uomo politico (Roma 1899 – Bagnoles de l’Orne 1937); antifascista, allievo di G. Salvemini; prof. (fino al 1926) all’univ. Bocconi di Milano e all’Istituto superiore di commercio di Genova, dopo il delitto Matteotti aderì al Partito Socialista Unitario. Fondatore, con G. Salvemini, E. Rossi e il fratello Nello, del foglio clandestino Non mollare!, poi (1926) con P. Nenni della rivista Il quarto stato, fu uno degli organizzatori dell’emigrazione politica antifascista clandestina; per aver aiutato l’evasione di F. Turati, fu confinato a Lipari, dove scrisse Socialismo liberale (pubbl. in Francia nel 1930), revisione teorica del marxismo in funzione di un socialismo democratico. Evaso da Lipari con F. S. Nitti e E. Lussu (1929), riparò in Francia, dove costituì il movimento Giustizia e Libertà, di cui fu la guida fino alla morte. Combattente (1936) nella guerra civile spagnola a fianco delle truppe repubblicane, venne ferito in battaglia; tornato convalescente in Francia, fu assassinato con il fratello Nello (v.) da cagoulards assoldati dal SIM. Le lettere dei due fratelli alla madre, Amelia Pincherle R. (n. 1870 – m. 1937), autrice di commedie e di libri per ragazzi, sono raccolte in Epistolario familiare. Carlo e Nello Rosselli alla madre (1914-1937), a cura di Z. Ciuffoletti (1979)
SERGEI ESENIN (1895-1925)-Poeta russo (n. nel distretto di Rjazan´ 1895 – m. Leningrado 1925).Fece parte dapprima a Pietroburgo del gruppo dei poeti contadini e poi dell’immaginismo, una scuola poetica nata a Mosca dopo la Rivoluzione. I suoi primi versi, raccolti nel volume intitolato al rito di commemorazione dei defunti, Radunica (1916), cantano con sommesso lirismo e con toni di umiltà religiosa la campagna attorno a Rjazan´. Esenin accolse la Rivoluzione con entusiasmo, esaltandola in poemi declamatorî e barocchi, quali Preobraženie (“Trasfigurazione”) e Inonija (“Altra terra”) del 1919. Ma ben presto la delusione provata di fronte al dilagare del progresso industriale, che trasformava la primitiva campagna, lo spinse a una vita disordinata di cui è un riflesso nel poema Ispoved´ chuligana (“Confessione d’un teppista”, 1921) e nel ciclo Moskva kabackaja (“Mosca delle bettole”, 1924) che contiene versi allucinati. Invano egli tentò di accostarsi a temi di argomento sovietico; l’alcolismo, la solitudine e la disperazione lo spinsero al suicidio. Egli è in sostanza un continuatore della tradizione di A. Blok, sia per la fluidità musicale dei versi, sia per il gusto della romanza zigana, sia per la sovrapposizione e per il connubio di vita e letteratura.
Nota biografica-Rachel Bluwstein, (1890-1931), nata a Saratov (Russia) come Rachel Bluwstein-Sela, giunse nella Palestina Ottomana nel 1909, dove fino al 1913 visse in una scuola agricola femminile in riva al lago di Tiberiade. In seguito si recò in Francia per studiare agronomia e pittura e con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale ritornò in Russia, dove lavorò in istituti educativi per bambini rifugiati. Durante questo periodo contrasse la tubercolosi, la malattia che la condusse a una morte prematura. Nel 1919 tornò nel kibbutz Degania ma, non essendo più in grado di lavorare, si trasferì definitivamente a Tel Aviv, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Morì all’età di quarant’anni e fu sepolta accanto sulle rive del lago di Tiberiade. Molto amata dal pubblico, la sua tomba è ancora oggi meta di numerosi visitatori. La prima raccolta di Rachel, Safiah-Frutto spontaneo, fu pubblicata nel 1927. A essa, tre anni più tardi, fece seguito un nuovo volume, intitolato Mineged-Di fronte. Il suo terzo e ultimo libro, Nebo, uscì postumo nel 1932.
Da “Poesie” di Rachel Bluwstein, a cura di Sara Ferrari, Interno Poesia 2021
Nella mia grande solitudine
Nella mia grande solitudine, una solitudine di animale ferito ora dopo ora io giaccio. In silenzio. La mia vigna l’ha spogliata il destino e non un solo rampollo è rimasto. Ma il cuore, ormai vinto, ha perdonato. Se davvero sono questi i miei ultimi giorni voglio esser calma, perché l’amarezza non intorbidi il quieto blu del cielo, mio compagno di sempre.
*
Nelle notti senza sonno
Com’è fiacco il cuore nelle notti senza sonno, nelle notti senza sonno com’è grave il giogo! Stenderò allora la mano per recidere il filo, per recidere il filo e finire?
Ma al mattino la luce, con la sua ala pura, bussa silenziosa alla finestra della mia stanza. Non stenderò la mano per recidere il filo. Ancora un poco, cuore mio! Ancora un poco!
*
Espressione
Io conosco detti eleganti in abbondanza, frasi fiorite a non finire che camminano leziose, lo sguardo arrogante.
Ma amo l’espressione pura come un neonato e modesta come la polvere. Conosco innumerevoli parole, per questo io taccio.
Saprà il tuo orecchio cogliere, anche dal silenzio, il mio umile parlare? Saprai proteggerlo come un amico, un fratello, come una madre in seno?
*
Canzone
Mattina e sera per te e di te, per te e di te io canto, Tempesta e quiete, letizia e sconforto, piaga e sollievo, pace e supplizio.
Tenta – non l’ho colta – una risposta la tua voce. Tenta e quasi si è sciolto il laccio. Un istante e torna a levarsi il mio canto: il mio canto per te, amore e disprezzo.
Per te e di te, per te e di te: la sola canzone di mille violini. Tempesta e quiete, letizia e sconforto, piaga e sollievo, luce e tenebra.
*
Non congiunto, eppure così vicino, non straniero, eppure così lontano, uno stupore confuso infonde il tocco delicato.
Ricordi? Chiudevano i muri da ogni parte e sopra una folla sconosciuta da ragnatele di sguardi si tesseva un ponte – un segno.
Se mi hai ferita, benedetto il dolore. Possiede il dolore finestre cristalline. Il mio sentiero corre ai margini delle vie maestre, è calmo il mio cuore.
La prima antologia italiana interamente dedicata alla poetessa Rachel Bluwstein (1890-1931), nota al pubblico come Rachel, simbolo mai scalfito dal tempo del movimento pioneristico ebraico e madre fondatrice della tradizione poetica israeliana al femminile. Benché Rachel sia considerata una delle poetesse “nazionali” d’Israele, spesso nel corso dei decenni la sua opera è stata relegata a un ruolo minoritario, se non, addirittura, fraintesa. Soltanto di recente la critica ha saputo restituirle la giusta collocazione all’interno del canone poetico, mostrando l’intento rivoluzionario della sua scrittura. L’amore deluso, la nostalgia, la solitudine sono parte integrante dell’universo poetico di Rachel. Tuttavia, accanto a questo, troviamo una donna risoluta, consapevole della propria realtà, passionale e, soprattutto, dotata di un progetto poetico molto preciso.
Rachel Bluwstein, (1890-1931), nata a Saratov (Russia) come Rachel Bluwstein-Sela, giunse nella Palestina Ottomana nel 1909, dove fino al 1913 visse in una scuola agricola femminile in riva al lago di Tiberiade. In seguito si recò in Francia per studiare agronomia e pittura e con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale ritornò in Russia, dove lavorò in istituti educativi per bambini rifugiati. Durante questo periodo contrasse la tubercolosi, la malattia che la condusse a una morte prematura. Nel 1919 tornò nel kibbutz Degania ma, non essendo più in grado di lavorare, si trasferì definitivamente a Tel Aviv, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Morì all’età di quarant’anni e fu sepolta accanto sulle rive del lago di Tiberiade. Molto amata dal pubblico, la sua tomba è ancora oggi meta di numerosi visitatori. La prima raccolta di Rachel, Safiah-Frutto spontaneo, fu pubblicata nel 1927. A essa, tre anni più tardi, fece seguito un nuovo volume, intitolato Mineged-Di fronte. Il suo terzo e ultimo libro, Nebo, uscì postumo nel 1932.
In ricordo della antifascista Gerda Taro,( l’altra metà di Robert Capa)
la prima reporter donna uccisa nella guerra di Spagna.
In ricordo della antifascista Gerda Taro-Ma la lotta di resistenza antifascista non fu appannaggio dei soli uomini come apprendiamo dalle mille testimonianzeche attestano i mille sacrifici ed eroismi delle donne in quel teatro mondiale di lotta al nazifascismo ancor prima che esso si affermasse con i suoi regimi in mezza Europa. Lo testimonia il sacrificio di Rosa Luxemburg , ma anche delle donne della Repubblica spagnola contro il fascista Franco appoggiato da Mussolini ed Hitler. A render pubblico il loro ruolo contribuirono i reporter internazionali antifascisti che con le loro foto testimoniarono tuti gli aspetti di quella sanguinosa guerra civile. Tra essi/e , oggi , in questo luglio 2017, a 80 anni dalla sua crudele morte , vogliamo ricordare, per non dimenticare la bellissima, coraggiosissima nonostante la sua giovane età (26 anni) Gerda Taro, l’altra metà di Robert Capa. Quanto il suo esempio di donna tedesca antifascista e ribelle fosse temuto e lo sia ancor oggi lo testimonia l’accanimento col quale i nazisti di ieri e di oggi cerchino di distruggere il suo ricordo. Durante la seconda guerra mondiale i nazisti profanarono la sua tomba , a Parigi e distrussero l’epitaffio che nessuno ha voluto ricostruire. L’anno scorso nel 2016 , nella sua natìa Germania, fu esposta una mostra di sua fotografie e al termine di quel festival fotografico a Leipzig rimase una grande riproduzione della sua opera. Il 4 agosto 2016, esattamente un anno fa, ignoti hanno distrutto l’opera con della vernice nera. I sospetti sono caduti sulle organizzazioni neo-naziste antisemite che protestano contro la presenza dei migranti. Un accanimento contro la sua memoria che ricorda quello dei nazisti contro quella della rivoluzionaria comunista Rosa Luxemburg . Tra le tantissime foto scattate da lei nella guerra di Spagna ne abbiamo scelte due , la prima quella di un combattente antifascista che cancella l’Arriba Spagna e con il pennello sul muro scrive Arriba Russia, disegnado una falce e martello, testimonianza di come la Rivoluzione d’Ottobre fosse un punto di riferimento dei “proiletari di tutto il mondo”. L’altra è quella di un miliziano repubblicano rannicchiato con il suo moschetto che difende più che con il suo corpo che con il fucile che impugna , la donna che gli sta a fianco, sorridente. Infine la fotyo scattata dal suo compagno di fede e di amore Firedman alias la metà maschile di Robert Capa. Una foto che la vede riposarsi stremata dopo la vittoriosa battaglia di Brunete, appoggiata ad un cippo miliare di una strada.Una stanchezza di chi vive intensamente una vita vissurta pericolosamente al servizio della Rivoluzione. In quel corpo fragile , in quel viso quasi angelico, si nascondeva una grande donna che noi salutiamo a pugno chiuso! Il ricordo della sua vita , rintracciabile anche su wikipedia lo lasciamo all’articolo scritto da un’altra donna, Maria Grazia Giordano Paperi, sul sito librario l’Undici alla pagina http://www.lundici.it/2016/07/gerda-taro-laltra-meta-di-capa/
Di lei vogliamo ricordare un paio di8 libri anche se diverse sono le pubblkicazioni internazionali che la ricordano:” L’ombra di una fotografa” di François Maspero Ed. Archinto. “Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria nella Guerra civile spagnola” di Irme Schaber Ed. Derive Approdi
Gerda Taro. L’altra metà di Capa
All’alba del 26 luglio 1937 a Madrid, in un ospedale allestito all’Escorial, moriva Gerda Taro, il 1° di Agosto avrebbe compiuto 27 anni.
Al suo funerale, celebrato a Parigi proprio quel 1°di Agosto, parteciparono personalità di spicco della politica e della cultura, mentre una banda suonava la Marcia Funebre di Chopin, una folla di oltre 100.000 persone seguiva il feretro.
Pablo Neruda, fra gli altri, lesse un elogio funebre in memoria di Gerda e Alberto Giacometti realizzò il monumento sepolcrale per la tomba che fu collocata al Père Lachaise, nella zona dedicata ai rivoluzionari.
Negli anni dell’occupazione tedesca e del regime collaborazionista francese il sepolcro di Gerda fu violato e l’epitaffio danneggiato, non fu mai restaurato. La memoria stessa di Gerda per decenni fu smarrita nell’oblio del tempo.
Anni fa ho passato un’intera mattinata alla ricerca di quella tomba, senza successo.
Chi era Gerda Taro? Nacque a Stoccarda nel 1910 con il nome di Gerta Pohorylle in una famiglia della buona borghesia ebraica di origini galiziane. Crebbe a Lipsia, adolescente spensierata, studentessa eccellente. Bella, estroversa, ribelle, il 19 marzo 1933 venne arrestata e imprigionata perchè sospettata di aver partecipato alla distribuzione di volantini antinazisti. Il 30 gennaio di quello stesso anno tale Adolf Hitler era diventato cancelliere, eletto dalla maggioranza del popolo tedesco. Gerta non era, e probabilmente non fu mai, iscritta ufficialmente ad alcuna organizzazione o partito comunista, ma la sua educazione e la sua cultura erano squisitamente laici e di sinistra e la sua natura profondamente rivoluzionaria.
Di quella esperienza di detenzione ci è arrivata la testimonianza di una compagna che racconta come Gerta al suo ingresso in cella si fosse scusata con le altre detenute per il proprio abbigliamento “(…) le SA mi hanno arrestata proprio mentre stavo uscendo per andare a ballare”. Divenne presto la Liebling, l’idolo, delle prigioniere: distribuiva le sigarette che il padre riusciva a farle arrivare, cantava arie americane, insegnava alle compagne parole di inglese e francese, lingue che lei padroneggiava con disinvoltura. Gerta escogitò ed insegnò anche a comunicare con le celle vicine con l’alfabeto dei colpi.
Restò in prigione 17 giorni, salvata anche dal proprio passaporto polacco, dopo il suo rilascio decise, o i suoi genitori per lei, di lasciare la Germania. Alla fine dell’estate del 1933, raggiunse Parigi , come tanti esuli antifascisti italiani o tedeschi.
A Parigi i primi tempi furono duri, sistemazioni di fortuna presso amici o conoscenti, piccoli lavori: ragazza alla pari, segretaria, modella. Parigi era il centro di un’intensa attività artistica, letteraria e politica e molti dei protagonisti erano emigrati come Gerta. Nei caffè che anche lei frequentava si potevano incontrare grandi nomi, Walter Benjamin, Joseph Roth, Ernest Hemingway e personaggi meno conosciuti. Era il settembre del 1934 quando Gerta incontrò un giovane fotografo ungherese, Endre Friedmann, francesizzato in Andrè Friedmann. Fu l’incontro del destino.
Nelle parole di chi conobbe Gerta e Andrè sono descritti belli, affascinanti, traboccanti di vita e intensamente liberi. Dopo il loro incontro si innamorarono, vissero insieme, si separarono, si ritrovarono, non si persero mai di vista.
Gerta si avvicinò alla fotografia e grazie ad Andrè ottenne un impiego fisso all’ agenzia anglocontinentale Alliance di cui, per un anno, fu la factotum, dove perfezionò la tecnica della fotografia e della stampa e imparò a conoscere e trattare il mercato del fotogiornalismo in crescita.
E’ a questo punto che la storia di Gerta e Andrè si confonde alla leggenda.
I due giovani innamorati, ambiziosi, talentuosi e decisi a conquistare il mondo, si inventarono un personaggio, un fotografo americano, ricco, famoso e molto costoso, temporaneamente in Europa. Il personaggio doveva avere un nome, la scelta cadde su Robert Capa, che ricordava il cognome del famoso regista Frank Capra. Pare che l’idea venne a Gerta, magari dopo essersi amati, nell’esaltazione della passione reciproca, o forse dopo una sera al cinema, quando ci si lascia trasportare dai sogni, o dopo qualche bicchiere di vino buono non accompagnato da regolare cena, la vita da giovani bohemien non sempre contemplava pasti regolari.
Anche Gerta cambiò il proprio nome in Gerda, Taro. Entrambi gli pseudonimi avevano il vantaggio di suonare esotici e dall’origine poco riconoscibile.
Lo stratagemma funzionò. Robert Capa nel giro di qualche mese diventò un fotografo richiestissimo e molto apprezzato.
Nel luglio del 1936 scoppiò l’insurrezione franchista, Gerda e Bob si recarono in Spagna. Avevano due macchine fotografiche una Rolleiflex e una Leica, entrambi usavano entrambe, fotografavano la folla, il fermento, le barricate, le milizie, il fronte. Entrambi firmavano indifferentemente le proprie fotografie “CAPA”.
Ritornarono a Parigi e poi diverse volte in Spagna. Il sodalizio professionale e sentimentale era intenso e proficuo. Erano una coppia, ma Gerda rifiutò ripetutamente di sposare Andrè. Voleva “rimanere un essere libero. La sua compagna, pari in ogni campo, compreso l’amore: non sua moglie”.
Nel Luglio del 1937 i Capa erano ancora in Spagna a documentare la guerra. Andrè doveva rientrare a Parigi per trattare con alcune agenzie e cercare finanziatori per un viaggio in Cina. Gerda rimase a Madrid. Si lasciarono con l’intesa di ritrovarsi a Parigi dopo una decina di giorni. Non si videro più.
Se una foto non è buona non eri abbastanza vicino”. (Robert Capa)
In quei giorni di assenza di Robert Gerda realizzò il suo più importante reportage sulla battaglia di Brunete e fu proprio di ritorno da quel fronte che la giovane fotoreporter perse la vita, era stata troppo vicina. Aveva lavorato intensamente, incurante del pericolo, dopo ore passate in un buco a fotografare aveva terminato i rullini, così aveva trovato un passaggio per rientrare a Madrid viaggiando aggrappata al predellino di un’auto colma di feriti.
Inaspettatamente aerei tedeschi attaccarono il convoglio. Un carro armato “amico” perse il controllo e investì l’auto a cui era attaccata Gerda che cadde rimanendo schiacciata sotto i cingoli.
“Avete messo al sicuro le mie macchine? Sono nuove” Chiedeva. Raccontarono che “Durante tutto il trasporto, con le mani sulla pancia, tenne premute le sue stesse viscere”. Si mostrò incredibilmente forte e coraggiosa, ma era ferita molto gravemente. Fu sottoposta a trasfusione e operata. Il medico che l’aveva in cura raccomandò di non farle mancare la morfina per renderle più sopportabili quelle ore. Le ultime. All’alba del 26 Luglio chiuse gli occhi. Per sempre. Ecco dunque chi era Gerda Taro, una giovane donna bella, affascinante, talentuosa e libera che è stata, sia pur brevemente, l’altra metà del grande artista e fotografo celato dallo pseudonimo Robert Capa e poi troppo a lungo fu dimenticata. Più volte Robert Capa raccontò che all’alba di quel 26 luglio 1937 era morto anche lui.
Resistenza va scomparendo- Articolo di Alba Sasso-
Resistenza va scomparendo- articolo di Alba Sasso .Lentamente, la Resistenza antifascista va scomparendo. Un’azione di demolizione metodica, inesorabile, che negli ultimi anni ha raggiunto livelli mai immaginati prima, sta recidendo le radici che legano la nostra storia all’oggi e al domani, un progetto portato avanti nel tempo, che oggi mette sotto gli occhi di tutti i suoi risultati .La proposta della Gelmini tendente ad eliminare anche il nome della Resistenza- resta solo un più generico “percorso verso l’Italia repubblicana”- dai libri di testo è più che una provocazione, o una boutade. È il perfezionamento di un progetto di egemonia culturale portato avanti da un berlusconismo che, ben lungi dall’essere quella macchietta che troppo spesso abbiamo dipinto, si è rivelato una vera costruzione ideologica, portatrice di valori diversi ed alternativi rispetto a quelli in cui è cresciuta la Repubblica nel dopoguerra. La pochezza di personaggi come l’attuale ministro non deve trarci in inganno. La cancellazione della Resistenza è stata portata avanti nei fatti, prima ancora che nei libri di testo. L’assenza sistematica del premier da tutte le cerimonie non solo del 25 aprile, ma da qualunque cosa sapesse di Resistenza, è stata una goccia che ha scavato un solco, che rischia di diventare una voragine, distruggendo la memoria storica di un paese, la sua identità. Troppo spesso il berlusconismo è stato scambiato per folklore. Ne abbiamo sottovalutato le conseguenze.Oggi la Gelmini può permettersi gesti di questo tipo senza che vi sia ancora una reazione forte e generalizzata di protesta. Non si tratta di difendere le cerimonie rituali e spesso stanche, che pure sono un mezzo per la conservazione della memoria. Si tratta di lanciare una grande campagna culturale nel paese, riprendendo il tema della Resistenza come identità di una nazione. Oggi paghiamo le concessioni ideologiche, prima ancora che culturali, ad un indistinto buonismo che accomunava i morti di tutte le parti, i “ragazzi di Salò” ai partigiani. Un equivoco storico alimentato anche a sinistra, pensiamo ai recenti film di smaccato revisionismo, senza giustificazioni che non fossero un basso politicismo, che in nome di tattiche di corto respiro sacrificava principi ed ideali. Rilanciare i valori della Resistenza vuol dire oggi riprendere una lunga marcia nel cuore delle giovani generazioni, in primo luogo per far conoscere loro quelle radici.È questo il primo dato drammatico: i ragazzi, oggi, nella loro grande maggioranza, rischiano di vivere sempre più in un presente vuoto di storia e di futuro.E la diffusione dei disvalori berlusconiani ha seminato il diserbante delle ideologie, sollecitato il rifugio negli egoismi rassicuranti delle identità minime, il locale e le appartenenze di gruppo.La battaglia cui dobbiamo impegnarci non è solo quella dei libri di testo, da cui la Resistenza non può e non deve essere espulsa, come in una sorta di “damnatio memoriae”. È una battaglia culturale che non si può esaurire nel breve periodo. C’è bisogno di far vivere i valori di quella stagione, in un paese che non cessa di mandare segnali in questo senso.La voglia di pulizia e di cambiamento, la sete di moralità e di giustizia, sempre liquidate con la sprezzante definizione di giustizialismo, sono la testimonianza che quei valori esistono ancora, quelle radici non sono state recise. Dovremo innaffiarle e curarle con l’amore per la storia, per la cultura, per il bello. Con il rilancio della Resistenza come epopea di un popolo alla ricerca di libertà e giustizia, riproponendo perfino i modelli di vita di quella generazione, i padri della patria con la loro sobrietà del vivere la politica, con lo spirito di servizio che caratterizzava il loro impegno, con l’inflessibilità sui grandi principi. La grandezza della Resistenza non può essere messa in discussione dalla pochezza di questi figuri. Ma a noi tocca l’impegno di impedire che ci provino comunque.
Quattro Poesie dalla raccolta MURALES CASTELNUOVESI
di Franco Leggeri
Franco Leggeri Fotoreportage-Castelnuovo di Farfa e i suoi colori-Biblioteca DEA SABINA-Brano da “Murales Castelnuovesi” di Franco Leggeri-Muoversi nelle intuizioni e immergersi nei problemi irrisolti . Era questa l’equazione che sia i bambini e sia i giovani castelnuovesi degli anni ’50 dovevano risolvere in assenza dei media : radio, televisione , giornali e cinema.I media che dovevano essere vitamina e “stimolatori” della fantasia e creatività per le giovani menti castelnuovesi non esistevano ancora per tutti, sino al giorno in cui fu aperta la “scatola magica” della “piccola-grande “ sala cinematografica “su nell’Acchiesola”, ora Aula consigliare .Questa sala fu una prima miniera della fantasia , in Bianco e Nero, per le giovani menti castelnuovesi. Fu il cinema, per la sua capacità di “parlare” ad ogni pubblico : dal proletario, la maggioranza di noi castelnuovesi, sino a quello “aristocratico” .Proprio per il suo linguaggio, il cinema è un luogo comune nel senso di condiviso. Il cinema è allo stesso tempo un formidabile mezzo per la trasmissione, sia di mentalità che di ideologie, sia che si presenti nella forma di documentario e sia come finzione. Con il cinema, molti di noi giovani scoprimmo la grande città e l’esotismo di luoghi lontani. Scoprimmo le melodie delle colonne sonore, la sottolineatura e il clima da suspense che solo la musica e il gioco delle luci sanno evidenziare. Il vento prese “voce” e scoprimmo il canto dei fiumi e del mare. Ho nella memoria una presenza reale dell’attesa per l‘inizio del film, poi il silenzio e le immagini “enormi” proiettate sullo schermo che ci raccontavano una storia . Devo dire che ero affascinato! Ricordo, per esempio ,la “fantasiosa e furbesca” storia di un assalto alla diligenza e gli spari delle “colt”. E così che provai a risolvere l’equazione del paradosso dell’algebra astratta. La fantasia veniva , man mano, trovando i passaggi giusti nelle semplificazioni, tra realtà, finzione ed emozione, sino al coinvolgimento e all’identificazione nei personaggi del film . Fu allora che scoprimmo il Far West ( poi imparammo che il West era l’Ovest delle grandi praterie) e fu così che riuscimmo, in questa “Grande-minuscola sala”, a provare l’emozione di essere partecipi di una avventura sino a scoprire che , alla fine, “arrivava sempre il settimo cavalleria” e tutto aveva un lieto fine.
P.S. “Su nell’Acchiesola” noi “monelli de Castellu” quelli della generazione del dopoguerra abbiamo votato per la prima volta, perché “l’Acchiesola” era adibita, sin dall’800 , a sede di seggio elettorale. E’ qui che per molti Castelnuovesi ebbe inizio la speranza del “biennio rosso” del 1919 -1921 ,con il voto al Partito Socialista Italiano di Filippo Turati . In questa sala fu pronunciato, per la prima volta a Castelnuovo, il voto alla Lista “Falce, Martello e Libro”. Di queste elezioni del 1919 ne ho raccolto e trascritto la testimonianza diretta così come mi è stata raccontata dal nostro compaesano Fiore Tancioni che , assieme ad altri compaesani da me intervistati, ne fu testimone . Ma questa è una storia che tratto in un capitolo del libro “Castenuovo, la riva sinistra del Farfa”.
Franco Leggeri, Castelnuovese
Quattro Poesie dalla raccolta MURALES CASTELNUOVESI
di Franco Leggeri
Se Castelnuovo (Archivio 1981)
Castelnuovo,
Parole meravigliose, se le saprò vestire e dipingere, con le foglie degli ulivi , nella dolcezza della sera.
Castelnuovo, se saprò descrivere, scrivere e incidere, il fascino raffinato dei colori, così come sono tradotti e vissuti nella spiritualità dell’anima.
Non ho un teschio in mano, non ho i dubbi di Amleto, non scriverò i tormenti, i miei dubbi, non sono Shakespeare.
Non trovo statico il legittimo dubbio che vaga , da sempre, nel labirinto di Dedalo.
Castelnuovo, non è il Castello di Elsinore o quello di Dracula. Castelnuovo è, a volte ,un inquieto schema di vie dove si rincorrono i pensieri partoriti da uno spirito notturno per un progetto del bello.
Castelnuovo è un pensiero filtrato, Castelnuovo è potenzialità: non idea, ma sostanza.
Il fuori posto della mia poesia ,Castelnuovo se lo chiami “musica” o “poesia”,
( neanche Cartesio mi aiuta ad uscire dai meandri del nozionismo)
Le ferite aperte sono il suono di una domanda antica, la pericolosa,( gesuitica?), insoddisfazione. Eppure la notte si adagia , sempre, sui tetti e il “genio maligno” fugge, finalmente , dalla mia esistenza.
Conosco la luce di Castelnuovo, Castelnuovo non è la mia “provincia oscura”. Castelnuovo è una divinità ed io ai suoi piedi ho lasciato i miei sogni, i miei sguardi, i miei pensieri, i miei versi.
Castelnuovo: ora non confondo più il buio con la tenebra. Oggi, ora non ho più paura della notte.
Castelnuovo, i colori e l’ideologia.
Questa mattina i colori di Castelnuovo
si disperdono come stelle filanti.
Colori profumati, impercettibili, e nascosti
tra il linguaggio degli ulivi.
E’ questa una mia visione interiorizzata,
ma sempre in cerca di un approdo sicuro.
Si, Castelnuovo non può essere un racconto sommario
ma, come le sequenze chimiche , deve espandersi
in una litania nell’immenso cielo.
Castelnuovo diventa una litania senza amen,
e senza consistenza, un oggetto fantasma
all’interno di una storia inaccessibile
che si frantuma come stelle filanti
nell’intimità di esperienze sofferte e malate
che diventano , esse stesse, oggetti appesi alle pareti del mio io.
Castelnuovo mi tenta ancora al peccato dell’illuminismo,
e così l’ideologia diventa il mio luogo del “niente”,
l’elemento misterioso di una poesia forgiata con i colori della pietra.
Colori castelnuovesi e tristezza ideologica
che sono come i dubbi di Amleto
in cerca di Ofelia che disperde, così tremante, i colori
della sua fragile innocenza.
Piange Castelnuovo in cerca dei colori,
sepolti trai vecchi tronchi deposti a terra ,
terra scura come i sogni svaniti all’alba
di questa poesia, ora diventata logora e affaticata
mentre rincorre il colore di questo giorno
sempre uguale agli altri.
I vecchi libri
I vecchi libri sono come sculture
Di una vita del dopo
Sono ritagli di tempo
E risultati di calcoli per una rotta tracciata
alla ricerca di sentieri che segnano l’anima.
Sentieri solitari e sospesi sulle emozioni
Che si anellano all’interno di un cerchio
Di passione e scrittura.
Ed è così, mentre i gatti si addormentano
Sull’autobiografica di un’oscura psicologa analista,
Che io mi interrogo sui Dialoghi, ormai scheletri, di Platone,
Si, proprio quelli
Che ho sepolto
Nei miei appunti tra i libri, nascosti in alto sugli scaffali.
L’Estate castelnuovese (1978)
Dai campi si leva
Un coro serrato di cicale
Il rosso , taciturno, dei papaveri
Veglia il riposo delle poche parole
di desiderio silenzio.
Poi, la sera ,lo sguardo abbraccia fosforescenti geometrie
Che nascono dall’immobilità della stanchezza.
Ascolto note di avventure eccessive, affogate in follie singolari.
I miei occhi (pallidi) sono sguardi (stanchi) ai margini dei campi.
Ora,
Del giorno, che corre al tramonto, ne dimentico l’alba.
Cenni biografici di Claribel Alegría si laurea a Washington in filosofia e letteratura, poi torna nel suo Paese e aderisce al Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, movimento di ispirazione marxista, partecipando alle manifestazioni non violente contro il dittatore Somoza.
Nel frattempo Claribel diviene poetessa e scrittrice, pubblicando opere tra raccolte poetiche, saggi, romanzi e libri per bambini, fino a essere considerata tra le maggiori esponenti della letteratura del Centro America e venendo candidata al premio Nobel nel 2016.
“Sua maestà, la regina della poesia” si spegne a Managua nel 2018.
Testamento-
Ai miei figli
“Vi lascio una scala
traballante
incompiuta
con qualche scalino rotto
alcuni marci
e più di uno
intero.
Riparatela
mettetela in piedi
saliteci sopra
salite
fino a toccare la luce.”
Da Alterità
(traduzione di Daniela Ruggiu)
Otredad
Me gustan los espejos
porque observo
a la otra
que se quita la máscara y me reta.
Alterità
Mi piacciono gli specchi
perché osservo
l’altra
che si toglie la maschera e mi sfida.
Lluvia
Te escucho
lluvia
te escucho
y sé que te escucharé
cuando empapes
mis cenizas
bailando sobre mi tumba.
Pioggia
Ti ascolto
pioggia
ti ascolto
e so che ti ascolterò
quando impregnerai
le mie ceneri
ballando sulla mia tomba.
Da Voci
(traduzione di Zingonia Zingone e Marina Benedetto)
La tortuga
En mi caparazón
llevo cincelado
el universo
me pesa tanto y más
apenas puedo dar
pasos cortitos
y hundo la cabeza
cuando pienso
que no tengo las llaves
para abrirlo
y escaparme lejos
y reírme desnuda
entre la hierba.
La tartaruga
Sul mio guscio
porto cesellato
l’universo
mi pesa così tanto
a stento posso fare
qualche passettino
e nascondo la testa
quando penso
che non ho le chiavi
per aprirlo
e fuggire lontano
e ridere nuda
in mezzo all’erba.
La rosa
No quiero desprenderme
de mi tallo
uno a uno
se me caen los pétalos
pero siempre hay perfume
en los que viven
y yo los desafío
desafío al perfume
a escaparse
a saturar el aire
a columpiarse
a ungir mi cadáver
mientras caigo.
La rosa
Non voglio staccarmi
dal gambo
uno a uno
cadono i miei petali
ma il profumo persiste
in quelli vivi
e io li sfido
sfido il profumo
a fuggire
a saturare l’aria
a volteggiare
a ungere il mio cadavere
mentre cado.
Testamento A mis hijos
Les dejo una escalera
tambaleante
inconclusa
tiene peldaños rotos
otros están podridos
y más de alguno
entero.
Repárenla
elévenla
suban por ella
suban
hasta tocar la luz.
Testamento Ai miei figli
Vi lascio una scala
traballante
incompiuta
con qualche scalino rotto
alcuni marci
e più di uno
intero.
Riparatela
mettetela in piedi
saliteci sopra
salite
fino a toccare la luce.
Claribel Alegría è una delle voci poetiche più vitali, puntuali, chiare e belle del novecento ispanoamericano. Nata in Nicaragua nel 1924 e cresciuta in El Salvador, amava dirsi “salva-guense”, forse per non fare torti né alla madre salvadoregna né al padre nicaraguense. Fin da bambina sognava di diventare una scrittrice e in cuor suo sapeva che un giorno sarebbe stata famosa. Forse per questo, quando ha ricevuto a 93 anni, dalle mani della regina di Spagna, la più importante onorificenza poetica della lingua spagnola – il “Premio Reina Sofía de poesía iberoamericana” – la Alegría, conosciuta in Centro America come “Sua Maestà, la regina della poesia”, sorrideva soddisfatta e raggiante, e si muoveva a perfetto agio nel Palazzo Reale. Quel giorno nei suoi occhi brillava una luce fanciullesca, anche se sapeva già di aver compiuto la sua missione letteraria – con oltre 30 titoli pubblicati tra raccolte poetiche, romanzi, saggi e libri per bambini – e di vita, e che presto sarebbe tornata a casa sua, in Nicaragua, per affrontare il salto verso l’ignoto.
La vita di Claribel è stata sin dall’infanzia segnata da incontri con persone di grande statura intellettuale. La casa dei suoi genitori, nella macondiana cittadina di Santa Ana, era frequentata da personaggi di rilievo come il poeta e sacerdote nicaraguense Azarías H. Pallais e il filosofo messicano José Vasconcelos. Quest’ultimo, avvertendo il potenziale dell’irrequieta Claribel che declamava Darío e citava Rilke, convinse il padre a mandarla a New Orleans a completare gli studi liceali. In seguito, nel 1943 Claribel si iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia presso la George Washington University dove si laureò nel 1948. Quello stesso anno, con l’aiuto del suo severissimo mentore, il Premio Nobel spagnolo Juan Ramón Jiménez, uscì la sua prima raccolta di poesie di stampo lirico intitolata Anillo de silencio. Sempre in quel periodo la Alegría conobbe il giornalista e diplomatico americano Darwin Flakoll, detto “Bud”, con il quale si sposò ed ebbe quattro figli. I giovani sposi abitarono in diversi paesi del Sudamerica e strinsero amicizia con i maggiori esponenti del mondo letterario contemporaneo, come ad esempio Julio Cortázar, Mario Benedetti, Juan Rulfo e Mario Vargas Llosa. Insieme, Claribel e Bud, detti “Claribud”, debuttarono come coppia letteraria raccogliendo queste ed altre voci promettenti in un’antologia bilingue che venne pubblicata con il titolo New Voices of Hispanic America (Beacon Press, 1962).
Dopo aver girovagato per l’America Latina, la famiglia si spostò a Parigi, dove Claribel conobbe altri illustri scrittori come Carlos Fuentes, Octavio Paz e Italo Calvino, e in seguito a Mallorca, nel piccolo villaggio bohémien di Deià, residenza dello scrittore britannico Robert Graves del quale divennero vicini di casa. In seguito a questa amicizia, Claribel e Bud tradussero in spagnolo e una raccolta di cento poesie di Graves che venne pubblicata in Spagna.
La maggior parte degli intellettuali latinoamericani che frequentava la Alegría in Europa si trovava in esilio a causa delle dittature nei loro paesi. Questo la spinse ad interessarsi alla situazione cubana e a maturare convinzioni politiche di sinistra. La sua poesia abbandonò il lirismo a favore di uno stile più asciutto e tagliente, dai toni e contenuti engagé. Successivamente, in seguito al trionfo della rivoluzione sandinista in Nicaragua nel 1979, Claribel e Bud decisero di stabilirsi definitivamente in Nicaragua e scrissero di nuovo a quattro mani libri che narravano le tormentose vicende delle dittature centroamericane. Il periodo di lotta pacifica e intenso impegno politico e sociale, andò avanti fino alla morte di Bud, nel 1995. Questo evento scosse immensamente Claribel, la quale, nonostante l’assidua e amorosa presenza dei figli, si sentiva abbandonata e incapace di colmare il terribile vuoto che aveva lasciato il marito. Strinse a sé la poesia come una tavola di salvezza (Cerco / cerco / ricerco / e non so quel che cerco / ma è questo cercare / che mi mantiene viva / e mi sprona) e si tuffò a capofitto nei temi centrali dell’esistenza umana: l’amore, la perdita, il dolore, il desiderio, la morte e la speranza.
Circondata da figli, nipoti, pronipoti e amici, Claribel ha continuato a scrivere fino alla fine dei suoi giorni. Già nel 2015 pensava di aver concluso il suo lavoro con la pubblicazione di Voci (Samuele Editore), che contiene una poesia-testamento diretta ai figli, ma all’improvviso quello stesso anno si è trovata a scrivere un lungo poema dedicato a Bud, Amore senza fine (Fili d’Aquilone, 2018). Con questo libro Claribel si lancia oltre la morte alla ricerca dell’amato tra abissi, spettri e mostri, e nella speranza trionfa l’Amore. Così, il 25 gennaio 2018, Sua Maestà Claribel Alegría si è spenta a Managua, con il sorriso sulle labbra e i figli intorno al letto. Sul suo comodino dei fogli sparsi, forse l’abbozzo di una nuova poesia.
Quando mi ucciderai / Morte / tu / per me / sarai evaporata / per sempre / io / salterò sul mio corpo / e continuerò a vivere. Claribel lascia al mondo un’opera ricca, originale, profonda ed efficace; e il suo spirito ironico e vispo che balza fuori dai versi per ricordarci che la vita va vissuta fino in fondo e con coraggio.
Sono numerosissimi i premi internazionali ottenuti da Claribel Alegría durante la sua lunga carriera poetica. Spiccano, oltre al “Premio Reina Sofía de Poesía Iberoamericana”, il premio “Casa de las Americas” conferitole a Cuba nel 1978 e il “Neustadt International Prize for Literature” del 2006. In Italia si è aggiudicata il “Premio Camaiore Internazionale” nel 2016 ed è stata insignita della commenda dell’Ordine della Stella della Solidarietà nel 2010.
Omaggio a Vittorio De Sica -Il ricordo di Rai Cultura –
A cinquant’anni dalla scomparsa di Vittorio De Sica, Rai Culturaricorda uno dei massini protagonisti del cinema italiano con una programmazione dedicata, in onda mercoledì 13 novembre su Rai Storia. Si inizia alle 8.30 con l’almanacco de “Il giorno e la storia” (in replica alle 11.45, alle 14 e alle 20). Nato nel 1901, Vittorio De Sica esordisce dietro la macchina da presa nel 1939 con “Rose scarlatte”. Ma il suo nome è legato in maniera indissolubile alla grande stagione del Neorealismo. Con “Sciuscià” e “Ladri di biciclette” vince l’Oscar per il miglior film straniero. Dirige Sophia Loren in “La ciociara”, “Ieri, oggi e domani” e “Matrimonio all’italiana”. Con quest’ultimo, è ancora Oscar.
Alle 13.00 è la volta di Vittorio De Sica a “Canzonissima”, lo spettacolo televisivo Rai abbinato alla Lotteria Italia nel quale è stato più volte ospite. In una puntata del novembre 1970 e nella finalissima del 1971/72 è ospite di Raffaella Carrà e Corrado, che prova a dirigere con risultati clamorosi, e poi dà prova di recitazione decantando la poesia di Salvatore di Giacomo “Lassame fa a Dio”, e ritorna a Canzonissima con il figlio Christian, ospiti di Pippo Baudo e Loretta Goggi nel 1972. Alle 13.15 su Rai 3 e alle 20.30 su Rai Storia, poi, Paolo Mieli e lo storico Ermanno Taviani rileggono la figura di De Sica in “Passato e Presente”, tratteggiando il ritratto di un artista completo che ha lasciato una traccia indelebile nel cinema italiano e mondiale. E se la stagione più conosciuta è quella breve e intensissima del neorealismo, Vittorio De Sica ha avuto la capacità di cambiare stile, rinnovandosi completamente, tanto da far dire a Roberto Rossellini che De Sica è forse l’unico regista italiano a possedere così tanti registri espressivi. Una carriera inimitabile segnata da quattro premi Oscar e numerosissimi premi nazionali e internazionali.
A seguire – alle 13.30 su Rai Storia – in “Stasera: Gina Lollobrigida”, programma con la regia di Antonello Falqui, Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida si cimentano in uno sketch nel quale replicano la celebre scena dell’episodio “il processo di Frine” di “Altri Tempi” (1952) di Alessandro Blasetti nel quale De Sica è un distratto avvocato d’ufficio di una procace cittadina, interpretata da Gina Lollobrigida. Nella versione televisiva del 1969, si ironizza sull’eccessiva sensualità dell’attrice per gli standard della TV dell’epoca, e l’avvocato dell’accusa è interpretato da Riccardo Garrone. Alle 17.30 è in scena “Vittorio De Sica: autoritratto”, nel quale Vittorio De Sica, dal teatro Eliseo, racconta la sua vita di attore e regista e incontra alcune figure importanti per la sua carriera come Emma Gramatica, Sergio Tofano e Cesare Zavattini, in un documentario per la TV firmato da Giulio Macchi, pioniere della divulgazione scientifica in Rai con “Orizzonti della scienza e della tecnica”.
Btografia di Vittorio De Sica-Regista e attore teatrale e cinematografico, nato a Sora il 7 luglio 1901 e morto a Neuilly-sur-Seine (Île-de-France) il 13 novembre 1974. Grande autore del cinema italiano fu anche interprete di spiccata personalità e presenza scenica. Dotato di una capacità istintiva nel cogliere il lato amabile e ironico, come quello malinconico e a volte tragico, della realtà quotidiana, D. S. possedette la rara capacità di sdoppiarsi dapprima tra il teatro e il cinema, e poi tra una carriera di attore, versatile e adattabile, e di regista cinematografico; nei suoi film emerge una sensibilità straordinaria nel saper trasferire l’osservazione minuta della realtà nelle maglie di racconti strutturati su un sentimento di forte solidarietà umana. Apparso come attore in quasi duecento film, seppe realizzare, anche in quelli di minore qualità, una perfetta combinazione tra eleganza gestuale e vocale e un suo personale tratto istrionico. Valorizzato da Mario Camerini, a partire da Gli uomini, che mascalzoni… (1932), nella cosiddetta pentalogia piccolo-borghese, da questo regista D. S. acquisì i fondamenti dell’arte e della tecnica cinematografica che seppe fare suoi raffinandoli con profonda sensibilità e spessore umano. Si inserì autorevolmente nella storia del cinema con Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948), entrambi premiati con l’Oscar come migliori film stranieri rispettivamente nel 1948 e nel 1950, rivelando con lucida partecipazione l’amara realtà postbellica di un Paese materialmente e moralmente dilaniato. Grazie anche al contributo determinante dello scrittore e sceneggiatore Cesare Zavattini, che lavorò con lui in quasi tutti i suoi film, D. S. raggiunse la massima maturità artistica ed espressiva negli anni Quaranta, quando contribuì in maniera determinante alla nascita di una nuova cultura cinematografica, il Neorealismo.
Figlio di un assicuratore napoletano, dopo un’infanzia trascorsa a Napoli D. S. si diplomò in ragioneria, ma già nel 1917 aveva ricoperto il piccolo ruolo di G. Clemenceau ragazzo nel film Il processo Clemenceau di Alfredo De Antoni. Con l’attrice-regista T. Pavlova, ricca dell’esperienza della scena russa, D. S. tra il 1924 e il 1926 passò al professionismo teatrale, recitando poi da attore giovane nella compagnia Almirante-Rissone-Tofano (1927-1929). In questo periodo si cimentò saltuariamente anche sullo schermo in due film di Mario Almirante, La bellezza del mondo (1927) e La compagnia dei matti (1928). Deviò quindi verso il teatro popolare, entrando nel 1931 nella compagnia di teatro leggero e di rivista diretta da Mario Mattoli, in cui riportò grande successo anche per le canzoni interpretate; fu in quel periodo che D. S. definì il suo profilo di attore brillante e di fine dicitore e chansonnier. Dal 1932 intraprese in maniera costante anche la carriera d’attore cinematografico, interpretando da protagonista due film che confermarono la sua versatilità. In primo luogo Due cuori felici, di Baldassarre Negroni, film brillante con couplets cantati e una struttura da operetta, che non si allontanava di molto dagli spettacoli di rivista. Ma fu in Gli uomini, che mascalzoni… di Camerini, sceneggiato da quest’ultimo con Aldo De Benedetti e Mario Soldati, in cui D. S. canta la celebre canzone di C.A. Bixio Parlami d’amore Mariù, che espresse al meglio il suo stile, qui pienamente valorizzato, e rivelò il suo talento recitativo, trovando il giusto equilibrio nel disegnare un personaggio (l’autista Bruno) dall’animo semplice e il comportamento scanzonato, sullo sfondo di una Milano già industrializzata. Il film venne presentato alla prima Mostra del cinema di Venezia, consolidando il successo dell’attore. Dopo Un cattivo soggetto (1933), per la regia di Carlo Ludovico Bragaglia, e alcuni film di scarso rilievo, D. S. diede vita alla compagnia Tofano-Rissone-De Sica. In questo periodo avvenne anche l’incontro con due autori italiani, Aldo De Benedetti e Gherardo Gherardi, che segnò l’inizio di un felice e lungo sodalizio artistico. Nel 1935 fu di nuovo insieme a Camerini in Darò un milione, cui aveva collaborato, per il soggetto e la sceneggiatura, anche Zavattini. D. S. vi interpreta Gold, un milionario che, annoiato della sua vita abituale, decide di vivere una giornata diversa travestendosi da poveraccio ed entrando in contatto con un mondo molto lontano dal suo. Nella seconda metà degli anni Trenta continuò a intercalare cinema e teatro. Ma due film ancora di Camerini precisarono la sua figura di attore dal tratto amabilmente ironico: Il signor Max (1937) e Grandi magazzini (1939). In Il signor Max D. S. impersona il giornalaio Gianni, aspirante a un ruolo mondano, che durante un viaggio viene scambiato per un conte da un gruppo di nobili, e di conseguenza si trova a vivere due vite parallele. A questo film, da lui reinterpretato venti anni dopo nell’adattamento di Giorgio Bianchi (1957; Il conte Max) con Alberto Sordi nel suo ruolo del 1937, è stato dedicato un altro remake (Il conte Max, 1991) realizzato dal figlio Christian (n. Roma 1951), anch’egli regista e attore. In Grandi magazzini D. S. riveste il ruolo di un personaggio molto vicino al protagonista di Gli uomini, che mascalzoni…: ancora un autista, anch’egli di nome Bruno, che ha premura di difendere la povera commessa di un grande magazzino, ingiustamente accusata di furto. In questo stesso anno avvenne il primo incontro diretto tra D. S. e Zavattini, durante il quale il regista acquistò dallo scrittore il soggetto intitolato Diamo a tutti un cavallo a dondolo, da cui, dopo diversi rimaneggiamenti dello stesso Zavattini, sarebbe nata la sceneggiatura di Miracolo a Milano (1951). Non soddisfatto dei traguardi raggiunti e di essere definito lo ‘Chevalier italiano’, D. S. fu quasi sul punto di tornare in via definitiva al teatro quando, nel 1940, gli si aprì inaspettatamente la porta della regia cinematografica. L’esordio avvenne senza troppo clamore, con la trasposizione cinematografica del suo maggior successo teatrale, Due dozzine di rose scarlatte di A. De Benedetti, portato sulle scene dalla formazione De Sica-Rissone-Melnati al Teatro Argentina di Roma nel 1936. Il film, dal titolo Rose scarlatte, ebbe come coregista Giuseppe Amato; D. S. si limitò a dirigere con dedizione gli attori, tralasciando ancora i movimenti di macchina e la fotografia. A Maddalena zero in condotta (1940), che molto deve al brio dello stile cameriniano, seguì nel 1941 Teresa Venerdì, alla cui sceneggiatura collaborò, non accreditato, anche Zavattini. Il film, seppure ancora molto vicino allo stile di Camerini, evidenzia cambiamenti che si rintracciano nella particolare cura del montaggio, nell’elaborare un’atmosfera brillante non priva di riflessioni a sfondo sociale e in una propensione a evadere dalle convenzioni del cinema italiano di quel periodo. Durante la guerra D. S. riprese il teatro fino al 1942, nella nuova compagnia Tofano-Rissone-De Sica, portando sulle scene prevalentemente drammi di U. Betti (I nostri sogni, Il paese delle vacanze) e testi pirandelliani (Ma non è una cosa seria, Liolà). Dopo Un garibaldino al convento (1942), una divertita rievocazione storica, D. S. diresse I bambini ci guardano (1944) che segnò il passaggio deciso all’osservazione acuta dei sentimenti umani e della loro radice sociale. Il film, tratto dal romanzo Pricò di C.G. Viola e alla cui sceneggiatura Zavattini partecipò per la prima volta ufficialmente, rappresenta un’anticipazione di quella poetica che di lì a poco D. S. avrebbe progressivamente sviluppato e ampliato. Nel dramma interiore e nello sguardo del piccolo Pricò si legge la crudeltà e la durezza di quello stesso mondo piccolo-borghese che fino ad allora il regista si era limitato solo a rappresentare in maniera frivola e superficia-le. D. S., così, cambiò radicalmente e definitivamente la prospettiva del proprio cinema, precorrendo Sciuscià nello studio della condizione del bambino, vittima dell’egoismo e dell’incomprensione degli adulti. Il suo stile si fece più essenziale rintracciando negli esterni, nelle strade, nelle piazze, nel paesaggio urbano, una verità lontana dalle convenzioni dei teatri di posa. Durante uno dei suoi ritorni teatrali diresse la compagnia Isa Miranda, di cui (1944) va ricordata la messinscena di Tovarich di J. Deval; recitò quindi (1945), diretto da Alessandro Blasetti, nel dramma Il tempo e la famiglia Conway di J.B. Priestley. Nel 1946 formò la compagnia Effe De Sica-Gioi-Besozzi, l’ultima di cui fu capocomico. Della sua attività teatrale di quegli anni va ricordata soprattutto la partecipazione, proprio nel 1946, a Il matrimonio di Figaro di P.-A. de Beaumarchais, per la regia di Luchino Visconti. Mentre, al cinema, offrì interpretazioni misurate, talvolta drammatiche, in tre film: il primo di Gennaro Righelli, Abbasso la ricchezza! (1946), accanto ad Anna Magnani; il secondo, Natale al campo 119 (1947) di Pietro Francisci, dove è un nobile napoletano; il terzo, Cuore (1948) di Duilio Coletti, che gli valse il Nastro d’argento come miglior attore per l’intensa interpretazione del maestro Perboni. In La porta del cielo (1945), sceneggiato con Zavattini, l’allontanamento del regista dai canoni precedenti appare irreversibile. Girato, con un’avventurosa lavorazione, nel periodo dell’occupazione tedesca a Roma, il film segue, con una minuzia di osservazione che valorizza espressivamente il dato patetico, le storie di un gruppo di malati in viaggio verso il santuario di Loreto per chiedere il miracolo della guarigione, che però non avverrà. Ma fu con Sciuscià che D. S. consegnò alla storia del cinema un capolavoro del Neorealismo, ispirandosi alla storia di due giovanissimi lustrascarpe da lui realmente incontrati. Il film, sceneggiato da Zavattini, Adolfo Franci, Giulio Cesare Viola e Sergio Amidei, alterna la crudeltà delle situazioni a squarci e fughe nel sogno, e segue la vita dei due ragazzi (Franco Interlenghi e Rinaldo Smordoni) fino al drammatico tentativo di fuga dal carcere minorile, che conduce alla morte di uno dei due. Con semplicità e sotto tono D. S. svela una realtà dilaniata dalla guerra, utilizzando il senso tragico dell’azione per un atto d’accusa contro il sistema giudiziario e carcerario minorile. A partire da questo film e nella sua fase neorealista, D. S. adottò la pratica di ricorrere a interpreti presi dalla strada, dimostrando un’attitudine particolare nel renderli aderenti alla resa di verità del film. Nel 1948 uscì la sua opera più famosa e più premiata, Ladri di biciclette, dal romanzo di L. Bartolini, sceneggiata ancora una volta da Zavattini (con Oreste Biancoli, Suso Cecchi d’Amico, A. Franci, G. Gherardi, Gerardo Guerrieri) e interpretata da attori non professionisti. È un racconto immerso nella realtà delle strade e dei quartieri della Roma segnata dalla guerra, in cui campeggia la disperazione di un disoccupato al quale, trovato finalmente un posto di attacchino, rubano la bicicletta, strumento essenziale per il lavoro. Dall’affannoso deambulare del protagonista (Lamberto Maggiorani) accompagnato dal figlioletto (Enzo Stajola), spaurito e partecipe del dolore del padre, dalla ostile indifferenza e dalla desolazione che li circondano emerge il quadro di una condizione umana e sociale filmato con accorta pietas. Il film riscosse un enorme successo in tutto il mondo. Con Miracolo a Milano, premiato nel 1951 con la Palma d’oro al Festival di Cannes, D. S. non ottenne invece il successo commerciale sperato. Con la sceneggiatura che Zavattini aveva ricavato dal suo romanzo Totò il buono (rimaneggiamento del suo vecchio soggetto Diamo a tutti un cavallo a dondolo), D. S. modellò la sua poesia del quotidiano sull’affettuosa descrizione delle miserie di una baraccopoli, mediante uno stile trasognato e funambolico. L’anno successivo, con Umberto D. il regista pervenne a un’asciuttezza livida e rigorosa, a uno stile scarno, ma accorato che penetra nelle pieghe della solitudine della desolata e umiliata vecchiaia del protagonista, un modesto pensionato (Carlo Battisti). Queste prove restano le più alte della sua opera registica, anche se per le polemiche sullo ‘sciorinamento dei panni sporchi’ di un’Italia piegata dalla guerra, D. S. fu osteggiato dagli ambienti politici di una certa Italia benpensante. Nel frattempo continuava le sue interpretazioni, disegnando caratteri e ruoli in cui il mestiere consumato si mescolava a dosi di garbata ironia. Lasciarono una traccia durevole, fra gli altri: Buongiorno, elefante! (1952) di Gianni Franciolini, in cui impersona il maestro Garetti, imbarazzato dall’ingombrante regalo di un elefante; di Blasetti, nel 1952, Altri tempi (Zibaldone n. 1), in cui è un tronfio ed esilarante avvocato napoletano nel processo a una moderna Frine (Gina Lollobrigida), e, nel 1954, Tempi nostri (Zibaldone n. 2), dove rappresenta la crepuscolare figura di un conte decaduto costretto a lavorare come comparsa cinematografica. Il ritorno alla regia avvenne con Stazione Termini (1953), irrisolta coproduzione con gli Stati Uniti, incerta tra sentimentalismo e ambizioni spettacolari.Con L’oro di Napoli (1954), dai racconti di G. Marotta, soprattutto negli episodi Il funeralino e I giocatori, D. S. raggiunse un notevole risultato espressivo grazie alla sua tipica sensibilità nel racconto dell’infanzia e mediante il ritratto icastico delle miserie e dell’umanità dei napoletani. Dopo aver interpretato il galante maresciallo in un classico del neorealismo rosa che avrà seguiti e imitazioni, Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini, nel 1956 D. S. ritornò alla regia con Il tetto, opera dotata di una certa sottigliezza descrittiva, sul problema della casa e della coabitazione. Con La ciociara (1960), tratto dal romanzo di A. Moravia, realizzò un film che possiede un ampio respiro narrativo quando descrive lo strazio di una madre umiliata dagli oltraggi della guerra (interpretazione che valse un Oscar a Sophia Loren), e accenna pudicamente alla malinconica vocazione alla morte di un intellettuale antifascista. Da attore D. S. aveva ricoperto nel 1959 la parte più importante del suo ultimo scorcio di carriera, diretto da Roberto Rossellini in Il generale Della Rovere, in cui è il doppiogiochista Giovanni Bertone prima povero imbroglione, via via coinvolto dalla tragedia della guerra, infine travolto dalla volontà di tener fede, paradossalmente sino alla morte, al ruolo interpretato. Nella regia di Il giudizio universale (1961) D. S. seppe incastonare in un surreale mosaico ambientato a Napoli una coralità che riprendeva la sua vena descrittiva migliore. I film successivi rientrano in schemi più convenzionali, quelli della commedia sentimentale o della satira sociale (Il boom, 1963; Matrimonio all’italiana, 1964, da Filumena Marturano di Eduardo De Filippo), ma alcuni contengono icastiche notazioni di costume, come La riffa, episodio di Boccaccio ’70 (1962; film a più mani diretto anche da Federico Fellini, Luchino Visconti e Mario Monicelli) o Ieri oggi domani (1963, Oscar per il miglior film straniero nel 1965) che consacrò il sodalizio di D. S. con la coppia Sophia Loren-Marcello Mastroianni, e in cui l’episodio di Adelina, dovuto al soggetto di E. De Filippo, è un sapido apologo sull’arte di arrangiarsi, o come Un mondo nuovo, noto anche come Un monde nouveau (1966), che si regge su una delicatezza di tocco che tratteggia bene le atmosfere psicologiche.
Nel suo ultimo periodo registico D. S. si piegò per lo più alle ragioni industriali, anche con coproduzioni interpretate da famosi attori stranieri, da Peter Sellers a Shirley MacLaine (Caccia alla volpe, 1966; Sette volte donna, 1967; Amanti, 1968; I girasoli, 1970; Lo chiameremo Andrea, 1972 furono melodrammi e commedie sentimentali di gusto convenzionale e ambizioni spettacolari). Accanto alle apparizioni televisiva nel Pinocchio (1972) di Comencini nel ruolo del giudice, e cinematografica in Il delitto Matteotti (1973) di Florestano Vancini, due regie furono rilevanti. In primo luogo quella di Il giardino dei Finzi Contini, dal romanzo di G. Bassani (1970, Orso d’oro al Festival di Berlino nel 1971; Oscar per il miglior film straniero nel 1972), per il quale il figlio Manuel (n. Roma 1949) compose la colonna sonora, e in cui è evidente tutta l’abilità di D. S. nella direzione degli attori e nel dare colore e psicologia ad ambienti sociali, sentimenti umani, dissidi sentimentali. L’altra opera, Una breve vacanza (1973), è la storia di un’operaia calabrese, divisa tra la malattia e la voglia di vivere ed evadere dalle ossessioni familiari. In essa D. S. accentuò una vena intimista e ritrovò l’afflato, il concreto senso della solidarietà, il racconto umano delle cose, propri dei suoi primi capolavori. Nel 1967 aveva ottenuto la cittadinanza francese, anche per poter divorziare da Giuditta Rissone (da cui aveva avuto la figlia Emi) e sposare l’attrice spagnola Maria Mercader, conosciuta sul set di Un garibaldino al convento e sua compagna per la vita. Il viaggio (1974), ultimo film diretto da D. S., ancora interpretato da Sophia Loren, è un racconto, di derivazione pirandelliana, dove il percorso malinconico di una donna, tra amore e morte, suggella, quasi come un presagio, la fine dell’itinerario artistico e umano del regista.
Bibliografia
Agel, Vittorio De Sica, Paris 1955.
Leprohon, Vittorio De Sica, Paris 1966.
“Bianco e nero”, 1975, 9-12, nr. monografico a cura di O. Caldiron.
Mercader, La mia vita con Vittorio De Sica, Milano 1978.
Pecori, Vittorio De Sica, Firenze 1980.
Darreta, Vittorio De Sica: a guide to references and resources, Boston 1983.
Bolzoni, Quando De Sica era Mister Brown, Torino 1984.
De Sica. Autore, regista, attore, a cura di L. Miccichè, Venezia 1992.
Governi, A.M. Bianchi, Vittorio De Sica: Parlami d’amore Mariù, Roma 1993.
L’Aquila la mostra fotografica di Ilaria Di Giustili :”La Venere”
L’Aquila la mostra fotograficaLa Venere, di Ilaria Di Giustili: una mostra che si muove tra immagini e poesia, con un contributo di testi di Stefania Macchione e frammenti poetici di Carmela de Felice, con il con il Patrocinio del Comune dell’Aquila.
Il progetto fotografico La Venere, di Ilaria Di Giustili, arriva a L’Aquila dopo una lunga gestazione, che l’ha vista esposta a Roma in una edizione precedente, con altra forma: un percorso di crescita personale oltre che visivo della fotografa l’ha riportata negli anni sul tema della Donna, della sua relazione con sé stessa e con il mondo che la circonda.
Venere, dea dell’amore, è intesa come simbolo di tutte le donne attraverso una serie di scatti che la rappresentano in tutte le sue età e declinazioni spirituali.
La mostra si divide in tre sezioni, la prima dedicata al lato oscuro della Donna archetipo di bellezza e forza, anche – e diremmo soprattutto – quando è fragile e sottoposta a tensioni e violenze fisiche e psicologiche: scatti che vedono i corpi femminili quasi prigionieri delle cornici, allegorie appunto di uno spazio troppo stretto per muoversi nel quale le donne sono rinchiuse, ma non di rado si rinchiudono anche da sole.
La seconda sezione, dal titolo La Venere svelata, vede invece donne immerse in clima di tenerezza e di dolcezza, di relazioni familiari, di complicità, di generazioni che dialogano, da “album di famiglia”
Infine, nella terza sezione, gli abbracci, i baci e la sensualità, con presenze maschili anche nelle fotografie.
Stampe di grandi dimensioni e pannelli con i testi poetici animano il bellissimo sotterraneo del Palazzetto dei Nobili, quasi un labirinto di ambienti misteriosi nei quali l’allestimento guida per mano i visitatori in un viaggio nell’animo della Donna.
Un viaggio che prende maggior valore per essere esposto nel mese di Novembre, ormai dedicato in particolare alla sensibilizzazione contro la violenza sulle donne.
La mostra si propone animata, ogni settimana, da eventi diversi: reading poetici e intermezzi musicali dal vivo più un importante incontro con Salute Donna ODV che si occupa di prevenzione e lotta ai tumori.
· Programma
Opening: sabato 9 novembre ore 17.00
Presentazione con la curatrice Penelope Filacchione presidente dell’Associazione Artsharing Roma – ETS; reading poetico di Carmela de Felice, performance musicale live Dora Ruggiero e Simona Rossi (violino) Clara Gizzi (arpa)
venerdì 15 novembre ore 17:00 Incontro con Salute Donna ODV Associazione per la prevenzione e lotta ai tumori, con la partecipazione dell’Ass. Ersilia Lancia e con visita guidata alla mostra.
venerdì 22 novembre ore 18:00: Serata conclusiva: la poetessa, giornalista, editrice Alessandra Prospero e lo scrittore e regista Federico Del Monaco leggono “Colpa di Alfredo?” di/con Carmela de Felice, performance musicale live Dora Ruggiero e Simona Rossi (violino) Clara Gizzi (arpa), con visita guidata alla mostra.
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