Descrizione-Gerusalemme: città emblematica, incontro-scontro di culture e religioni diverse, di differenti stili di vita, di idee contraddittorie e difficilmente componibili, posta tra Oriente e Occidente, tra sacro e profano, antico e postmoderno, terra di conflitti fra i tre monoteismi che ne rivendicano, con ragioni diverse, la loro appartenenza.
Come sviluppare un pensiero, una filosofia su questo luogo geografico antichissimo, posto al margine di un deserto, sperduto su di un altipiano dei monti della Giudea, stretto tra il Mediterraneo e il mar Morto? Vale dunque la pena rileggerne i molti aspetti con gli occhi rivolti a questa città enigmatica e struggente, che pare ospitare, in alcuni drammatici momenti, le tensioni del mondo intero, da lei chiamato a misurarsi e a confrontarsi con le sfide del nostro tragico presente. È quanto si intende formulare nei contributi di questo volume che gettano su Gerusalemme uno sguardo aperto e disincantato, ma non per questo meno carico di suggestioni filosofiche e di prospettive utopiche.
Orthotes è una casa editrice indipendente, plurale e democratica.
Orthotes si occupa prevalentemente di saggistica filosofica, considerando il “filosofico” nella sua accezione più semplice e caratteristica, e cioè come uso del sapere a vantaggio degli esseri umani, donne e uomini.
Tre cene, la Pàvana social club del nuovo libro di Francesco Guccini
Francesco Guccini torna in libreria con Tre cene, un libro inaspettato, una raccolta di tre racconti che attraversano il Novecento in tre momenti esemplari: una cena degli anni Trenta, una negli anni Settanta del secolo appena passato e una ambientata ai giorni nostri, che in realtà è un pranzo ma che alla prima si richiama nel finale, dando al libro una circolarità perfetta che lo rende unico.
La cena mette in scena la povertà degli anni d’anteguerra, Il ritorno è animato dalle speranze dopo il Sessantotto e L’eclissi parla delle disillusioni dei nostri anni: cambiano i valori e i punti di vista, gli stili di vita e le abitudini ma non il desiderio e la celebrazione della festa.
Tre compagnie di amici si avvicendano, nei luoghi dell’Appennino intorno a Pàvana, con le loro aspirazioni, i loro scherzi, le loro perfidie, le loro sbronze ma rimane unica la “Pàvana Social Club“, dove il vino anziché il rum, con la sua irrisoria e consolatoria allegria, diventa il motore narrativo. E bagna quei mitici piatti della tradizione che ancora oggi sono i protagonisti di quelle feste dell’Appennino: fra tutti, la porchetta, i maccheroni sul Papero e i crostini con i fegatini di pollo.
Ancora una volta Guccini ci racconta con ironia com’è cambiata l’Italia, dove le differenze sociali via via si riducono e le donne diventano più protagoniste, ma sempre mettendo in risalto quei bizzarri eroi della sua epica del disincanto.
Guccini racconta tre storie ma è come se raccontasse tre favole, dove però la morale alla fine di ciascuno è sospesa. Quello che più conta sono i personaggi che via via Guccini presenta, dedicando a ciascuno un ritratto ironico, a tratti crudele ma mai impietoso. Sono alla fine dei personaggi indimenticabili, così come lo erano quelli delle sue canzoni: lo scrittore è capace di creare con pochi tratti di penna identità, situazioni e atmosfere profondamente reali, in cui perdersi o ritrovarsi.
Siamo così trasportati nel mondo in cui Francesco si trova più a suo agio, quello di una sua famosa canzone, Farewell: “Tra gli amici che ridono e suonano attorno ai tavoli pieni di vino”. Non sono racconti autobiografici, ma luoghi e personaggi ricordano situazioni realmente accadute, rielaborate poi dalla sua fervida fantasia: personaggi messi in scena come sul proscenio di un teatro, illuminati da fascio potente di luce, con dialoghi molto espressivi e battute salaci che a volte sono veri e propri colpi di frusta, altre lasciano intendere piccanti sottintesi.
Con il suo libro d’esordio narrativo degli anni Ottanta (Croniche epafaniche) e col suo ultimo (Tralummescuro) edito da Giunti, Tre cene disegna una sorta di trilogia di Pàvana, il paese dell’Appennino fra Toscana ed Emilia che Guccini al pari di altri grandi esempi letterari (dalla “Macondo” di Garcia Marquez alla “Malo” di Meneghello) ha reso un immortale specchio del cambiamento esistenziale.
Tuttavia in Tre cene Guccini ha scelto di usare un italiano colorato solo a tratti da qualche inflessione dialettale: non ritroviamo perciò le espressioni in pavanese degli altri due, né quel velo di tristezza per un mondo che si è perso per sempre che anima quei due libri. In questi tre racconti quel mondo che non c’è più si popola invece di personaggi bizzarri e divertenti, in una sorta di commedia umana che non cessa di divertirci ma anche di farci riflettere, specie nei tre finali dei racconti nei quali una sospensione quasi metafisica dà l’impressione al lettore che tutto quanto è stato narrato lo riguardi da vicino e lo riguarderà per sempre, al di là di ogni epoca e situazione contingente.
«Non aspettatevi grandi avvenimenti dalle cose che andrò raccontando, fulminanti colpi di scena come agnizioni improvvise o finali drammatici o misteri iniziali che poi, a poco a poco, logicamente sgretolati dalle deduzioni di un abile investigatore, si dipanano e si mostrano in tutta la loro enigmatica chiarezza»: così ci avverte Francesco Guccini, in apertura del primo dei tre racconti che compongono questo libro. «È semplicemente la storia di una cena, e di alcuni amici; una storia di quelle quasi come le favole che ci raccontavano da piccoli, già sentita tante volte ma che amavamo ci raccontassero ancora e ancora, per il solo piacere di stare lì ad ascoltare…» E così, accompagnati dalla sua voce, seguiamo gli amici protagonisti in una notte d’inverno, mentre la neve cade, fino alla prima delle locande dove trascorreranno una notte di buon cibo e molto vino, di risate e un po’ d’amore; una di quelle notti in cui l’amicizia e la sazietà aiutano a non ascoltare i presagi della vita che corre. Questa prima cena ha luogo prima dell’ultima guerra nell’Appennino tra Bologna e Pistoia, la successiva ci racconta lo stesso mondo quarant’anni dopo, l’ultima – che non è invero una cena, bensì un pranzo di mezza estate che si protrae fino a un grande falò notturno – si svolge nel giorno di un’eclissi di sole. Dai poveri anni Trenta alla disillusa fine del Novecento, passando dalle speranze dei Settanta, nelle tre compagnie di amici che si avvicendano, nei loro scherzi, nelle loro sbronze, nei cibi che scelgono di mangiare ritroviamo il sapore del nostro passato e rileggiamo noi stessi con divertimento e malinconia. Francesco Guccini inanella tre storie che diventano una sola e dà vita a nuovi, memorabili, bizzarri eroi della sua epica del tempo perduto.
CASTELNUOVO DI FARFA – Palazzo Eredi Salustri Galli
Franco Leggeri Fotoreportage -Castelnuovo di Farfa -Il Palazzo (Edificio del XVI secolo) ora appertine alla famiglia Salustri Galli da quando verso la metà del 1800 Angelo Galli lo acquisto. Il palazzo era proprietà della famiglia dei Marchesi Simonetti che per diversi secoli amministrò le terre di proprietà dell’abbazia benedettina di Farfa, comprese tra il torrente Farfa, il Fabaris di Ovidio, e il piccolo Riana.L’edificio si compone di nuclei edilizi diversi, edificati probabilmente a partire dal XVI secolo, ma l’intervento più consistente è databile alla metà del ‘700. In quegli anni, inoltre, furono decorati gli ambienti interni con affreschi di grande pregio artistico. Tra le numerose decorazioni compaiono, oltre a vedute dei palazzi di famiglia, anche eleganti ritratti di aristocratici, carrozze paludate, popolani e passanti ritratti con vivace naturalezza; nelle sopra porte, sicuramente sono da ammirare si trovano i così detti “capricci”, una combinazione di elementi architettonici o naturali non presenti nella realtà, composta in modo del tutto immaginario. Bellissimi sono anche i giardini all’italiana all’interno della proprietà.
Plinio il Vecchio -Amore per la natura, la terra, le tradizioni agricole .
Il nome di Plinio è indissolubilmente legato all’immane tragedia dell’eruzione del Vesuvio del 79 d. C., ed egli è diventato il simbolo dello studioso che sacrificò la propria vita alla scienza (“protomartire della scienza sperimentale” lo ha definito Italo Calvino), e dell’uomo generoso che accorse in aiuto degli sventurati còlti di sorpresa dal tremendo cataclisma. È necessario tuttavia notare che il suo interesse fu sempre rivolto all’osservazione e alla descrizione dei più minuti e svariati aspetti del mondo vegetale, minerale, umano, più che alla speculazione pura, o alla ricerca delle cause dei fenomeni naturali.
Con l’ascesa al potere di Vespasiano e il mutamento di clima politico seguìto alla morte di Nerone e al periodo di anarchia militare degli anni 68/69 d.C., Plinio (chiamato in seguito il Vecchio per distinguerlo dal nipote Plinio il Giovane), che aveva rifiutato ogni incarico sotto gli imperatori Claudio e Nerone preferendo dedicarsi agli studi, vide riaprirsi la strada della carriera politica. La sua fedeltà alla dinastia Flavia non era dovuta né a opportunismo personale, né a piaggeria di cortigiano,ma a condivisione ideale dei suoi valori. Accettò dunque di essere più volte procuratore in varie province dell’Impero,incarico che gli permise ampi sopralluoghi di carattere naturalistico, etnografico, geografico, in terre straniere. Fu poi nominato capo della flotta ancorata a capo Miseno, e qui trovò la morte durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d. C. mentre si recava a portare soccorso alle popolazioni colpite da quel tragico evento naturale (della morte di Plinio durante l’eruzione del Vesuvio si è parlato in Umbrialeft del 27/2/2015)
Nulla è rimasto di altre sue opere, ma la“NaturalisHistoria”, dedicata a Tito, figlio di Vespasiano e pubblicata nel 77, gli ha riservato nei secoli grande fama. L’importanza di questa poderosa opera enciclopedica, preziosa per quasi tutte le discipline scientifiche, è incalcolabile. Le notizie in essa riportate sono trentaquattromila (frutto della consultazione di duemila volumi di cinquecento autori), e spaziano dalla geografia alla cosmologia, dall’antropologia alla etnografia, dalla zoologia alla biologia e alla medicina, dalla metallurgia alla mineralogia, con ampi excursus anche di storia dell’arte.
Dovunque lo portarono i diversi incarichi della sua carriera, Plinio osservò con un genuino interesse naturalistico-scientifico l’infinita varietà dei fenomeni della natura, la fauna, la flora, gli usi e i costumi degli uomini. Annotava le osservazioni dal vivo, e gli appunti delle sue quotidiane letture che poi costituirono il materiale per la composizione della “NaturalisHistoria”, sintesi enciclopedica dell’universo naturale, ma scritta in funzione dell’uomo.
Al mondo vegetale Plinio dedica un’attenzione particolare: sorprendente è il suo spirito di osservazione rivolto alle più comuni piante spontanee. Troviamo dappertutto tracce di esperienze vissute, echi di cose viste e non soltanto lette: i luoghi dell’infanzia nella campagna lombarda, i paesaggi lacustri, i canneti, i salici presso le acque del lago Lario, la fertile e lussureggiante terra nei dintorni di Pompei dove egli soggiornò negli ultimi anni della sua vita, ma anche le fitte foreste di alberi di alto fusto che “aggiungono ombra al cielo” nei territori germanici dove si era recato come Ufficiale di cavalleria, i desolati paesaggi che si affacciano sul mare del Nord le cui terre flagellate continuamente dalle onde dell’oceano sono prive di alberi e di ogni vegetazione. Con semplicità e simpatia è svolta la trattazione delle più umili piante degli orti: la lattuga, il cavolo, il basilico, la rughetta, la ruta, la menta, la malva, l’origano, accompagnate sempre da brevi note sui rimedi contro le malattie o gli insetti che le infestano.
In giorni come i nostri, nei quali si fa un gran parlare di cibi transgenici, giova forse ricordare il sarcasmo di questo autore che non finisce mai di stupirci con le sue “anticipazioni”, contro i prodotti creati artificialmente, come ad esempio gli asparagi: la natura aveva creato gli asparagi di bosco, in modo che chiunque potesse raccoglierli dove spuntavano, ma “ecco che compaiono gli asparagi coltivati, e Ravenna ne produce di tali che raggiungono il peso di una libbra. Che prodigi operano i buongustai!” Parlando poi della differenza di sapore tra i frutti o gli ortaggi selvatici e quelli coltivati, egli nota che i primi hanno sempre un sapore più intenso e gradevole.
Se i profumi dell’Arabia e dell’India e la loro importazione e diffusione gli suggeriscono considerazioni moralistiche contro il lusso, anche il desiderio di prodotti alimentari sempre più raffinati, riservati ai ricchi, suscitano la sua riprovazione: “la forza del denaro può tutto, e anche l’alimentazione si differenzia a seconda degli strati sociali: un pane raffinato, elaborato, prodotto con le migliori farine riservato ai ricchi e un altro più rozzo per la plebe”. Senza dubbio tale atteggiamento non è dettato da istanze di democrazia, ma da un’etica conservatrice diffidente nei confronti dell’evoluzione economica, della trasformazione dei metodi produttivi, dell’allargamento dei mercati, dell’importazione di prodotti stranieri che cambiano i costumi e le abitudini tradizionali. Tale posizione ideologica induce l’Autore a considerare l’eccesso di raffinatezza causa di decadenza, e le nuove inquietanti forme di lusso e di ricercatezza pericolose per gli equilibri sociali.
Trattando delle essenze odorose estratte dalle piante non potevano mancare le frecciate contro il lusso, tanto più deplorevole in quanto costringe a sborsare fino a quattrocento denari per poter disporre di modeste quantità di profumo, un lusso dunque “fra tutti il più vano; infatti le perle e le gemme almeno passano agli eredi, le vesti durano nel tempo: i profumi invece si dissolvono istantaneamente e muoiono appena nati. Il loro massimo pregio è che quando passa una donna, la sua scia attira anche chi è affaccendato in tutt’altre cose”.
Sempre in materia di divagazioni vegetali, l’uso di trattare gli alberi in modo da rimanere nani (come accade oggi, con una moda importata dal Giappone) induce il “naturalista” Plinio a scrivere con disgusto: “l’uomo ha inventato persino l’aborto degli alberi!” Non disdegna però, da uomo pratico e realista quale egli è, tutte le invenzioni della tecnica che hanno reso la vita dell’uomo, e soprattutto dell’agricoltore, notevolmente più agevole e produttiva: vere e proprie conquiste dell’ingegno umano sono dunque giustamente considerati l’aratro, la zappa, i rastrelli, le chiavi, le serrature.
In materia di agricoltura Plinio si mostra particolarmente esauriente: egli infatti scrive in modo che anche i contadini possano capire, e a tal fine lascia una numerosa serie di notizie a volte più accurate di quelle che scrittori dedicatisi esclusivamente ad argomenti agricoli, come Columella, avevano registrato.
Plinio giunge fino a informarci sull’uso e le qualità dei concimi animali. È perciò frequente imbattersi in consigli che restano validi ancora oggi e di uso comune nelle nostre campagne, ovviamente dove si coltiva ancora in modo non industriale: concimare il terreno irrorandolo con acqua dove sono stati messi a macerare i lupini, usare spruzzature di zolfo e calce sulle chiome e i fusti degli alberi per evitare malattie parassitarie, spargere il terreno di cenere per arricchirlo di sostanze minerali, rincalzare le radici di una pianta perché l’ardore del sole non le bruci, zappettarla all’intorno per rendere più friabili le zolle ed eliminare le erbacce, e tanti altri gesti millenari, nati dall’amore dell’uomo per la terra e dal suo bisogno di renderla più fertile.
Naturalmente anche non manca neanche un vero repertorio di notizie curiose sui primati in altezza o in larghezza, in peso o leggerezza, di alcuni esemplari di piante e di vegetali, oltre a una serie di consigli alimentari che anticipano i più moderni principi dietetici: ad esempio, poiché in una società opulenta i corpi sono appesantiti, Plinio propone fra i molti rimedi l’uso di vegetali e di carni bianche.
Alle proprietà medicamentose delle piante, delle erbe e degli ortaggi, è riservata una apposita trattazione. Singolare, ma completamente attendibile, è quanto Plinio dice dell’umile ma salutare lattuga e delle sue proprietà medicamentose: ha effetti rinfrescanti, elimina il senso di fastidio allo stomaco, stimola l’appetito, placa gli impulsi sessuali, concilia il sonno. A riprova delle prodigiose qualità di questo ortaggio, è riportato il fatto abbastanza noto che Augusto, il primo imperatore romano, grazie ai consigli di Musa, suo medico personale, riuscì a guarire dai suoi disturbi gastrici, proprio con l’uso della lattuga.
Nelle pagine dedicate alla coltivazione dei campi e degli orti, e ai consigli per i trattamenti delle piante tipicamente italiane, più che altrove si sente l’anima contadina di Plinio, il quale, anche mentre i suoi incarichi di funzionario del Palazzo lo tenevano chiuso nella sede degli archivi imperiali, non perdeva la mentalità e la sensibilità di chi ama la terra e le tradizioni agricole, come era stato per Virgilio. In tal modo mentre egli enumera le specie vegetali, abbandona spesso l’arida veste del compilatore o dell’agronomo, e il suo gusto per l’erudizione o il collezionismo di dati, per ascoltare l’anima della terra, il suo respiro quando viene liberata dalle erbacce, la sua felicità quando è vangata o arata per accogliere nuove sementi, e vede con stupore sempre nuovo il ripetersi miracoloso dei cicli produttivi, i colori dei suoi prodotti, lo spuntare di nuove gemme sui rami degli alberi dopo la potatura. Così egli sente gli alberi come creature viventi, che soffrono quando sono attaccate da parassiti, flagellate dalla grandine, o abbattute dal fulmine, ma ancor più quando è l’incuria degli uomini a procurare loro danni irreparabili.
Plinio aveva sempre vissuto con ammirevole “spirito di servizio”, distinguendosi in operosità, sete di sapere, interesse per ogni forma di conoscenza. Si era imposto di dedicare ogni momento disponibile del giorno e molte ore della notte allo studio diceva infatti che vivere è vegliare (“vita, vigilia est”).
Morì all’età di 56 anni, ma poté orgogliosamente consegnare ai posteri la sua miniera di notizie, documento d’inestimabile valore, ma anche testimonianza d’una eccezionale dedizione alla propria vocazione conoscitiva e insieme umanitaria, testimoniata da un quasi volontario incontro con la morte, mentre tutti, durante l’eruzione del Vesuvio, cercavano disperatamente di fuggirla.
NAWAL AL SAADAWI LA PRIMA VERA FEMMINISTA DEL MONDO ARABO
-Vanilla Magazine Club-
NAWAL AL SAADAWI è stat definita la Simone de Beauvoir del mondo arabo Nawal lottò per tutta la vita per i diritti delle donne, si definiva socialista femminista e non comunista perché Marx non le piaceva, ma non la politica quanto tutte le religioni interpretate dagli uomini hanno sempre relegato la donna a una posizione subordinata arrivando fino alla barbarie.
Nawal al Saadawi era nata il 27 ottobre 1931 a Kafr Tahla, un villaggio a nord del Cairo. La famiglia era benestante nonostante i 9 figli, il padre era un funzionario governativo piuttosto progressista, grande oppositore di Re Farouk e dell’occupazione inglese, la madre Zaynab una donna forte che avrebbe voluto studiare musica ma non le fu concesso e venne ritirata dalla scuola per farla sposare. Entrambi i genitori erano affettuosi e fautori della libertà individuale eppure a soli 6 anni Nawal subì la mutilazione genitale.
Nawal scrisse che stesa nel bagno di casa con 4 donne che le tenevano braccia e gambe aperte, “mi avevano tagliato qualcosa fra le cosce”, un trauma che restò sempre il primo pensiero della sua battaglia.
La barbara tradizione della mutilazione è pre islamica e in alcuni paesi musulmani, come l’Iran per esempio, non è mai stata praticata mentre è invece diffusissima in Africa anche fra i cristiani copti e il 98% delle donne somale e più del 90% delle donne egiziane l’hanno subita spesso nella forma peggiore, la mutilazione “faraonica” (che noi chiamiamo infibulazione) che prevede il taglio del clitoride, delle piccole e grandi labbra e la cucitura della vulva che viene riaperta dallo sposo dopo il matrimonio. Molte mummie egiziane la presentano, dimostrazione della diffusione da tempi antichissimi prima dell’arrivo dell’Islam. Nonostante sia ora vietata in alcune nazioni, la tradizione ancora resiste
Nawal era religiosa ma ribelle e scriveva ad Allah ponendogli domande, ad esempio perché la nascita di un maschietto venisse festeggiata da tutto il villaggio mentre quella di una femmina passasse nel silenzio più assoluto o perché le neonate venissero spesso sotterrate nei tempi passati come raccontavano gli anziani, o perché venissero mutilate.
“il mio dubbio riguardava ebraismo, cristianesimo e islam, fin da quando ero alle scuole elementari con le mie amiche leggevamo i tre libri sacri, l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento e il Corano. Sebbene fossimo giovanissime, quei libri non ci convincevano, sentivamo che lì le donne venivano disprezzate”.
A soli 10 anni Nawal si oppose al matrimonio combinato volendo continuare gli studi e nel villaggio era guardata con astio per il suo rifiuto della tradizione, solo la madre la sosteneva e, non potendolo esprimere apertamente, le parole di incoraggiamento gliele diceva in un orecchio.
Nawal voleva fermamente diventare medico e scrittrice e alla fine il padre cedette e Shatra, ovvero intelligente, come veniva chiamata in famiglia, fu iscritta alla scuola media al Cairo, poi alle superiori in collegio a Helwan e infine all’Università di Giza dove si laureò in medicina nel 1955 con il massimo dei voti e specializzandosi poi in psichiatria.
Già alle superiori Nawal aveva cominciato a organizzare spettacoli con il suo Teatro delle Libertà, a scrivere e a partecipare, unica donna in mezzo agli uomini, a manifestazioni politiche.
Dopo la laurea iniziò ad esercitare nel villaggio natale affrontando i risvolti psicologici delle violenze fisiche sulle donne e delle mutilazioni, parlando di aborto e di sessualità femminile ma presto venne richiamata al Cairo e assunta all’Università.
Nei suoi libri racconta che spesso le venivano portate ragazze subito dopo la prima notte di matrimonio se non avevano perso sangue e lei mentiva confermandone la verginità per salvarne la stessa vita.
Nel 1955 sposò il suo primo marito, il medico Ahmed Helmi dal quale ebbe una figlia e in seguito un altro medico, Rashad Bey, ma entrambi i matrimoni finirono col divorzio perché i mariti volevano imporle di smettere di scrivere e esercitare sostenendo che le sue idee danneggiavano la loro carriera.
Nel 1958 Nawal venne assunta al Ministero della Sanità Pubblica diventando nel 1966 direttore del reparto di Educazione Sanitaria ma le sue idee e i suoi scritti creavano imbarazzo, nel 1969 pubblicò il libro “Donne e sesso” dove denunciava la mutilazione femminile, il rapporto fra onore e verginità, la discriminazione della donna. Il libro venne censurato e le costò il posto di lavoro al Ministero nel 1972.
Nawal non mollò, continuò a scrivere, nel 1964 aveva sposato il suo terzo marito Sherif Hetata, un medico conosciuto al ministero che era stato imprigionato per le sue idee politiche e che appoggiava la lotta per la libertà femminile. Da lui ebbe un figlio.
Il suo giornale medico “Salute” da lei fondato nel 1968 venne chiuso e a causa dei suoi scritti Nawal perse anche il posto di segretario dell’Associazione Medica, dal 1973 al 1976 fu ricercatrice alla facoltà di Medicina dall’Università Ayn Shams del Cairo affrontando il problema delle nevrosi femminili.
Nel 1975 pubblicò “Firdaus, storia di una donna egiziana” una prostituta condannata a morte per aver ucciso un violento che la schiavizzava, e nel 1977 “La faccia nascosta di Eva” dove raccontava, fra l’altro, i dettagli della sua mutilazione.
Dal 1979 al 1980 fu consulente dell’ONU per il programma delle donne in Africa e Medio Oriente
A causa delle sue prese di posizione contro Sadat nel 1981 Nawal venne arrestata e rimase in carcere due mesi fino all’uccisione del presidente in ottobre. Privata di carta e penna, in cella scrisse su un rotolo di carta igienica con la matita Kajal “Memorie dalla prigione femminile” e poco dopo la liberazione, nel 1982, fondò l’Associazione di Solidarietà delle Donne Arabe che fu dichiarata fuori legge e chiusa dal governo nel 1991. Nawal rientrò in carcere per pochi mesi e nel 1992 fu inserita nella Lista nera dei fondamentalisti islamici con la condanna a morte che la costrinsero a scappare e rifugiarsi prima in Olanda e poi negli Stati Uniti dove il marito tradusse in inglese i suoi libri dandole fama mondiale mentre lei ottenne una cattedra alla Duke University di Durham (Carolina del nord) e fu invitata a conferenze nelle più prestigiose università americane.
La coppia rientrò in Egitto nel 1996 ma le cose non erano cambiate. Nawal venne più volte accusata di apostasia e eresia, nel 2002 andò a processo e vinse la causa contro un avvocato islamico che voleva imporle in divorzio in quanto aveva abbandonato l’Islam, nel 2007 venne di nuovo denunciata per apostasia insieme a sua figlia Mona dall’Università Al Azhar per il suo libro “Dio si dimette dall’incontro al vertice”e vinse anche questa volta ma il suo libro venne accolto malissimo in Egitto e si tentò di levarle la nazionalità.
Nawal fu co-fondatrice dell’Associazione Araba per i Diritti Umani e ricevette innumerevoli i premi in occidente per la sua opera ma era delusa dall’atteggiamento indifferente delle giovani donne che non consideravano quanto fossero costati alle sua generazione le conquiste delle quali ora le giovani possono godere. Inoltre, polemicamente, sosteneva che se il velo islamico era segno di oppressione, lo sfruttamento del corpo femminile in occidente lo era altrettanto e criticava il trucco eccessivo, l’abbigliamento troppo ridotto delle donne, la chirurgia estetica, tutto a beneficio degli uomini quindi le due facce della stessa moneta ovvero donne come oggetti sessuali, facendo infuriare le femministe occidentali che li considerano invece libertà.
Dal 2008 l’Egitto la mutilazione genitale femminile è diventata reato punibile col carcere o una pena pecuniaria, anche se la piccola postilla “salvo necessità medica” permette ancora di trovare una scappatoia. Per quanto nelle città sia decisamente scesa nelle campagne continua ad essere presente e nel 2014 il 92% delle donne fra i 15 e i 49 anni l’aveva subita. Sempre nello stesso anno l’età minima per il matrimonio è stata portata a 18 anni e le donne single possono riconoscere i figli col proprio cognome.
La strada della parità è ancora lunga ma per Nawal è stato un grande successo anche se molti suoi libri sono tuttora spesso banditi in Egitto e nei paesi islamici.
Nel 2010 divorziò dal marito e gli ultimi anni li visse in un piccolo appartamento al Cairo con problemi economici avendo difficoltà ad incassare i diritti dei suoi circa 50 libri tradotti in quasi tutto il mondo.
A 80 anni nel 2011 era in piazza Tahrir a manifestare con le femministe e nel 2020 la rivista Time la inserì nelle 100 donne più importanti del ‘900.
Nawal morì il 21 marzo 2021 in ospedale al Cairo dopo una breve malattia.
“Il pericolo ha fatto parte della mia vita fin da quando ho impugnato una penna e ho scritto. Niente è più pericoloso della verità in un mondo che mente.”
San Lorenzo Siro, Vescovo di Sabina e fondatore dell’Abbazia di Farfa.
Come mai San Lorenzo Siro, dalla lontana Siria venne a finire in Sabina? La Siria e la Palestina nel sec. V erano infestate dagli eretici ariani, i quali perseguitavano , in ogni modo, i fedeli cristiani. Allora molti lasciarono i loro paesi e vennero in Italia , specialmente a Roma per venerare le tombe degli Apostoli Pietro e Paolo e quelle dei Martiri cristiani.
Tra costoro vi era anche San Lorenzo, con la sorella Susanna ed i fidi compagni Isacco e Giovanni. San Lorenzo , dopo una breve visita a Roma, prese ad evangelizzare l’Umbria e la Sabina.
San Lorenzo Siroè il fondatore dell’Abbazia di Farfa,in provincia di Rieti. Giunse in Italia dalla Siria nel V secolo, durante le persecuzioni degli eretici ariani in Oriente. Arrivato in Italia insieme alla sorella Susanna ed alcuni monaci si stabilì sul monte Luco sopra Spoleto inaugurandovi la vita eremitica e diffondendo tutto intorno le parole del Vangelo. Successivamente si trasferì in Sabina per evangelizzare anche questa terra confermando ovunque la sua predicazione con frequenti miracoli; fu detto il Santo Illuminatore per le guarigioni dalle malattie degli occhi e il Liberatore per la liberazione dai dragoni che infestavano quelle zone. Dopo aver evangelizzato l’Umbria e la Sabina divenne vescovo, infatti è quasi certa l’identificazione di Lorenzo Siro con il vescovo di Forum Novum (l’odierna Vescovio). Desideroso ormai di quiete pose lo sguardo sulle amene colline della vallata del Farfa, sul monte Acuziano, alle cui falde il deserto tempio di Vacuna e l’abbandonata villa romana andavano in rovina. Vacuna era una dea del popolo degli antichi Sabini, il suo culto molti secoli fa fu sostituito con quello della Madonna. A Farfa San Lorenzo Siro fermò il piede, riprese con i suoi compagni la vita eremitica e gettò le basi dell’Abbazia. Morì in odore di santità proprio a Farfa dove è sepolto, lasciando un ricordo destinato a durare nei secoli. La sua fama e quella del monastero da lui fondato si propagò nelle regioni vicine e molti vennero a Farfa per consacrarsi a Dio-[ Testo di Andrea Del Vescovo ]
San Lorenzo Siro Illuminatore di Farfa Abate
Il più antico documento che parla di san Lorenzo Siro è un Privilegio concesso da papa Giovanni VII nel 705 al ricostruttore del monastero di Farfa, Tommaso.All’inizio della Bolla, il papa afferma che il venerabile monastero di S.Maria fu fondato da “Laurentius quondam episcopus venerandae memoriae de peregrinis veniens in feudo, qui dicitur Acutianus, territorii Sabinensis” (Bull. romanum, ed. Taurin, I, p.213). Evidentemente all’inizio del sec.VIII, stando al testo, non erano molte le notizie che si avevano su questo vescovo monaco: proveniva dall’Oriente, ma non è precisata l’epoca e non è determinata la regione de peregrinis. Cronache posteriori, come il Libellus constructionis Farfensis di un anonimo del sec. XI (in Fonti per la Storia d’Italia, a cura di U.Balzani, XXXIII, pp.1 sgg.) ed il Chronicon farfense di Gregorio da Catino, del sec. XI (ibid., XXXIX, pp.1 sgg.), aggiungono altri particolari. L. forse originario della Siria abbandonò la propria patria con la sorella Susanna ed i discepoli Giovanni ed Isacco; venne a Roma e poi in Sabina ove fu nominato vescovo. In seguito, deposta la carica, fondò un monastero in un luogo dedicato precedentemente alla dea Vacuna; ciò si sarebbe verificato nel sec. V o VI. Analoghi particolari si trovano in s. Pier Damiani (PL, CXLV, coll. 425, 445). Come si può constatare, queste ultime notizie sono identiche a quelle riferite per s. Lorenzo, vescovo di Spoleto, per cui secondo il Lanzoni, è lecito argomentare che la leggenda dei Dodici Fratelli siri del sec. VIII (BHL, I, p.246, n.1620; Suppl., p.226, n. 5791m), fra cui è annoverato un Lorenzo, ha influenzato la storia dell’omonimo fondatore di Farfa. Di due personaggi se ne sarebbe fatto uno solo mettendo assieme le notizie riguardanti il vescovo di Spoleto e l’abate di Farfa. La scarsezza delle notizie può aver determinato i cronisti medievali a questa identificazione e confusione. Stando al Lanzoni si devono pertanto distinguere due Lorenzo: uno vescovo di Spoleto, l’altro abate di Farfa, vissuti in epoche molto diverse. Di un culto assai antico si ha menzione nel Martirologio di Farfa (cf. I. Schuster, in Revue Bénédictine, XXVII [1910], p. 86, nota 3): culto che ebbe un Ufficio proprio fino al 1636. Benedetto XIV lo estese alle diocesi della Sabina (cf. De servorum Dei beatificatione, IV, p. II, cap. VI, n. 2). La sua festa si celebra l’8 luglio.
Descrizione del libro edito da Orthotes Editrice-Trattare della legge naturale significa prendere in esame un concetto che ha una lunga storia: esso trova le proprie radici nel pensiero greco, conosce un importante sviluppo nella speculazione medievale ed è oggetto della riflessione sia moderna sia contemporanea. Il presente studio si concentra su uno dei momenti cardine di questa lunga storia: la proposta di Tommaso d’Aquino.
Nel fare ciò, esso intende valorizzare due imprescindibili acquisizioni tommasiane. Anzitutto, il nesso fra la legge naturale e la natura – cioè la struttura propria – dell’essere umano, mostrando come ciò non comporti la restituzione di un’immagine deterministica dell’uomo a scapito della sua costitutiva libertà, bensì consenta di chiedersi che cosa tuteli e promuova l’autentico dispiegarsi dell’attività libera umana. In secondo luogo, lo studio dà il dovuto rilievo al legame fra la legge naturale e il bene senza limiti che l’uomo, per propria costituzione, desidera: in quest’ottica, la dottrina della legge naturale si configura come ciò che custodisce l’essere umano nella sua identità di animale “fatto per l’infinito”.
Una legge nel conflitto, una legge per il conflitto- “La legge naturale, nella sua lunga storia, è stata sempre vista come un fattore di unità, al di là del variare delle forme storiche del vivere e del concepire l’umano: una simile funzione non le è stata attribuita dall’esterno, bensí germoglia dalla radicalità della sua stessa pretesa, che è quella di dare voce alla costituzione dell’essere umano nei suoi strutturali orientamenti, quale che sia il particolare orizzonte culturale, sapienziale o religioso che questi inabita. La composizione di universale e particolare, pertanto, è stata una sfida che mai ha abbandonato i teorici della legge naturale e che oggi li interpella in maniera ancora piú acuta: se in epoche precedenti, infatti, il riconoscersi in un’eticità era fenomeno ordinario e il rendere conto di situazioni eccentriche esulava dall’esperienza quotidiana, ai nostri giorni si registra l’esatto opposto, soprattutto per quelle che MacIntyre definisce le “società dell’avanzata Modernità occidentale”. Pertanto, un discorso intorno alla legge naturale che non intenda presentarsi nei termini di un «residuo ideologico, utile in un passato non piú ripetibile alla detenzione del potere sulle coscienze e alla volontà di controllo del costume» deve oltremodo fare i conti con la pluralità dei punti di vista morali, non di rado fra di essi in conflitto. Si tratta di un compito cui MacIntyre non si sottrae: in parte già lo si è osservato nel precedente capitolo, laddove si è visto come la legge naturale e – di riflesso – alcuni impegni agatologici, lungi dall’essere incompatibili con il differire delle posizioni, costituiscano l’anima di questo stesso differire, se il differire è un differire veramente razionale.”
Damiano Simoncelli (1991) è attualmente Cultore della materia presso la cattedra di Filosofia morale del Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali dell’Università “Ca’ Foscari” di Venezia, docente invitato di materie filosofiche presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale/Sezione del Seminario Arcivescovile di Genova e borsista del Centro Universitario Cattolico. I suoi interessi di ricerca vertono intorno all’etica e all’antropologia di Tommaso d’Aquino. Con l’editrice Orthotes ha pubblicato Natura, ragione e relazione. Una prospettiva sulla legge naturale a partire da Alasdair MacIntyre (2020).
Orthotes Editrice -Nocera Inferiore
Orthotes è distribuita sul territorio nazionale Messaggerie Libri ed è promossa da NW Consulenza e Marketing editoriale. Lettori, Librerie e Biblioteche possono fare riferimento alle relative schede qui in basso. In caso di difficoltà o di ordini urgenti è possibile scrivere una email a:ordini@orthotes.com.
Antonia POZZI- Nelle immagini l’anima- Antologia fotografica-
a cura di Onorina Dino e Ludovica Pellegatta. Edizione Ancora-
Descrizione-“Caro Dino, l’altro giorno hai detto che nelle fotografie si vede la mia anima: e allora eccotele”. Con queste parole, il 5 maggio 1938 Antonia Pozzi offre a Dino Formaggio una raccolta di circa 300 fotografie, quale suo lascito spirituale all’amico fraterno, pochi mesi prima del suicidio. A ottant’anni dalla sua scomparsa, “Nelle immagini l’anima” racconta come, attraverso la fotografia, la poetessa esprimesse un intenso amore per la vita e un profondo desiderio di radicamento esistenziale. Dei suoi “exploits” fotografici, come lei stessa amava definirli, oggi rimangono oltre quattromila immagini e dodici album, un’autobiografia visiva che rivela come la fotografia diventerà per la Pozzi uno specchio dell’anima. Le immagini qui pubblicate riportano commenti scritti di sua mano o brani scelti dalle sue poesie.
Biografia di ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)- tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il -ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzied Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita. Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Fiona Sampson -The Nature of Gothic / La Natura del Gotico
Traduzione di Baret Magarian. Intermediazione letteraria di Emilia Mirazchiyska
Fiona Sampson è una poetessa inglese, le cui poesie sono state tradotte in trentotto lingue. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti in USA, India ed Europa. Ha pubblicato ventisette libri di poesia e ricevuto un MBE per la Letteratura. È inoltre una critica giornalistica, librettista e traduttrice, ed è stata editor della rivista Poetry Review dal 2005 al 2012. La sua biografia su Mary Shelley La ragazza che scrisse Frankenstein: Vita di Mary Shelley è stato selezionato per il Biographers’ Club Slightly Foxed Prize.
La natura del gotico
Che cosa vuole
questa fredda pietra
reggere questo ponte
nell’aria che
cosa chiede
a noi che veniamo
interrogando
che muoviamo intorno
ai suoi piedi le nostre voci
leccando lo spazio
i nostri desideri fanno
agitare le correnti
in tutta l’aria
che ci chiede di vedere
qualcosa
di stupendo il tetto
del mondo
forse aspetta che
un po’ di gravità
apra in noi
la riflessione
o la risposta ma
la pietra si sposta
senza fine
in se stessa
svanisce
e riappare
come ore che scivolano
via dalla mente
poi riappaiono
avendole noi perse mentre
eravamo persi tra i pilastri del bosco
(Traduzione di Baret Magarian. Intermediazione letteraria di Emilia Mirazchiyska)
The Nature of Gothic
What does it want
this cool stone
span this bridge
on air what
does it ask
of us who come
questioning
who move round
its feet our voices
licking at space
our desires make
currents stir
all up the air
that asks us to see
something
wonderful the roof
of the world
perhaps expects
some gravity
to open in us
reflection
or answer but
stone shifts
endlessly
into itself
it disappears
and reappears
like hours that slip
out of mind
then reappear
having been lost
to us while we
were lost among
the forest’s pillars
FONTE-Residenze Poetiche
Baret Magarianha iniziato la sua carriera come giornalista freelance, scrivendo recensioni e articoli per The Times, The Guardian, The Independent, The Observer e The New Statesman. Ha pubblicato il romanzo Le macchinazioni (Ensemble, 2020) e la raccolta di racconti Melting Point (Quarup, 2017). Ha anche pubblicato una raccolta bilingue di poesie, Scherzando con le tutte mie bestie preferite (Ensembe, 2018).
Commento di Yogesh Patel
Sul lato opposto del fiume nel luogo in cui vivo, alcune pietre antiche sono delimitate da una targa in cui è dichiarato che quelle pietre sono i resti di una proprietà vecchia di centinaia di anni. Le pietre sono grigie e se le trovassimo in qualsiasi sentiero non significherebbero nulla. Tale è il tempo perduto nascosto al loro interno. Fiona Sampson vive a Coleshill, un piccolo villaggio nella valle di White Horse nello Oxfordshire. Lì le case sono tutte risalenti al periodo tra il 1850 e il 1860, in stile Gotico. Così che ogni pietra lì intorno deve custodire in sé storie non dette, come quelle ore sognanti e senza tempo in cui ci porta questa poesia. La poeta suggerisce che le pietre gotiche hanno delle storie da offrirci: “la pietra si sposta / senza fine / in se stessa / svanisce / e riappare”. Come molte altre poesie della Sampson, anche questa si muove rapidamente sul piano dell’effimero, dove le ore “riappaiono / avendole noi perse”. La mancanza di interpunzione è intenzionale. La poeta si muove a proprio agio tra piani di realtà differenti, sentendo tutto come reale, e forse con confini labili proprio come l’interpunzione! La pietra non è solo una pietra. C’è qui un accenno di dibattito sociale. Naturalmente, il titolo riprende il capitolo La natura del Gotico del libro Pietre di Venezia di Ruskin, in cui l’autore discute di come dovrebbe essere ordinata la società. Ma la poesia non si basa sulla filosofia ruskiniana, e prova a emergere dalle tracce degli insediamenti neolitici perduti o dalle costruzioni di epoca romana che si trovano nel luogo in cui vive Fiona Sampson. La storia ci parla da questi versi: “Che cosa vuole / questa fredda pietra”. Il ponte simboleggia l’unione tra i due lati delle ore sognanti di cui si parla nel testo. Questo è lo stupore del Gotico! Noi siamo l’universo e siamo l’ossatura della storia: siamo atomi appartenenti ad entrambe le dimensioni. Tuttavia, abbiamo perso il riflesso o l’immagine di questo. Quando affrontiamo le cose semplici della natura, come le pietre, dobbiamo imparare ad aprirci a questo tipo di realtà così da comprendere meglio la nostra natura. Questa è la sfida lanciata da questa poesia.
Breve biografia di Marina Cvetaeva nacque a Mosca il 26 settembre (9 ottobre) 1892, figlia di Ivan Vladimirovič Cvetaev (1847-1913, filologo e storico dell’arte, creatore e direttore del Museo Rumjancev, oggi Museo Puškin) e della sua seconda moglie, Marija Mejn, pianista di talento, polacca per parte di madre. Nel 1910 pubblicò Večernij al’bom (Album serale): poesie scritte dai quindici ai diciassette anni.
Il volumetto attirò l’attenzione di poeti come Brjusov, Gumilëv, Vološin. Nella dacia di quest’ultimo, a Koktebel’, in Crimea, Marina incontrò per la prima volta (1911) Sergej Jakovlevič Efron, di origini ebraiche. L’anno successivo Marina lo sposò; di lì a poco comparve la sua seconda raccolta Volšebnyj fonar’ (Lanterna magica) e nel 1913 Iz dvuch knig (Da due libri). Intanto, il 5 settembre 1912, era nata la prima figlia, Ariadna (Alja). Agli inizi del 1916, dopo un viaggio a Pietroburgo si rafforzò l’amicizia con Osip Mandel’štam e si ruppe bruscamente il rapporto amoroso che per circa due anni l’aveva legata alla poetessa Sofija Parnok. Dopo l’ottobre 1917 il marito raggiunse l’esercito dei Bianchi, e la Cvetaeva restò bloccata a Mosca dalla guerra civile. Fra terribili privazioni e lutti (nel febbraio 1920 morì di denutrizione Irina, la figlia nata nel 1917), continuò a scrivere e a mantenere rapporti con il mondo letterario e artistico. Dal 1918 al 1919, nel periodo della sua amicizia con gli attori del II studio del Teatro d’Arte di Mosca, lavorò alle pièces del ciclo “romantico” Metel’ (La tormenta), Feniks (La fenice), Priključenie (Un’avventura), Fortuna, Červonnyj valet (Il fante di cuori), Kamennyj angel (L’angelo di pietra). Nel 1920 scrisse il poema-fiaba Car’devica (Lo Zar-fanciulla) e Lebedinyj stan (L’accampamento dei cigni), un ciclo lirico sull’Armata Bianca. Nel luglio 1921 ebbe per la prima volta la notizia che il marito era vivo e aveva trovato asilo in Boemia. Nel maggio dell’anno successivo lasciò con la figlia l’URSS per Berlino (qui ebbe inizio il lungo e intenso legame epistolare con Boris Pasternak); nell’agosto 1922 la famiglia Efron si stabilì in Boemia, dove visse fino al 1925, tra difficoltà finanziarie, separazioni e continui trasferimenti. Intanto la fama della Cvetaeva si era andata consolidando: nel 1922 erano state pubblicate a Mosca la raccolta Verste (1) e la pièce Konec Kazanovy (La fine di Casanova); a Berlino Stichi k Bloku (Poesie per Blok) e Razluka (Separazione); nel 1923, sempre a Berlino, avevano visto la luce le raccolte Remeslo (Mestiere) e Psicheja (Psiche). Nel 1924, anno in cui nacquero gli splendidi Poema della montagna e il Poema della fine, aveva pubblicato Ariadna (Arianna), prima parte di una progettata trilogia di tragedie in versi, e il poema Mólodec (Il prode). Con queste e altre opere (fra l’altro il poema Krysolov, L’accalappiatopi, 1925 e la tragedia Fedra, 1928) la Cvetaeva era divenuta un’assidua collaboratrice delle riviste dell’emigrazione russa, tra Berlino, Praga, Parigi. In quest’ultima città si trasferì nel novembre 1925 con Alja e Georgij, il bambino nato nel febbraio di quell’anno, e lì la raggiunse il marito. Il carattere intransigente e altero della Cvetaeva, aliena dal viscerale antisovietismo della maggioranza degli immigrati, creò gradatamente intorno a lei una pesante atmosfera di ostilità. L’ultima sua raccolta di versi, Posle Rossii (Dopo la Russia) vide la luce a Parigi nel 1928. Negli anni Trenta la Cvetaeva pubblicò quasi esclusivamente prose: saggi critici e critico-memorialistici, racconti “autobiografici” condotti sul doppio filo dell’invenzione e della memoria. All’inizio del 1937 Ariadna, fervente sostenitrice delle idee del padre, nel frattempo entrato in un’associazione che favoriva il ritorno in patria degli esuli russi, partì per l’Unione Sovietica. Nel settembre dello stesso anno Sergej Efron fu coinvolto in un clamoroso caso politico-spionistico: l’assassino di un ufficiale della polizia politica segreta sovietica che all’estero aveva disertato. Poco più tardi Efron scomparve dalla Francia. Sottoposta a un ormai violento ostracismo da parte della colonia russa, sconvolta dalle prime imprese europee del nazismo, sollecitata dalle insistenze del figlio, anche la Cvetaeva lasciò la Francia nel giugno 1939. A Mosca la attendevano nuove e terribili prove (Alja venne arrestata nel novembre ’39: dopo lager e confino, poté tornare a Mosca solo nel ’55; Efron, arrestato quasi contemporaneamente alla figlia, venne fucilato nell’agosto ’41), nuove privazioni, acuite dalle difficoltà del periodo prebellico. Aiutata da pochissimi amici fedeli, sopravvisse grazie a sporadici lavori di traduzione. Seguendo l’ondata dell’evacuazione, il 21 agosto del 1941 la Cvetaeva raggiunse con il figlio Elabuga, capitale della Repubblica autonoma socialista tatara, dove dieci giorni più tardi si sarebbe suicidata.
Eccetto l’amore
Non amavo, ma piangevo. No, non amavo, tuttavia
solo a te ho indicato nell’ombra il volto adorato.
Tutto nel nostro sogno non assomigliava all’amore:
né ragioni, né indizi.
Solo noi ha salutato questa immagine dalla sala serale,
solo noi – tu ed io – le abbiamo portato un verso lamentoso.
Il filo dell’adorazione ci ha legati più forte
dell’innamoramento – degli altri.
Ma l’impeto è passato e dolcemente qualcuno si è avvicinato
che non poteva pregare, ma amava. Non affrettarti a condannare!
Ti ricorderò come la più tenera nota
nel risveglio dell’anima.
Tu vagavi in questo animo triste come in una casa non chiusa.
( nella nostra casa, in primavera…)non definirmi quella che ha dimenticato!
Io ho riempito di te tutti i minuti tranne
il più triste – quello dell’amore .
Non penso, non mi lamento, non discuto
Non penso, non mi lamento, non discuto.
Non dormo.
Non aspiro
né al sole né alla luna né al mare
né alla nave.
Non mi accorgo di quanto fa caldo tra queste pareti,
di quanto verde c’è nel giardino.
Da tempo il dono desiderato ed atteso
non aspetto.
Non mi rallegra né il mattino né la corsa
sonora del tram.
Vivo, senza vedere il giorno, dimenticando
la data e il secolo.
Sulla fune, che sembra intagliata,
io – sono un piccolo danzatore.
Io – ombra dell’ombra di qualcuno. Io – sonnambulo
di due oscure lune.
Ai miei versi scritti così presto
мом стихам написанным так рано//
Ai miei versi scritti cosi presto
Ai miei versi scritti così presto,
che nemmeno sapevo d’esser poeta,
scaturiti come zampilli di fontana,
come scintille dai razzi.
Irrompenti come piccoli demoni
nel sacrario dove stanno sogno e incenso,
ai miei versi di giovinezza e di morte,
versi che nessuno ha mai letto!
Sparsi fra la polvere dei magazzini
dove nessuno mai li prese né li prenderà,
per i miei versi, come per i pregiati vini,
verrà pure il loro turno.
Alla povera mia fragilità
Alla povera mia fragilità
tu guardi senza dire una parola.
Tu sei di marmo, ma io canto,
tu – statua, ma io – volo.
So bene che una dolce primavera
agli occhi dell’Eterno – è un niente.
Ma sono un uccello, non te la prendere
se è leggera la legge che mi governa.
Il tuo nome -è una rondine nella mano
Il tuo nome è una rondine nella mano, il tuo nome è un ghiacciolo sulla lingua. Un solo unico movimento delle labbra. Il tuo nome sono cinque lettere. Una pallina afferrata al volo, un sonaglio d’argento nella bocca.
Un sasso gettato in un quieto stagno singhiozza come il tuo nome suona. Nel leggero schiocco degli zoccoli notturni il tuo nome rumoroso rimbomba. E ce lo nomina lo scatto sonoro del grilletto contro la tempia.
Il tuo nome − ah, non si può! − il tuo nome è un bacio sugli occhi, sul tenero freddo delle palpebre immobili. Il tuo nome è un bacio dato alla neve. Un sorso di fonte, gelato, turchino. Con il tuo nome il sonno è profondo.
Il tuo nome – rondine nella mano
Il tuo nome è una rondine nella mano,
il tuo nome è un ghiacciolo sulla lingua.
Un solo unico movimento delle labbra.
Il tuo nome sono cinque lettere.
Una pallina afferrata al volo,
un sonaglio d’argento nella bocca.
Un sasso gettato in un quieto stagno,
singhiozza come il tuo nome suona.
Nel leggero suono degli zoccoli notturni
il tuo nome rumoroso rimbomba.
E ce lo nomina lo scatto sonoro
del grilletto contro la tempia.
Il tuo nome – ah, non si può! –
Il tuo nome è un bacio sugli occhi,
sul tenero freddo delle palpebre immobili.
Il tuo nome è un bacio dato alla neve.
Un sorso di fonte, gelato, turchino.
Con il tuo nome il sonno è profondo.
Traduzione Pietro Antonio Zveteremich
Da lontano – il poeta prende la parola.
Le parole lo portano – lontano.
Per pianeti, sogni, segni… Per le traverse vie
dell’allusione. Tra il sì e il no il poeta,
anche spiccando il volo da un balcone
trova un appiglio. Giacché il suo
è passo di cometa. E negli sparsi anelli
della casualità è il suo nesso. Disperate –
voi che guardate il cielo! L’eclisse del poeta
non c’è sui calendari. Il poeta è quello
che imbroglia in tavola le carte,
che inganna i conti e ruba il peso.
Quello che interroga dal banco,
che sbaraglia Kant,
che sta nella bara di Bastiglie
come un albero nella sua bellezza…
È quello che non lascia tracce,
il treno a cui non uno arriva
in tempo…
Giacché il suo
è passo di cometa: brucia e non scalda,
cuoce e non matura – furto! scasso! –
tortuoso sentiero chiomato
ignoto a tutti i calendari…
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