La Chiesa valdese di Roma presenta la Mostra di arti grafiche e visive
“ARTE PER I DIRITTI UMANI”
Roma (NEV), 3 dicembre 2024 – La Chiesa valdese di Roma piazza Cavour presenta la Mostra di arti grafiche e visive “ARTE PER I DIRITTI UMANI”. In memoria di coloro i cui diritti umani siano stati lesi”. L’iniziativa gode del patrocinio di Amnesty International e IDHAE (Istituto per i Diritti dell’Uomo. Avvocati Europei). Il vernissage si terrà domenica 8 dicembre a partire dalle 16. Per l’occasione è stata anche organizzata una conferenza di Emanuela Claudia del Re, rappresentante speciale europea per il Sahel (ISPI).
Si legge nel comunicato stampa di lancio dell’iniziativa:“Sono migliaia le donne e gli uomini rinchiusi in carceri malsane, che regolarmente vengono torturati, stuprati, privati di cure mediche, privati della visita dei congiunti e della possibilità di avere un avvocato difensore. Sono tantissime le persone di ogni ceto sociale prese e detenute senza motivo, o comunque
illegalmente, per governare con il terrore in nome del danaro e del potere. E se è giusto, come è giusto, che le grandi stragi e le sofferenze del passato siano ricordate, e qui vogliamo in particolare riferirci alla persecuzione degli Ebrei nell’ultima guerra, allora sarà altrettanto giusto far uscire dall’ombra i nomi, i volti e le storie delle persone perseguitate oggi, a volte solo per avere espresso una opinione. Nemmeno i bambini e i giovani si salvano da questo Museo dell’Orrore.
La Chiesa Valdese di Piazza Cavour in Roma, da sempre attiva nel campo della difesa dei diritti umani, non potendo più rimanere indifferente alle atrocità che Governi non illuminati stanno perpetrando in moltissimi paesi del mondo, ha deciso di reagire, in modo pacifico, organizzando una Mostra dedicata ai diritti umani. Questa mostra vuole dare un sia pur minuscolo contributo per far uscire dall’ombra della morte e dal gelo del carcere le persone ingiustamente detenute, altri esseri umani in questo momento avvolti dal terrore di essere dimenticati da quel mondo per il quale si sono sacrificati. C’è un pensiero di Benenson, fondatore di Amnesty International, che ben si attaglia a questa mostra: Meglio accendere una candela che rimanere al buio”.
Appuntamento in via Marianna Dionigi, 59 (Piazza Cavour – Roma)
Bruna Bertolo e Ornella Testori- L’ufficiale in bicicletta-
Editore NEOS- Torino
Il caso di Lucia Boetto Testori rievocato in un libro , L’ufficiale in bicicletta ,dalla figlia Ornella-Particolarmente coinvolgente è quando una figlia racconta la vita dei suoi genitori: in questo libro* è quella di una mamma straordinaria, Lucia Boetto Testori, che fu giovanissima protagonista della Resistenza antifascista nel Cuneese, non solo trasportando sulla sua bicicletta esplosivi, ma come “ufficiale-ispettore”, tenendo i collegamenti tra i partigiani e i dirigenti del Cln di Torino, e compiendo anche imprese rischiosissime con gli Alleati inglesi, paracadutati in aiuto degli “Autonomi” di Enrico Martini “Mauri”, per cui fu insignita di una medaglia di bronzo al Valor militare.
Ornella Testori – che nella sua professione si è occupata di biologia e medicina, in particolare quella nucleare, conducendo studi sulla tiroide – rievoca con precisione e anche humour le spericolate azioni di Lucia ragazza, non solo come le ha ascoltate dalla sua viva voce, ma approfondendole con una precisa documentazione, mentre un affresco che inquadra più propriamente gli avvenimenti è presentato nella prima parte del libro, in un’attenta e ampia ricerca della storica Bruna Bertolo e le prefazioni di Luciano Boccalatte e di Nino Boeti.
Fu Frida Malan che mi fece conoscere Lucia, che io vedevo sempre con lei, Bianca Guidetti Serra e Gisella Giambone nelle manifestazioni partigiane, in particolare quando erano invitate a qualche dibattito dai movimenti delle donne, e loro quattro rappresentavano concretamente l’ampio schieramento politico e ideologico della Resistenza: Frida, i “GL” nell’ala socialista, Bianca, quella azionista poi vicina al Pci, Gisella quella garibaldina derivante dal padre Eusebio, ucciso al Martinetto, e Lucia quella liberale degli “Autonomi”. A quel filone di pensiero si riferivano sia Lucia sia il marito Renato Testori – annota la figlia Ornella – e moltissimi antifascisti cuneesi che poi divennero partigiani nelle file degli Autonomi e di “Giustizia e Libertà”: «crociani ed einaudiani, un poco gobettiani», e giustamente polemizza con quella vulgata riduttiva della narrazione «Antifascismo-e Resistenza-solo comunista». Una vulgata, appunto, perché le ricostruzioni storiche fanno giustizia di questa «appropriazione indebita» – come la chiama Ornella – presentando invece un variegato quadro “plurale”.
Con questo intento io intervistai Lucia, nel mio libro dedicato alla vita vissuta di “testimoni della Resistenza”, in particolare delle valli valdesi, che mi onoro di aver conosciuto personalmente, costituendo un grande lascito per tutti (“… Eppur bisogna andar…”, Claudiana, 2006). Serbo il ricordo di una signora elegante, che conservava una serena bellezza, non scalfita dalle dure vicende patite, ma rievocate con misurata passione (l’eccidio di Boves, gli ebrei in fuga dalla Francia chiusi nei vagoni piombati come antefatti dolorosi e choccanti della sua “presa di coscienza”, la disfatta della IV Armata che si rovesciava nel Cuneese), e che raccontava straordinarie vicende, la più straordinaria di tutte quella della “bandiera del Corpo dei Volontari della Libertà” (che infatti dà il titolo all’intervista) che lei portò arrotolata intorno al corpo a Torino, perché doveva sfilare al corteo della Liberazione il 6 maggio 1945. Lucia non poté partecipare al corteo, pare perché il marito Renato Testori non la svegliò in tempo: la bandiera sfilò portata dal partigiano siciliano Vincenzo Modica, “Petralia”, che aveva l’altro braccio al collo, ferito.
Da questa significativa vicenda di “non esserci”, dopo tanto operare e rischiare, inizia simbolicamente quell’occultamento del ruolo delle donne nella Resistenza dal dopoguerra in poi, e l’allontanamento dalla vita politica per farne solo mogli e madri: ci è voluto il ruolo delle storiche femministe degli anni ’70-’80 per riscoprirle. E l’intervista si chiudeva con un amaro ricordo: tanti anni dopo, in una manifestazione del 25 Aprile, Lucia desiderava toccare la bandiera che aveva portato a rischio della vita, ma, decorata di medaglia al valore, la bandiera era scortata con tutti gli onori, e Lucia non poté avvicinarsi. Questo epilogo segna simbolicamente il percorso di tante donne oscure, dimenticate, che invece hanno combattuto “senza armi” come Lucia, per costruire il nostro presente: Senza il lavoro delle donne – ho sentito riconoscere da tanti partigiani – la Resistenza non avrebbe potuto sopravvivere.
* Bruna Bertolo e Ornella Testori, L’ufficiale in bicicletta. Torino, Neos, 2023, pp. 127, euro 17,00.
Articolo di Piera Egidi Bouchard-
Fonte Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
A Neuchâtel in Svizzera- Prix Farel per il film a tema religioso, i vincitori –
Il Prix Farel, il Festival Internazionale del film di tema religioso, si è concluso con la cerimonia di premiazione al Cinéma Rex di Neuchâtel, in Svizzera.
La giuria, presieduta dalla produttrice Florence Adam, era composta da Jean-Philippe Ceppi (giornalista RTS), Damien Fabre (conduttore del canale YouTube Religare), Manéli Farahmand (direttore del Centro intercantonale delle religioni), Amira Souilem (giornalista e giornalista, RFI) ha scelto tra i trenta film documentari selezionati.
Al termine di tre giorni di proiezioni e diverse ore di discussioni, assegna i seguenti premi:
Premio Bonhôte «“Hitler non voleva sterminare gli ebrei”»: Netanyahu dice la verità? di Yann Bouvier alias YannToutCourt.
Premio documentario corto: «Donovan – El Limpiador» di Louise Monlaü, Ladybirds Films.
Premio documentario lungo: «Hawar, i nostri figli esiliati» di Pascale Bourgaux, Louise Productions Losanna.
Caratterizzata da una nuova direzione, un team più ampio, una nuova sede – il cinema Rex a Neuchâtel – questa edizione ha voluto mettere in risalto e promuovere formati di informazione online specifici per i social network. Chi li produce? Chi li consuma? Come distinguere quelli affidabili? I partecipanti al festival hanno mostrato un vivo interesse per queste domande. I film e i video esplicativi selezionati per il Premio, seguiti dal feedback degli spettatori dopo le proiezioni, così come le tavole rotonde di sabato 16 novembre, hanno arricchito le discussioni su temi scottanti di attualità e temi storici. Nei tre giorni del festival più di 2.000 persone in totale hanno seguito le trenta proiezioni e le due tavole rotonde. Un successo che incoraggia gli organizzatori del Premio a portare avanti questo evento, la cui prossima edizione è prevista per l’autunno 2026.
Creato nel 1964, il Premio Farel riunisce ogni due anni a Neuchâtel gli specialisti francofoni delle trasmissioni religiose. A partire dagli anni 2000, la sua programmazione si è aperta sempre più al grande pubblico e a tutte le forme di spiritualità. Nel 2022, i vincoli finanziari dei suoi partner costringono il Premio Farel a ripensarsi. Il suo comitato nomina, alla fine del 2023, la giornalista Camille Andres come direttrice con l’obiettivo di ringiovanire il suo pubblico. In dodici mesi di lavoro, l’equipe propone una 29esima edizione fedele alla propria identità aperta e in sintonia con le problematiche contemporanee. A 60 anni dalla sua fondazione, lo spirito “Farel” si modernizza mantenendo però il suo pedigree: etica, spiritualità, religione, temi trattati con umanesimo e sensibilità.
-Poetessa-Deportata ad Auschwitz sopravvissuta alla Shoah :”Testimonierò finché avrò fiato “
Roma- Intervista ad Edith Bruck, scrittrice, poetessa e sopravvissuta alla Shoah. Deportata ad Auschwitz quando aveva solo 13 anni ha dedicato decine di opere a raccontare la sua storia-Il 29 ottobre, presso il Centro bibliografico dell’ebraismo italiano “Tullia Zevi” a Roma, si è svolto l’evento di avvio della seconda edizione del progetto didattico «Tra Resistenza e Resa. Per sopravvivere Liberi! 80 voglia di libertà!», promosso dalla Commissione storica dell’Ucebi e dalla Fondazione Cdec. A quell’evento è intervenuta la scrittrice, poetessa, testimone della Shoah, Edith Bruck a cui abbiamo rivolto alcune domande.
– Nella sua scrittura convivono due lingue: quella dell’infanzia, l’ungherese, e quella dell’età adulta, l’italiano. Per raccontare la sua vita, ha scelto l’italiano. Che cosa l’ha spinta a fare questa scelta?
«Voglio dire subito che non ho mai scelto nulla nella vita, non avevo la possibilità di scegliere. Sono arrivata in Italia nel 1954, dopo tantissimi pellegrinaggi, passando per i campi di concentramento, e vagabondando per l’Europa distrutta. Sono arrivata per puro caso a Napoli e lì ho avuto una sensazione molto strana. La gente mi guardava, mi sorrideva, e mi sembrava che mi stessero dicendo: “Rimani qui!”. È stata una sensazione che non posso spiegare bene, ma sentivo che in quel paese avrei potuto vivere. Così sono rimasta. Mi sono trasferita a Roma, ho fatto vari lavori, e ho preso lezioni di grammatica italiana. Lentamente ho imparato la lingua. Devo precisare che prima di scrivere il mio primo libro in italiano, avevo scritto in ungherese nel 1946 Chi ti ama così. Quando sono uscita dall’Ungheria, l’ho fatto clandestinamente. Dopo la guerra, al ritorno dai campi, ho trovato un paese che viveva sotto il comunismo, che non era certo migliore del fascismo. Così ho lasciato l’Ungheria e ho dovuto abbandonare le poche cose che avevo scritto in ungherese, tra cui anche quel mio primo scritto. Dopo essere arrivata in Italia, ho pubblicato il mio primo libro in italiano nel 1959, un’autobiografia. Scrivere è stato un atto necessario per me: scoppiavo di parole, avevo bisogno di liberarmi da quell’inferno che rischiava di rimanere dentro di me per sempre».
– Quale significato attribuisce alla lingua italiana?
«Innanzitutto, per me essa rappresenta una salvezza, una barriera protettiva. Nella lingua materna sono stata offesa, umiliata, insultata. Nel ’42, non potevamo nemmeno uscire per strada senza rischiare di essere aggrediti o insultati. Nel 1944, non furono i tedeschi ma i fascisti ungheresi, le croci frecciate, a bussare alla nostra porta e a deportarci. Avevo solo 13 anni quando un ragazzino in divisa da gendarme, che non arrivava ai 20 anni, schiaffeggiò mio padre, che non aveva nemmeno 50 anni. In quel momento capii che qualcosa era finito per sempre. Sono stata prima ad Auschwitz, poi ci trasferirono a Bergen-Belsen, attraverso le famose marce della morte. Partimmo in mille, ma arrivammo vive in meno di 50. Ci portarono in un campo degli uomini, una “tenda della morte”, dove il pavimento era coperto di cadaveri. Lì alcuni uomini morenti mi dissero: “Se sopravvivi, racconta. Non ci crederanno, racconta anche per noi”. Promisi che l’avrei fatto. La mia sopravvivenza è stata anche una testimonianza per quelli che non hanno potuto raccontare. Per me testimoniare è un dovere morale, e continuerò a farlo finché avrò fiato».
– In Ungheria, le leggi razziali precedettero quelle italiane di due anni. Come vede la situazione attuale in Ungheria e in Europa?
«È triste constatare che l’antisemitismo è ancora presente, anche in Ungheria, dove il governo di Orbán alimenta una politica di chiusura. In tutta Europa, vediamo risorgere i partiti di destra e i movimenti che rievocano ideologie pericolose. La situazione mi preoccupa molto, ma continuerò a testimoniare la mia esperienza, a raccontare, perché credo che ogni vita sia preziosa e che nessuno debba mai dimenticare quello che è accaduto».
– Lei è anche traduttrice, grazie al suo lavoro molti italiani hanno conosciuto i poeti ungheresi Miklós Radnóti e Attila József…
«Tradurre è un lavoro difficile, perché bisogna entrare nello spirito della poesia. Miklós Radnóti è stato una grande fonte di ispirazione per me. Quando ho tradotto la sua poesia, ho sentito che, pur nel dolore e nella morte, c’era una ricerca di speranza. Tradurre queste voci è stato un modo per farle vivere ancora, per farle arrivare anche agli italiani».
– Quali sono le sue prossime pubblicazioni?
«È uscito da pochi giorni libro Oltre il male, scritto con Andrea Riccardi, edito da Laterza. Poi, nel 2025, pubblicherò una nuova raccolta di poesie dal titolo Le dissonanze. Si tratta di una raccolta suddivisa in due parti. La prima è sempre legata alla memoria di mia madre, di mio padre, e di mio fratello, che non ha mai scritto e ha parlato della tragica esperienza dei campi di concentramento solo una volta. Dopo la guerra, gli chiesi perché non riuscisse a raccontare. Alla fine, con molta difficoltà e una voce flebile, trovò il coraggio di dire che una volta, al suo ritorno da una giornata di lavoro forzato, vide che il giaciglio di mio padre era vuoto. Chiese al medico: “Dov’è mio padre?”, ed egli rispose che quel giorno erano morti tanti prigionieri, e che poteva andare fuori a cercarlo. Mio fratello ritrovò mio padre tra i cadaveri: l’aveva abbracciato, gli aveva chiuso gli occhi e aveva cercato uno straccio per coprirlo, perché era nudo. Poi lo lasciò lì, tra centinaia di corpi. Mio fratello raccontò questa storia una sola volta, e non abbiamo saputo mai nulla della sua esperienza nei campi: né cosa pensava né come sopportava le sofferenze di quei giorni. Aggiunse solo: “Non chiedetemi mai più niente”.
Nella seconda parte della raccolta, invece, parlo delle molestie sessuali che ho subito in passato, senza fare riferimenti espliciti ai nomi, ma evocando personaggi noti tra cui uno scrittore, un regista, un giornalista, uomini molto noti in Italia, che si sono comportati in modo indegno. Continuerò a testimoniare per tutta la vita che mi resta, dando voce a chi ha vissuto ciò che ho vissuto io: non solo mio fratello ma i tanti milioni di persone uccise dalla furia nazifascista. Credo che ogni vita sia preziosa e che sia importante raccontare, affinché non si dimentichi».
Articolo e intervista di Deborah D’Auria-
Fonte –Riforma .it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Descrizione del libro di Lorenzo Tibaldo-Nato in una famiglia di minatori di tradizioni repubblicane e antifascista convinto, Jacopo Lombardini (Gragnana, 1892-Mauthausen, 1945) ha dedicato la sua vita alla causa della libertà, rappresentando la parte migliore della storia dell’Italia, quella democratica e repubblicana che si esprime nella Costituzione. Alimentate dalla fede evangelica, cui Lombardini si converte nel 1924, le sue idee –– che trovano la loro radice in Mazzini, Garibaldi e nell’epopea risorgimentale – si riaffermano in seguito nella lotta partigiana contro il nazifascismo. Una coerenza di scelte di vita che lo porta alla morte nel campo di sterminio di Mauthausen, dove viene gasato il 24 aprile 1945, alla vigilia della Liberazione.
Il libro in pillole
La cultura come madre della responsabilità e del senso del dovere
L’anelito verso la libertà e la giustizia
Il rapporto tra coscienza religiosa e libertà politica
Biografia dell’autore
Lorenzo Tibaldo
studioso di storia dell’Ottocento e Novecento, in particolare delle organizzazioni del movimento dei lavoratori e della Resistenza. Per Claudiana ha pubblicato Quando suonò la campana. Willy Jervis (1901-1944), (Torino, 2005); Sotto un cielo stellato. Vita e morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti (Torino, 2008).Lorenzo Tibaldo ci propone questo suo secondo libro su un martire evangelico della Resistenza1 in un momento particolar- mente difficile della vita nazionale: da una parte il Paese attra- versa una fase di crisi economica, politica, morale (e spirituale), dall’altra parte molti italiani sono ben disposti a celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia anche se qualcuno contesta il Risorgi- mento, e soprattutto quel secondo Risorgimento che è stata la Resistenza.
Prefazione di Giorgio Bouchard
Orbene, la bella e tragica vicenda di Jacopo Lombardini ci presenta un prezioso filo conduttore tra i due Risorgimenti; e questo filo è la fede evangelica: una fede scoperta a trent’anni e poi collaudata in mezzo alle più orride vicende del «secolo della menzogna», il Novecento.
1 Il primo è stato Lorenzo Tibaldo, Quando suonò la campana. Willy Jervis (1901-1944), Torino, Claudiana, 2005. È invece dedicato a due «martiri laici» il volume L. Tibaldo, Sotto un cielo stellato. Vita e morte di Nicola Sacro e Bartolomeo Vanzetti, Torino, Claudiana, 2008.
Ma andiamo con ordine: Lombardini, per così dire, «nasce mazziniano»: figlio di poverissimi cavatori delle Apuane, non milita nelle file degli anarchici così numerosi (e perseguitati) a Carrara e dintorni, ma appunto nelle file dei repubblicani. Il motivo di questa scelta sta in un fatto molto semplice: suo padre è stato garibaldino, e costituisce per lui una sorta di “cordone ombelicale” con la stagione del Risorgimento: fin da ragazzo, Jacopo si trova così perfettamente a suo agio con le idee di Giu- seppe Mazzini, con la sua passione democratica e con il suo af- flato morale, anzi, spirituale: giustamente, Tibaldo, sulla scorta di studi recenti, mette in rilievo il versante religioso del messag- gio mazziniano2: un messaggio che spinge alla lotta politica ma non preclude nessuno sviluppo interiore e spirituale.
Così, Jacopo sarà un militante politico per tutta la vita, ma non sarà mai vittima di quelle tentazioni immanentistiche che hanno compromesso e indebolito la causa per cui lottavano tan- ti generosi rivoluzionari del Novecento.
Con la consueta discrezione, Tibaldo ci suggerisce una pista di riflessione che ci permette di capire la personalità poliedri- ca di Lombardini: povero maestro licenziato (e bastonato), ri- dotto a vivere di lezioni private, Jacopo è in realtà soprattutto uno scrittore, alla pari di quel Ceccardo Roccatagliata Ceccardi che gli fu tanto amico: torniamo così a rileggere con emozione quei romanzi che avevamo scoperto settant’anni fa nelle aule del Collegio valdese, ma soprattutto leggiamo per la prima vol- ta i suoi brevi articoli pubblicati su “La Luce” e su “L’Eco delle Valli Valdesi” a cui si affiancano le indimenticabili predicazioni dell’epoca partigiana.
In questi libri, articoli, sermoni – visibilmente scritti e pen- sati da un toscano – affiorano costantemente due temi: la fede e la storia. La fede è arrivata nella vita di Jacopo, molto pro-
2 Vedi in part. M. Viroli, Come se Dio ci fosse. Religione e libertà nella storia d’Italia, Torino, Einaudi, 2009. A parte il titolo francamente infelice (ma quan- do smetteremo di mimare quel grande intellettuale liberal-protestante che fu Ugo Grozio?), si tratta di un saggio pieno di idee che ci stimolano e ci costrin- gono a una risposta.
testanticamente, attraverso la predicazione: un sermone del pastore valdese Seiffredo Colucci casualmente (casualmente?) ascoltato nella chiesa metodista di Carrara3. Di questa chiesa Lombardini sarà membro per quasi vent’anni: «predicatore lo- cale», evangelizzatore instancabile, fratello sereno e disponibile, porterà con sé per tutta la vita la tipica spiritualità del Risveglio metodista: la meditazione, la preghiera, l’apertura indiscrimi- nata verso chiunque sia nel bisogno, l’attenzione costante ai problemi sociali.
La storia, in cui pure Jacopo fu sempre politicamente impe- gnato, gli arrivò invece dalla scoperta delle Valli valdesi. Tibaldo riporta due testi in cui Lombardini esprime il suo amore stu- pefatto per quelle Valli4. Idealizza un po’ quei tenaci montana- ri, ma nella sostanza non sbaglia: di lì effettivamente è passata molta storia della testimonianza evangelica in Italia e ha lasciato tracce indelebili. Quando scrive quelle righe commosse, Jacopo non sa che toccherà proprio a lui scrivere una nuova pagina di quella storia, e la scriverà con i suoi sermoni, con la sua cultura, e infine con il dono della sua vita: un dono sereno e generoso, com’era lui.
Un grosso merito di questo libro è che Tibaldo fa spesso parlare i testimoni oculari: valorosi partigiani che a diciott’an- ni proprio da Jacopo furono spinti alla militanza; compagni di sventura a Mauthausen; semplici conoscenti.
In qualche caso si tratta di documenti scritti dai protagonisti, ma in altri casi si tratta di apposite interviste: a dire il vero, esse sono i testi che leggiamo con maggiore emozione.
3 Seiffredo Colucci ha dialogato con Lombardini nei momenti cruciali della sua vita: la conversione e la Resistenza. Le testimonianze scritte del pastore Co- lucci sono di grande valore per una piena comprensione dell’animus di Jacopo.
4 Questo amore traspare anche in alcuni romanzi di Lombardini: soprat- tutto ne La croce ugonotta (Torre Pellice, 1943). Ma chi è stato suo allievo non dimenticherà mai il “tono” con cui Jacopo accompagnava gli studenti a visitare i «luoghi storici valdesi»: Pradeltorno, Chanforan, la Ghieisa d’la tana, la Gia- navella, Sibaud.
Il libro di Tibaldo ha però anche un altro versante: inqua- dra la vicenda di Lombardini nel contesto del valdismo «anni Trenta», esponendo ampiamente le tesi del Viallet5. Apparten- go al gruppo di responsabili che ha approvato la pubblicazione di questo libro, e non me ne pento. A distanza di 25 anni mi permetto tuttavia qualche nota marginale, che aggiungo alle ri- serve critiche espresse da Tibaldo: è vero, i valdesi (e gli altri evangelici) non sono stati proprio coraggiosi come gli amici di Daniele nella fornace ardente6, ma vivevano in un momento in cui autorevoli osservatori dichiaravano che quella fornace non era poi tanto calda, oppure la trovavano addirittura interessan- te: tali erano per esempio Bernard Shaw, secondo il quale «l’one- sta dittatura fascista è meglio dell’ipocrita democrazia inglese», ed Emmanuel Mounier che tornava entusiasta da un congresso di giovani fascisti tenuto a Roma. A questi sublimi ingegni mi permetto di contrapporre Enrico Tron, pastore di San Germano Chisone e membro della Tavola valdese: Pietro Arca “appunta- to” dei carabinieri, aveva l’incarico di chiacchierare spesso con il pastore per farlo “cantare”. Tron aveva infatti fama di antifasci- sta filoinglese e aveva tenuto ostinatamente chiusa la sua chie- sa il giorno della proclamazione dell’impero fascista (9 maggio 1936). In paese c’era però un’altra chiesa, che aveva accolto il corteo dei labari fascisti… sfavillante di luci. Ma il pastore non “cantò” e invece l’appuntato Arca sposò un’evangelica e divenne poi, con la sua famiglia, membro fedele della chiesa valdese di Ivrea. La storia, come la vita, è infatti piena di imprevisti che non è il caso di trascurare.
Condivido invece una tesi che Viallet riprende da Mastro- giovanni ed è l’aperto antifascismo del giovane teologo Vittorio Subilia: il suo coraggio è stato confermato da recenti pubblica-
5 J.P. VialleT, La chiesa valdese di fronte allo Stato fascista, Torino, Claudiana, 1985.
6 Daniele 3,1-30.
zioni7 e rimane un monito per noi che viviamo in tempi quasi egualmente difficili.
Quest’anno corre il centesimo anniversario della nascita di Subilia: quando ricorderemo la sua (fondamentale) attività di pastore e di teologo, cercheremo di ricordarci anche del suo co- raggio civile.
Ringraziamenti
Si ringraziano Giorgio Bouchard, Sergio Coalova, Donatella Gay Rochat e Giulio Giordano per i suggerimenti dati alla stesura del libro.
Per la documentazione iconografica il nostro ringraziamento va a Sergio Benecchio, Marcella Gay, Anna Pennisi della Biblioteca comu- nale di Carrara, e Letizia Tomassone, pastora della Chiesa evangelica di Carrara.
INDICE
Prefazione di Giorgio Bouchard 7
La pietra della miseria 17
Con Garibaldi e Mazzini 33
L’immensità della fede 51
Una fede concreta 61
Le Valli della libertà 83
La fragilità dell’anima 99
Uno sperone roccioso 115
La collina della morte 137
La memoria dei giusti 155
Bibliografia essenziale 175
Indice dei nomi 179
SCHEDA. Jacopo Lombardini (1892-1945)
Di Agenzia NEV
Jacopo Lombardini nasce il 13 dicembre 1892 a Gragnana, frazione di Carrara, e viene ucciso nel campo di concentramento di Mauthausen il 25 aprile 1945, in una camera a gas, insieme ad altri giovani deportati, partigiani ed ebrei.
Figlio di Francesco Lombardini e Assunta Mussetti, Jacopo cresce in una famiglia poverissima di cavatori di marmo. Finite le elementari, Lombardini vuole continuare gli studi, che poi è costretto a interrompere, riuscendo tuttavia a ottenere la licenza magistrale. Studia inoltre per alcuni anni alla Facoltà di teologia di Roma, che abbandona nel 1924.
Dotato di una memoria prodigiosa, Lombardini è il maestro per antonomasia. La sua passione di educatore lo accompagnerà sempre, insieme alla sua straordinaria preparazione letteraria e storica. Il suo primo volume in rime esce quando Lombardini ha 16 anni, è quindi letterato, poeta, predicatore, scrittore. Scrive Giorgio Bouchard nella prefazione alla biografia “Il viandante della libertà“, curata da Lorenzo Tibaldo per Claudiana: “In questi libri, articoli, sermoni – visibilmente scritti e pensati da un toscano – affiorano costantemente due temi: la fede e la storia”.
La fede, anzi la “conversione” come da lui stesso definita, è arrivata nella vita di Lombardini con un sermone ascoltato nella chiesa metodista di Carrara. Di questa chiesa Lombardini sarà membro per quasi vent’anni. Il sermone è del pastore valdese Seiffredo Colucci, che quel giorno sostituisce il pastore titolare.
Del metodismo, prosegue Bouchard, il Lombardini “predicatore locale, evangelizzatore instancabile, fratello sereno e disponibile, porterà con sé per tutta la vita la tipica spiritualità del Risveglio metodista: la meditazione, la preghiera, l’apertura indiscriminata verso chiunque sia nel bisogno, l’attenzione costante ai problemi sociali. La storia, in cui pure Jacopo fu sempre politicamente impegnato, gli arrivò invece dalla scoperta delle Valli valdesi”.
La sua figura “rimane nel nostro cuore – come in quello di centinaia di partigiani, lavoratori, di studenti – come la parabola di una dialettica coniugazione tra fede evangelica e responsabilità politica, tra pietà e razionalità, tra fragilità dell’uomo e forza delle idee, tra sconfitta personale ed efficacia storica, in una parola: una vita vissuta unicamente per grazia, la vita di un discepolo di Gesù Cristo” scrive, sempre Bouchard, nella prefazione al volume “Un protestante nella resistenza: Jacopo Lombardini” di Salvatore Mastrogiovanni (Claudiana). In questo libro, ormai fuori catalogo, sono raccolte anche le trascrizioni di parti dei “Quaderni” di Lombardini. Tre “diari”, uno probabilmente affidato al defunto professore Samuele Tron, pubblicato dopo la guerra. Il secondo, rimasto sepolto sotto terra per molti mesi, poi restaurato dalla Biblioteca nazionale di Torino. Il terzo trovato addosso a Lombardini il giorno della cattura, usato dai suoi aguzzini per gli interrogatori e poi ritrovato a Pinerolo dai partigiani della divisione Val Chisone dopo la Liberazione. I Quaderni presentano e raccontano la Banda partigiana, gli aforismi, le storie, gli attacchi, le spedizioni, i bombardamenti, i compagni e le compagne di lotta.
9 aprile 1928, Bocca di Magra. Jacopo Lombardini fra i soci dell’Associazione Cristiana dei Giovani (ACDG), il corrispettivo italiano della Young Men’s Christian Association (YMCA). Immagine tratta dal libro “Un protestante nella resistenza: Jacopo Lombardini” di Salvatore Mastrogiovanni (Ed. Claudiana).
Nel 1915 Lombardini si iscrive al Partito repubblicano. Mazziniano convinto (in casa si affianca la croce al ritratto di Mazzini), scoppiata la Prima guerra mondiale, Lombardini inizialmente si dichiara interventista. Pronto ad affrontare anche la morte, viene riformato più volte e poi arruolato in fanteria. A giugno 1918, in virtù delle sue doti intellettuali, viene nominato propagandista e trattenuto al comando, praticamente senza mai entrare in trincea. A seguito della morte improvvisa del padre, rientra a Carrara poco prima della fine della guerra. Gli anni ’20 sono per Lombardini gli anni della conversione, ma anche quelli in cui il fascismo lo estromette dall’insegnamento per via delle sue opinioni politiche. Nel 1940 si trasferisce a Torino, diventa membro della Chiesa valdese e viene assunto come maestro nel Convitto valdese. Nel 1943 aderisce al Partito d’Azione e si unisce poi alla lotta partigiana. Partigiano disarmato, con il nome in codice di “Professore”, la sua lotta di Resistenza si esprime come commissario politico, continuando sia la predicazione evangelica sia la contro-informazione antifascista. Viene catturato nel rastrellamento del 24 marzo 1944 in Val Germanasca, dalle SS tedesche e da fascisti italiani. Lombardini è brutalmente torturato insieme a Giancarlo Levi, Emanuele Artom, Silvio Rivoir, Mariano Palmery e altri. Da Bobbio Pellice viene trasferito al carcere di Torino, poi a Fossoli, a Bolzano e il 5 agosto viene deportato al Campo di concentramento di Mauthausen, dove sopravvive per diversi mesi. Viene ucciso il 25 aprile 1945, proprio nel giorno della Liberazione.
Nel dopoguerra viene conferita la Medaglia d’argento alla memoria di Jacopo Lombardini, “Uomo di cultura e patriota di sicura fede fu, subito dopo l’armistizio, animatore infaticabile della lotta di liberazione in Val Pellice e in Val Germanasca, conosciuto ed amato dai giovani che andava ammaestrando nella fede alla Libertà ed alla Patria. Caduto in mani tedesche nel corso di un duro rastrellamento e crudelmente seviziato, manteneva contegno elevato ed esemplare affrontando sempre con cristiana serenità il duro calvario dei campi di concentramento. Barbaramente suppliziato chiudeva l’esistenza nel servizio dei più nobili ideali.”
Il 21 aprile 2023, su iniziativa di una classe del Liceo valdese di Torre Pellice e in collaborazione con altre realtà e istituzioni, viene scoperta una pietra d’inciampo in sua memoria.
A Lombardini sono state intitolate, fra l’altro, una scuola e il Centro Jacopo Lombardini di Cinisello Balsamo, prima “comune“, poi centro promotore di attività educative, culturali e di integrazione.
Una biografia di Cesare Pavese curata Franco Vaccaneo e l’allegato cd musicale di Mariano Deidda raccontano uno dei maggiori scrittori del 900
«“Ricordati del tuo Creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i cattivi giorni e giungano gli anni nei quali dirai: non ho più alcun piacere, prima che il sole, la luna si oscurino e le nuvole tornino dopo la pioggia”. Tutto ci saremmo aspettati in quel bel pomeriggio d’autunno, salvo che trovare questa citazione dell’Ecclesiaste (12, 3-4) in calce alla bozza di una lettera di Cesare Pavese indirizzata all’editore Carocci», ricordava in un bell’articolo pubblicato nel 2013 su Riforma il pastore valdese Giorgio Bouchard. L’elzeviro letterario prendeva spunto da «un gradevole week-end passato con le chiese di Alessandria e San Marzano», dove Bouchard aveva discusso il libro di Sergio Aquilante Cercando il bene della città – Memorie di un pastore metodista (Claudiana, 2011) e anche meditato durante il culto, sulla singolare figura di Balaam e della sua asina (Numeri, cap. 22). «Mentre stavamo concludendo – si legge –, ci siamo resi conto che San Marzano era a pochi chilometri da Santo Stefano Belbo, la mitica località collinare che è tanto strettamente legata al nome di Cesare Pavese, uno dei maggiori (e migliori) scrittori italiani del Novecento».
Pavese, da sempre e soprattutto dopo la sua tragica morte, è uno tra gli scrittori italiani più celebrati e ripubblicati. I suoi libri hanno fatto il giro del mondo e le sue traduzioni hanno entusiasmato l’Italia intera, che stava diventando anch’essa in quegli anni un po’ statunitense. Un’edizione dei suoi capolavori letterari è stata da poco proposta al pubblico dalla casa editrice Newton e Compton con la prefazione di Paolo Di Paolo: vi sono contenute ben dieci opere integrali in un unico volume: La luna e i falò; La casa in collina; La spiaggia; Dialoghi con Leucò; Il compagno; La bella estate; Il diavolo sulle colline; Tra donne e sole; Lavorare stanca; Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Per entrare nella vita privata e pubblica di Pavese però è necessario scorrere le pagine di una biografia. L’occasione arriva con una pubblicazione preziosa, piccolo scrigno di parole e note, il libro curato da Franco Vaccaneo*, esperto di studi pavesiani e direttore fino al 2004 del Centro studi “Cesare Pavese”, pubblicato da Priuli & Verlucca, editrice di Scarmagno specializzata in libri di montagna, fotografie, tradizioni e antropologia del Piemonte e delle Alpi. Un libro con il valore aggiunto di un cd musicale che correda l’opera letteraria a cura del compositore, che possiamo definire “cantapoeta”, Mariano Deidda.
Il volume, ben curato e con copertina rigida elegante, è all’interno da un album fotografico con scatti di vita di Pavese, di suoi amici e mentori e impossibili amori, ed è una biografia aggiornata (la terza dedicata a all’uomo e scrittore Pavese, dopo quella di Davide Laiolo, Il vizio assurdo – Minimum fax 2020 e quella ben nota: Cesare Pavese di Lorenzo Mondo, Mursia 1984). Tra le righe si incontrano aspetti inediti, necessari per entrare senza infingimenti o falsi miti nel mondo di Pavese. Un modo per incontrare l’uomo attraverso i suoi scritti, le parole sue e i ricordi di amici, colleghi e famigliari. Un libro capace di far rivivere Pavese, al quale l’autore concede nuova vita, pensieri e parole.
Si ripercorrono le tappe salienti della vita agreste e di quella cittadina, privata e pubblica: ne emerge il ritratto di un uomo irregolare nella sua regolatezza, schivo, fuori dalle consuetudini mondane allora in voga, dalle quali rifuggiva ma a cui forse, avrebbe potuto volentieri cedere. Dall’infanzia nella campagna delle Langhe, si arriva alla morte per suicidio, all’Hotel Roma di Torino la sera del 27 agosto 1950 con l’ormai noto e famoso lapidario messaggio di congedo: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
Ma con il libro, vi è anche l’offerta musicale. Mariano Deidda, grazie a una solida esperienza interpretativa, offre un lavoro eccezionale, il cd Deidda canta Pavese (disponibile anche in una edizione non allegata al libro). L’ottima registrazione per audiofili, grazie agli arrangiamenti e alle sonorità eseguite da alcuni dei migliori musicisti (anche in ambito jazz) del panorama italiano, declama, sussurra e intona una rinascita dei versi di Pavese. Un viaggio percorso insieme al tocco raffinato al pianoforte di Silvia Cucchi, all’inconfondibile suono di sax e clarinetto di Gianluigi Trovesi, alle corde vocali dell’attore Carlo Simoni ascoltabili nel brano Albergo Roma e che, grazie alla fisarmonica di Luca Zanetti, la Machiavelli Music Publishing, propone con spirito romantico. Deidda e i suoi musicisti rincorrono le emozioni più recondite intrappolate negli interstizi dell’opera di Pavese, consegnandole all’ascoltatore senza filtri.
* F. Vaccaneo, Cesare Pavese. Vita, colline, libri. Scarmagno (To), 2020, pp. 128.
Il tempo che ci vuole – La recensione dell’ultimo film di Francesca Comencini –
Articolo di Peter Ciaccio -4 ottobre 2024- È nelle sale Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini, che racconta la relazione tra lei e il padre Luigi, dall’infanzia alla totale emancipazione della donna adulta. Il film è stato presentato fuori concorso a Venezia, dove è stato, a ragione, molto apprezzato.
La regista riesce a mettere in scena una storia che, sulla carta, presentava non poche difficoltà, perché è tante cose insieme. Anzitutto è un film di formazione. Vediamo la protagonista crescere da bambina a giovane donna fino al debutto professionale. Secondo elemento, la pellicola racconta del rapporto tra figlia e padre. Terzo, è un film autobiografico: quella bambina e donna è la regista stessa. Quarto, la figlia fa lo stesso mestiere del padre. Quinto, il padre è uno dei più importanti registi dell’epoca d’oro del cinema italiano. Sesto, è un film che necessariamente è “cinema sul cinema”, con un forte rischio di autoreferenzialità, mentre il cinema deve creare una relazione tra l’opera e il pubblico, la cosiddetta “gente comune”.
Il risultato è un’opera fluida, poetica, intensa e coinvolgente, in una parola sola: matura.
La chiave narrativa scelta dalla regista, chiave che fa funzionare tutto, è quella di offrire in maniera radicale il punto di vista della protagonista, che, a posteriori, è ciò che il cinema fa sin dalla sua invenzione. Potremmo dire, allora, nulla di nuovo. Sì e no: da una parte è così, dall’altra non c’è difficoltà maggiore per un artista del trovare una perfetta e originale espressione attenendosi al “canone”.
Il punto di vista di Francesca è quello di una figlia che non ha occhi che per il padre. Pertanto il resto della famiglia non è presente in alcun modo, né la madre Giulia Grifeo di Partanna né le sorelle Cristina, Eleonora e Paola. Non c’è alcuna esclusione, ma “solo” una scelta narrativa e stilistica radicale. Tra l’altro, la sorella Paola è la scenografa del film.
Il film inizia mostrandoci le riprese di Pinocchio (1972) e una Francesca 10-11enne che “vive” tra le riprese e che coglie un’arrabbiatura del padre nei confronti dei suoi collaboratori, colpevoli di non rispettare gli abitanti del borgo scelto come location. «Prima la vita, poi il cinema!», urla l’irato Luigi. In questa frase si racchiude l’eredità del padre alla figlia. Quando, poi, Francesca cresce e vive una crisi autodistruttiva, Luigi molla il cinema per dedicarsi del tutto a lei: il cinema viene dopo, il lavoro viene dopo, prima viene la vita. «Per quanto tempo?», chiede lei; «Il tempo che ci vuole», risponde con serenità lui.
Parlare di Luigi come padre restituisce la grandezza del Luigi regista. Lo spettatore evangelico, poi, non avrà difficoltà a cogliere la profonda consapevolezza del Luigi fratello, valdese, pur non esplicitata nel film. Infatti, la forte etica del lavoro e il rispetto dei principi d’indipendenza e autodeterminazione non rendono Luigi cieco rispetto alle esigenze della “vita” (parola che i protestanti italiani dovrebbero recuperare, perché sequestrata oggi da mortifere ideologie). Anzi.
È un film denso e profondo ma mai pesante. Fa riflettere sull’essere figlia e sull’essere padre, sul rapporto tra arte/lavoro e vita, tra la paura e il coraggio di vivere, sulla rappresentazione della realtà tra neorealismo e surrealismo. Ed è magistralmente retto dai due interpreti principali: Fabrizio Gifuni, quasi un Laurence Olivier italiano, in grado di incarnare con efficace naturalezza qualsiasi personaggio, e Romana Maggiore Vergano, già apprezzata in C’è ancora domani, che qui raggiunge l’intensità delle attrici bergmaniane.
In conclusione, nel film c’è uno scambio tra Luigi e Francesca, in cui, pur sostenendo la scelta della figlia di diventare regista, il padre le dice esplicitamente che, in linea di principio, non comprende il senso delle opere autobiografiche; pertanto la prega di non chiedergli di vedere film con quel taglio. Il tempo che ci vuole si presenta così come una disubbidienza della figlia emancipata, che al contempo rispetta la richiesta del padre, morto nel 2007. Si tratta di due necessità legittime e opposte, che però riescono a incontrarsi, facendo passare “il tempo che ci vuole”.
Fonte-Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Articolo di Hilda Girardet -Cinquanta anni fa “Com – Nuovi Tempi”
Articolo di Hilda Girardet-4 ottobre 2024-Confronti celebra in questi giorni i cinquant’anni della fusione dei due settimanali Nuovi Tempi e Com. Il 6 ottobre 1974 il pastore valdese Giorgio Girardet, fondatore nel 1967 e direttore di Nuovi Tempi, e dom Giovanni Franzoni, direttore del cattolico Com – ex abate benedettino della Basilica di San Paolo Fuori Le Mura e sospeso a divinis per le sue posizioni a favore dell’obiezione di coscienza e poi del divorzio – misero a segno una operazione che ha dell’incredibile, rinunciando entrambi al proprio giornale per costituirne uno comune. Una operazione che tra l’altro intercettò un bisogno reale, visto che si passò in breve dai 5/6000 ai 30.000 abbonati!
La decisione della fusione venne presa in pochi mesi, anche se secondo le prassi dell’epoca ebbe diversi passaggi: decine e decine di assemblee dei lettori, consultazioni pubbliche e degli organi proprietari, dibattiti e discussioni anche accese. Lo scopo dichiarato era di far confluire e dare voce al “movimento” che aveva visto la partecipazione di gruppi di protestanti “marginali”, redattori e lettori di Nuovi Tempi, e cattolici di base o “del dissenso” come erano chiamati allora.
Un’operazione ecumenica? In parte lo fu, ma secondo modalità e intenti peculiari. Certo non fu un ecumenismo “istituzionale”: non si trattò di far dialogare due realtà ecclesiali mettendo a confronto questioni dogmatiche e pratiche di fede alla ricerca di un terreno comune. Neppure si trattò da parte evangelica della volontà di far conoscere il protestantesimo a un Paese cattolico, ancora fortemente integrista e confessionale. Se fu ecumenismo lo fu in un senso diverso. Così lo spiegava Nuovi Tempi (19/5/1974): «… il dato confessionale (…) viene fortemente relativizzato perché ciascuno è posto dall’evangelo di fronte alla necessità di superare la propria storia e riconoscere le cose nuove che il Signore prepara per il suo popolo. Non era del resto questo lo spirito originario dell’ecumenismo? … un movimento in cui tutte le chiese riconoscevano di doversi convertire e non le une alle altre ma tutte al Signore».
La creazione di un unico settimanale fu una conseguenza, lo “sbocco naturale” si disse allora, delle esperienze in cui cattolici e evangelici si erano trovati come credenti fianco a fianco a percorrere un cammino comune all’interno delle lotte e in solidarietà con gli oppressi. Ribadendo che lo scopo del giornale è «riconoscere i segni del Signore che viene in mezzo agli eventi contraddittori del presente», Girardet scriveva il 6 ottobre: «Il giornale nasce dunque come un segno di speranza. Quella salvezza o “liberazione” che Gesù ha compiuto nella sua morte e risurrezione e che l’evangelo annuncia, noi la viviamo già oggi, mentre si realizza nella storia (parzialmente, ma in modo reale) nelle lotte che in tutto il mondo i popoli oppressi e le classi sfruttate combattono per costruire una società più umana»”
Il linguaggio, forse desueto, esprimeva la volontà di essere presenti all’interno della società, inseriti nelle sue lotte per la giustizia e i diritti civili e sociali. È difficile per chi non l’ha vissuto rendersi conto di quegli anni, spesso schiacciati nel ricordo dal peso dei successivi anni di piombo… difficile immaginare la tensione ma anche le speranze che mossero alla partecipazione migliaia e migliaia di studenti, operai, insegnanti, donne, intellettuali, artisti, ecc.
Furono anni tumultuosi, ricchi di creatività e novità radicali, immaginazione, discussioni, battaglie ideologiche, scontri ideali, a volte materiali; anni conflittuali che generarono reazioni e controreazioni anche cruente: solo nel 1974 ci furono due tentativi di colpo di stato e due attentati fascisti: a maggio quello di piazza della Loggia e ad agosto l’Italicus. Un decennio, a dalla fine degli anni ’60, che trasformò in profondità la società italiana in tutti i suoi ambiti inclusi quelli ecclesiastici.
Mentre i protestanti, dopo anni di dibattiti sul nodo fede e politica, stavano lavorando alla costituzione della Federazione delle chiese evangeliche (la prima fu quella giovanile, la Fgei), in ambito cattolico la Chiesa di Roma uscita dal Vaticano II registrò sommovimenti profondi e mobilitazioni di grandi entità: già nel ’69-70 con l’Isolotto prendevano vita le prime Comunità di base. Nel ’72, dalla crisi de Il Regno, nasceva il settimanale Com; mentre circa duemila preti davano vita al Movimento del 7 novembre (che terrà la sua prima assemblea nell’Aula Magna della Facoltà valdese di Teologia a Roma). Il 1973 sarà l’anno di una ulteriore diffusione del “dissenso” cattolico, delle sue comunità che si diedero una struttura di collegamento e del coordinamento delle riviste cattoliche e protestanti (Idoc, Testimonianze,Nuovi Tempi,Com, Gioventù Evangelica, ecc.) (https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL5000085090/2/la-diffusione-comunita-evangeliche-movimento-7-novembre-3.html&).
Su un versante più “politico” il 1973 segnò l’infrangersi dell’unità del mondo cattolico incarnato dalla Democrazia cristiana: un colpo decisivo venne dalla vittoria del “no” del referendum sul divorzio del maggio ’74 (vero terreno di esperienze condivise tra protestanti e cattolici), seguito il 21 settembre dalla nascita dei Cristiani per il Socialismo. Quattro mesi dopo nascerà COM Nuovi Tempi!
Certo 50 anni sono tanti, troppe le cose cambiate per rintracciare parallelismi, analogie o somiglianze. Non esiste più il “movimento”, finita la lotta di classe, chiusi gli orizzonti, negata qualsiasi possibilità di alternativa al quadro economico e politico attuale: difficilissimo coltivare la speranza in un mondo più giusto, tanto che perfino riconoscere i “segni dei tempi” appare utopistico. Eppure, anche oggi come allora le vittime delle guerre e delle tante ingiustizie richiedono ascolto, solidarietà, vicinanza e un annuncio che – come recita la Confessione di fedediAccra pronunciata tutti insieme nel culto di apertura del sinodo valdese-metodista di quest’anno – sappia porsi con coraggio a fianco degli oppressi nella prospettiva della giustizia e della pace.
Fonte-Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Venezia 81. “Quiet Life” di Alexandros Avranas vince il Premio Dialogo interreligioso
Alla 81^ Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia la giuria protestante ha assegnato il Premio INTERFILM per la promozione del dialogo interreligioso al film “Quiet Life” di Alexandros Avranas.
Il riconoscimento è stato consegnato al protagonista del film, il russo Grigory Dobrygin che, peraltro, è di fede avventista. La cerimonia si è svolta presso la terrazza del Palazzo del Casinò, al Lido di Venezia, alla presenza fra gli altri del delegato INTERFILM a Venezia, il pastore Peter Ciaccio (anche presidente dell’Associazione protestante cinema “Roberto Sbaffi” nonché Consigliere della Federazione delle chiese evangeliche in Italia – FCEI -).
Il pastore Ciaccio ha presenziato alla consegna della targa indossando la maglietta di Mediterranean Hope, il programma rifugiati e migranti della FCEI che promuove diverse iniziative come ad esempio i corridoi umanitari, l’osservatorio di Lampedusa e il centro diurno di accoglienza sulla rotta balcanica a Bihać, in Bosnia, con tanto di palestra di arrampicata aperta a tutti e tutte, la “Flamingo Loophole”.
Dobrygin ha letto il messaggio del regista Avranas (traduzione in italiano più in basso).
«Thank you to the INTERFILM jury for this incredible honor. I’m deeply grateful that “Quiet Life” has been recognized for promoting interreligious dialogue. The story of Sergei and Natalia reflects the struggles of countless refugees, and their fight to preserve hope in the face of despair. By sharing their journey, we aimed to inspire empathy and spark dialogue about the human condition, no matter our background or beliefs. Thank you to everyone who made this film possible. We hope it continues to resonate and encourage conversations that bridge divides».
(traduzione: Grazie alla giuria di INTERFILM per questo incredibile onore. Sono profondamente grato che “Quiet Life” sia stato riconosciuto per aver promosso il dialogo interreligioso. La storia di Sergei e Natalia riflette le battaglie di innumerevoli rifugiati e la loro lotta per preservare la speranza di fronte alla disperazione. Condividendo il loro viaggio abbiamo mirato a ispirare empatia e accendere il dialogo sulla condizione umana, indipendentemente dal nostro background o dalle nostre convinzioni. Grazie a tutti coloro che hanno reso possibile questo film. Ci auguriamo che continui a risuonare e incoraggiare conversazioni che colmino le divisioni).
Questa, invece, la motivazione della giuria:
Assegniamo il Premio INTERFILM per la promozione del dialogo interreligioso a un film di alta qualità artistica ed estetica.
“Quiet Life”(Vita tranquilla), non sempre la vita è tranquilla, anzi non lo è per niente. Una famiglia chiede asilo, che purtroppo viene negato. Il rifiuto provoca una misteriosa condizione psicologica per le due bambine, la cosiddetta “sindrome della rassegnazione infantile”. Questo film incredibilmente denso è strutturato in modo chiaro e le interpretazioni degli attori sono profondamente toccanti e stressanti allo stesso tempo. Tutto ciò ci mette di fronte all’ipocrisia di una burocrazia cosiddetta umana, ma in realtà fredda come il ghiaccio. Attraverso la scelta di questo film incoraggiamo le persone a riflettere sulla dignità umana, a rafforzare la solidarietà con i richiedenti asilo e a promuovere la nostra consapevolezza su ogni tipo di rifiuto.
La giuria era composta dal danese Jes Nysten (Danimarca, presidente), Naomi Evelyn Hondrea (Italia), Barbara Schantz-Derboven (Germania), Ingrid Glatz e Stefan Haupt (Svizzera).
«È stata un’esperienza spettacolare, con delle persone davvero speciali – ha dichiarato all’Agenzia NEV la giurata italiana, la giovanissima Naomi Evelyn Hondrea -. Al di là dei film visti, che sono stati di buon livello, l’esperienza di lavorare in un gruppo di fratelli e sorelle cinefili mi ha emozionata molto perché mi ha aperto al dialogo e all’assunzione dei reciproci punti di vista. Il film premiato, sin dall’inizio mi ha toccata in un modo molto particolare perché la mia famiglia in passato ha attraversato un doloroso periodo di irregolarità. Questo premio per me ha anche un enorme valore simbolico, poichè credo che la chiesa in questi casi possa ricoprire un ruolo centrale nel prendere una posizione in nome dell’amore e rispetto verso il prossimo, dell’uguaglianza, della libertà e della giustizia».Questo speciale premio INTERFILM è giunto alla sua 13^ edizione.
Fonte- di Nev – Notizie evangeliche -Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Torre Pellice-Iniziato il convegno storico numero 63 della Società di Studi valdesi
Torre Pellice – 6 settembre 2024-Iniziato ieri pomeriggio alle 15:30 a Torre Pellice nell’aula sinodale (via Beckwith 2) la 63ma edizione del Convegno storico della Società di studi valdesi, dal titolo «Come si fa una letteratura. Lingue, testi e culture nell’autunno del Medioevo valdese».
Le tre giornate, che si possono seguire anche in streaming sul canale YouTube della SSV o sulla sua pagina Facebook si aprono con il saluto di Gian Paolo Romagnani, presidente della Ssv. Seguiranno, in due sessioni moderate rispettivamente da Andrea Giraudo (organizzatore del convegno) e Attilio Cicchella, le relazioni di Philippe Martel («Ecrire en “langue vulgaire” dans les Alpes du Sud au Moyen Age»); Aline Pons e Matteo Rivoira («Storia linguistica dei valdesi: il contributo della dialettologia»); Lorenzo Ferrarotti («Dialetto-lingua locale e varietà “alte” in Piemonte tra Medioevo e Rinascimento»); Andrea Giraudo («Per un repertorio digitale dell’occitano alpino medievale»). A seguire, visita alla mostra esposta al Centro culturale valdese, «Valdo e i valdesi tra storia e mito».
Il convegno, che è aperto a tutti gli interessati, proseguirà domani con una intensa giornata che comincerà alle 9 con la terza sessione, moderata da Laura Ramello, e le relazioni di Caterina Menichetti («Intorno all’edizione degli Atti degli apostoli. Problemi testuali e messa in contesto»); Joanna Poetz («La réception de la littérature “hussite” dans les manuscrits vaudois»); Matteo Cesena («Il ms. Dublin, Trinity College Library, 269 e i corpora valdese e cataro. Annotazioni codicologiche e paleografiche»); seguirà un momento di discussione e la pausa.
I lavori riprendono alle 11 guidati da Lothar Vogel, con le relazioni di Laura Ramello («La letteratura francoprovenzale nel Medioevo. Un itinerario fra generi, testi e temi»); Federica Fusaroli («Testi e manoscritti in lingua d’oc tra Provenza e Delfinato»); Attilio Cicchella («Prime indagini sulla letteratura devota in volgare italiano nei primi secoli della stampa piemontese»). Si conclude alle 13 dopo un momento di discussione
Nel pomeriggio, dalle 15, sessione presieduta da Laura Gaffuri, intervengono Lothar Vogel («I testi dei manoscritti valdesi: testimoni di una cultura teologica») e Micol Long («“Sentimenti del corpo” e “sentimenti dell’anima”: sensi ed emozioni nei sermoni valdesi medievali»). Dopo la discussione e la paura, si riprende alle 16,30 con Laura Gaffuri («La predicazione cattolica nel Piemonte sabaudo del Qattrocento»); Ludovic Viallet («Pastorale et lutte contre l’hérésie entre Dauphiné et Méditerranée – fin XVe – début XVIe siècle»).
Sabato, giornata conclusiva moderata da Caterina Menichetti, dalle 9 alle 12, intervengono Paolo Rosso («Ambiti di formazione e di circolazione di cultura giuridica in area pinerolese e nelle valli valdesi nel tardo medioevo»); Marco Fratini («Cultura visiva nel Pinerolese tardomedievale»); Andrea Maraschi («La formazione medico-scientifica dei barba: tra contesto e tradizione»). Discussione, conclusioni e chiusura del convegno alle 12.
Per info: 0121-932765; e-mail: segreteria@studivaldesi.org; www.studivaldesi.org
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