Poesie di Joy Harjo,Poetessa della nazione Mvskoke/Creek-Poesie tradotte da Pina Piccolo
Joy Harjoè nata a Tulsa, in Oklahoma nel 1951 e fa parte della nazione Mvskoke/Creek. E’ fra le più importanti voci della poesia contemporanea statunitense e ha ricevuto numerosi premi a livello nazionale. Nel giugno del 2019 ha ricevuto l’incarico di Poet Laureate nazionale degli USA, cioè ambasciatrice per la Poesia. Le poesie tradotte, con l’originale a fronte, sono tratte dall’antologia Not in Our Name: poeti statunitensi contro la guerra, Libro Aperte Edizioni, 2013, per gentile concessione dell’autrice.
Breve Biografia-Joy Harjoè nata a Tulsa, in Oklahoma nel 1951 e fa parte della nazione Mvskoke/Creek. E’ fra le più importanti voci della poesia contemporanea statunitense e ha ricevuto numerosi premi a livello nazionale. Nel giugno del 2019 ha ricevuto l’incarico di Poet Laureate nazionale degli USA, cioè ambasciatrice per la Poesia. Le sue raccolte di poesia comprendono Conflict Resolution for Holy Beings (W. W. Norton, 2015); How We Became Human: New and Selected Poems (W. W. Norton, 2002); A Map to the Next World: Poems (W. W. Norton, 2000); The Woman Who Fell From the Sky (W. W. Norton, 1994) In Mad Love and War (Wesleyan University Press, 1990); Secrets from the Center of the World(University of Arizona Press, 1989); She Had Some Horses (Thunder’s Mouth Press, 1983); and What Moon Drove Me to This? (Reed Books, 1979). Ha anche scritto un libro di memorie, Crazy Brave (W. W. Norton, 2012), che descrive il suo percorso nel divenire poeta e che nel 2013 ha vinto il premio letterario PEN Center USA per la narrativa creativa nonfiction. E’ anche performer, è apparsa nel canale HBO nella serie Def Poetry Jam e in spazi statunitensi e internazionali. Suona il sassofono con la sua band Poetic Justice e ha lanciato 4 CD di musica originale. nel 2009 ha vinto il Native American Music Award (NAMMY) come migliore artista femminile.
Le poesie tradotte, con l’originale a fronte, sono tratte dall’antologia Not in Our Name: poeti statunitensi contro la guerra, Libro Aperte Edizioni, 2013, per gentile concessione dell’autrice.
Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com
Dorothea Lange ha scattato Foto fra il 1930 e il 1950
che l’hanno resa tra le più importanti fotografe del Novecento
Dorothea Lange nacque a Hoboken, in New Jersey, nel 1895 e morì di cancro a 70 anni, nel 1965. È stata una delle più importanti e famose fotografe del Novecento, conosciuta soprattutto per il suo lavoro al progetto fotografico della Farm Security Administration (FSA) – l’agenzia federale statunitense fondata nel 1937 dal presidente Franklin Delano Roosevelt per contrastare la povertà nelle zone rurali degli Stati Uniti, aggravata in quegli anni dalla Grande Depressione – con l’obiettivo di documentare la povertà di alcune fasce della popolazione americana.
Lange fotografò soprattutto i contadini che avevano abbandonato la campagna a causa del cosiddetto “Dust Bowl”, la siccità e le tempeste di sabbia che negli anni Trenta desertificarono grandi zone del Texas, del Kansas, dell’Oklahoma e delle aree attorno. Una delle sue foto è tra le più famose del Novecento: si intitola Migrant Mother e fa parte di una serie di ritratti a Florence Owens Thompson e ai suoi figli che Lange scattò tra febbraio e marzo nel 1936 a Nipomo, in California. Negli anni successivi continuò a occuparsi di reportage a sfondo sociale viaggiando in diversi paesi con il marito, l’economista Paul Taylor.
«La macchina fotografica è uno strumento che insegna alle persone come vedere senza la macchina»
Dorothea Lange fu una delle più importanti e famose fotografe del Novecento, tra i fondatori dell’agenzia Magnum. Lavorò al progetto fotografico della Farm Security Administration (FSA) – l’agenzia federale statunitense fondata nel 1937 dal presidente Franklin Delano Roosevelt per contrastare la povertà nelle zone rurali degli Stati Uniti, aggravata in quegli anni dalla Grande Depressione – con l’obiettivo di documentare la miseria di alcune fasce della popolazione americana. Lange fotografò soprattutto i contadini che avevano abbandonato la campagna a causa del cosiddetto Dust Bowl, la siccità e le tempeste di sabbia che negli anni Trenta desertificarono grandi zone del Texas, del Kansas, dell’Oklahoma e dalle aree attorno. Negli anni successivi continuò a occuparsi di reportage a sfondo sociale, raccontando la vita di operai, immigrati e senzatetto.
Almeno una sua foto la conoscete tutti: si intitola Migrant Mother e fa parte di una serie di ritratti a Florence Owens Thompson e ai suoi figli che Lange scattò tra febbraio e marzo nel 1936 a Nipomo, in California. La donna aveva 32 anni e sette figli. Nel 1960 Lange raccontò che:
«Vidi quella madre affamata e disperata e mi avvicinai, come attratta da un magnete. Non ricordo come le spiegai perché ero lì e che ci facevo con la macchina fotografica, ma ricordo che non mi fece domande. Feci cinque scatti, avvicinandomi sempre di più nella stessa direzione. Non le chiesi come si chiamava, né qual era la sua storia. Lei mi disse la sua età, aveva 32 anni. Mi raccontò che vivevano mangiando verdura gelida dai campi vicini, e uccelli catturati dai bambini. Aveva appena venduto le gomme dell’auto per comprarsi il cibo. Se ne stava seduta con i suoi figli accovacciati attorno a lei, e sembrava consapevole che la mia fotografia l’avrebbe potuta aiutare, e per questo lei aiutò me. Ci fu una sorta di equo scambio».
La vita e la carriera della grande fotografa americana Dorothea Lange con le immagini che scattò fra il 1930 e il 1950, per cui è considerata tra le più importanti fotografe del Novecento.
La mostra Dorothea Lange. Racconti di vita e lavoro, che si compone di 200 immagini ed è curata dal direttore artistico di CAMERA Walter Guadagnini e dalla curatrice Monica Poggi, presenta la carriera di Dorothea Lange (Hoboken, New Jersey, 1895 – San Francisco, 1965), autrice che è stata, come scrisse John Szarkowski, “per scelta un’osservatrice sociale e per istinto un’artista”.
Il percorso di mostra, visitabile dal 19 luglio all’8 ottobre , si concentra in particolare sugli anni Trenta e Quaranta, picco assoluto della sua attività, periodo nel quale documenta gli eventi epocali che hanno modificato l’assetto economico e sociale degli Stati Uniti. Fra il 1931 e il 1939, il Sud degli Stati Uniti viene infatti colpito da una grave siccità e da continue tempeste di sabbia, che mettono in ginocchio l’agricoltura dell’area, costringendo migliaia di persone a migrare. Dorothea Lange fa parte del gruppo di fotografi chiamati dalla Farm Security Administration (agenzia governativa incaricata di promuovere le politiche del New Deal) a documentare l’esodo dei lavoratori agricoli in cerca di un’occupazione nelle grandi piantagioni della Central Valley: Lange realizza migliaia di scatti, raccogliendo storie e racconti, riportati poi nelle dettagliate didascalie che completano le immagini.
È in questo contesto che realizza il ritratto, passato alla storia, di una giovane madre disperata e stremata dalla povertà (Migrant Mother), che vive insieme ai sette figli in un accampamento di tende e auto dismesse.
La crisi climatica, le migrazioni, le discriminazioni: nonostante ci separino diversi decenni da queste immagini, i temi trattati da Dorothea Lange sono di assoluta attualità e forniscono spunti di riflessione e occasioni di dibattito sul presente, oltre a evidenziare una tappa imprescindibile della storia della fotografia del Novecento.
La mostra offre quindi ai torinesi e ai turisti un’occasione imperdibile per conoscere meglio l’autrice di una delle immagini simbolo della maternità e della dignità del XX secolo e interrogarsi sul presente.
Bill Cunningham, il «padre» della street photograph
Bill Cunningham, il fotografo di moda che immortalava le persone in strada.In bici, vestito sempre con la giacca blu, i pantaloni chiari e le scarpe con la suola di gomma. Era il maestro dello street style. Rifiutò l’assunzione al «New York Times» finché un furgone lo mandò in ospedale (senza assicurazione).
Anna Wintour gli ha fatto il complimento più bello, «ci vestiamo tutte per Bill», ma sarebbe sbagliato ridurre la carriera di Bill Cunningham, morto a New York all’età di 87 anni per un ictus, a quella di fotografo di personaggi famosi. Cunningham fece per mezzo secolo nelle strade di New York esattamente quello che faceva alle sfilate, o alle feste del falò delle vanità di Manhattan: fotografare la società, attraverso i vestiti. Non solo quella dei ricchi: la vita di tutti.
Il mondo come passerella
Per Cunningham, bostoniano trapiantato a New York dopo un’infelicissima esperienza a Harvard la prima carriera fu sì nella moda, ma come cappellaio per signore dell’Upper East Side. Capì all’alba degli anni 60 che presto nessuna avrebbe più portato cappelli e che con la fotografia avrebbe potuto raccontare una storia più bella: il mondo come passerella. Solo i bambini, quando giocano, hanno sulle labbra lo stesso sorriso che aveva Cunningham al lavoro: facendo gimkane in bici tra i camion di Midtown seguiva la preda, vestito sempre in giacca blu da netturbino di Parigi, pantaloni khaki, scarpe nere con la suola di gomma.
La vita monacale nello sgabuzzino fra i suoi negativi
Fece vita monacale dormendo per sessant’anni su una specie di barella in uno sgabuzzino che ospitava l’archivio dei suoi negativi, con il bagno sul corridoio. Rifiutò per decenni l’assunzione al New York Times, del quale era collaboratore fisso, avere un padrone gli faceva orrore: si rassegnò a cedere alle avances del giornale nel 1994, quando non riuscì a schivare l’ennesimo furgone e finì all’ospedale senza assicurazione. Gli ultimi anni furono quelli dei premi come il titolo di Chevalier dans l’ordre des Arts et des Lettres, ritirato a Parigi. Gli dedicarono un bel documentario e lui non andò in sala, la sera della prima, perché doveva fotografare gli invitati sul tappeto rosso.
«La libertà non ha prezzo»
E poi la mostra al Metropolitan alla quale rispose «no grazie» e le campagne ricchissime che avrebbe potuto scattare per gli stilisti che non prese mai in considerazione, «i soldi sono facili ma la libertà non ha prezzo». Venne considerato il padre nobile dei fotografi di street style che affollano Internet ma lui scattò fino a qualche anno fa solo su pellicola e paragonarlo, come artista, a quei blogger è come paragonare Basquiat a un graffitaro che spruzza un «tag» su una saracinesca.
Alla fine del 1983 prima di iniziare le riprese di “Paris, Texas”, Wim Wenders viaggia per mesi attraverso il West americano, dal Texas all’Arizona, dalla California al New Mexico, munito della sua Makina-Plaubel 6×7. Wenders si lascia catturare dalla straordinaria vastità e bellezza di un paesaggio imbevuto di luce e di colore, sperando di «migliorare la mia comprensione, la mia sintonia con quella luce, quel paesaggio». Lo sguardo professionale del regista e la meraviglia dell’europeo che nel West cerca di cogliere la terra originaria del “sogno americano” costituiscono il fascino di questa raccolta di immagini, singolare e irripetibile. Nel 2001 Wenders torna nella sonnolenta cittadina di Paris e scatta nuove fotografie, questa volta con una Fuji 6×4,5. È la testimonianza di una fascinazione rimasta intatta, un viaggio dell’artista nei propri ricordi. Si aggiunge un nuovo essenziale capitolo al classico Scritto nel West, ora Revisited. Con il poscritto dell autore “I like Paris in the winter”.
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