Se viene riconosciuta la carriera di Agnes Varda (1928-2019) come regista e artista plastica, la sua attività fotografica rimane ancora da esplorare. Tuttavia, la fotografia lo accompagna sin dai suoi inizi, dall’apertura del suo laboratorio-laboratorio Rue Daguerre a Parigi e dal suo status di fotografo ufficiale del National Popular Theater, ai suoi numerosi progetti personali. Nel corso della sua vita, continuerà a sperimentare i diversi usi del mezzo. I suoi “occhi curiosi” la porteranno in giro per il mondo
Nel 1956 la fotografa intervistò il Portogallo, affermando il suo gusto per i ritratti e i soggetti in movimento, operai del campo e del mare.
Agnès Varda, nata Arlette Varda (Ixelles, 30 maggio 1928 – Parigi, 29 marzo 2019), è stata una regista, sceneggiatrice e fotografa belga.
Articolo da Blog –UNA DONNA AL GIORNO-
Sono femminista perché credo nei diritti delle donne, nell’intelligenza delle donne, nelle loro capacità, nel posto che devono ricoprire nella società e nella famiglia.
Quello che mi sciocca è che ci si renda conto solo ora che il problema esiste. È legato al potere sociale innanzitutto e gli uomini ne sono complici. Quello che cambierà è che ne prenderanno coscienza. Bisogna determinare la dose di femminismo da inculcare ai ragazzi: ecco cos’è importante. Questa battaglia dobbiamo portarla avanti insieme, uomini e donne uniti.
Agnès Varda, regista francese di origine belga.
Ha raccontato le complessità dell’animo femminile portato sullo schermo i volti, le vite, i pensieri di tante donne, ascoltandone la voce e assecondando la sua volontà di autrice, senza cedimenti a vincoli esterni. Un modo di fare cinema intimo e personale. Viene considerata la prima regista femminista.
Nata con il nome di Arlette, il 30 maggio 1928 a Ixelles, in Belgio, madre francese e padre greco, ha passato la sua infanzia in Belgio. Giovanissima si è trasferita a Parigi e divenne fotografa al Theatre National Populaire di Jean Vilar, il creatore del Festival di Avignone. In questo ambiente ha incontrato l’uomo che divenne suo marito, il regista Jacques Demy.
Unica donna del gruppo originario coté rive gauche della Nouvelle Vague francese, nonostante ne abbia sempre rifiutato l’etichetta. Ha sempre mantenuto un’indipendenza teorica e poetica, che l’ha portata a praticare la sua arte con grande libertà di generi e formati.
Nel 1954 ha girato il suo primo film La Pointe Courte che portò un soffio di libertà nel cinema francese.
Il suo primo lungometraggio è stato Cléo dalle 5 alle 7, del 1962, affascinante ritratto femminile di una cantante ribelle che vagabonda per Parigi in attesa di sapere dai medici se ha una malattia mortale. È il suo film più vicino alla Nouvelle Vague ma anche uno dei più personali di quella gloriosa stagione.
Nel 1965 ha vinto l’Orso d’argento al Festival di Berlino con Il verde prato dell’amore, che le ha portato maggiore visibilità in Europa e negli Stati Uniti.
Dal 1968 ha soggiornato per lunghi periodi a Los Angeles dove ha girato Lions Love e realizzato il documentario Black Panthers dedicato al processo agli esponenti delle Pantere Nere, organizzazione rivoluzionaria afroamericana.
Nel 1971, a Parigi, conobbe e divenne amica di Jim Morrison, leader dei Doors, trasferitosi lì con la fidanzata Pamela Courson. È stata una delle pochissime persone presenti alla sepoltura del musicista prima che la notizia della sua tragica morte venisse diffusa alla stampa.
Dai soggiorni americani sono nati Mur murs, documentario sui murales di Los Angeles, il graffitismo ai tempi era un’arte di pura avanguardia e Documenteur, cronaca dello sradicamento d’una donna francese, temporaneamente separata dall’uomo che ama e sola in America insieme al figlio.
È stata tra le firmatarie del Manifesto delle 343 la dichiarazione pubblicata il 5 aprile 1971 dalla rivista Nouvel Observateur in cui 343 donne ammettevano di aver avuto un aborto, esponendo se stesse alle relative conseguenze penali. In Francia vigeva una legge del 1920 che multava con pene fino a sei anni chi avesse abortito o procurato aborti. Il manifesto fu un importante esempio di disobbedienza civile.
Il 1985, le ha consegnato il suo più ampio successo di pubblico, Senza tetto né legge, vita e morte di una ragazza alla deriva nel freddo d’una Francia opaca e respingente che ha vinto il Leone d’oro a Venezia.
Avendo prodotto autonomamente i suoi film con Ciné-Tamaris, Agnès Varda è riuscita a mantenere intatta la propria indipendenza e i diritti sui film suoi e del marito.
In digitale ha girato Les Glaneurs et la glaneuse nel 2000, un racconto-documentario sulle persone che cercano tesori o sussistenza rovistando nelle campagne o tra la spazzatura delle città, che ottenne critiche entusiaste e riconoscimenti internazionali.
Nel 2003, alla Biennale di Venezia, ha firmato alcune installazioni visive che hanno inaugurato una nuova fase della sua vita artistica. È del 2008 il suo originale autoritratto nel documentario Les plages d’Agnès.
Nel 2017 è uscito Visages Villages un viaggio attraverso la Francia rurale a bordo di un camion-macchina fotografica con lo street artist JR. Il film ha vinto il premio de L’Œil d’or al Festival di Cannes 2017 e ricevuto la candidatura nella categoria “miglior documentario” agli Oscar 2018. Con questa candidatura Agnès Varda è diventata la persona più anziana a venire candidata in gara a un Oscar.
Per la cineasta, l’arte cinematografica è sempre stata collegata alla realtà, per questo nella sua filmografia non ha mai lasciato da parte il genere documentario. I suoi lavori hanno affrontato spesso tematiche riguardanti la condizione femminile nella società. Nella sua lunga carriera, ha continuato instancabile a girare film diversi per formato e misura, sempre interessata alla cronaca umana e all’osservazione poetica e politica del mondo. Ha lavorato fino alla fine dei suoi giorni, continuando a sperimentare nuove tecnologie.
Insignita di un Premio César onorario nel 2005, è stata la prima regista nella storia del cinema a ricevere l’Oscar alla Carriera nel 2017. Alla cerimonia degli Oscar e poi a Cannes si è schierata apertamente con il movimento Me Too.
La Campagna Romana nelle tempere e nei pastelli di Giulio Aristide Sartorio
Articolo e ricerche a cura di Franco Leggeri-le foto in B/N sono originali del 1906 –
La Campagna Romana nelle tempere e nei pastelli di Giulio Aristide Sartorio,Man mano che la via Appia scende nelle paludi un silenzio innaturale comincia a gravare sul paesaggio . I canti si affievoliscono , non si sentono grida di gioia, ma solo l’indefesso zirlio delle cicale e un gracidare assordante . Qualche bifolco , qualche contadino , qualche buttero giallo di febbre vi fanno un triste saluto . Pian piano si scoprono tra le canne dei lustri sospetti: è l’acqua stagnante … Nei rari casali , nelle povere osterie, vi salutano uomini dall’aspetto fraterno , ma come scaturiti dal passato. Paiono di una stirpe che non è morta mai ; le loro facce sembrano lavorate come i ruderi della Campagna e su di esse si leggono i sacrifici secolari. La via Appia procede così per miglia e miglia, attraverso un paese sospetto , ricco di pascoli , di macchie, ma silenzioso . Gli archi della strada superano i canali fangosi nei quali si vedono i bufali immobili, mentre rari guizzi accusano i pesci. Qualche famiglia di pescatori ha costruito le capanne sulle palizzate e vive come gli uomini primitivi fabbricando le stuoie e le nasse. Sembra di essere catapultati in un paesaggio arretrato nei secoli; sembra d’essere in una specie di Stige e la nostra vita civile
“sembra un inganno , un’illusione”.
Questo paesaggio e questa vita –triste, solenne, straordinariamente caratteristica- il Sartorio delinea con tocchi rapidi e suggestivi in un conferenza su Terracina e traduce da tempo in piccole tempere e pastelli.
Giulio Aristide Sartorio , uscito da una famiglia d’artisti imbevuti di classicismo e che consideravano , quindi, il paesaggio come manifestazione artistica di scarsa importanza, non si dedicò sin dai primi anni agli studi che poi ha privilegiato. Fino alla Gorgone e alla Diana Efesina il Sartorio fu sotto l’influenza deli insegnamenti paterni e deve al pittore Francesco Paolo Michetti il primo impulso verso questi nuovi orizzonti.
Nell’Esposizione parigina del 1889 un suo quadro – I figli di Caino- fu premiato con una medaglia d’oro; e in questa occasione egli si recò , insieme al Michetti, alla Mostra di Parigi.
L’amore e la conoscenza profonda che il Michetti aveva per i paesisti francesi del ‘30 gli rivelarono tutto un mondo quasi ignoto, lo appassionarono per una manifestazione artistica da lui prima poco stimata. Ed a Francavilla a Mare, subito dopo Parigi , segnò con i pastelli del suo grande amico le prime impressioni di paese. Venuto a Roma, trovò nell’amicizia di due nobili illustratori della Campagna Romana- il Carlandi e il Calemann- stimolo costante a che l’improvvisa rivelazione non impallidisse. E il Carlandi e il Colemann gli furono guida nelle prime escursioni attraverso l’Agro Romano: anzi fra loro tre si fermò il progetto di una illustrazione completa di esso; progetto che, purtroppo, pare abbandonato. Ed ora ben pochi conoscono come il Sartorio le segrete bellezze e le ardenti emozioni che può offrire a
chi la contempli con anima candida e fervente l’interminata desolazione della Campagna Romana. Finora il Sartorio, sotto l’aspetto assai cospicuo di paesista, era stato conosciuto frammentariamente- quasi si potrebbe dire saggiato- nelle mostre di Venezia, di Roma, di Milano. Nel febbraio, però, sono state esposte a Londra settantatrè opere – metà tempere, metà pastelli- fra nuove e vecchie sensazioni paesistiche di lui, sì che la mostra offre la visione completa di quel che il Sartorio rappresenta non solo come paesista, ma anche come interprete di una regione nello svolgimento dell’Arte moderna. A Roma, nel salone Corrodi, si è tenuta la prova generale del grande spettacolo londinese: e artisti, amatori, studiosi, giornalisti sono accorsi: e in tutti era profondo il convincimento che il Sartorio fosse il vero multiforme poeta della Campagna Romana e che la mostra odierna avesse una significazione e una organicità profonda che la rendeva un avvenimento artistico affatto insolito. Bisognava vedere, infatti, quale tenace legame spirituale collegava tutte queste Opere così varie di soggetto, di sentimento, di tecnica e come il loro
intimo valore d’arte si intensificasse e si accendesse nel dispiegamento magnifico! La semplicità aristocratica e originale del taglio – rarissima perché segno di una personalità squisita-;la varietà dei momenti colti e la tecnica varia e sensibilissima con cui son resi ; la finezza e la intensità del sentimento onde son tutti materiali; la suggestiva magia evocatrice che li anima pareva che si avvivasse e si ampliasse in una vita più ricca e più ardente. Il Sartorio mantiene nel suo spirito una spiccata propensione per il mondo classico di cui egli ha una conoscenza straordinaria per un artista e perciò predilige quei luoghi della Campagna Romana avvolti nei veli fantasiosi delle leggende oppure onusti di memorie. Così si spiega il gran numero di quadri nei quali egli canta Terracina e il Circeo. E’ il mare di Omero e di Virgilio e-scrive il Sartorio nella conferenza citata- :”i navigli a vela che oggi lo solcano potrebbero essere le navi di Giasone, di Ulisse, di Enea, di Augusto, di Genserico; potrebbero essere flotte che portarono la Poesia , l’Arte, la Guerra, la conquista, la distruzione: pare che noi stessi abbiamo vissute tutte le vicissitudini antiche.” Circe, l’incantatrice di Colchide, ebbe nella regione il suo regno fatale: e il suo spirito sembra che aleggi ancora sul mare azzurro , sulle azzurre lenee dei monti , sulle rovine dei Templi, sugli stagni putridi e mortali . Una solenne atmosfera di silenzio
circonfonde Terracina squallida , chiusa tragicamente nella luce del suo passato, quando i traffici ed il commercio urgevano, quando gli eroi turbinavano intorno, quando l’arte risplendeva nel tempio di Anxur che prometteva al suo popolo la giovinezza eterna e in molti altri Templi e Fori e Basiliche e case. L barcgìhe pescherecce sotto al Circeo con le vele tessute di luce . gonfie e veloci sulla solenne distesa del mare azzurrissimo nella violenza del sole sembrano quelle che passarono innanzi l’isola a vele spiegate una notte remota tra il ruggire dei leoni incatenati e l’ululare dei lupi, mentre Odisseo era tenuto prigioniero nel palazzo incantato di Circe. I bufali pigri, fangosi, dagli occhi iniettati di sangue che triano una pesante carrozza presso Terracina, guazzando in mezzo all’acqua, sembrano veramente quelli abbandonati dalle torme unne di Genserico nella loro partenza precipitosa. Altri bufali lenti e grevi tirano un carro dalle enormi ruote ai monti Ausoni di linea sobria e sdegnosa, interrotta dal Pesco montano, una rupe a foggia di torre sporgente dal Tirreno come faro ciclopico. Esso fu tagliato sotto il primo impero perché contenesse la via Appia, la quale solo colà toccava il mare ed era un punto strategico guardato dal presidio romano chiuso nel Castrum che circondava il tempio di Anxur. Sul davanti del quadro il terriccio melmoso si affloscia ed affonda . L’ampio paesaggio sembra fasciato in tedio profondo , in un silenzio pauroso ed il carro ed i bufali ed i conducenti sembrano silenziose apparizioni fantastiche. Ancora altri bufali affogati nel fango , con le teste torte in alto , ansanti, guardati da due butteri monumentali, selvaggi ruderi di una remota età eroica. Desolazione epica domina anche nelle rovine del porto di Trajano, ora pozzanghera in cui guazzano i bufali, ma un tempo rifugio ricco di vele e di grida che vide partire verso l’Africa gran parte del bottino di Genserico. E’ un arco di terra melmosa cui sono attaccati ancora gli anelli per le navi e al di là di essa si stende sconfinato il mare, rompendosi in spuma sulla terra
superstite ch’esso ogni dì più incalza e sopprime. L’organismo coloristico è squisito : i toni aurati iridescenti delle nuvole pendule sul mare si fondono mirabilmente con quelli oscuri e sordi dell’acqua opaca e della terra che scoscende , rilevati dalla massa azzurra del monte e dalla macchia rossa della casetta che si erge a destra . Molti di questi finissimi quadri si fan notare , oltre che per la loro significazione sempre profonda , per la raffinata seduzione del colore. Vi è una tempera – L’aratura a Foro Appio- che è tutta una delicata sinfonia di toni gialli nell’immensità triste del piano, nelle figure dell’uomo e dei buoi, atomi perduti nello spazio. Un’altra tempera –Nel lago di Nemi, sotto villa Cesarini- in cui attraverso un incrocio fantastico di olmi e platani s’intravvede il cielo roseo sorridente sulle masse azzurrine dei monti, è un accordo finissimo di giallo, verde , rosso , azzurro. Nell’Aratura con i bufali è il roseo chiarore dei monti che anima il paesaggio illuminandolo di un sorriso infinito di pace e di gioia, mentre un lungo convoglio di bufali immani passa con andatura lenta grave come nell’eternità del tempo. Fini illustrazioni ha anche Ostia. Una tempera
che ritrae un piccolo cimitero settecentesco , il cui modesto ingresso è fiancheggiato da due colonne joniche, ornamento forse di qualche villa romana, è una visione di una semplicità e di una signorilità più che squisita, resa con magnifica nitidezza e rilievo, animata da un occhieggiare vivace di papaveri che squillano nella chiara luminosità diffusa sulla campagna. E’, come tante cose del Sartorio, una cosa fatta di niente, ma piena di freschezza e di aristocratica distinzione. Guardate il Pagliaio così morbido, tagliato finemente sull’orizzonte luminosissimo, perlaceo per lo sfolgorare del sole. Guardate lo studio di Tor di Quinto: una semplicissima linea di colline su cui si arrampicano curve le pecore, tutta soffusa di una tristezza e di una poesia infinita. Il Sartotio ha la virtù dei grandi artisti, quella di innalzare ad espressione di arte le forme più umili della vita e della natura, di essere sempre semplice ed originale insieme, di animare come per incantesimo perfino manifestazioni d’arte strascinate per tutte le mostre e tutte le botteghe. Vuol rendere le rovine dei
monumenti romani e non fa né la veduta, né la cartolina illustrata. Le colonne superstiti del Teatro di Ostia sembrano membra sparse, ma ancora viventi, di un organismo già vibrante e pare che anelino all’alto agili e fulgide; le rovine delle Terme antoniniane , quadro di fattura finissima, sembrano penetrare in ogni pietra, in ogni linea di una vita profonda e anche gli acquedotti hanno una grandiosità altera, solenne di voci remote che li rende una vera e grande evocazione di vita fuggente nei secoli. Le paludi e il Litorale pontino sono evocati in alcuni quadretti che sono i migliori della serie, specie quello rappresentante un armento di bufali che attraversa un ponte di pietra, il cui riflesso rossastro anima l’acqua appena increspata e, più ancora, quel lembo di litorale , vero capolavoro, in cui è reso possentemente l’infinito del mare e quel senso di timoroso stupore, di tristezza, di annichilimento che esso produce e che la tenue vita delle pecore beventi intensifica. Delle illustrazioni di Tivoli è assai fine quella che ritrae una cascata, ora scomparsa, scendere rumorosa e fresca tra rigogliose siepi verdi, e le due rive dell’Aniene , eleganti nella loro pace un po’ triste, fresche di ombre animatrici. Di Castel Fusano si
vede lo Stagno del Levante , immobile, triste, armonia di toni verdi, e il viale del coniglio, grandioso, in cui le masse brune dei pini ondeggianti staccano sopra il cielo diafano che appare a tratti tra esilità dei rami. La pineta di Sant’Anastasia è resa in due aspetti diversissimi- una volta oasi perduta in una desolazione immensa, affondata in un orizzonte torbido, chiuso da una monotona linea di monti- un’altra come parco signorile racchiudente una casetta candidissima: una visione gaia, fresca, aristocratica. Molti altri quadri ritraggono svariati aspetti della Campagna Romana. La strada attraverso la selva laurentina, oltre a rivelare una straordinaria abilità tecnica , è altamente suggestiva per lo sfondo misterioso, per la immobilità quasi esanime degli alberi e delle erbe che sembrano forme di una vita lontana. Di morbidezza squisita e finissima di chiaroscuro è la Raccolta del fieno. Più fine e possente il Temporale sulla via Cassia bianca di polvere, su cui rotolano con grave incedere carri tirati da bufali. L’appesantimento dell’aria , l’attenuazione dei colori pel filtrare lieve del sole, l’aspettazione misteriosa e raccolta che si diffonde sugli
uomini e sulle cose insieme a una tristezza profonda fanno apparire imminente l’abbattersi della bufera. L’Aratura di settembre in una sterminata e desolata campagna chiusa da monti assume una grandiosità sovrannaturale come se fosse una funzione sacra. Assai delicata è la Pastorale, pervasa di una tristezza elegiaca che si effonde non solo dal volto accasciato del suonatore gonfio e lacero, ma anche da quel rudero-voce d’altri tempi- staccante sul piano erboso e dalla squallida distesa interminata avvolta in una luminosità diffusa. Epica è la Sera nella Campagna Romana per il rossore tragico che avvolge come di un velo di nebbia il desolato piano erboso, le pecore strette l’una all’altra, timidamente. Certi grandi quadri hanno raggiunto una vita straordinaria, riprodotti in piccole dimensioni. Così quello già a Venezia in cui si vedono le pecore disposte a semicerchio come per un misterioso rito sotto il tenue chiarore roseo dell’estremo crepuscolo, mentre la luna rosseggia pallida e incerta dietro i vapori : pare che un silenzio argentino circonfonda ogni cosa ; pare che un infinito senso di poesia da ogni cosa emani. Così da Tonnara , esposta a
Milano nel 1906, che appare più intensa nell’azione, più armonica nella costruzione , più accordata nel colore. La pittura , con questi lavori, il Sartorio ha superbamente rappresentato e descritto la Campagna Romana.
Articolo e ricerche a cura di Franco Leggeri-le foto in B/N sono originali del 1906 –
Biografia di Giulio Aristide Sartorio.
Allievo prima del padre e poi dell’Accademia di San Luca fece i suoi primi passi all’insegna del fortunismo alla moda con quadi in costume settecentesco o comunque contrassegnati dalla pennellata virtuoso e dalla tematica facilmente leggibile. Nel 1883 inviò all’Esposizione di Belle Arti di Roma Dum Romae consulitur morbus imperat ovvero Malaria (opera dispersa), potente dipinto neo caravaggesco di denuncia sociale. Nel 1889 vinse la medaglia d’oro a Parigi con I figli di Caino e si avvicinò a Francesco paolo Michetti, da cui derivò l’amore per il pastello e per il paesaggio. Contemporaneamente alla frequentazione di In Arte Libertas realizza il trittico Le Vergini Savie e Le Vergini Folli per il conte Gegè Primoli, opera intrisa di umori neo bizantini. Un passo successivo fu il dittico Diana d’Efeso e gli Schiavi e La Gorgone e gli Eroi – vera e propria summa della sua stagione simbolista e delle sue riflessioni sull’arte – opera che alla Biennale di Venezia del 1899 ottenne l’acquisto statale per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Tra il 1908 e il 1912
realizzò l’intero fregio per la nuova aula del Parlamento mettendo a punto un nuovo linguaggio per la decorazione ambientale dove si coniugava il classicismo michelangiolesco con la propria sigla inconfondibile. Allo stesso periodo risale la partecipazione al gruppo dei XXV della Campagna Romana, con il quale perlustrò tutti gli amati dintorni di Roma riportandone i segni distintivi in procinto di essere cambiati per sempre dal progresso. Nel 1915 partì volontario per la guerra che documentò con una serie di lavori di straordinaria modernità caratterizzati da tagli fotografici arditi e da contrasti cromatici d’effetto. Negli anni ’20 compì una serie di viaggi in Oriente e Sud America grazie ai quali realizzò una serie straordinaria di opere contraddistinte dall’immediatezza del reportage dal vivo. L’ultimo periodo si dedicò a ritrarre la famiglia Fregene mettendo a punto un’innovativa pittura di luce post impressionista di straordinaria modernità. Morì nel 1932 a Roma durante la progettazione della decorazione del Duomo di Messina. Biografia: Nasce a Roma l’11 febbraio 1860, il nonno Girolamo e il padre Raffaele, entrambi scultori, lo avviano
all’arte. Frequenta i corsi di Francesco Podesti all’Istituto di Belle Arti. 1877-79 Si mantiene realizzando soggetti alla moda neo settecenteschi e neo pompeiani sulla scia del successo di Mariano Fortuny. Si reca a Napoli dove conosce Domenico Morelli. 1883 Partecipa all’Esposizione internazionale di Roma con Malaria (Dum Romae consulitur morbus imperat). 1884 Visita a Parigi il Salon e attraverso Vittorio Corcos viene in contatto con l’ambiente degli artisti italiani ivi operanti. 1885 Lavora come illustratore per la “Cronaca Bizantina” di Angelo Sommaruga, che lo presenta a Gabriele D’Annunzio. 1886 Stringe amicizia con Francesco Paolo Michetti ed Edoardo Scarfoglio e viene in contatto con il gruppo di artisti di “In Arte Libertas” legati a Nino Costa. Prende parte all’editio picta dell’Isaotta Guttadauro di D’Annunzio. 1889 Ottiene la medaglia d’oro all’Esposizione universale di Parigi con I figli di Caino (1887-89). Durante l’estate soggiorna con D’Annunzio a Francavilla ospite di Michetti, che lo introduce alla tecnica del pastello e alla pittura di paesaggio. 1890 Frequenta il salotto del conte Giuseppe Primoli, che gli commissiona
il trittico Vergini savie e vergini folli (Roma, Galleria comunale d’arte moderna). Espone per la prima volta con il gruppo “In Arte Libertas”. 1893 Si reca in Inghilterra per studiare le opere dei preraffaelliti e conosce a Londra William Morris. In una tappa a Parigi visita nuovamente il Salon. Invia da Parigi e Londra articoli sull’arte europea alla “Nuova Rassegna”. 1895 Espone alla I Biennale di Venezia, cui sarà presente con assiduità. 1896-99 Insegna pittura alla Scuola d’arte di Weimar su invito del granduca Carlo Alessandro di Sassonia. Si accosta al simbolismo tedesco e compie studi di animali nel giardino zoologico di Weimar. 1899 La III Biennale di Venezia gli dedica una sala personale, in cui espone il dittico Diana d’Efeso e Gorgone e gli eroi (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna). 1901 È nominato membro dell’Accademia di San Luca. Sposa Giulia Bonn. 1903 Nasce la figlia Angiola. 1904 È tra i fondatori del gruppo dei XXV della Campagna romana. 1905 Giulia Bonn rientra a Francoforte portando con sé la figlia. Pubblica il romanzo Roma Carrus Navalis – favola contemporanea. 1906 Partecipa all’Esposizione di
Milano per l’apertura del traforo del Sempione con il Fregio del Lazio, poi suddiviso in diversi pannelli. 1907 Decora il salone centrale della Biennale di Venezia con il ciclo allegorico La Luce, Le Tenebre, L’Amore e la Morte (Venezia, Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro). 1908-12 Realizza il fregio decorativo della nuova aula del Parlamento italiano progettata da Ernesto Basile. 1914 Espone all’XI Biennale di Venezia. 1914-15 Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruola come volontario con il grado di sottotenente di cavalleria. Ferito e catturato a Lucino sull’Isonzo è trattenuto nel campo di prigionia di Mauthausen, da cui viene liberato diversi mesi dopo grazie all’intercessione di papa Benedetto XV. Torna al fronte dove dipinge scene di guerra. 1917 Pubblica Tre novelle a perdita. 1919 Sposa l’attrice Marga Sevilla, con cui vive nella villa Horti Galateae. Dirige la moglie nel film Il mistero di Galatea. Si reca in Egitto per realizzare il ritratto di re Fuad I e visita Palestina, Libano e Siria. Il 14 settembre nasce la figlia Lidia. 1919-21 Collabora la casa di produzione cinematografica Triumphalis, firmando il soggetto di Clemente
VII e il sacco di Roma e dirigendo il San Giorgio. 1921 Espone alla Galleria Pesaro. 1922 Pubblica il poema illustrato Sibilla e lo scritto teorico Flores et Humus. 1923 Il 23 novembre nasce il figlio Lucio. 1924 Effettua il periplo dell’America Latina a bordo della Regia Nave Italia. 1929 Si imbarca sulla nave militare italiana Caio Duilio per una crociera nel Mediterraneo. 1930-32 Lavora alla decorazione musiva del nuovo Duomo di Messina. 1932 Muore il 2 ottobre e viene sepolto nella chiesa di San Sebastiano fuori le mura.
Articolo e ricerche a cura di Franco Leggeri-le foto in B/N sono originali del 1906 –
POGGIO NATIVO (RI)-Vittorio Fava e il suo mondo artistico, articolo di Stefania Severi
Vittorio Fava è un artista che ha al suo attivo innumerevoli mostre personali e inviti a collettive di prestigio, non solo in Italia ma anche all’estero, in particolare in Olanda, in Francia e negli Stati Uniti. Diplomatosi all’Accademia di Belle Arti di Roma, la sua città natale, ha iniziato subito la sua carriera artistica parallelamente all’insegnamento nelle scuole d’arte.
Da qualche anno ha lasciato la scuola per dedicarsi completamente all’arte, e – come egli stesso dichiara – per recuperare finalmente tempo e spazio per la sua creatività. Già, perché di tempo Fava ne ha avuto poco per operare, anche se molto per pensare. Infatti, avendo scelto di lasciare Roma per rifugiarsi in Sabina, è diventato un pendolare con tutte le problematiche connesse, prima fra tutte quella dei tempi di spostamento, lunghissimi, soprattutto per lui, che usa solo mezzi pubblici. Roma, che non aveva mai lasciato, gli era diventata inospitale avendo egli bisogno di ampi spazi per lavorare, e in città solo pochi possono permettersi tale lusso. Così era approdato a Poggio Nativo, un antico borgo di origine medievale che sorge, in forma allungata, su uno scosceso sperone di roccia a 415 metri sulle propaggini meridionali dei monti Sabini, raggiungibile percorrendo la via Salaria verso Rieti. Qui aveva trovato un appartamento abbastanza grande, proprio sulla via principale del borgo: uno spazio vitale per lui che è un accumulatore. Se non fosse un artista lo si potrebbe definire affetto da disposofobia (paura di buttare) o disturbo di accumulo, come del resto lo sono in nuce tutti i collezionisti e i bibliofili. Ma quello che per molti è da buttare, un frammento di coccio, un oggetto vecchio, un bottone inutile, un pezzetto di stoffa, una pagina di lettera, un libro squadernato, una medaglietta di latta, e tanto altro ancora, per lui è “ingrediente” di creazione. La sua azione è affine a quella dell’alchimista, da sempre intento alla trasformazione della materia, e infatti lui trasforma i frammenti e gli oggetti in qualcosa di completamente nuovo, fascinoso e dalla indubbia valenza estetica.
Fin dagli anni Sessanta Fava si dedica soprattutto ai libri d’artista, libri realizzati completamente a mano, sfogliabili e con la copertina. E sulla copertina “fioriscono” mosaici, medaglie, soldi, ditali, ganci, fettucce… su basi di cartone, legno ed anche di vinaccia (è corretto, si tratta proprio dei resti della pigiatura dell’uva!) e dentro merletti, santini, carte antiche, piume, che accompagnano le scritte, le figure e le storie che egli inventa. Alcuni di questi libri sono molto grandi, come il “Grande Libro Bianco” del 2008 che Vittorio Sgarbi ha voluto esporre alla 54a Biennale di Venezia nella sezione del Lazio, un libro alto più di due metri e che sta ritto in piedi e si può aprire. Molti dei libri hanno bisogno di piani di appoggio ampi per poter essere sfogliati, come il libro “L’alchimista Cleopatra” (2003) che si apre presentando una ricca sequenza di bottigliette, scatolette, cartigli e quant’altro, entro una sorta di bacheca. E ancora il “Grande libro su Roma” (2002), ricco di mosaici, frammenti di sculture e marmi. Ma ci sono anche libri minuscoli e preziosissimi con coralli e turchesi.
Oltre ai libri, l’artista dipinge, realizza incisioni e crea leggii e mobili, sempre con legni e metalli di recupero. Le sue opere si sono moltiplicate e, con l’aggiunta di dipinti polimaterici di grande formato, hanno nuovamente creato il problema dello spazio. La casa, infatti, si è pian piano riempita al punto tale che l’artista è stato costretto a prendere, per viverci, un altro appartamento, sempre sulla stessa strada. Questo appartamento è molto piacevole, con l’ampia sala-cucina e due bellissimi affacci, uno sulla strada e l’altro su una verandina che spazia sul verde della vallata. Ma non si pensi di trovarvi mobili Ikea (con tutto il rispetto), perché si tratta invece di pezzi unici e particolari. Spicca la bella credenza costruita da Vittorio Fava, l’unico mobile “usabile” tra quelli da lui ideati. Il primo appartamento è divenuto studio e archivio, con il piccolo bagno trasformato in “gabinetto erotico”. È un luogo dove l’artista lavora volentieri, fresco in estate e caldo in inverno. Lo spazio era tuttavia ancora insufficiente, per cui Fava ha preso un altro vasto locale, sempre sulla stessa strada, dove ha messo anche il torchio per le sue incisioni. Qui lavora quando il tempo lo consente perché d’inverno lo stanzone è decisamente troppo freddo. A giudicare dagli ingombri e dalle difficoltà oggettive di transito viene da pensare che tra un po’ avrà bisogno di altri spazi. Al momento ognuno di questi ambienti è un antro magico in cui è difficile poter vedere tutto perché le sculture, i dipinti, i libri, i mobili sono ovunque. Per esempio il mobile scultura “Mnemosine/Mobile Onirico” (1986) con dieci cassettini, tutti fatti con vari legni e con manigliette realizzate con gli oggetti più vari, in ognuno dei quali è racchiuso un elemento che rimanda al mondo femminile. Un mondo che Vittorio ama molto perché in primo luogo ama Valeria, sua moglie e brava cantante, che lo allieta con la sua musica. Se vi capita di incontrare Fava, lui vi darà compitamente il suo biglietto da visita, ma non aspettatevi un cartoncino stampato: vi troverete in mano un preziosissimo mini libretto, assolutamente unico, fatto di stoffe, carte, etc., o anche di ossi di seppia, con all’interno i suoi recapiti. Ognuno deve avere il “suo” biglietto, quello adatto a lui, spiega Fava, perché ognuno di noi è diverso. E il biglietto, oltre ai dati, ha la sigla dell’artista, come avveniva in antico, una elegante composizione con i caratteri “Faba”. Egli, per altro, firma le sue opere “opus Faba fecit” accompagnando la firma con l’anno e il luogo dell’esecuzione, “Podium Donadei”, l’antico nome di Poggio Nativo.
Breve Biografiadi Vittorio Fava, nato a Roma nel 1948, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Roma (A.A. 1968), è un artista versato in varie forme espressive.Ha iniziato negli anni Settanta in ambito neorealista e pop, creando fin d’allora oggetti. Le sue opere hanno un carattere multiforme e vanno dal libro d’artista alle opere pittoriche, incisioni, mobili scolpiti e film dipinti. Nel 2011 ha partecipato alla 54° Biennale di Venezia, padiglione della Regione Lazio con sede a Palazzo Venezia a Roma, a cura di Vittorio Sgarbi su proposta del critico Giorgio di Genova. Nel 2012 ha vinto il Premio per la Scultura alla VI Biennale Internazionale d’Arte Sacra di Lecce e ottenuto la Menzione Speciale per la sezione “C-Arte” al Premio Internazionale “LimenArte” di Vibo Valentia.
Dal 1968 a oggi espone i suoi libri d’artista in numerose mostre collettive in Italia e all’estero (Olanda, Francia, Lituania, Stati Uniti e Cina). Alcune sue opere si trovano nel Museo delle Generazioni del ’900 a Pieve di Cento, nell’Archivio Sackner di Miami (USA), nel Museo del Libro d’Artista di Caroline Corre a Verderonne (Francia), nel Museo d’Arte Contemporanea di Matino (LE). Tra le mostre personali: Museo dell’Arte Sanitaria, Roma; Biblioteca Casanatense, Roma; Abbazia di Farfa, Fara Sabina; Biblioteca Nazionale Centrale, Roma. Da alcuni anni risiede a Poggio Nativo nel Reatino.
Articolo di Ugo OJETTI: “Il Pittore Arturo TOSI” –
Rivista PAN n°3 -1934
Breve biografia dell’Artista TOSI Arturo
Arturo Tosi (Busto Arsizio, 25 luglio 1871 – Milano, gennaio 1956). Studia alla Scuola Libera di Nudo a Brera e poi, per due anni, con Adolfo Ferraguti-Visconti, formandosi nel clima della Scapigliatura sulle opere di Ottavio Ranzoni e Tranquillo Cremona. Nel 1891 esordisce alla Permanente di Milano. Nel 1909 partecipa, per la prima volta, alla Biennale di Venezia nella quale sarà presente fino al 1954; nel 1911, espone a Monaco di Baviera ed è presente all’Esposizione Internazionale di Roma. La conoscenza dell’opera di Cézanne, del 1920, lo indirizza verso la pittura del paesaggio en plein air. Nel 1924 partecipa a Bruxelles alla mostra L’Art ltalien au Cercle Artistique, nel 1925 è tra i fondatori della corrente artistica “Novecento”, partecipando alle mostre della Permanente a Milano nel 1926 e nel 1929. Nel 1926 espone a Brighton, nel 1927 a Zurigo, Lipsia, Amsterdam e Ginevra, nel 1929 a Berlino e a Parigi, nel 1930 a Basilea, Buenos Aires e Berna, nel 1931 a Stoccolma, Baltimora e Monaco, nel 1933 a Stoccarda, Kassel, Colonia, Berlino, Dresda e Vienna. Dal 1928, alla Permanente di Milano, è membro del comitato d’onore. Nel 1931 ottiene il premio della fondazione Crespi alla I Quadriennale di Roma e, a Parigi, il Grand Prix della pittura dove torna nel 1937, per partecipare all’Esposizione mondiale. Nel 1951 il Comune di Milano gli dedica una mostra antologica premiandolo con una medaglia d’oro. Alla sua morte, la Biennale di Venezia gli dedica una mostra commemorativa, esponendo sessanta opere.
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