Barbara O’Brien–Operatori e Cose-Confessioni di una schizofrenica-
-ADELPHI EDIZIONI-
Con una Postfazione di Michael Maccoby Traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini
Descrizine del libro di Barbara O’Brien-Immaginate di svegliarvi una mattina come le altre e vedere ai piedi del vostro letto tre figure spettrali, ma terribilmente vere – un ragazzino con un sorriso stampato sul volto, un uomo anziano dall’aria autorevole, che ispira fiducia, uno strano individuo con lunghi capelli dritti e neri, lineamenti femminei e un’espressione arrogante. E immaginate, da quel giorno in poi, di non poter più pensare liberamente, di diventare le cavie di un oscuro esperimento e non poter fare altro che eseguire i loro ordini. È quello che è accaduto a Barbara O’Brien, pseudonimo di una giovane donna che alla fine degli anni Cinquanta ha pubblicato questo libro: una delle più straordinarie testimonianze dall’interno di un delirio schizofrenico durato sei mesi, da cui miracolosamente, e con le sue sole forze, è riuscita a liberarsi. Ma chi sono quelle figure che ha visto materializzarsi nella sua stanza, e cosa vogliono da lei? Sono gli «Operatori», occhiuti guardiani che nel suo universo paranoide studiano, sorvegliano, escogitano sempre nuovi modi per esercitare potere sulle loro vittime, le «Cose», a cui non resta che guardare e aspettare. Eppure, usciti insieme a lei dalla cronaca del suo delirio, ci sembra di avvertire una strana affinità fra l’operare di quelle feroci e persecutorie presenze e la struttura stessa su cui si regge il mondo chiamato «normale».
Barbara O’Brien
Operatori e Cose
Confessioni di una schizofrenica
In copertina
Michaël Borremans, Gli allievi (2001). Fotografia di Peter Cox. courtesy zeno x gallery, antwerp
Con una Postfazione di Michael Maccoby, Traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini, Fabula, 374 2021, pp. 251 isbn: 9788845936173 Temi: Letteratura nordamericana
ADELPHI EDIZIONI S.p.A
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Marianne Moore (St. Louis, Missouri, 1887 – New York 1972) esordì nel 1921 con Poems, una raccolta di poesie giovanili che H. Doolittle, sua ex compagna al Bryn Mawr College, e R. McAlmon s’incaricarono di pubblicare nel più stretto riserbo. Tra il 1925 e il 1929, dopo un primo successo ottenuto con Observations (1924), diresse la rivista letteraria «The Dial», divenendo uno dei protagonisti del dibattito sulla poesia modernista. Spesso sospesa tra sconfinamenti fantastici e scientifica puntualità d’osservazione (noto l’eclettico bestiario cui M. dà vita nei suoi versi), la sua poesia è siglata da una cifra ironica e da un linguaggio che si fa sempre più rarefatto e compresso. Tra le sue opere più significative: The pangolin and other verse (1936); What are years (1941); Nevertheless (1944); A face (1949); Collected poems (1951 – Premio Pulitzer, National Book Award e Premio Bollingen). Oltre alle raccolte successive (Like a bulwark, 1956, trad. it. 1974; O to be a dragon, 1959; Tell me, tell me: granite, steel, and other topics, 1966), ha lasciato un volume di saggi, Predilections (1955) e un’esemplare traduzione di The fables of La Fontaine (1954). Il Complete poems of MarianneMoore è apparso nel 1967 (trad. it., in 2 voll., 1972-74).
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La poesia
Non piace neanche a me: ci sono cose assai più importanti di simili inezie. Comunque, leggendola con tranquillo disprezzo, uno scopre che in fin dei conti può esserci del genuino. Mani capaci di afferrare, occhi capaci di dilatarsi, capelli all’occorrenza capaci di rizzarsi, sono cose importanti non in virtù delle interpretazioni pompose che possono suggerirvi, ma perchè sono utili. Quando diventano derivate a tal punto da non essere più intellegibili siamo tutti d’accordo: non possiamo ammirare ciò che non riusciamo a capire: il pipistrello appeso a testa in giù o in cerca di qualcosa da mangiare, elefanti che cozzano, un cavallo selvaggio che si rotola, un lupo sotto un albero, instancabile, il critico ottuso che si contrae di scatto la pelle come a un cavallo infastidito da un tafano, il tifoso di base-ball, l’esperto di statistica- e non ha senso neppure svalutare “documenti commerciali e libri scolastici”. Sono importanti anche questi. Però occorre distinguere: se vengono utilizzati a sproposito da poeti di secondo ordine, il risultato non sarà mai poesia. Nè vi sarà poesia finchè i poeti non sapranno essere i “veristi dell’immaginazione” sdegnando banalità e insolenza, e non sottoporranno al vostro esame “giardini immaginari con dentro rospi veri”. Se, comunque, pretendete da un lato il materiale della poesia allo stato grezzo e dall’altro richiedete ciò che è genuino, allora vuol dire che la poesia vi interessa.
Da Unicorni di mare e di terra. Poesie 1935-1951, Rizzoli.
Serpenti, manguste, incantatori di serpenti e simili
Ho un amico che pagherebbe un occhio della testa per quelle lunghe dita tutte uguali –
per quegli orrendi artigli d’uccello, per quell’aspide esotico e la mangusta –
prodotti del paese dove tutto è fatica, il paese del cercatore d’erba,
del portatore di torce, del servo addetto al cane, del portatore messaggero, del santone.
Affascinato da questo esimio verme, selvatico e feroce quasi quanto il giorno della cattura,
lo fissa con occhi sbarrati che sembrano incapaci d’analisi.
«Il serpe sottile che si snoda fulmineo nell’erba,
la tartaruga placida dal dorso variegato,
il camaleonte che passa dalla frasca alla pietra e dalla pietra al ruscello»,
un tempo gli accendevano l’immaginazione;
ora la sua ammirazione è concentrata tutta qui.
Spesso, ma non pesante, si drizza sporgendo dal suo cesello da viaggio,
l’essenzialmente ellenico, il plastico animale tutto d’un pezzo dal naso alla coda;
non si può fare a meno di guardarlo come si è costretti a guardare le ombre delle Alpi
che nelle loro pieghe imprigionano come mosche nell’ambra
i ritmi della pista di pattinaggio.
Questo animale, al quale dalla notte dei tempi
è stata attribuita tanta importanza,
bello, a quanto sostenevano i suoi adoratori – a che scopo fu inventato?
Forse per dimostrare che quando l’intelligenza nella sua forma pura
s’imbarca in un ordine di pensiero improduttivo deve fare marcia indietro?
Chissà; la sola cosa certa al riguardo è la sua forma; ma perché protestare?
La passione di migliorare il prossimo è di per sé una malattia affliggente.
Meglio la repulsione, che non avanza pretese.
Che cosa sono gli anni?
Cos’è la nostra innocenza,
cos’è la nostra colpa?
Tutti sono nudi,
nessuno è salvo.
E da dove viene il coraggio:
la domanda senza risposta,
il dubbio risoluto – che chiama
muto, e sordo ascolta –
che nella sventura,
nella morte stessa
dà coraggio agli altri,
e nella stessa sconfitta induce
l’anima a farsi forte?
Sa vedere nel fondo delle cose ed è lieto
chi accede alla mortalità e nella sua prigione si eleva
al di sopra di se stesso,
come il mare dentro un abisso
lotta invano per liberarsi
e trova nell’arrendersi
il suo perdurare.
Così chi sente fortemente
opera da forte. Anche l’uccello
cresciuto cantando
rinsalda la propria forma e l’innalza.
Benché prigioniero, dice
col suo canto potente
che la soddisfazione è cosa vile,
cosa pura è la gioia.
Questa è la mortalità.
Questa è l’eternità.
A una lumaca
Se «la concisione è la prima grazia dello stile»,
tu la possiedi. La contraibilità è una virtù
come lo è la modestia.
Non è l’acquisizione d’una cosa qualsiasi
capace di adornare,
né la qualità accidentale
che può accompagnarsi a una cosa espressa bene,
che noi apprezziamo nello stile,
ma il principio nascosto:
nell’assenza di piedi, «un metodo conclusivo»;
«una conoscenza dei princìpi»,
nel curioso fenomeno del tuo corno occipitale.
New York
l’epopea del selvaggio,
cresciuta dove lo spazio ci occorre per i traffici –
il centro del commercio all’ingrosso delle pellicce,
costellato di tende d’ermellino e popolato di volpi,
i lunghi peli che ondeggiano due dita sopra il pellame;
il terreno cosparso di pelli di daino – macchie di bianco su bianco,
«così come un ricamo monocromo su raso può avere una trama varia»;
e vizze piume d’aquila compresse dal vento;
e strisce di pelli di castoro – bianche, sollecite di neve.
Ce ne corre di spazio tra la «regina carica di gioielli»
e il bellimbusto col manicotto,
tra il cocchio dorato a forma di flacone di profumo,
e la confluenza del Monongahela con l’Allegheny
e la filosofia scolastica delle terre selvagge.
Non è la copertina dei romanzetti di frontiera che conta,
le cascate del Niagara, i cavalli pezzati e la canoa da guerra;
non è il dire «la pelliccia se non è più bella delle pellicce delle altre,
è meglio non averla» –
e il cui equivalente in carne cruda e in bacche ci basterebbe
per sfamare l’universo;
non è il clima dell’ingegnosità,
le pelli di lontra, di castoro, di puma
senza armi da fuoco, né cani;
non è il profitto,
ma «la possibilità di accedere all’esperienza».
Una tomba
Uomo che scruti dentro il mare,
impedendo la vista ad altri che come te avrebbero diritto di guardare,
e dell’umana natura porsi nel bel mezzo d’una cosa,
ma in mezzo a questa non ti è possibile stare;
il mare non ha altro da offrire che una tomba ben scavata.
Gli abeti stanno in processione con in cima
una smeraldina zampetta di tacchino,
riservati come i loro profili, non dicono nulla;
non è la repressione, comunque, la più evidente caratteristica del mare;
il mare è un collezionista, pronto a restituire uno sguardo rapace.
Altri, oltre a te, hanno avuto quello sguardo –
e la loro espressione non è più di protesta; i pesci non li esplorano più
poiché le loro ossa non hanno durato;
gli uomini calano le reti, senza sapere che stanno dissacrando una tomba,
e remano via veloci – le pale dei remi
che si muovono insieme come le zampe dei ragni d’acqua
quasi non vi fosse una cosa come la morte.
Le increspature avanzano insieme in una falange –
belle sotto i ricami della spuma,
e svaniscono esauste mentre il mare
penetra mormorando fra le alghe e si ritira;
gli uccelli, attraversano a nuoto l’aria velocissimi, stridendo come sempre –
lo scudo della tartaruga tormenta la base degli scogli muovendosi sotto;
e l’oceano, sotto il pulsare dei fari e il rintocco delle boe,
come al solito avanza, e non sembra neppure
lo stesso oceano in cui le cose, cadendo, sono destinate ad affondare –
quell’oceano in cui, se una cosa si torce o si rigira,
lo fa, semmai, senza volontà né coscienza.
Non c’è cigno più bello
«Non c’è acqua più immobile
delle morte fontane di Versailles.» Non c’è cigno
dal cupo cieco sguardo obliquo
e dalle gambe di gondoliere, bello quanto
il cigno di porcellana
dalle pupille nocciola e dall’aureo collare dentato
che ne attesta l’appartenenza.
Allogato nel candelabro Luigi XV
di boccioli dipinti di celòsie
dalie, ricci di mare e sempreverdi,
se ne sta appollaiato sulla spuma ramificante
di lucidi fiori scolpiti,
alto, a suo agio. Il re è morto.
Che cosa sono gli anni
Che cos’è la nostra innocenza, che cosa la nostra colpa? Tutti sono nudi, nessuno è salvo. E donde viene il coraggio: la domanda senza risposta, l’intrepido dubbio, – che chiama senza voce, ascolta senza udire – che nell’avversità, perfino nella morte, ad altri dà coraggio e nella sua sconfitta sprona
l’anima a farsi forte? Vede profondo ed è contento chi accede alla mortalità e nella sua prigionia ti leva sopra se stesso, come fa il mare dentro una voragine, che combatte per essere libero e benché respinto trova nella sua resa la sua sopravvivenza.
Così colui che sente fortemente si comporta. L’uccello stesso, che è cresciuto cantando, tempra la sua forma e la innalza. È prigioniero, ma il suo cantare vigoroso dice: misera cosa è la soddisfazione, e come pura e nobile è la gioia. Questo è mortalità, questo è eternità.
Da Le poesie, a cura di Lina Angioletti e Gilberto Forti, Adelphi.
In questa età di aspra ambizione giova la noncuranza e
“in verità, non è affare degli dèi cuocere vasi d’argilla”. Non lo fecero in questa circostanza. Alcuni rotarono sull’asse del proprio valore, come se l’eccessiva popolarità potesse essere un vaso;
non si avventurarono in una professione di umiltà. Il cuneo levigato che poteva spaccare il firmamento era ammutolito. Infine si buttò via da se stesso e ricadendo conferì ad un povero sciocco un privilegio.
“Superiore in altezza a tutti gli altri di quanto può esser lunga una conversazione di cinquecento anni”, ci fu uno che raccontava cose che non avrebbero potuto mai essere vere – ed erano migliori le sue storie di tutta l’insocievole, senile
filastrocca che parla di certezza; il suo recitare in sordina era più tremendo, nella sua efficacia,
del più feroce assalto a viso aperto. Il bastone, la sacca, la finta incoerenza dei modi sono i segni che rivelano quell’arma, la salvaguardia di se stessi.
Cogliere e scegliere
La letteratura è un fase della vita. Per chi ne ha paura la situazione è senza rimedio; per chi le si accosta in confidenza non conta quello che se ne può dire. L’opaca allusione, il simulato volo verso l’alto non ottengono nulla. Perché stendere un velo sopra il fatto che Shaw si muove con impaccio sul terreno dei sentimenti ma per il resto è gratificante; che James è tutto quello che di lui si è detto? Non esiste uno Hardy romanziere e uno Hardy poeta, ma un uomo solo che interpreta la vita come emozione. Il critico deve sapere quello che a lui piace: Gordon Craig con il suo “questo sono io” e “questo è mio”, con i suoi tre re magi, i suoi “tristi prati francesi” e il suo “ciliegio cinese”,
Gordon Craig così soggettivo e privo di pudori – un vero critico.
E Burke è uno psicologo, di una curiosità acuta da procione. Summa diligentia; per quell’imbroglione che ha un nome così divertente – molto giovane e molto temerario – Cesare attraversò le Alpi sul sommo di una “diligenza”! Noi non siamo maniaci del significato, ma ci sconcerta la dimestichezza con i significati errati. Noioso calabrone, le candele non sono fatte per l’elettricità. Cagnolino che corri per il prato ad addentare la biancheria
e sostieni di avere preso un tasso, ricorda Senofonte: basta un comportamento elementare per metterci sulla pista. “Una buona salva di latrati”, qualche robusta grinza che increspa la pelle tra le orecchie, è tutto quello che noi pretendiamo.
Nei giorni del colore prismatico
non nei giorni di Adamo ed Eva, ma quando Adamo era ancora solo; quando il fumo non c’era, e il colore era bello, non per l’affinamento di un’arte primitiva, ma per la sua stessa originalità; e nulla c’era a modificarlo se non la nebbia che saliva, e l’obliquo era una variante del perpendicolare, semplice a vedersi e a spiegarsi: non è più così; né la fascia blu-rosso-gialla di incandescenza che era il colore ha serbato il suo schema: è anch’essa una di quelle cose in cui si può immettere e scoprire molto di peculiare; la complessità non è un delitto, ma se la portate fino alla soglia dell’oscurità, più nulla sarà semplice. La complessità, poi, che sia stata affidata alle tenebre, invece di dichiararsi per quella peste che è in realtà, si agita intorno come per confonderci con la tetra illusione che l’insistenza è la misura di ogni risultato e che ogni verità dev’essere caligine. Gutturale com’è principalmente la sofisticazione è quel che è sem- pre stata – agli antipodi delle iniziali grandi verità. “Parte strisciava, parte si accingeva a strisciare, il resto stava torpido nella tana”. Nel procedere lento, sussul- tante, nel gorgogliare e in tutte le minuzie – noi abbiamo la classica moltitudine di piedi. A quale scopo! La verità non è l’Apollo del Belvedere, non è cosa formale. L’onda potrà sommergerla, se vuole. Sappi però che ci sarà se dice: “Ci sarò quando l’onda se n’è andata”.
Da Le poesie, a cura di Lina Angioletti e Gilberto Forti, Adelphi.
«Avamposto»
«Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Avamposto
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
-Traduzione di Franca Pece-ADELPHI EDIZIONI-Milano
Risvolto del libro di Vladimir Nabokov-Mašen’ka-«La nota propensione dei principianti a violare la propria vita privata inserendo sé stessi, o un sostituto, nel loro primo romanzo è dettata, più che dall’attrattiva di un tema già pronto, dal sollievo di sbarazzarsi di sé prima di passare a cose migliori» scrive Nabokov introducendo la traduzione inglese di Mašen’ka con l’abituale, «scintillante alterigia» (la formula è di Citati). Ma di che cosa, in realtà, deve «sbarazzarsi» l’autore attraverso Ganin, l’émigré russo che nei primi anni Venti trascina la sua «insulsa indolenza» per le strade di Berlino? Il Nabokov appena ventiseienne che dedica il libro alla giovane moglie ha ormai capito che occorre lasciarsi alle spalle «i flirt di anni passati». Così, negli ultimi quattro giorni in cui condividerà i pasti con i tragicomici personaggi che popolano la sordida pension della vedova Dorn (un vecchio poeta, due ballerini classici «leziosi e incipriati», una polposa ragazza), mentre aspetta in un’ansia crescente l’arrivo di Mašen’ka, la donna che è stata il suo primo amore e che oggi è la moglie di un altro, Ganin rivivrà, con intensità lancinante, la stagione trascorsa con lei, da adolescente, nella diletta casa di campagna, sullo sfondo della natura fiabesca della Russia, la terra natìa per sempre perduta. Intuendo, in qualche modo, che quei quattro giorni, in cui non c’è alcuna «discrepanza fra il corso della vita passata e quello della vita presente», rimarranno forse «i più belli della sua vita».
In copertina
David Jagger, Olga (1936, particolare). Collezione privata.
-Traduzione di Giovanni Buttafava e Serena Vitale-
ADELPHI EDIZIONI – Milano
In una delle sue vite precedenti Iosif Brodskij fu sicuramente italiano. E quando l’esilio lo costrinse a lasciare la Russia, a cambiare continente e impero, il poeta si affrettò a tornare nel paese per cui aveva sempre nutrito una lancinante nostalgia, che aveva illuminato la sua memoria con squarci di luce anche nei plumbei anni dei soprusi e della persecuzione. Venne in Italia, e lo colse come una vertigine la gioia dell’agnizione: riconobbe volti, vie, piazze, calli, lungarni, luoghi di battaglie, antichissimi compagni di avventure e disastri. Riconobbe soprattutto il profumo del mare e per una volta ancora ammirò i prodigi dell’acqua, la pronuba che aveva per sempre apparentato le sue due patrie: quella reale e quella del ricordo, Pietroburgo e Venezia. In Italia, Brodskij entrava nel paesaggio come la figura del donatore in una pala d’altare. E quel panorama di rovine e smozzicate vestigia esaltava in lui la percezione del fondale necessario di ogni letteratura: il tempo.
Iosif Brodskij- Poeta russo (Leningrado 1940 – New York 1996)
In copertina-Illustrazione tratta dall’ Hypnerotomachia Poliphili, Aldo Manuzio, Venezia, 1499.
ADELPHI EDIZIONI S.p.A-
Via S. Giovanni sul Muro, 14
20121 – Milano
Tel. +39 02.725731 (r.a.)
Iosif Brodskij- Poeta russo (Leningrado 1940 – New York 1996).Di famiglia ebrea, autodidatta, avendo lasciato la scuola a 15 anni, cominciò a pubblicare le sue poesie nel 1958. Processato per “parassitismo”, subì un periodo di reclusione (1964-65). Espulso dal suo paese nel 1972, ha vissuto negli USA, dove sono apparse tutte le sue raccolte di versi: Stichotvorenija i poemy (“Poesie e poemi”, 1965); Ostanovka v pustyne (1970; trad. it. Fermata nel deserto, 1979); Konec prekrasnoj epochi (“Fine di una bellissima epoca”, 1977); Čast reči (“Parte del discorso”, 1977); Rimskie elegii (“Elegie romane”, 1982); Novye stansy k Auguste (“Nuove stanze ad Augusta”, 1983). Altra traduzione italiana: Poesie 1972-1985 (1986). Fedele a una tradizione che egli tuttavia rielabora in modi personali, arricchendola in particolare di suggestioni che provengono non solo dalla lezione di O. E. Mandel´štam e di B. L. Pasternak, ma anche da J. Donne, T. S. Eliot e W. H. Auden, e dalla conoscenza della Bibbia, B. è poeta intimo e speculativo, cantore di una memoria lucida e disincantata, lontano da tentazioni declamatorie. In inglese ha pubblicato una raccolta di saggi, ricordi e ritratti (Less than one, 1986, trad. it. in 2 voll.: Fuga da Bisanzio, 1987, e Il canto del pendolo, 1987), in italiano Fondamenta degli Incurabili (1989). Nel 1987 gli è stato assegnato il premio Nobel per la letteratura. Negli anni Novanta ha continuato a risiedere negli Stati Uniti, dove ha svolto attività accademica e dove è stata pubblicata la sua ultima raccolta di saggi in inglese, On grief and reason (1995; trad. it. 1998), e una raccolta di poesie, in parte tradotte, in parte composte direttamente in inglese, dal titolo So forth (1996). In traduzione italiana è stata pubblicata la raccolta Poesie italiane (1996), voluta espressamente dal poeta. Nel 1989 era stato “riabilitato” nella sua patria, che negli anni Novanta manifestò un crescente interesse per il poeta. È stata pubblicata una prima raccolta di opere, Sočinenija Josifa Brodskogo (“Opere di Iosif Brodskij”, 4 voll., 1992-95), e dopo la sua morte si è dato inizio alla pubblicazione della sua opera completa. Inoltre sono apparsi alcuni volumi di versi, Bog sochranjaet vsë (“Dio conserva tutto”, 1992) e Pejsaž s navodneniem (“Paesaggio con inondazione”, 1995), e il volumetto dedicato alla poetessa M.I. Cvetaeva (O Cvetaevoj “Sulla Cvetaeva”, 1997). Per suo espresso desiderio è stato sepolto a Venezia.
Benedetto Croce Soliloquio e altre pagine autobiografiche-
A cura di Giuseppe Galasso-Prefazione di Piero Craveri-
ADELPHI EDIZIONI- Milano
Risvolto-Alla propria «autobiografia mentale» Benedetto Croce ha dedicato, oltre al Contributo alla critica di me stesso, numerosi luoghi delle sue opere, della corrispondenza e, soprattutto, del diario che per oltre quarant’anni ha tenuto nell’austero intento di «invigilare» sé stesso. Ritagliando da queste fonti i passi più rivelatori, con una finezza pari alla sua competenza, Giuseppe Galasso ha costruito un’antologia capace di farci vivere dall’interno l’ininterrotto dialogo che Croce ha intrattenuto con sé stesso e di svelarci così le ragioni profonde di un’attività tanto prodigiosa. Un’attività che nasce da un’intima tendenza per la letteratura e per la storia e che, dopo avergli consentito di superare gli anni dolorosi e cupi successivi alla scomparsa dei genitori e della sorella nel terremoto del 1883, varca i confini dell’erudizione per poi aprirsi alla vita politica e sociale. Anche di questo ruolo centrale sulla scena pubblica cogliamo qui i risvolti più personali e segreti: dall’«amaro compiacimento» che gli deriva nel 1925 – dopo il rifiuto di sostituire Gentile come ministro dell’Istruzione – dal «sentirsi libero tra schiavi», al senso di liberazione «da un male che gravava sul centro dell’anima» suscitato dall’arresto di Mussolini, sino all’emblematica confessione del 1951: «La morte … non può fare altro che così interromperci, come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare».
A cura di Giuseppe Galasso.
Prefazione di Piero Craveri.
INDICE
SOLILOQUIO e altre pagine autobiografiche
L’infanzia 15
Soggiorno a Roma dopo il terremoto 23
Superamento dell’angoscia 33
Il mistero della verità 41
Vista dalla casa 47
Commento a Caporetto 53
Commento alla $ne della guerra 57
Rifiuto di entrare nel governo Mussolini 65
Meditativa tristezza 69
Incursione a casa 73
I « tempi imperiali » 79
Dedica della Storia d’Europa a Thomas Mann 85
La stanchezza di un tempo difficile 91
La caduta di Mussolini 97
Riflessioni su quanto gli sta accadendo 101
Dopo la guerra 107
Chiusura dei Taccuini 111
Soliloquio 119
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Traduzione di Gianni Pannofino-ADELPHI EDIZIONI SPA
SINOSSI
Raymond Chandler –L’aria di Pasadena è «immobile, rovente e profumata» quando Marlowe, sigaretta spenta fra le labbra e cappello calcato sulla fronte, fa il suo ingresso nella sontuosa residenza di Mrs. Elizabeth Murdock. L’incarico che la donna gli prospetta dalla sua chaise-longue di vimini, mentre si scola un bicchiere di porto dopo l’altro, non si direbbe dei più difficili, né dei più pericolosi: ritrovare un’antica e rarissima moneta d’oro – il prezioso doblone Brasher – sottratta alla collezione del defunto marito, probabilmente dalla nuora scomparsa. Ma non appena Marlowe fiuta una pista promettente e sente a portata di mano la soluzione del caso, una serie di omicidi indecifrabili fa calare sull’indagine una fitta coltre di mistero. Per vederci chiaro dovrà spingersi a Bunker Hill – «città vecchia, perduta, fatiscente e piena di balordi» – e frugare palazzi popolati da inquilini sfuggenti, portieri che «sono sempre un po’ cani da guardia e un po’ ruffiani», «uomini anziani dai volti che sembrano battaglie perse». Niente, comunque, che un detective del suo calibro, armato come sempre di laconico cinismo e un’aria imperturbabile da eroe romantico, non possa affrontare, e come sempre nella sua inimitabile maniera, attraversando la nera notte di Los Angeles fra ricatti, night club, pinte di whisky e segreti celati dal tempo.
Negli anni venti conobbe colei che diventò l’amore della sua vita, Cissy Pascal, moglie di un pianista, di 18 anni più grande di lui; per lui divorziò dal marito, ma solo nel 1924, alla morte della madre di Chandler, contraria a quest’unione, Raymond e Cissy si sposeranno. Iniziò un periodo di relativa tranquillità per i due, fino al 1931 circa, Chandler fece carriera in una serie di aziende petrolifere e non scriveva più, nemmeno come giornalista. In una lettera di anni dopo confessò di aver odiato quel lavoro per cui, nonostante il successo, ai primi degli anni trenta entrò in crisi profonda: il matrimonio non funzionava, iniziò ad avere rapporti extra-coniugali con le sue segretarie, ma soprattutto iniziò a bere, avendo problemi al lavoro (come il suo personaggio alter-ego, Philip Marlowe).
Nel 1932 il licenziamento portò Chandler a una crisi esistenziale ed economica, ma fu grazie a questa crisi che trovò una sorta di “disperazione rabbiosa e speranzosa” che gli fece dire: “io sono vivo, attraverso la pagina, attraverso il racconto”. Iniziò quindi a scrivere pulp fiction per guadagnarsi da vivere e pubblicò il suo primo racconto “I ricattatori non sparano” nel 1933, all’età di quarantacinque anni, sulla rivista Black Mask, una rivista che pubblicava racconti di vita vissuta, di indagini della strada, pieni di azione, con inseguimenti e casi risolti con “pugni e pistole”. Chandler era un fervente ammiratore di Dashiell Hammett che, a suo dire, aveva restituito il delitto alla gente, perché “se la gente ammazza qualcuno lo fa per un motivo”. Pur non guadagnando molto, Chandler era soddisfatto, e il rapporto con la moglie tornò sereno.
Nel 1939 pubblicò il suo primo romanzo, Il grande sonno, dove compare per la prima volta il detective Philip Marlowe, che si muove nella Los Angeles bella e corrotta del decennio degli anni trenta. Il libro ebbe un discreto successo, ma solo nel 1942, quando fu scoperto da Hollywood, il successo gli arrise davvero, sia come romanziere che come sceneggiatore, per cui firmò un contratto con la Paramount nel 1943. Scrisse una trentina di racconti nonché otto romanzi e un racconto incompiuto, tutti e nove con il detective Marlowe come protagonista, dal 1939 al 1953, alcuni dei quali sono capolavori, non solo del genere Noir. Come sceneggiatore per Hollywood, Chandler traspose per il cinema molti dei suoi romanzi, con Robert Mitchum ed Humphrey Bogart considerati i migliori interpreti del suo rude detective dal cuore d’oro. Il suo lavoro ad Hollywood incluse anche sceneggiature per altri noir e polizieschi, le più importanti sono quelle de La fiamma del peccato (di Billy Wilder, 1944), Il fantasma (di Lewis Allen, 1945), La dalia azzurra (di George Marshall, 1946) e L’altro uomo (di Alfred Hitchcock, 1951).
Precipitò nuovamente nel tunnel dell’alcolismo e tentò una sorta di suicidio nel 1955, un anno dopo la morte dell’adorata moglie Cissy. Prima di aver ultimato l’ottavo romanzo della saga di Marlowe, morì di polmonite a La Jolla nel 1959. Nel 1988, per il centenario della nascita dello scrittore, venne dato il compito di terminare l’ultima opera di Chandler al giallista Robert B. Parker.
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All’inizio si parlava di libri unici. Adelphi non aveva ancora trovato il suo nome. C’erano solo pochi dati sicuri: l’edizione critica di Nietzsche, che bastava da sola a orientare tutto il resto. E poi una collana di Classici, impostata su criteri non poco ambiziosi: fare bene quello che in precedenza era stato fatto meno bene e fare per la prima volta quello che prima era stato ignorato. Sarebbero stati stampati da Mardersteig, come anche il Nietzsche. Allora ci sembrava normale, quasi doveroso. Oggi sarebbe inconcepibile (costi decuplicati, ecc.). Ci piaceva che quei libri fossero affidati all’ultimo dei grandi stampatori classici. Ma ancora di più ci piaceva che quel maestro della tipografia avesse lavorato a lungo con Kurt Wolff, l’editore di Kafka.
Per Bazlen, che aveva una velocità mentale come non ho più incontrato, l’edizione critica di Nietzsche era quasi una giusta ovvietà. Da che cosa si sarebbe potuto cominciare altrimenti? In Italia dominava ancora una cultura dove l’epiteto irrazionale implicava la più severa condanna. E capostipite di ogni irrazionale non poteva che essere Nietzsche. Per il resto, sotto l’etichetta di quell’incongrua parola, disutile al pensiero, si trovava di tutto. E si trovava anche una vasta parte dell’essenziale. Che spesso non aveva ancora accesso all’editoria italiana, anche e soprattutto per via di quel marchio infamante.
In letteratura l’irrazionale amava congiungersi con il decadente, altro termine di deprecazione senza appello. Non solo certi autori, ma certi generi erano condannati in linea di principio. A distanza di qualche decennio può far sorridere e suscitare incredulità, ma chi ha buona memoria ricorda che il fantastico in sé era considerato sospetto e torbido. Già da questo si capirà che l’idea di avere al numero 1 della Biblioteca Adelphi un romanzo come L’altra parte di Kubin, esempio di fantastico allo stato chimicamente puro, poteva anche suonare provocatorio. Tanto più se aggravato dalla vicinanza, al numero 3 della collana, di un altro romanzo fantastico: il Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki (e non importava se in questo caso si trattava di un libro che, guardando alle date, avrebbe potuto essere considerato un classico).
Quando Bazlen mi parlò per la prima volta di quella nuova casa editrice che sarebbe stata Adelphi – posso dire il giorno e il luogo, perché era il mio ventunesimo compleanno, maggio 1962, nella villa di Ernst Bernhard a Bracciano, dove Bazlen e Ljuba Blumenthal erano ospiti per qualche giorno –, evidentemente accennò subito all’edizione critica di Nietzsche e alla futura collana dei Classici. E si rallegrava di entrambe. Ma ciò che più gli premeva erano gli altri libri che la nuova casa editrice avrebbe pubblicato: quelli che talvolta Bazlen aveva scoperto da anni e anni e non era mai riuscito a far passare presso i vari editori italiani con i quali aveva collaborato, da Bompiani fino a Einaudi. Di che cosa si trattava? A rigore, poteva trattarsi di qualsiasi cosa.
Questo romanzo è la storia dell’amore impossibile fra un padre e una figlia che quasi non si conoscono e si ritrovano insieme, per qualche settimana, in un albergo sul lago di Lugano. Il padre è il corrispondente da Bonn di un grande giornale di Milano (in cui sarà facile riconoscere il «Corriere della Sera»), uomo disincantato, lucido, pieno di soprassalti della memoria, di idiosincrasie, di occultate amarezze e nostalgie, ma al tempo stesso con qualcosa di eternamente adolescente, agile e acerbo; la figlia è una ragazza di diciotto anni, che è stata messa in collegio dopo la morte della madre e ben poco ha visto del mondo, ma vive una sua vita intensa di fantasticherie grandiose, di passioni sospese e avvolgenti. La loro convivenza in albergo sviluppa, si può dire fatalmente, un terribile amore: soprattutto da parte della figlia, prorompente e ingenua, eppure dotata di una strana maturità, che rende il rapporto col padre tanto più paradossale. Questa figlia, infatti, non gli si vuole offrire come amante, ma come moglie, e oltre tutto come una moglie protettiva, conscia di quel lato infantile che al padre, poi, appartiene realmente. Diviso fra l’attrazione e la ripulsa per questa «calamità» che si abbatte sulla sua vita, mentre tenta vanamente di fare chiarezza in se stesso e nel suo passato, il padre crede di sfuggire all’incesto buttandosi in una rapida avventura con un’amica della figlia. Ma questo non farà che aiutare il gioco a precipitare nel dramma. La vicenda ha luogo in un tempo sospeso, che può essere anche oggi. Il décor svizzero è accennato con pochi, sapientissimi tocchi, come anche una certa atmosfera di morosità lacustre in cui è immersa la vicenda. Domina, invece, l’opera paziente dello scandaglio psicologico, l’indagine sulle ombre della psiche, sui guizzi dei desideri, e in questo Morselli si muove con la stessa precisione e sicurezza con cui sapeva ricostruire l’operazione militare di cui si parla in Contro-passato prossimo. Spostando continuamente la luce dal giornalista, convinto di essere corazzato dall’esperienza, alla giovane figlia, che alla vita non ha fatto ancora in tempo neppure a esporsi, Morselli riesce a delineare con straordinaria finezza quella zona intermedia in cui questi due personaggi, fino allora vissuti in mondi senza contatto, si incontrano e si scoprono fino a scoprirsi complici e a spaventarsi della propria complicità, sfuggendola e ricadendovi in un circolo senza uscita.
Breve biografia di Guido Morselli
Guido Morselli (Bologna 1912 – Varese 1973) narratore italiano. Condusse una vita schiva e ritirata, per lo più in una villa a Gavirate, presso Varese. I suoi romanzi furono tutti respinti dai vari editori a cui vennero via via presentati e i continui rifiuti indussero M. al suicidio. Solo dopo la morte cominciarono a essere pubblicate le sue opere, tutte improntate a una grande perizia stilistica e a un’originale costruzione d’intrecci. Situazioni di fantapolitica o di fantastoria sono il pretesto per far emergere la paradossalità delle vicende umane: Roma senza papa (1974) racconta la perdita d’identità di una chiesa tesa al rinnovamento; Contro-passato prossimo (1975) ipotizza una diversa conclusione della prima guerra mondiale; Divertimento 1889 (1975) è la nostalgica rievocazione della fin-de-siècle attraverso il racconto di un’avventura galante di Umberto I; Il comunista (1976) descrive la crisi della fede politica di un deputato emiliano; Dissipatio H. G. (1977) traccia il profilo angoscioso di un mondo senza genere umano. È notevole, in tutti questi romanzi, la capacità di ricostruire i caratteri e i personaggi di diverse culture e ambienti sociali. Scrisse saggi di argomento letterario (Proust o del sentimento, 1943; Realismo e fantasia, 1947) e uno in difesa della fede religiosa: Fede e critica (1977, postumo). Nel 1987 è uscito il Diario di M. per la cura di V. Fortichiari.
Guido Morselli-Per anni i suoi libri vennero Sistematicamente rifiutati dalle maggiori Case Editrici italiane. Rifiuti che pesarono sul morale dello scrittore che si suicidò nel 1973. Oggi Morselli gode di considerazione e prestigio tra gli addetti ai lavori, ma il suo nome e la sua innovativa opera rimangono sconosciuti ai più.
Max Ernst-Una settimana di bontà-Tre romanzi per immagini
A cura di Giuseppe Montesano-ADELPHI EDIZIONI
Risvolto
Con il romanzo, com’è noto, i surrealisti non ebbero fortuna. Sicché, alla distanza, i più rapinosi potrebbero rivelarsi proprio quei romanzi per immagini che Max Ernst elaborò fra il 1929 e il 1934 ritagliando illustrazioni di feuilleton dell’Ottocento e dei primi del Novecento, e assemblandole poi in collage a cui aggiungeva didascalie di sua mano, destinate a essere, scrive Giuseppe Montesano, «segnali devianti e pervertimenti del senso comune». Sono immagini folte di fanciulle sensuali e innocenti insidiate da tenebrosi allievi di Sade, e di messieurs in abito nero e ghette che nascondono manie vergognose, mentre sullo sfondo freme «la città piena di sogni» di Baudelaire e ancora «lo spettro adesca il passante in pieno giorno». Un allestimento onirico ereditato dai romanzi d’appendice, dunque, ma che Ernst ha saputo trasformare, non senza un tocco di germanico unheimlich, in vessillo della sommossa perenne del desiderio. Si installa così in queste pagine perturbanti il più cupo e luminoso erotismo mai evocato dai surrealisti, dove un seno è un giocattolo e una capigliatura un sesso palpitante, dove i fantasmi del piacere hanno scollature abissali e le ossessioni si mutano in animali da preda, dove un lenzuolo su un corpo nudo è una cascata letterale e i rivoltosi dell’amore volano dalle finestre degli abbaini.
In copertina-Immagine tratta da Una settimana di bontà (1934).
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