Susan Sontag -Stili di volontà radicale -Edizioni nottetempo -Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Susan Sontag -Stili di volontà radicale
Traduzione di Paolo Dilonardo -Edizioni Nottetempo –
Descrizione del libro di Susan Sontag (1933-2004) Stili di volontà radicale –Edizioni Nottetempo–Dalla guerra in Vietnam al cinema di Bergman e Godard, dall’identità americana alla pornografia: Stili di volontà radicale è un libro che ha segnato un’epoca intellettuale. Uscito nel 1969, è la seconda raccolta di saggi pubblicata da Susan Sontag, dopo Contro l’interpretazione. Siamo alla fine degli anni Sessanta, un periodo di sovvertimenti e sperimentazioni tra i più inquieti del Novecento, in cui la critica, il pensiero, le forme artistiche e la contestazione politica si orientano verso stili radicali, come suggerisce il titolo del libro. In cui la spinta contro il mainstream capitalistico e la cultura di massa produce rivoluzioni nei linguaggi dell’arte e nella coscienza, toccando spesso soglie estreme e sondando i limiti della consapevolezza, dell’esperienza e del dicibile. Nascono da questa tensione le riflessioni di Sontag sul rapporto tra l’estetica contemporanea e il silenzio, l’acuta analisi dell’immaginazione pornografica con le sue ossessioni erotiche e la sua violazione delle norme (sessuali e letterarie), le incursioni in opere di personalità filosofiche o artistiche radicali come Bataille, Cage, Beckett, Godard. E, infine, i giudizi brucianti e la visione pessimistica dell’America contemporanea, con la sua “innocenza” e “barbarie” – entrambe “spropositate, letali” –, cui segue il resoconto del viaggio in Vietnam fatto dall’autrice nel 1968, nel pieno di una guerra spietata: ritratti feroci dell’identità statunitense, in testi che, come gli altri di questa raccolta, sono ancora capaci di parlare con accenti innovativi al nostro prese
Nota biografica-Susan Sontag (1933-2004), tra gli intellettuali, scrittori e critici statunitensi più influenti della seconda metà del ’900, nottetempo ha pubblicato i primi due volumi dei diari, Rinata (2018, 2024) e La coscienza imbrigliata al corpo (2019), il romanzo L’amante del vulcano (2020) e i saggi Malattia come metafora e L’Aids e le sue metafore (2020), Davanti al dolore degli altri (2021), Contro l’interpretazione (2022) e Sotto il segno di Saturno (2023), tutti tradotti da Paolo Dilonardo.
Alcune pagine in anteprima-Susan Sontag –Stili di volontà radicale
L’estetica del silenzio
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Ogni epoca deve reinventarsi un progetto di “spiritualità”. (Spiritualità = propositi, terminologie, regole di comportamen- to, che mirano alla risoluzione delle dolorose contraddizioni strutturali insite nella condizione umana, al perfezionamento della coscienza, e alla trascendenza).
Nell’età moderna una delle metafore più efficaci per de- signare il progetto spirituale è quella dell’“arte”. Una volta raggruppate sotto questa denominazione generica (una mossa relativamente recente), le attività di pittori, musicisti, poeti o danzatori si sono rivelate un ambito particolarmente duttile in cui mettere in scena i drammi formali che assillano la coscien- za, poiché ogni singola opera d’arte fornisce un paradigma più o meno ingegnoso attraverso cui gestire o appianare quelle contraddizioni. Ma, com’è ovvio, tale ambito deve essere con- tinuamente rinnovato. Qualunque obiettivo l’arte si proponga, infatti, finisce per dimostrarsi restrittivo, se paragonato agli obiettivi più ampi perseguiti dalla coscienza. L’arte, che è di per sé una forma di mistificazione, subisce una serie di attac- chi demistificatori; i vecchi intenti artistici vengono contestati e ostentatamente rimpiazzati; le mappe della coscienza ormai obsolete sono ridisegnate. Ma ciò che conferisce energia a tutte queste crisi – l’energia che, per così dire, le accomuna – è pro- prio la convergenza di un insieme di attività piuttosto disparate
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in una singola classificazione. Con la nascita del concetto di “arte” ha inizio la stagione dell’arte moderna. Da quel momen- to in poi, ogni attività sussunta in quel concetto diventa un’at- tività profondamente problematica, di cui è possibile mettere in discussione i procedimenti e, in ultima analisi, lo stesso diritto di esistere.
Dalla promozione delle arti allo statuto di “arte” deriva il mito cardine dell’arte, quello dell’assolutezza dell’attività dell’artista. Nella sua prima, e più irriflessiva, versione, questo mito considerava l’arte un’espressione della coscienza umana, di una coscienza che cercava di conoscere se stessa. (Soddisfare i parametri valutativi stabiliti da questa versione del mito risulta- va piuttosto facile: alcune espressioni erano più complete, più edificanti, più informative o più ricche di altre). La versione più tarda del mito postula un rapporto più complesso, e più tragico, tra arte e coscienza. Negando che l’arte sia pura e sem- plice espressione, il mito più recente la associa al bisogno o alla capacità della mente di estraniarsi da se stessa. L’arte non è più intesa come una coscienza che si esprime e, di conseguenza, afferma implicitamente se stessa. Non è la coscienza in sé e per sé, quanto, piuttosto, il suo antidoto – sviluppato dalla coscien- za stessa. (Soddisfare i parametri valutativi stabiliti da questa versione del mito si è rivelato molto più difficile).
Il mito più recente, che deriva da una concezione post-psi- cologica della coscienza, trasferisce all’interno dell’attività ar- tistica molti dei paradossi connessi al raggiungimento di una condizione assoluta dell’essere, descritta dai grandi mistici re- ligiosi. Così come l’attività del mistico deve sfociare in una via negativa, in una teologia dell’assenza di Dio, in un’aspirazione a immergersi nella nube della non conoscenza che trascende la conoscenza e a coltivare un silenzio che trascende le parole, l’arte deve tendere all’anti-arte, all’eliminazione del “soggetto”
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(dell’“oggetto”, dell’“immagine”), alla sostituzione dell’inten- zione con la casualità, e al perseguimento del silenzio.
Nella prima, lineare, versione del rapporto tra arte e coscien- za si percepiva un conflitto tra l’integrità “spirituale” degli im- pulsi creativi e la fuorviante “materialità” della vita ordinaria, che dissemina un gran numero di ostacoli sul cammino verso un’autentica sublimazione. La versione più recente, in cui l’arte è parte di un’interazione dialettica con la coscienza, instaura, invece, un conflitto più profondo e frustrante. Lo “spirito” che cerca di incarnarsi nell’arte si scontra con la materialità che la caratterizza. L’arte è smascherata come un atto gratuito, e la concretezza stessa degli strumenti dell’artista (così come, so- prattutto nel caso del linguaggio, la loro storicità) si rivela una trappola. Esercitata in un mondo saturo di percezioni di secon- da mano, e particolarmente disorientata dalla natura infida del- le parole, l’attività dell’artista è tormentata dalla mediazione. L’arte diventa nemica dell’artista, perché gli nega il compimen- to – il trascendimento – a cui egli aspira.
Perciò, l’arte finisce per essere considerata qualcosa da esau- torare. Un nuovo elemento entra a far parte di ogni opera in- dividuale, divenendone una componente costitutiva: l’auspicio (tacito o dichiarato) della propria soppressione – e, in ultima analisi, della soppressione dell’arte in quanto tale.
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La scena si apre su una stanza vuota.
Rimbaud è andato in Abissinia per fare fortuna con il traffico
degli schiavi. Dopo esser stato per un certo periodo maestro elementare in un villaggio, Wittgenstein ha scelto di dedicarsi all’umile mestiere di portantino in un ospedale. Duchamp si è
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dato agli scacchi. Commentando queste esemplari rinunce alla propria vocazione, ognuno di loro ha dichiarato che considera- va i traguardi raggiunti nel campo della poesia, della filosofia o dell’arte come irrilevanti, privi di importanza.
Ma la scelta del silenzio definitivo non vanifica la loro ope- ra. Al contrario, conferisce retroattivamente una forza e un’au- torevolezza aggiuntive a ciò che è stato interrotto – il ripudio dell’opera diventa una nuova garanzia di validità, un attestato di serietà incontestabile. Questa serietà consiste nel non con- siderare l’arte (o la filosofia praticata in quanto forma d’arte: Wittgenstein) come qualcosa la cui importanza duri in eterno, come un “fine” o un veicolo perenne per l’ambizione spiritua- le. Il principio realmente serio è quello che considera l’arte un “mezzo” per raggiungere un fine che forse è possibile conse- guire soltanto abbandonando l’arte stessa; secondo un giudizio più insofferente, l’arte è una falsa strada o (per dirla con l’artista dadaista Jacques Vaché) una stupidaggine.
Benché non sia più una confessione, l’arte è più che mai una liberazione, un esercizio ascetico. Per suo tramite l’artista si purifica – da se stesso e, alla fine, dalla propria arte. L’artista (se non l’arte stessa) si impegna ancora a proseguire il pro- prio cammino verso il “bene”. Ma se in passato quel bene si identificava per lui con la padronanza e la piena realizzazione della propria arte, oggi il bene supremo consiste nel giunge- re al punto in cui l’obiettivo dell’eccellenza gli appare etica- mente ed emotivamente privo di senso, ed è più gratificato dal serbare il silenzio che dal trovare la propria voce nell’arte. Inteso come punto di arrivo, il silenzio propone uno spirito di definitività antitetico a quello che pervade il modo tradizio- nale (descritto a meraviglia da Valéry e Rilke) in cui gli artisti più autoconsapevoli hanno seriamente utilizzato il silenzio: come spazio di meditazione, di preparazione alla maturazione
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spirituale, di un’ordalia che si conclude con la conquista del diritto a parlare.
Nella misura in cui è serio, l’artista prova la continua tenta- zione di recidere il dialogo che intrattiene con il pubblico. Il silenzio è la conseguenza estrema di quella riluttanza a comuni- care, di quell’ambivalenza rispetto alla creazione di un contatto con il pubblico che è una caratteristica precipua dell’arte mo- derna, instancabilmente votata al “nuovo” e/o all’“esoterico”. È il supremo gesto ultraterreno dell’artista: attraverso il silen- zio, egli si libera dal legame servile con il mondo, che assume di volta in volta le vesti di mecenate, cliente, consumatore, antago- nista, giudice o travisatore della sua opera.
Eppure, non si può fare a meno di ravvisare in questa ri- nuncia alla “società” un gesto profondamente sociale. L’artista coglie i segnali della sua futura liberazione dal bisogno di eser- citare la propria vocazione osservando i colleghi e misurando- si con loro. Può assumere una decisione esemplare di questo tipo solo dopo aver dimostrato, e autorevolmente messo in pratica, la sua genialità. Una volta che, secondo criteri di giu- dizio di cui egli stesso riconosce la validità, ha superato i pro- pri pari, al suo orgoglio resta una sola direzione da imboccare. Essere preda di un anelito al silenzio, infatti, significa rivelarsi, in un senso ancora più estremo, superiore a chiunque altro. Suggerisce che quell’artista ha avuto l’ingegno di porre più domande degli altri, e che ha nervi più saldi e parametri di eccellenza più rigorosi. (Che l’artista possa perseverare nell’in- terrogare la sua arte fino al proprio esaurimento, o a quello dell’arte stessa, non ha certo bisogno di dimostrazioni. Come ha scritto René Char, “nessun uccello è in vena di cantare in un cespuglio di domande”).
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Di rado l’artista moderno spinge la scelta del silenzio fino a un punto di semplificazione talmente estremo da indurlo al muti- smo. Più consueto è che continui a parlare, ma in modo tale che il pubblico non sia in grado di udirlo. L’arte più valida della no- stra epoca è stata recepita dagli spettatori come una mossa verso il silenzio (o l’inintelligibilità, l’invisibilità, l’inudibilità), come uno smantellamento della competenza dell’artista, della respon- sabilità con cui esercita la sua vocazione – e, di conseguenza, come un’aggressione nei loro confronti.
L’inveterata tendenza dell’arte moderna a scontentare, provoca- re o frustrare il pubblico potrebbe essere considerata una condivi- sione vicaria e limitata di quell’ideale del silenzio che nell’estetica contemporanea è assurto a modello fondamentale di “serietà”.
Ma si tratta di una forma di condivisione contraddittoria. Non solo perché l’artista continua a creare opere d’arte, ma an- che perché il distacco dell’opera dal pubblico non è mai dura- turo. Con il passare del tempo e la comparsa di opere sempre più innovative e complesse, le trasgressioni degli artisti diventa- no accattivanti e, in ultimo, legittime. Goethe accusò Kleist di scrivere drammi per un “teatro invisibile”. Ma anche il teatro invisibile finisce per diventare visibile. Il brutto, il dissonante e l’insensato divengono “belli”. La storia dell’arte è un susseguir- si di acclamate trasgressioni.
L’intento caratteristico dell’arte moderna, diventare inac- cettabile per il suo pubblico, dichiara, per converso, l’inaccet- tabilità agli occhi dell’artista della presenza stessa del pubblico – un pubblico inteso, nell’accezione moderna del termine, come un’aggregazione di spettatori voyeuristici. Almeno fin da quando Nietzsche ha affermato, nella Nascita della tragedia, che il pub- blico di spettatori così come lo intendiamo noi – una presenza
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ignorata dagli attori – era sconosciuto ai Greci, gran parte dell’ar- te contemporanea sembra animata dal desiderio di liberarsi del pubblico, un’impresa che spesso si presenta come un tentativo di eliminare del tutto l’“arte” stessa. (A favore della vita?)
Per l’artista votato all’idea che il potere dell’arte sia quello di negare, l’arma decisiva nell’incoerente guerra che combat- te contro il pubblico sta nella tensione sempre più crescente verso il silenzio. Il divario sensoriale e concettuale tra artista e spettatori, lo spazio del dialogo mancato o troncato, può anche costituire la base di un’affermazione ascetica. Beckett sogna “un’arte senza risentimenti per la propria insuperabile indigenza, e troppo orgogliosa per la farsa del dare e dell’ave- re”. Ma non c’è modo di abolire un minimo di interazione, un minimo scambio di doni – così come non esiste un ascetismo provetto e rigoroso che, quali che siano le sue intenzioni, non produca un incremento (anziché una perdita) della capacità di provare piacere.
E nessuna delle aggressioni compiute, intenzionalmente o inavvertitamente, dagli artisti moderni è riuscita ad abolire il pubblico o a trasformarlo in qualcos’altro – per esempio, in una comunità impegnata in un’attività condivisa. Non è possibile. Finché sarà concepita e apprezzata come un’attività “assoluta”, l’arte resterà separata ed elitaria. E le élite presuppongono le masse. Nella misura in cui si definisce essenzialmente in base ai suoi scopi “sacerdotali”, l’arte migliore presuppone e ratifica l’esistenza di voyeur profani, relativamente passivi e mai iniziati appieno, regolarmente convocati perché guardino, ascoltino o leggano – e subito dopo congedati.
Il massimo che l’artista possa fare è modificare i termini della relazione che si instaura tra lui e il pubblico. Analizzare il concetto di silenzio nell’arte vuol dire analizzare le alternative che si pon- gono all’interno di questa situazione sostanzialmente inalterabile.
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Indice
Parte i
L’estetica del silenzio 13 L’immaginazione pornografica 51 Pensare contro se stessi. Riflessioni su Cioran 97
Parte ii
Teatro e cinema 123 Persona di Bergman 151 Godard 179
Parte iii
Cosa sta succedendo in America? 231 Viaggio a Hanoi 245
Ringraziamenti 327
Appendice bibliografica
di Paolo Dilonardo 329
Edizioni Nottetempo –
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Alla poesia è dedicata una collana diretta da Maria Pace Ottieri e Andrea Amerio.
nottetempo srl, Via Anfiteatro 9, 20121 Milano