Spagna e Cristoforo Colombo 17 aprile 1492-La firma che chiuse il Medioevo
Il 17 aprile 1492 i sovrani di Spagna firmano un trattato con Cristoforo Colombo per una spedizione verso le Indie.
L’obiettivo dei due sovrani di Spagna era raccogliere le ricchezze che si sarebbero potute trovare in quella terra – ancora in gran parte inesplorata – identificata come “Le Indie”.
Colombo, da parte sua, voleva dimostrare che per arrivare in Asia esisteva una scorciatoia. E anziché andare ad est e seguire le orme di Marco Polo per arrivare in Cina e in Giappone attraversando tutta l’Europa o circumnavigando l’Africa, si era convinto che dirigendosi ad ovest si poteva raggiungere quella stessa terra in minor tempo.
Il contratto firmato il 17 aprile prevede per Cristoforo il grado di ammiraglio, la carica di viceré e di governatore di tutte le terre scoperte con tanto di titolo ereditario, ma anche la possibilità di conferire ogni tipo di nomina nei territori conquistati e una rendita pari al 10% di tutti i traffici marittimi futuri. La somma necessaria per l’armamento della flotta, pari a 2.000.000 di maravedi, sarà versata per metà dalla corte e per metà dallo stesso ammiraglio, finanziato a sua volta da alcuni banchieri genovesi.
Firmato il contratto, Colombo lascia la città il 12 maggio, dopo aver deciso che il luogo di partenza sarà Palos, dal momento che i porti maggiori sono occupati dal tribunale della Santa Inquisizione e utilizzati per l’espulsione degli ebrei tramite mare.
Sì, perché i sovrani cattolici sono così cattolici, che dopo avere riconquistato in gennaio Granada mettendo fine a cinquecento anni di dominio islamico (Isabella era entrata trionfalmente in città con il crocifisso in mano) il 31 marzo hanno firmato il decreto con cui si ordina l’espulsione di tutti gli ebrei che rifiutano di convertirsi al cristianesimo.
I due coniugi si sono guadagnati così il titolo di “maestà cattolica” offerto da papa Innocenzo VII e la coppia ringrazierà il Vaticano regalando a papa Alessandro VI il primo carico d’oro arrivato dall’America. Un dono che papa Borgia – anche lui spagnolo, e tra i pontefici meno spirituali della storia della Chiesa – sicuramente apprezzerà più di una preghiera o una benedizione.
In pochi anni Isabella e Ferdinando sono riusciti ad ottenere tutto partendo quasi dal nulla. Fino a qualche anno prima non avevano nemmeno un piccolo regno e lottavano per conquistare quello dei propri genitori; il loro amore era stato anche ostacolato dalla famiglia di lei, che avrebbe voluto darla in sposa al re del Portogallo. Ma la principessa aveva preferito l’erede al trono di Aragona e insieme erano riusciti a conquistare sia il regno d’Aragona che quello di Castiglia. Pur mantenendo distinti – almeno formalmente – i due reami, la coppia regnando su entrambi era riuscita a creare, di fatto, la Spagna moderna; la conquista dell’ultimo sultanato islamico e la benedizione del Papa avevano completato l’operazione, e ora la grande e cattolicissima Spagna non poteva certo permettere che Portogallo o Francia gli scippassero l’impresa del millennio. Così, dopo molte titubanze e resistenze avevano finalmente ceduto alle insistenze del navigatore italiano.
Erano quasi dieci anni che Cristoforo Colombo inseguiva l’impresa. Si era da poco trasferito con moglie e figlio da Madera a Lisbona, dove il fratello Bartolomeo lavorava come cartografo, quando l’incontro con un naufrago che in punto di morte gli aveva disegnato una mappa con le lontane terre al di là dell’oceano aveva fatto prendere forma – nella mente nel navigatore allora trentenne – l’idea di una rotta breve per le Indie.
Cristoforo aveva cominciato a navigare quando aveva quattordici anni e aveva lavorato in Italia, Grecia, Portogallo, Inghilterra, Irlanda fino ad arrivare in Islanda. Poi aveva sposato la portoghese Filipa Moniz Perestrello da cui aveva avuto Diego. Per anni aveva raccolto reperti (pezzi di legno e canne) trovati al largo delle coste dell’oceano, studiato le carte appartenute al suocero e ascoltato i racconti di marinai che lo convincevano sempre di più dell’esistenza di una terra al di là dell’oceano e che quella terra non potesse essere altro che l’Asia.
Già nel 1483 Cristoforo aveva chiesto al re del Portogallo Giovanni di finanziare l’operazione, senza però ottenere nulla. Nel 1485, rimasto vedovo, si era trasferito in Castiglia e si era messo nuovamente alla ricerca di un finanziatore. Era stato grazie al duca di Medinaceli se aveva ottenuto un colloquio con la regina Isabella, sua coetanea. A Siviglia, però, l’italiano aveva trovato più donne disponibili per una relazione (Beatriz Enrìquez de Arana e poi la marchesa di Moya) che sovrani interessati alla grande impresa di raggiungere per mare il Catai e il Cipango.
Ferdinando e Isabella, che avevano nominato un’apposita commissione, lo avevano fatto aspettare più di quattro anni prima di bocciare l’ambizioso progetto alla fine del 1490. Colombo si era rivolto così ai sovrani di Inghilterra e Francia, anche in questo caso senza ottenere nulla.
Eppure non si era dato per vinto: continuava a studiare le mappe e a fare calcoli: sì – si diceva – il Giappone è vicino, in meno di due mesi si può raggiungere via mare risparmiando tempo e soldi, e poi – di lì – arrivare in Cina, il paese delle meraviglie e delle grandi ricchezze descritto nel “Milione” da Marco Polo.
Ovunque, però, trovava nemici e detrattori che convincevano i reali a desistere dalla tentazione di sostenere il suo progetto. È una follia, dicevano, l’italiano sbaglia i conti, l’Asia è lontanissima e non esiste una nave al mondo in grado di affrontare un viaggio così lungo. E avevano ragione, peraltro, perché a dispetto delle leggende che sarebbero sorte dopo, nessuno si opponeva a Colombo sostenendo che la terra fosse piatta e ad attraversare le colonne d’Ercole si sarebbe precipitati nell’abisso. Erano ormai centinaia di anni che la sfericità era data per appurata almeno dalla gente colta (basti pensare a Tommaso d’Aquino e Dante Alighieri). Al contrario, la Terra i nemici di Colombo l’avevano capita molto meglio di lui e avevano calcolato che con quel diametro l’Asia non poteva essere così vicina: tra Spagna e Giappone c’erano 20mila chilometri e non c’era nave in grado di stoccare a bordo un quantitativo di provviste sufficienti al compimento del viaggio, che avrebbe richiesto – in condizioni ottimali – più di quattro mesi. Colombo sbagliava, e anche di parecchio: lui aveva stimato la distanza in appena 4400 chilometri, ovvero cinque volte meno della realtà. Davvero la fortuna dell’italiano sarebbe stata quella di trovarsi in mezzo, a sorpresa, l’America, perché altrimenti la sua sarebbe inevitabilmente naufragata in mezzo all’oceano, trasformando Nina, Pinta e Santa Maria in vascelli fantasma abitati da cadaveri.
A torto o a ragione, comunque, Cristoforo era determinato ad arrivare fino in fondo, anche se le cose si stavano ormai mettendo davvero male. Dopo sette anni di soggiorno in Spagna le sue risorse economiche erano esaurite e per provvedere alla famiglia il navigatore era stato costretto a vendere libri e disegnare mappe. Era ormai vicino alla resa quando gli era venuto in soccorso il vescovo Alessandro Geraldini, anche lui italiano (proveniva da un’importantissima famiglia di Amelia, imparentata – peraltro – con la celebre Monna Lisa).
Confessore di Isabella e coetaneo e amico di Colombo, Geraldini aveva convinto padre Juan Pérez e il tesoriere di corte Luis de Santangel a garantire la copertura economica del progetto liberando Isabella da ogni ulteriore indugio. Non a caso Colombo dedicherà alla madre dei Geraldini una delle isole del Nuovo Mondo, Graziosa, mentre lo stesso Alessandro sarà il primo vescovo d’America.
Raggiunti i due sovrani a Santa Fé, Colombo aveva dettato le sue condizioni. Che non erano poche: di fatto pretendeva di diventare il signore di tutte le terre scoperte; troppo per la pur ben disponibile Isabella. Così l’accordo non si era trovato e Colombo – ormai quarantenne – era ripartito, salvo poi essere richiamato per riaprire le trattative, lunghe ed estenuanti: si erano susseguite bozze su bozze finché il contratto non aveva trovato finalmente la sua veste definitiva. E tutto sommato con costi relativamente bassi: quella che si sarebbe rivelata come una delle più importanti spedizioni della storia umana fu finanziata con una spesa complessiva di poco superiore ai 45mila euro di oggi. Quel che si dice un vero affare.
Finalmente si parte, dunque, e vengono allestiti tre velieri: la nave ammiraglia è la caracca Santa María, di 150 tonnellate per 27 metri; è la più grande e la più lenta ed è capitanata dallo stesso Colombo, è armata di cannoni ed è soprannominata “Marigalante” dai suoi marinai; ad accompagnarla la caravella Pinta, 140 tonnellate, capitanata dall’armatore di Palos Martín Alonso Pinzón (il suo soprannome è “dipinta” ma non se ne conosce il vero nome) e la piccola caravella Santa Clara, 100 tonnellate per 20 metri di lunghezza, guidata dal Vicente Yáñez Pinzón (fratello di Martin) e soprannominata Niña – “la bambina” – con riferimento scherzoso al proprietario Juan Niño.
Vengono reclutati 90 marinai, ai quali viene concessa una sorta di amnistia attraverso la sospensione di ogni pendenza legale. È Martin Pinzòn a organizzare il viaggio e a fare da vice a Colombo, mentre il pilota della flotta è Juan de la Cosa, proprietario della Santa Maria. Tra i marinai c’è anche Juan Rodríguez Bermejo, figlio di un commerciante andaluso, che sarà il primo ad avvistare l’isola di San Salvador alle due di notte del 12 ottobre 1492. Di religione musulmana, è costretto a convertirsi al cristianesimo per imbarcarsi con Colombo, ma al ritorno tornerà alla sua fede, anche a seguito della delusione provocatagli dall’ammiraglio cattolico che gli negherà il premio promesso a chi avesse avvistato per primo la terra.
Finalmente, il 3 agosto 1492, alle 6 di mattina, da Palos de la Frontera inizia il viaggio più famoso della Storia: quello che parte dal Medioevo per approdare all’epoca moderna.