Sonia TROCCHIANESI- Poesie pubblicate da DEA SABINA-Biblioteca DEA SABINA
Sonia TROCCHIANESI-Poetessa Operaia di Fermo-
N°88 OTTANTOTTO
Poesie pubblicate a cura di Franco Leggeri sul gruppo facebook DEA SABINA-
Chi è Sonia Trocchianesi inizia a scrivere poesie fin da piccola e coltiverà questa grande passione durante tutta la sua vita.
Il rapporto con carta e penna è viscerale, la scrittura viene vissuta come cura di ogni male. Amore e sofferenza si contrappongono nei suoi scritti, i suoi versi trasudano a volte di emozioni fortissime. E qui è la sua Anima a mettersi a nudo ….
Vanno a dormire
i colori
in silenzio
senza pretese
senza chiedersi
se siano dimorati nei cuori
almeno un giorno
almeno un’ora
almeno un attimo
La notte
intinge i pennelli nel nero
lasciando le stelle
sotto al cuscino
Che poi niente va perso, niente.
Ogni gesto è un sasso nello stagno che, torna, amplificato.
E, l’orma di ognuno, resta.
Vicino, sopra, a fianco, dentro.
Nel bene e nel male.
E la mia, forse, resterà allo stesso modo.
Forse.
Come un granello di sabbia nell’immensità di questo deserto.
Io l’ho visto, il deserto.
Se hai lo sguardo pronto a ricevere, il deserto è bellissimo.
Sconfini tra le dune rosate come in una danza, come queste parole che imprimo nel vuoto di questa mia pagina.
Niente va perso.
Se sai vedere le briciole, una fetta di pane sarà il miracolo da farti bastare.
Sarà la cenere che sembra inutile ma che aiuta il nascere della nuova fiamma.
Niente va perso.
Trovarmi, spesso, qui ed ora, è il dono inaspettato di un’alba nuova.
Una nuova pagina.
Un nuovo verso a cui sto lavorando.
La vita è perfetta.
“Ti va di recitare una poesia in dialetto?”
Si, mi va!
Mi va mille volte.
Perché lì, i congiuntivi, non sono un cappio al collo,
perché non devo mettere in atto quel minimo che ricordo del corso di dizione, perché il mio intercalare da ignorante contadina diventa un più, un vezzo, un pregio, quasi.
Si, mi va!
Mi va mille volte.
Perché sono io senza ma e senza se.
Perché i miei limiti sono solo dei sorrisi che mi faccio, perché sono dei buchi neri che ho imparato ad amare.
Perché è andata così e ho capito che va bene.
Perché quel pezzo di carta che tanto ho rimpianto è stata la mia sfida per la vita.
Perché sò nata troppo presto.
Forse.
Nessuna stagione passa
senza lasciare orme
nessuna nuvola se ne va
senza avermi vestito di grigio
nessuna strada sassosa
so percorrere senza impolverarmi i piedi
Ho scelto il dolore
all’anestesia
le cicatrici sulle labbra
al sorriso plastico
la battaglia continua
alla resa
Vedi
essere viva
può essere un difetto
per chi guarda da lontano
immobile
C’è un tacito accordo nella Natura.
Tra il colore degli alberi, i campi, la strada, il sole che, sotto i nostri occhi stanchi e meravigliati, scompare.
Un accordo silenzioso.
Così tra noi.
Un accordo di rispetto, di mani che si aiutano, di occhi che sorridono, complici, sopra la mascherina.
Una firma di cuore.
Un “ci sono, tira su”
oppure “lascia, faccio io che pesa troppo per te”
Scoprire la gente.
Lasciarsi scoprire.
Grazie a tutti, grazie davvero.
nel nostro piccolo
Giornata piovosa, oggi.
Ancora in pigiama ho scritto una poesia.
L’ho registrata, ascoltata, riascoltata.
*Più volte. *
Ho ascoltato i vari passaggi, il tono, le parole più dense.
I difetti.
*Gli errori. *
L’ho portata con me, fino a sera.
Vedi…
*non c’è balsamo più efficace, non c’è. *
Una poesia la partorisci, te la spalmi addosso, la respiri.
*E tutto il resto, tutto il resto che non funziona, passa in secondo piano. *
Anche solo un attimo
Mi chiedo perché mi viene in mente la tua storia.
Eppure non ti ho mai vista, né incontrata.
Ma quel che mi è stato raccontato non riesco a cancellarlo.
Troppo forte.
Usata e maltrattata psicologicamente, da uno pseudo amore.
Uno che ti amava a modo suo.
Molto a modo suo.
Indotta a fare cose assurde,
a sposare uno che non amavi, a rinnegare il tuo essere, per proteggere lui.
A cedere, a rinnegare te stessa.
Per finire sola.
Sola.
E ancora sola.
Non avevi un nome.
Eri il tuo lavoro.
Quello.
Ti chiamavi Speranza, l’ho saputo poi.
L’ennesima beffa del fato.
Me l’hanno detto ancora.
-Sei selvatica…-
Per me è un complimento.
La poesia, la scrittura in sé, deve essere selvatica.
Il divincolarmi per sfuggire alle regole, questo mio trattare di cose terrene e non, questo saliscendi vertiginoso, furioso, sfacciato, qualcuno mi ha detto.
Tutto questo è un rifiuto totale delle briglie, un cercarmi da sola, pezzo pezzo, costruirmi.
E ricostruirmi.
Selvatico è quell’animale che, anche se ha paura, va incontro dell’ostacolo.
Lo affronta, caparbio.
Sono selvatica.
Mi rifugio nella mia tana.
Ho fatto scorta di cibo e pensieri.
Lì, tra le righe, mi troverai arresa.
Ancora una volta…
Ci sono viaggi che devi fare da solo.
Scendere negli anfratti più nascosti e innominabili, stare attento a dove metti i piedi.
Poi cercare nelle anse più pericolose, quelle chiuse a chiave, quelle dove la luce non arriva neanche a mezzogiorno.
Spostare la polvere, le scuse inutili e datate, i giocattoli mai usati.
Poi sedersi, con le ginocchia sporche di tempo perduto, con gli abiti logori da certi rimorsi e con le tasche piene di nebbia.
Ritrovare piccole scatole di rimpianti, di forse, di chissà.
Buttarli dalla finestra, senza pensarci.
Leccarsi le ferite, in quella sacra solitudine così umana.
Mentre un pensiero si fa strada:
“Ogni volta che sono triste, forse, sono in viaggio verso la felicità”
E di questo tempo
e di questa pioggia lenta
e di questo disordine perfetto
faccio scorta
E di queste curve
e di questo azzurro mancante
e di queste parole intrecciate e chiare
mi cibo ad ogni pasto
non c’è stagione
che il tempo fermi
e riavvolga il nastro
Nessun caffè ristretto,
solo latte bollente
ad abbracciarmi tutta
Mia mamma e mio figlio.
Io, muta.
E posso solo scrivere di voi.
Di quell’amore per la terra senza mezzi termini
di quello sporcarvi le mani con orgoglio
di quel sudore buttato senza lamentarvi mai.
Mi emoziono a guardarvi.
Io non sono come voi, no.
A me la fatica dei campi fa paura, lo ammetto.
Anche se l’ho provata.
Voi, preziosi.
Per me e non solo…
Avvalersi
della facoltà di non rispondere
quando la malinconia bussa
ha la chiave
in tasca
conosce la combinazione
entra
senza consenso alcuno
e sul mio giaciglio
s’addormenta
mi veste di nenie passate
mi scioglie i capelli
accarezzandoli piano
Si insinua dentro la penna
senza fare rumore
lei sa tutto di me
Ci avete mai fatto caso alla bellezza del grano giovane?
La forza delle spighe,
di una primavera piena di promesse,
è commovente.
Eppure, io,
non ho ricordi della mia bellezza,
l’ho cercata poi,
cambiando gli occhi.
E il modo di scrutarmi
dentro uno specchio.
La capacità di un ragno,
la maestrìa con cui
disegna i suoi mandala,
ci dà lezione.
Niente è impossibile
se la tenacia vince,
se la bellezza è stampata
negli occhi,
anche di notte.
D’altronde, la rugiada,
da lontano,
è una lacrima d’amore.
È un Luglio che scotta
nelle vene
e manca il respiro
spesso
La vita è una cassaforte
di cui ho smarrito la combinazione
non ho eredità
da lasciare al mondo
solo qualche poesia
vestita di un drappo rosso
e sangue amaro
Vedi,
dici che ti piacciono i miei pensieri…
Non so, a volte, quando me lo sento dire, non so crederci.
È che cerco di usare fili delicati per ricamarli, per fare piccole cornici intorno a quelle parole che reputo scontate, avvalermi di aghi molto sottili per non fare troppo male quando tratto con le mani la malinconia.
Non sono una sarta.
Non ho la finezza che servirebbe.
Sono un’autodidatta, una che si è forgiata passando attraverso il fuoco, che si è bruciata di mancanze, che mette ancora unguenti lenitivi su certe cicatrici.
Senza guarirle.
Sono piena di pensieri.
Messi a decantare su otri vecchi e impolverati.
Antichi come è antico l’amore.
E sempre attuale.
Vedi
sembra che l’acqua faccia carezze alla roccia
la sfiora
ci si appoggia appena
un attimo
solo il tempo di bagnarla
un tempo minimo
prima di tornare al suo posto
nell’andirivieni che qualcuno ha stabilito
eppure
quelle carezze scaveranno solchi
scriveranno di inverni freddi
di primavere ad attendere gabbiani
di venti arrabbiati senza capirne il motivo
così
mentre ci si passa accanto
mentre ci si sfiora
mentre ci si guarda
ognuno di noi scrive pagine
sulla vita degli altri
tu sulla mia
io sulla tua
ed anche se la calligrafia sarà delicata e composta
scriverai su di me in modo indelebile
ed io su di te
Poi
però
lascerò una scia di punti interrogativi
sospesi nell’aria
quando ce n’è
Lasciali così
fungeranno da bastoni
per la mia vecchiaia
(A mio padre)
Dei biancospini
ti chiedo il nome
che non ricordi
E dei colori
accesi come solo primavera sa fare
non cogli sfumatura
Ed io
quasi ti invidio
a tratti
per la mancata percezione
dei ponti crollati
dove i tuoi passi
vanno senza timore
tra le macerie
Avrei bisogno io
ora
che mi prendessi tu
la mano
(A mio padre)
Si fa sera.
A volte il silenzio è un imperativo senza scampo.
Lo invoco, lo cerco.
Annullo ogni cosa che accenna rumore, ascolto le ciglia che si sfiorano, le narici che buttano aria, le mani che stringono il giorno finito.
Il giorno finito.
Ne restano, sui polpastrelli, solo le ultime briciole.
Le ultime.
Mi lecco le dita, trattengo ogni minima particella, ogni attimo vissuto.
Il giorno che muore.
Non posso sprecarlo, niente devo sprecare.
Mi sorprendo a muovere le labbra.
Sale, da sola, una preghiera.
Muta a tratti.
Poi urla.
Urla.
Urla.
Sale su.
Oltre l’azzurro di cui ti parlavo…
Prendo a morsi le stagioni
i giorni
gli attimi
ho bisogno di saziarmi di ciliegie
dopo ogni pasto
ma solo dall’albero
così
sotto gli occhi dei merli
invidiosi
(quelli non mancano mai,
non i merli,
gli invidiosi)
ho bisogno di saziarmi di inchiostro
di lettere
di virgole appena socchiuse
in piccoli spazi
ho bisogno di aprire parentesi
senza trovare il modo giusto per chiuderle
di mettere accenti
per farmi sentire di più
Lasciare che la vita accada
questo
non l’ho ancora imparato
lo so
La terra mia.
Li campi, lo grà vattuto, la paja rrotolata.
Le stoppie, lu jemmete, lo callo e lu sudore.
Lo tribbulà de li contadì.
Quilli che è rmasti tali pure se fa natru lavoru.
Perché, contadì, lo si dentro, quanno non sopporti lo sprecà, quanno te rrizzi presto pure se non c’hai da fa có.
Pe non sprecà lu sòle.
Li contadì che d’è pieni de ignoranza ma che je vasta póco pe avé tutto.
Li contadì.
Comme me.
Cammino scalza.
Tentando, ma nemmeno poi tanto, di non tagliarmi i piedi.
Si trova sempre quel pezzo di vetro che qualcuno ha lasciato lì, sciaguratamente a terra, o quella conchiglia appuntita che sembra nascosta e poi te la ritrovi conficcata nella carne.
Capita a tutti, credo.
Ma ad una che scrive, forse, capita di più.
È una sorta di masochismo a cercare ciò che taglia, a non voler evitare niente di ciò che fa male, ad essere contraria alle anestesie, ai paraocchi, alle convenzioni.
Il coraggio si mischia alla sfida.
La paura si veste di sole trasparenze, di organza, di seta preziosa.
E si mostra, tutta, mentre i piedi vanno a tentoni.
Le cicatrici, autografate dalla vita, sono tante.
Ma di spazio, per nuovi tagli, ne ho ancora.
Il sangue sa d’inchiostro.
E questo scrivere fisiologico è l’unico cerotto che ho.
L’unico.
Forse, Gesù
Forse, Gesù, nascerà dentro la stanchezza di questi giorni, dentro l’ansia per il timore di non aver sufficiente memoria sul lavoro, dentro i sorrisi per molti e dentro l’irritazione trattenuta a stento per qualcuno.
Forse nascerà dentro i carboidrati distribuiti a una provincia intera, alle centinaia di pacchetti fatti, in mezzo ai fiocchi rossi messi a goccia sui regali.
Forse nascerà qui, tra le mie mani stanche e non curate, sulle occhiaie color caffè, sotto il mio cappello bianco da lavoro.
Nascerà nei miei auguri, fatti a pochissimi, e senza frasi fatte, in quelle due parole, a volte una, ma dette col cuore.
Nascerà.
Si, nascerà…
E muoio sempre un po’
anche stasera
nel giorno mesto
che taglia i minuti finali
li tiene per sé
li sfuma piano piano
e li promette a un’altra primavera
Mi abbraccia forte
mi cinge la vita
e i fianchi arrotondati dal tempo
la malinconia
mi invita a ballare
un lento
e coi piedi pesanti
calpesta i miei
stanchi
mentre i grilli
sembrano far festa
Le foglie del ciliegio
stanno tremando
hanno diradato i respiri
per non sprecare le forze
Sono stanca anche io
di questo inverno
mentre mi fingo corteccia
dove non passa gelo
Ascolta
la senti la paura
che provo
quando giro l’angolo dei miei pensieri?
Capita che lascio il coraggio lì appeso
insieme ai vestiti logori
di certi giorni senza fine
ed esco nuda
con le mani ad elemosinare
spiccioli di domani
Sotto i piedi
i lucidi sampietrini
raccontano
sanno tante cose
sanno di me
sanno che piango
a volte
ma senza lacrime
Pochi hanno la fortuna di conoscere il vero olio.
L’olio di casa, spremuto a freddo, come una volta.
È faticossissimo ottenere un litro di oro verde, c’è un lavoro certosino lunghissimo, dietro.
Di monitoraggio, per capire quando i parassiti arrivano.
E prevenire dove si può.
Perché anche il contadino può sbagliare il periodo del trattamento, ed è solo veleno inutile per i frutti.
Ci vuole attenzione, passione, dedizione.
Mio figlio Luca ha superato il nonno, in questo.
Monitorare minuziosamente per un risultato più sano e naturale possibile.
Oro verde.
Prezioso.
Anche quest’anno.
Ore 20.
Stendo i panni appena lavati, in balcone.
L’aria di una mitezza rara, piacevole, dolce, si lascia respirare tutta.
Sulla provinciale nemmeno un’auto, niente, calma assoluta.
Sulla strada secondaria, stessa cosa.
C’è un silenzio beato, stasera.
Una pace dovuta, alla natura.
Il ciliegio, muto, è a riposo, dopo la lunga giornata d’amore con le api.
In fondo, tutto è meraviglioso.
Cosa ci manca, allora, per essere felici?
Passerò dal camino
tra la fuliggine che farà nere
le mie parole
e la tenacia delle streghe
che non temono il rogo
Avrò il peso sulla schiena
delle battaglie quotidiane
dei respiri corti
delle sottrazioni che ho subito
mi riconoscerai
dal naso lungo e i modi bruschi
e dalla testardaggine che non nascondo
Avrò in dono solo due mani
fredde
Vedi,
della neve ho poco o niente.
Non sono così leggera, da tenermi anche sul ramo più piccolo, come niente fosse;
non ho il suo innato equilibrio da stare in alto senza vacillare, senza sforzo alcuno, con totale naturalezza;
non ho la sua grazia di ballerina prima di fermarsi, io non ce l’ho davvero.
E del suo candore, che dire?
Non lo conosco.
Ho pensieri color carbone e, dopo essere stata fuoco,
di quelli difficili da domare,
incompresa,
resto cenere.
Le contraddizioni ci offuscano la strada da seguire.
Le chiese aperte e i teatri chiusi;
i viaggi all’estero e il divieto di sconfinare tra comuni;
la mascherina all’aria aperta e il naso fuori al chiuso;
i parrucchieri chiusi anche se rispettano le regole.
Le leggi vanno rispettate.
Ma non sempre ci rispettano.
Serve il sole.
In questo buio pesto.
I fiori sbocciano tra le pagine, come stelle nelle notti buie.
Non è sempre facile vederle, le stelle, non lo è affatto.
Come non è facile spogliarsi dentro un libro, spogliarsi tutta.
Senza tabù, togliendo il superfluo che appesantisce l’anima, scegliendo di assomigliare all’aria del mattino, quella ancora non contaminata.
Che strane le persone che scrivono!
Che strane a raccontarsi a chi, di loro, non interessa niente.
Sono piena di fiori e di stelle.
E di parole lievitate come il pane.
Cotte qui, nel cuore mio.
La seduzione dall’autunno
Dovremmo imparare l’arte della seduzione dall’autunno.
Fa spogliare gli alberi lentamente, foglia foglia, ne scopre le curve strette, le parti in eccesso, il corpo nodoso e i segni del tempo.
Lo fa con garbo, vestendoli prima di giallo, di un tessuto sempre più leggero, trasparente, minimal, per far sì che nessuno sia a disagio a mostrarsi.
Nessun corpo e nessun albero è perfetto ma, ognuno, può custodire una propria bellezza, una sua particolare dote d’attrazione.
Mostrare i rami, scarni e doloranti ad occhi clementi e meravigliati, questa la lezione da imparare.
I tabù sono foglie.
In attesa di cadere...
Ecco,
mi trovi in forma, dici.
Beh, rispondo che sono felice di dare questa impressione.
Ma se solo ti facessi un giro tra le mie parole, uno solo, tra gli spazi troveresti il mio respiro mancante.
E, dopo le virgole, quelle pause di paura e incertezza.
Troveresti i punti interrogativi appesi al buio e, le stelle, nascoste dietro i cespugli di perché.
Ma sono viva.
E, per rispettare il mio essere selvatico, assorbo tutto.
Tutta la tempesta.
E tutto l’azzurro.
Ho 55 anni, oggi.
55 nei che raccontano le volte in cui mi sono fermata.
55 rughe dove sono scritti i miei giorni neri.
Ma anche 55 ripartenze, 55 slanci al giorno per festeggiare l’aria che respiro, 55 parole per prostrarmi davanti a una nuova alba.
E 55 baci alla vita.
La vita tutta.
La mia.
Eccomi.
Sono un mare di colori, ora che di tempo ne è passato…
Un po’ più triste, a volte, ma colorata, quello si.
Ricordi quel dì di Primavera, quando avevo quel foulard color prato, che tanto ti piaceva?
Ora indosso quello color ocra, come tutte le foglie che giacciono a terra, finite.
Ho il viso sbiadito e, di rossetto, lo sai, non he faccio uso.
Ho paura di sporcarmi quando parlo, perché sono sempre concitata, quando parlo, io.
Però ho le mani rosse, color melograno, perché mi piace abbracciarle, le persone, prenderle per mano.
E mi si scaldano.
E diventano rosse.
E ho un cesto di parole da dirti, nascoste tra i grappoli d’uva e tra le castagne di cui sono ghiotta.
Mi perderò nel bosco, prima o poi, mi perderò.
Nelle favole bisogna perdersi per trovarsi.
Sempre!
Ha un peso, il cuore?
Sì, se dentro ci fai entrare tutto.
Tutto,
anche ciò che meriterebbe stare fuori,
al freddo.
Tutto.
La stanchezza,
la malinconia,
i gesti sbagliati
e i pensieri che non dovrebbero essere pensati.
Le delusioni,
le aspettative da non aspettare.
Il mare che ho dentro,
in tempesta.
La paura del buio.
Ho un paio di ali,
sdrucite.
Con le piume mancanti e l’apertura,
sempre più stretta.
Plano sui giorni, spaiati.
E sui sogni, scordati.
Mille attimi di eternità
Anche se il silenzio contiene mille stati d’animo, mille sensazioni, mille attimi di eternità…
ho sempre preferito le parole.
E le parole scritte, nello specifico.
Ci si può soffermare su ognuna di esse, respirare l’odore delle pause, degli spazi vuoti, dell’andare a capo con la stessa forza di una cascata tra le braccia di due montagne.
Vedi,
le parole sono gocce di sangue, spine di una rosa costretta a difendersi per proteggere i delicati petali, respiri nati nella parte più interna del cuore.
E sono anche proiettili, a volte, sparati con la speranza di oltrepassare il torpore, la rassegnazione, la delusione.
Ecco, davanti al silenzio mi inginocchio, a pregare, però, quel dio che sparge petali di versi, a firmare pensieri vergini, nuovi, pieni di vita.
In fondo cos’è la poesia, se non un delirio dal fascino indiscusso?
Chissà se arriverai
Chissà se arriverai
immacolata come una sposa
come una poesia leggera
che si posa
sul cuscino
dove appoggerò le ciglia
indosserai fiocchi
tra i capelli
mentre i miei
ribelli
slegherò
La mia Fermo
Gira e rigira per trovare un parcheggio: niente.
La mia Fermo presa d’assalto, finalmente!
La fiera di Natale, i negozi aperti, la temperatura accettabile.
Una bella camminata poi al capolinea.
Manca il fiato, tanta è la bellezza.
Manca davvero.
La piazza, questo lussuoso salotto, strapieno di meraviglie.
E di gente.
Ammiro l’albero.
Calcinaro si è superato.
Come sempre.
È notte, finarmente!
È notte, finarmente!
Sò fatto la pannella
la pizza
lo pà
pe passà tempu
pe divagamme
Ma lu tèmpu non passa
non passa mai
Tra póco vedo un filme
e po?
Tutte ‘ste notte sframicate
non saccio più do mettele
le stelle a se d’è smorte tutte,
la luna…
La luna
a no la vedo più…
In dialetto ce parla li contadì. Comme me.
Sò ricevuto vari messaggi de cumblimenti perché scrio in dialetto.
Perché non me vergògno a scrie cuscì.
È che, a d’è più facile,
non me sbajio co li congiuntivi, non devo mmattimme a troà parole strane, senzuali, dilicate.
In dialetto lu penzieru è già perfèttu, non gne manca co’.
In dialetto lu dolore a d’è dolore, la contentezza a d’è essa, pricisa, senza sinonimi pe fa finta che sò studiato.
Io non sò studiato.
Io so jita a parà le pecore quanno l’amiche mie java in piazza.
E in fabbrica quanno loro cuminciava le superiori.
Io parlavo in dialetto, jo li campi.
E in fabbrica.
Ce parlo ancora.
In dialetto ce parla li contadì.
Comme me.
Unico, impalpabile, inafferrabile.
Non si può pensare di sbocciare per un tempo indeterminato.
Tutto è così fugace, così rapido e scivoloso.
E ci si accorge di ciò solo mentre i petali cominciano a cedere.
Niente si trattiene, niente.
Però, quell’attimo resta per sempre, non si cancella.
Unico, impalpabile, inafferrabile.
Sono io quei petali che tremano, che sanno che, a breve, il vestito rosso…
scolorirà.
E allora? Io ho già deciso.
Tirare dritto all’obiettivo può far incorrere in una serie di problematiche durante il tragitto.
A non essere accomodanti si rischia di restare soli.
E allora?
Niente, occorre solo capire se la destinazione merita il viaggio.
E se si ha voglia di rischiare.
Io ho già deciso.
In un campo di papaveri
Ho bisogno di un bagno in un campo di papaveri
farne ghirlande
intrecciarle tra i capelli
vestirmi di rosso
di papaveri rossi
e niente altro
ubriacarmi di vento
e di un alfabeto che
solo io e te
conosciamo...
Sento le membra vacillare ad ogni alito di vento.
Sono di quei colori che il bosco dona a Novembre, i miei pensieri.
Caldi e poi subito freddi, deboli, impauriti.
Cadranno, lo so, cadranno.
In fondo, delle foglie, non importa niente a nessuno: cadono, muoiono, senza che nessuno ne abbia pena.
Sembra ovvio, scontato.
Le senti sotto i piedi, con quello scricchiolio che sa di fine, di mancanza di domani, di “forse saremo utili al terreno”.
Non so se sarò utile al terreno io, non credo.
Non si curerà nessuno del mio cadere ed essere morta.
Non resterà niente di me, niente che possa ricordare lontanamente il mio passaggio.
Sono Autunno, le mie parole.
Sono Autunno lento.
E inesorabile.
Febbraio,te lo ricordi ancora?
Febbraio,
quasi non ti riconosco.
Non riesci più a farmi ridere,
del tuo Carnevale non porto ricordo.
I carri carichi di paure sfilano nella mente, in bianco e nero.
Manca Arlecchino, mancano i colori.
Manca lo zucchero filato sulla punta delle dita,
mancano le risa giovani,
mancano i coriandoli dentro la maglietta,
incollati da un sudore di cose in divenire…
Resta l’odore del mare sulle labbra, di un anno fa.
Te lo ricordi ancora?
LA MERLA
La merla solitaria zitta zitta
rvistita co’ un mantèllu sculuritu
a fà du’ passi e se ne pprufitta
zumpetta vassa senza lu maritu
-Quist’anno stranamente sento callo-
a se lamènta mentre se llontana
-de ‘sti tramonti fatti de corallo
io staco mejio co’ la tramontana-
-E se cuscì continua la mmasciata
allora vojio fà comme me pare
a faccio comme una che conoscio
bbandono tutto e po… vaco a lu mare!-
Se ci sarà un’altra vita
Se ci sarà un’altra vita
un’altra possibilità
un’altra forma da assumere
quando il tramonto incontrerà la notte
quando le dita
rattrappite
non stringeranno più la penna
quando
voltandomi
vedrò il grano diventato paglia
se ci sarà un’altra possibilità
dicevo
Dio degli abissi e delle risalite
concedimi di rinascere ninfea
leggera
a pelo d’acqua
in superficie
senza zavorre-
Hai visto gli ulivi?
Hai visto gli ulivi?
Hanno miriadi di piccolissimi fiori.
I rami sono tempestati da quelli che, poi, diverranno preziosi frutti da spremere.
La storia si ripete eppure, pur sembrando identica agli altri anni, ogni volta è nuova e diversa.
E diverso sarà l’olio.
Niente, domani, sarà come ieri.
Niente.
Ciò che si era va custodito, riposto nell’angolo del comodino, gelosamente protetto.
Ma è del domani che dobbiamo parlare.
Gli ulivi hanno dimenticato il raccolto passato.
Aspettano nuove mani.
Se da sempre è così, un motivo ci sarà…
Che luna, stasera!
Che luna, stasera!
Io e te non abbiamo mai
festeggiato granché
tu eri schivo
a tutto ciò che di confezionato
il mondo proponeva
in questo
nel tempo
ti assomiglio sempre più
Che luna, stasera!
Babbo, la tua festa
non l’hai mai calcolata
calcolavi il sudore
spesso obbligato
Che luna…
a lei ti affidavi
come i saggi contadini fanno
a lei
a nessun altro
tanto eri orgoglioso
dei tuoi campi
Ora
in questa tua ultima fase
dove io ti imbocco
la torta di mele
inzuppata di latte
ora
la luna
sembra averti scordato
D’altra parte
volge lo sguardo
noncurante
Un paltò di neve
E tu pensi che un paltò di neve
possa bastare a coprirmi la pelle?
No, non basta.
Ciò che ho dentro è ibernato e perpetuo
in segrete stanze
chiuso
e fuori
dal mondo gelido
prendo le distanze.
Così sia.
Signore,
accogli le nostre croci.
Quelle in bella vista, che il mondo vede e commisera,
ma ancor di più quelle nascoste, quelle indicibili, quelle tenute nelle stanze più buie in attesa di speranza.
Ecco, donaci il pane del domani,
il pane come prima necessità dell’anima.
Non lasciarci attrarre dalle frivolezze ma dall’essenziale del quale abbiamo perso traccia.
Passaci attraverso.
Tagliaci dentro.
Facci uscire il sangue della vita: quella vissuta con l’accettazione di ciò che non si può cambiare e con la tenacia inesauribile per ciò che merita una svolta.
Armaci di coraggio, quello di mostrarci veri e fragili, in questo mondo che ci obbliga a mostrarci perfetti e forti.
Così sia.
Di fiori in bianco e nero
Di fiori in bianco e nero
di luce flebile
di quelle poche parole che passano oltre i lupi
che tentano di sbranare la preda
di labbra tagliate dall’inverno
e screpolate dai morsi
dell’impotenza
di solitudini scelte
ed altre pagate care
di ieri a cui non credere più
di domani di cui diffidare
e di cuori chiusi fuori dall’uscio
di tutto questo
si nutre una pagina vergine
Profuma di Maggio
Profuma di Maggio, l’aria.
Di rose.
E ali di rondine sulla mia schiena.
E la mente torna a quella ragazzina, acerba ancora, che vestiva un profumo di ginestra per sognare due occhi.
Specie protetta, l’ho capito poi.
La ginestra.
E i sogni di lei.
Notte
Ci verrai a trovare prima, stasera.
Tra i rami nudi e sensuali degli alberi ai bordi della strada, tra l’erba umida della scarpata incolta, tra le luci delle finestre accese anzitempo.
Notte.
Un po’ ti temo, devo ammetterlo.
Sei troppo lunga e troppo silenziosa.
Troppo nera.
Ho impastato una torta per esorcizzare il timore che mi incuti.
Ho profumato la casa di burro, marmellata, mele cotte.
Non ho dosato gli ingredienti, non lo faccio mai.
Li metto a caso, così, a intuito, come faccio quando scrivo.
Comincio a battere le lettere (o le uova) e non so mai se parlerò d’amore o di matematica.
Poi inforno.
Ho un forno a forma di cuore.
Sforno cose che nemmeno io conosco.
Le assaggio…
Non sono una grande cuoca né una grande scrittrice.
Ma qui profuma di buono.
Notte, non ti temo!
Nascita di un poeta..
A chi, tra due colori, ne vede mille altri
a chi si turba per una foglia a terra
a chi si accorge della nascita di un poeta..
Giornate azzurre
Le giornate azzurre fuori e la paura dentro.
I contagiati vicino casa e una preghiera di supplica al cielo.
C’è un silenzio terribile!
E tanta tristezza per la durata senza tempo di questa pausa di vita.
E questa foto di un anno fa, a ricordarmi un panorama totalmente stravolto.
Mi manca il mio mare dalla finestra.
Mi manca vederlo da lontano…
Come ironizzare su una tragedia: copri-sterzo abbandonato.
A me non me nteressa
la jiornata dell’ambiente
chi la festeggia ojji
non ha capito gnènte
la festa se cumincia
da lu primu de Jennà
e non deve avé fine
manco dopo de Natà
l’ambiente se n’è ccòrtu
de èsse trascuratu
che ce ne frechemo tutti
anche se è tanto nominatu
Io intanto me preparo
co la sappa e co la vanga
se me mòro in ‘che scarpata
me potete anche fa santa
(O intitolarmi una scarpata)
Il ciliegio si è vestito di oro.
Prima di abbandonare i rami, le foglie, hanno voluto sfoggiare il loro abito più festoso.
Il vento di ieri, benché di una certa intensità, ne ha staccate poche.
Molte resistono, l’attaccamento alla vita è sempre forte.
Ecco, vedi…
è quando pensi che sei alla fine, è lì che serve l’ultimo sforzo.
Quando vorresti cedere al vento, alle intemperie, e invece senti dentro le foglie danzare, senza cadere, a darti forza.
Sono foglia, temo il vento della vita.
Sono foglia, vestita d’oro per l’ultima danza.
A ballare tra i rami, nella stagione più fredda.
Adesso
Non ho voglia di parlare.
Non ho voglia di spiegare, di parlare del vuoto, del nulla.
Ci si potrebbe sempre infilare nei miei assoli, tra le righe, tra punti e virgole, comunque.
E buongiorno, e buon pranzo, e c’è il sole oggi e meno male…
Sono vuote le parole, vuote di senso, vuote di percezioni.
Siediti.
Siediti sui miei fiumi.
Quei rivoli che sono un filo d’acqua ma che poi diventano dighe senza controllo.
Le dighe, fatte per contenere, non sempre fanno il loro dovere.
Siediti.
Ma ora basta.
Non ho più voglia di parlare.
Non più…
Gli orli sdruciti
e i bottoni attaccati alle ferite
trasformate in feritoie
per coprire il vuoto
stretto da darmi affanno
in certe nebbie oltre la collina
dei rimpianti
o largo fino a caderci
in quelle notti bucate di stelle
in cui mi sento piccola
e scompaio piano
ci vuole tempo per capire
che chi non dà non ha
e chi non ha
ha bisogno
di elemosina nel cappello
e di carezze
Perfetto, il sarto del tempo
che lascia qualche spillo
non a caso
in ogni abito
del suo atelier
Sfoglio i giorni e le stagioni.
La mimosa, la ginestra, i papaveri, i girasoli.
L’odore dei sogni, delle speranze, delle certezze sperimentate, delle delusioni cocenti.
Sfoglio il dolore.
Sfoglio le cicatrici
e gli oli con cui ho tentato
di lenirle.
Sfoglio le pagine
ora bianche
ora imbrattate di pensieri.
Pensieri come fiamme
che bruciano l’inverno.
E le stagioni
e i giorni
che sfoglio.
, sindaco di Belmonte
Sono una che scrive
È quel sottile confine d’azzurro che faccio fatica a delineare.
Dove l’acqua e il cielo si fondono, senza paura.
Il confine.
Tra l’essere e l’apparire.
Tra il pensiero intimo e lo scritto.
Tra il concreto e il sogno.
Tra la massa e l’io.
Tra l’immunità di gregge e la mia.
No, io non sarò mai immune.
Da niente.
Sono una troppo fragile.
Sono una che scrive.
Mi sto chiedendo se abbia sapore la Poesia.
Odore si, ne ha, evoca aromi dolcissimi, tra le righe.
Ma, sapore?
La mia si, sa di figlia di contadini, di colline coltivate a foraggio, dove pascolavano le pecore dalle quali, mia madre, mungeva il latte per fare il formaggio.
Sa di mani prive di crema all’orchidea ma che odorano di carne per riempire le olive.
E di pane, quello buono, usato per impanarle.
Sa di versi che sbocciano in bocca, mentre, alla cassa, sommo la spesa.
Sa di frutta matura, di zucchero tra le dita, mentre invaso la marmellata fumante.
Di pesche in vetro, di spicchi di sole custoditi per l’Inverno.
Sa di mare, del mio amatissimo mare, e del sale che lo fa tanto simile alle mie lacrime.
Sa di lievito, quello madre, che partorisce inni alla vita.
E che si moltiplica nella gioia.
Lontana da scrivanie di legno intarsiato, viva di fogli sparsi in ogni dove.
Ecco, io non so neanche se sono degna di chiamarla Poesia, la mia.
Ma questo è il suo sapore.
Dolce/amaro.
Come me
Grembiulino, fiocco e zainetto.
Torno a scuola!
Faccio il terzo anno, quest’anno.
Ripetente, direte.
Si, ho ripetuto.
Ho ripetuto tutta la vita che ho un buco, una voragine, un vuoto incolmabile.
Niente e nessuno ha sostituito o riempito i miei anni di scuola mancati.
Niente.
E nessuno.
Poi, in una serata di Asino chi non legge, ascolto lui, Umberto Piersanti, mi piace.
Tempo dopo vengo a sapere della sua scuola.
Sono ignorante come una capra ma testarda come in mulo.
Ci provo, mi iscrivo, mi scapicollo per andarci, frequento, imparo.
Imparo, imparo, imparo…
Ma non sufficientemente.
Devo andare ancora.
Ancora, ancora, ancora…
Domenica rivedrò i miei compagni di classe.
Faremo anche la ricreazione.
Praticamente, sono già lì.
un campo arato
Regalami un campo arato
ci seminerò parole vergini
Se nasceranno
chiamale col mio nome
portale al mulino
fanne pane
Quando avrai fame
cibati di me
Sto imparando a leggere il silenzio.
A percepirne le sfumature, i toni alti e bassi del dolore, il fiato che manca e le mani fredde.
Perché il silenzio è un mare di roba: è Inverno, è solitudine, è un albero privo di foglie, una porta chiusa, un caffè senza zucchero.
È avere paura.
Lo sto leggendo, lentamente, per non perdere nemmeno una parola.
Perché, in fondo, lo amo il tuo silenzio.
Ma io sono altro.
Sono il chiasso, lo schiamazzo, il tuono rumoroso.
Di quel silenzio a cui appartieni, io, sono solo l’urlo…
A pugni stretti
A pugni stretti
col domani a sottrarre
carezze
sorrisi
gesti consueti
ed ora impossibili
Tu
che la fatica hai divorato
costruendo certezze
e terreni
da lasciarci
tu
che non distingui più
il remoto dall’oggi
convivendo con fantasmi e suoni
ora scomparsi
Vedi
posso solo giocare
con te
col bambino nato
dai neuroni che muoiono
piano
senza fare rumore
ARSA
Mi sorprendi arsa
come certi giorni di Luglio
Disidratata
come sabbia scolpita dal Ghibli
sola
debole come non immagini
forte come non saprai mai
A bruciarmi i piedi
sulla sabbia rovente
scalza
per sentire ogni granello
di cui sono fatta
ARSA Sonia Trocchianesi
OMAGGIO AL MESE DI LUGLIO
Il mio sale
Era presto e, il mio presto, significa prima del sole.
La sabbia era priva di orme, le mie erano le prime.
Ho pensato che era bellissimo come la notte portasse via ogni traccia del giorno precedente e che, a volte, mi sarebbe piaciuto fare così.
Cancellare tutto.
E ricominciare.
Pagina pulita, bella calligrafia.
Errori da evitare, scelte da azzeccare, risposte precise da dare.
Invece, solo il mare ha questa facoltà.
Il mare si rinnova ad ogni onda, ad ogni alito di vento.
Si inventa, ogni attimo.
Un giorno mi ha fatto una promessa.
Avrebbe nascosto tutte le mie lacrime.
Il mio sale, in fondo, è come il suo…
scritta il 4 novembre 2019-ore 22:44-
Me faccio cucciòla
Me faccio cucciòla.
Me bbusco dentro de me, me rritiro, quasci ce rinuncio.
Divento muta, invisibbile, comme se non ce staco.
Perché là fòri, spesso, non gne sse fà a stacce, non gne sse fà.
Che vorrà succède, chi se ne ccorghierìa?
Penso nisciù, nisciuna proprio.
Ma se dovèsse sboccià ancora un fiore, forse me rreffaccerìo.
Forse.
Ne rparlemo più in là.
A primavera.
VEDI
Vedi,
ho avuto anche io paura di fiorire.
Ho avuto paura dell’aria gelida del mattino
e di quella tetra della sera che entra nelle ossa e che rende fragili come vetri sottili sottili.
Allora son rimasta gemma, a volte
son rimasta embrione, pensiero,
azione mai accesa.
E le parole sono rimaste inchiostro,
desideri nudi con la paura del buio.
Nudi.
Sotto una coltre di stracci.
Non saccio se je la poi fa,
Non saccio se je la poi fa,
a nasce,
ce semo barricati in ogni mòdu,
no, non è pe lu virusse,
quella è la scusa,
e tène pure,
perché la sapemo raccontà cuscì bè,
che ce credemo tutti.
Semo nchiavato lu còre
e semo vuttato via la chiae,
mejio a mette un muru,
a non fasse domande,
a non cercà risposte.
Semo legato le ma’,
mejio non toccacce
unu co natru,
mejio a facce l’auguri a sopra
comme è stato sempre fatto:
“Comme stai, tutto vè?”
“Se tira avanti”
e via lu prossimu
cuscì…
Semo leato lu sorrisu,
perché ammó,
finarmente,
la vocca non se vede,
a sta bbuscata.
Non jela poi fa, a nasce!
E comme fai?
Non se po’ scavargà,
lu cunfì,
tra l’amore che pórti
e l’ipocrisia che ce tè ritti.
Piccolo ciclamino-
Il piccolo ciclamino ha vissuto un sacco di inverni.
Lui, col freddo, sta bene.
Riesce a mettere foglie nuove, verdi, forti.
E fiorire.
Ha imparato che, quando fuori non è l’ambiente che vorrebbe, fare finta di morire sia l’unica soluzione.
Morire.
Ritirarsi, mettere la testa sottoterra, non respirare.
Non soffrire.
Non inutilmente.
Aspettare il momento giusto,
saperlo fare, in silenzio.
Prima o poi arriverà l’ora in cui tutto sarà.
Tutto.
E la mortificazione estiva apparirà come un ricordo lontano.
Il ciclamino ha da insegnare molto.
Sto prendendo appunti…
Ecco, vedi…
mi inviti a non mollare, a non darla vinta a chi tenta di ostruire un sogno, ad essere più forte delle barriere, ad insistere, ad essere me stessa.
Vedi…
tu non sai quanto io sia caparbia, quanto io sappia essere determinata, e quanta ribellione contengono le mie idee.
Però sono stanca, stanca di far finta di essere nel torto, stanca di chinare il capo.
Stanca di mani chiuse, stanca di voci dubbie.
In certi labirinti, si rischia solo di perdersi.
Resto fuori, con la delusione da gestire.
I papaveri, sbocceranno lo stesso.
Più rossi che mai!
All’alba sarò pronta.
All’alba sarò pronta.
Presto, prestissimo.
Prima che il rumore copra il canto degli uccelli, prima che il sole scaldi la fronte, prima…
Prima.
Prenderò una strada secondaria, quella con vista mare.
Lascerò spaziare i pensieri trattenuti dietro i vetri, scioglierò le ginocchia semi bloccate dalla quarantena.
Camminerò finché avrò fiato.
Domani.
La senti com’è fresca, l’aria?
La senti com’è fresca, l’aria?
Mi ricorda quando, ragazzina, la respiravo tutta, col naso, a bocca chiusa.
E, camminavo, senza ancora sapere dove volessi andare.
Perché, mi avevano detto che, non era importante cosa volessi fare ma, era importante fare ciò che si doveva.
Io mi nascondevo sotto le lenzuola, la sera, che sapevano di fieno o di paglia, a seconda delle stagioni.
Lì, nascosta, parlavo sola.
Mi ripetevo i desideri a voce alta, i sogni, le cose che avrei voluto fare.
Credevo che, se lo avessi detto a voce alta, qualcuno mi avrebbe sentita, esaudita.
Lo faccio ancora, quando vado a camminare.
C’è un piccolo tunnel che attraverso solitamente, lì mi escono i pensieri a voce alta; in quei venti passi mi ritrovo, torno indietro, volo via…
E, i pensieri rimangono lì, sotto il tunnel, adagiati nell’aria fresca…
La senti com’è fresca, l’aria?
Mi ricorda quando, ragazzina, la respiravo tutta, col naso, a bocca chiusa.
E, camminavo, senza ancora sapere dove volessi andare.
Perché, mi avevano detto che, non era importante cosa volessi fare ma, era importante fare ciò che si doveva.
Io mi nascondevo sotto le lenzuola, la sera, che sapevano di fieno o di paglia, a seconda delle stagioni.
Lì, nascosta, parlavo sola.
Mi ripetevo i desideri a voce alta, i sogni, le cose che avrei voluto fare.
Credevo che, se lo avessi detto a voce alta, qualcuno mi avrebbe sentita, esaudita.
Lo faccio ancora, quando vado a camminare.
C’è un piccolo tunnel che attraverso solitamente, lì mi escono i pensieri a voce alta; in quei venti passi mi ritrovo, torno indietro, volo via…
E, i pensieri rimangono lì, sotto il tunnel, adagiati nell’aria fresca…
Vedi,
è arrivato settembre,
di già.
Un nuovo ciuffo di capelli sbiaditi,
un sorriso mancato,
una carezza stanca,
la sera.
Ho provato a seminare il coraggio,
nascondendo la paura
nella tasca di dentro;
non so se ce l’ho fatta,
non lo so.
Ho messo in moto le mani.
Le mani sono il fulcro
di ogni cosa.
Le mani sanno piangere,
accarezzare,
lottare.
Sanno fare l’amore.
Sanno stringere il tempo passato,
ricamando il domani
su finestre di vento.
Ho esorcizzato il dolore,
con le mani.
Ho cucito ferite di carne
e poesia.
Ci ho aperto la via,
nuova,
con le mani.
Ho invitato sui fiori
le api,
a impollinare la notte,
di stelle cadute
per me.
Le sensazioni sono immagini scritte sulla pelle.
E la pelle che invecchia è un album di foto.
Sto invecchiando, si, me ne accorgo dalla difficoltà a fare la salita.
Dal fiatone.
Dai piedi, uno in special modo, che appoggio male e che si ribella.
Manca l’acqua durante il percorso.
L’acqua fresca, di sorgente, quella che nasce per dissetarsi, per ristorare le labbra dall’arsura.
Gli odori però, li ho immagazzinati.
Ogni profumo una foto.
L’erba, il grano alto appena dieci centimetri, la borragine.
Le ho tutte qui, le loro immagini.
Sulla pelle piena di rughe.
Piena di curve.
Piena di poesia.
Immensa, stasera
Immensa, stasera
da contenermi tutta
me e tutte le mie paure
le mie angosce
le mie domande sospese
e il tuo ventre
accogliente grembo
dalla pelle bianca
sentiero degli amanti
palpito degli audaci
viatico dei coraggiosi
Non ti somiglio
sei troppo bella
luna
Vedi,
sembra alquanto inutile ripeterti in quale modalità va presa la vita.
Con leggerezza, con estrema leggerezza.
Senza entrare dentro alla sostanza, ai problemi, alle cose che le tue mani toccano.
Vedi,
dare poco di sé è sempre molto riduttivo ma, dare troppo, è da sempre penalizzante.
È una colpa.
Non ne trarrai benefici.
Dare tutta te stessa sarà il tuo male.
Il tuo difetto più grande.
Il tuo tarlo nello stomaco.
Rimani in superficie, cerca di capirlo.
Galleggia, se vuoi salvarti.
Di solito, dopo il mezzo secolo, si comincia a capire.
Di solito.
O anche no.
Gioia nel condividere una fetta di crostata
Scapijiata non póco
co l’aria de mare
sempre pronta a lottà
pe checcosa che vale
che fatica a fa der bène
a difende l’ambiente
sai lo vello che d’è?
Lu còre enorme de la jente!
(Su questa foto faccio schifo, mascherina e vestita di cenci, a fine raccolta, ma voglio farvi vedere quanta gioia porta il nostro gruppo.
Gioia nel condividere una fetta di crostata e sapere di aver lottato per una giusta causa)
Le ali delle parole
Le parole hanno le ali.
Inutile tentare di trattenerle, tutto inutile.
Andate, adagiatevi su nuovi lidi, su nuove scogliere, su nuove pagine.
Non so se qualcuno vorrà leggervi, non lo so.
Ma non è a questo che penso, ora.
Penso alla grazia, alla leggerezza, alla profondità che dovrò donarvi.
Penso ai probabili sensi che, teoricamente, potrete accarezzare.
Il gusto, il tatto, la vista, l’udito.
E quell’odore, inconfondibile, che saprete emanare.
Spiccate il volo, andate.
E grazie a chi, ancora una volta, crede in me.
In voi.
È lenta la pioggia.
Come una carezza lieve, quella che si fa ad un bambino quando dorme e non lo si vuole svegliare.
Malinconica, però.
Come tutta la scala del grigio, così precariamente in equilibrio tra il bianco e il nero.
I colori, certo, quelli sono altro.
Come quel prato, dove mi riempivo i polmoni di vita.
Dove il silenzio firmava un patto d’alleanza col verde ed io mi sentivo una regina sul trono dell’infinito.
Piove.
Lento lento.
Il grano ringrazia.
Io…
scriverò della malinconia.
Ancora.
Le pecore.
Quanto le ho odiate, le pecore.
Le ho odiate come non ho mai odiato niente altro.
Tantissimo.
Poverine, ma che c’entravano loro?
Ne avevano una quindicina, i miei, e mi mandavano a pascolarle.
Avevo il terrore che si venisse a sapere.
Magari dalle mie compagne di classe, quelle che, nei pomeriggi liberi, passeggiavano in piazza.
Oppure dai compagni, i maschi.
Cosa avrebbero pensato, se avessero saputo?
E poi, era tempo rubato ai compiti, ai miei amati libri.
Oh mio Dio!
Ci ho messo quasi quarant’anni per dirlo ad alta voce.
“Ho pascolato le pecore, si, io.”
Per tanti anni.
Lì, in quei prati verdi, dove qualcuno cantava che ci nascono speranze…
Vedi,
ci sono luoghi, nel corpo,
dove nessuno immagina il dolore.
Dove nessuno parla dei segni scalfiti nella carne,
a colorare il grigio di inverni sterili,
come murales astratti.
E questo carico,
che si fa peso e forza, qui, sulla mia schiena.
E tento di non curvarmi, saltando ostacoli
che faccio finta siano niente.
Scendono giù,
sulle vertebre stanche
come cerchi in uno stagno,
dove i sassi tirati recano fastidio.
E creano onde.
Ma quanto fascino hanno
le cose complicate
e quanto profumano
la pelle
le ostinazioni di cui mi vesto.
Sono questo.
Nuda e vulnerabile.
Poi forte.
Vestita solo di spine.
L’unico mio rifugio…
E poi mi dici… parla.
Che, il mio ammalarmi spesso, deriva da una stanchezza interiore, che il corpo sente le emozioni negative, il malessere, il sonno stentato.
Ma a chi vuoi che interessino le mie lagne?
Le mie paranoie malinconiche, il mio turbamento quando mi affaccio dalla finestra e non vedo più il mare?
Forse sono troppo sensibile, soffro pure per un saluto mancato, figurati…
No, non mi va di parlare.
L’unico amico sincero è questo foglio.
Il mio confidente.
L’unico mio rifugio…
Siamo nati
Siamo nati
per essere felici
si parlava l’altra sera…
Vedi
sono nata piangendo
modellata dall’urlo
di mia madre
certi inizi
li porti dentro
non si dimenticano