Silvia Plath poetessa e scrittrice statunitense-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Una poesia in ricordo di Silvia Plath- poetessa e scrittrice statunitense.
(Boston, 27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963)
Sylvia Plath poetessa americana-Conosciuta principalmente per le sue poesie, Sylvia Plath ha anche scritto il romanzo semi-autobiografico La campana di vetro (The Bell Jar) sotto lo pseudonimo di Victora Lucas. La protagonista del libro, Esther Greenwood, è una brillante studentessa dello Smith College, che inizia a soffrire di psicosi durante un tirocinio presso un giornale di moda newyorkese. La trama ha un parallelo nella vita di Plath, che ha trascorso un periodo presso la rivista femminile Mademoiselle, successivamente al quale, in preda a un forte stato di depressione, ha tentato il suicidio.
Assieme ad Anne Sexton, Plath è stata l’autrice che più ha contribuito allo sviluppo del genere della poesia confessionale, iniziato da Robert Lowell e William De Witt Snodgrass. Autrice anche di vari racconti e di un unico dramma teatrale a tre voci, per lunghi periodi della sua vita ha tenuto un diario, di cui sono state pubblicate le numerose parti sopravvissute. Parti del diario sono invece state distrutte dall’ex-marito, il poeta laureato inglese Ted Hughes, da cui ebbe due figli, Frieda Rebecca e Nicholas. Morì suicida all’età di trent’anni.
Ebbe difficoltà ad integrarsi a scuola, forse proprio per la sua spiccata intelligenza, che un test dell’epoca dava ad un quoziente di 166 (praticamente un genio). La prima volta che incontrò il suo futuro marito, Ted Hughes, era così agitata che lo morse a sangue sulla faccia. Si suicidò in un appartamento londinese un tempo occupato da W.B.Yeats, il suo poeta preferito.
Io sono verticale
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.
Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo piu’ perfetto –
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me piu’ naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.
– in ricordo di Silvia Plath- (Boston, 27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963) è stata una poetessa e scrittrice statunitense.
Poesie di Sylvia Plath-
Io sono verticale (1961)
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.
Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo piu’ perfetto –
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me piu’ naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.
.
Limite (Febbraio 1963, scritta poco prima di morire) –
La donna ora è perfetta
Il suo corpo
morto ha il sorriso della compiutezza,
l’illusione di una necessità greca
fluisce nei volumi della sua toga,
i suoi piedi
nudi sembrano dire:
Siamo arrivati fin qui, è finita.
I bambini morti si sono acciambellati,
ciascuno, bianco serpente,
presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
Lei li ha raccolti
di nuovo nel suo corpo come i petali
di una rosa si chiudono quando il giardino
s’irrigidisce e sanguinano i profumi
dalle dolci gole profonde del fiore notturno.
La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,
non ha motivo di essere triste.
E’ abituata a queste cose.
I suoi neri crepitano e tirano.
.
Monologo delle 3 del mattino-
È meglio che ogni fibra si spezzi
e vinca la furia,
e il sangue vivo inzuppi
divano, tappeto, pavimento
e l’almanacco decorato con serpenti
testimone che tu sei
a un milione di verdi contee da qui,
che sedere muti, con questi spasmi
sotto stelle pungenti,
maledicendo, l’occhio sbarrato
annerendo il momento
che gli addii vennero detti, e si lasciarono partire i treni,
ed io, gran magnanimo imbecille, così strappato
dal mio solo regno.
.
Papaveri a luglio –
Piccoli papaveri, piccole fiamme d’inferno,
Non fate male?
Guizzate qua e là. Non vi posso toccare.
Metto le mani tra le fiamme. Ma non bruciano.
E mi estenua il guardarvi così guizzanti,
Rosso grinzoso e vivo, come la pelle di una bocca.
Una bocca da poco insanguinata.
Piccole maledette gonne!
Ci sono fumi che non posso toccare.
Dove sono le vostre schifose capsule oppiate?
Ah se potessi sanguinare, o dormire! –
Potesse la mia bocca sposarsi a una ferità così!
O a me in questa capsula di vetro filtrasse il vostro liquore,
Stordente e riposante. Ma senza, senza colore.
.
Ariel –
Stasi nel buio. Poi
l’insostanziale azzurro
versarsi di vette e distanze.
Leonessa di Dio,
come in una ci evolviamo,
perno di calcagni e ginocchi! –
La ruga
s’incide e si cancella, sorella
al bruno arco
del collo che non posso serrare,
bacche
occhiodimoro oscuri
lanciano ami –
Boccate di un nero dolce sangue,
ombre.
Qualcos’altro
mi tira su nell’aria –
cosce, capelli;
dai miei calcagni si squama.
Bianca
godiva, mi spoglio –
morte mani, morte stringenze.
E adesso io
spumeggio al grano, scintillio di mari.
Il pianto del bambino
nel muro si liquefà.
E io
sono la freccia,
la rugiada che vola
suicida, in una con la spinta
dentro il rosso
occhio cratere del mattino.
Canto del fuoco-
Nascemmo verdi
a questo giardino in difetto,
ma nella spessura macchiettata, grinzosa come un rospo,
il nostro guardiano si è imboscato malevolo
e tende il laccio
che abbatte cervo, gallo, trota, finché ogni cosa più bella
arranca intrappolata nel sangue sparso.
Nostro incarico è ora di strappare
una forma di angelo con cui ripararsi
da questo mucchio di letame dove tutto è intricato tanto
che nessuna indagine precisa
potrebbe sbloccare
la presa furba che frena ogni nostro gesto fulgente,
riportandolo alla fanga primordiale sotto un cielo guasto.
Dolci sali hanno attorcigliato i gambi
delle malerbe in cui ci dimeniamo instradati verso fine ammorbante;
bruciati da un sole rosso
leviamo destri la selce appallottolata, tenuti nei lacci spinati delle vene;
amore ardito, sogno nullo
il metter freno a tanta superba fiamma: vieni,
unisciti alla mia ferita e brucia, brucia.
(1956)
Nel paese di Mida-
Prati di polvere d’oro. Le correnti
d’argento del Connecticut si sparpagliano
e s’insinuano in dolci crespe sotto
le fattorie sulla riva dove imbianca la segale.
Tutto è liscio fino a un luccicare piatto
nel meriggio sulfureo. Con il languore
degli idoli ci muoviamo sotto
la larga campana di vetro del cielo e intagliamo brevi
le forme dei corpi in un campo di stoppie
e mazze dorate come su una foglia d’oro.
Forse è il paradiso, questa statica
pienezza: le mele indorano sul ramo,
cardellini, pesci dorati, un soriano biondo
fermo su un arazzo gigante –
e innamorati affettuosi, come colombi.
Ma ora sull’acqua sfrecciano gli sciatori,
a ginocchia tese. A un capo dei cavi invisibili
squarciano il velo verde del fiume:
lo specchio trema e si rompe.
Volteggiano come i pagliacci di un circo.
E così ci ritroviamo, pur volendo fermarci,
su questa sponda d’ambra dove l’erba discolora.
Il contadino pensa già al raccolto,
agosto cede il suo tocco di Mida
e il vento denuda un paesaggio più pietroso.
(1958)
Elettra sul vialetto delle azalee-
Il giorno che moristi andai nella terra,
nell’ibernacolo senza luce
dove le api, a strisce nere e oro, dormono finché cessa la bufera
come pietre ieratiche, e il terreno è duro.
Quel letargo andò bene per vent’anni –
come se tu non ci fossi mai stato, come se io fossi
venuta al mondo, dal ventre di mia madre, ad opera di un dio:
sul suo letto largo c’era la macchia del divino.
Non avevo nulla a che vedere con la colpa o altro
quando mi raggomitolavo sotto il cuore di mia madre.
Piccola come una bambola nel mio vestitino d’innocenza
me ne stavo sdraiata a sognare la tua epopea, immagine per immagine.
Non uno che morisse o sfiorisse su quella scena.
Tutto avveniva in una bianchezza durevole.
Il giorno che mi svegliai, mi svegliai a Churchyard Hill.
Trovai il tuo nome, le tue ossa e tutto
nelle liste di una necropoli gremita,
la tua pietra maculata di sghimbescio presso una ringhiera.
In questo ricovero, in questo ospizio, dove i morti
si ammucchiano piede a piede, testa a testa, non un fiore
a rompere il terreno. Questo è il vialetto delle azalee.
Un campo di bardana si apre a sud.
Sopra di te sei piedi di sassolini gialli.
La salvia rossa non si muove
nella vaschetta di sempreverdi di plastica posti
davanti alla lapide vicina alla tua, e neppure marcisce,
per quanto le piogge stingano un colore di sangue:
i petali finti gocciolano, gocciolano rosso.
C’è un altro rosso a incomodarmi:
il giorno che la tua vela rilasciata bevve il respiro di mia sorella
il mare piatto si fece di porpora come l’atroce panno
che mia madre aprì al tuo ultimo ritorno.
Prendo a nolo i paramenti di una tragedia antica.
La verità è che in una fine d’ottobre, al mio primo vagito,
uno scorpione si punse la testa, brutto segno;
mia madre ti sognò riverso nel mare.
Gli attori di pietra sostano, si riposano per riprender fiato.
Ho dato tutto il mio amore, e tu sei morto.
Fu la cancrena a mangiarti fino all’osso
mi disse la mamma; moristi come uno qualunque.
Come arriverò a far mio questo pensiero?
Sono lo spettro di un suicida senza onore,
il mio rasoio azzurro mi s’arrugginisce in gola.
Oh, perdona colei che batte alla tua porta a
domandarti perdono, padre – la tua cagnetta fedele, figlia e amica.
E stato il mio amore a dare la morte a entrambi.
(1959)
Lettera d’amore-
Non è facile spiegare il cambiamento che operasti.
Se adesso sono viva, allora ero morta
benché, come un sasso, non me ne preoccupassi
e me ne stessi dove mi trovavo d’abitudine.
Non ti limitasti a spingermi con il piede, no –
neanche lasciasti che il mio piccolo occhio nudo
si rivolgesse ancora al cielo, senza speranza, certo,
di capire le stelle o l’azzurro.
Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente
camuffato da sasso nero tra sassi neri
nello iato bianco dell’inverno –
come i miei confinanti, senza cavare alcun piacere
dai milioni di guance perfettamente scalpellate
che ad ogni istante s’appoggiavano per sciogliere
la mia guancia di basalto. Si cambiavano in lacrime,
angeli in pianto su nature smorte,
ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano.
Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio.
Ed io seguitavo a dormire come un dito piegato.
La prima cosa che vidi fu l’aria pura
e le gocce catturate che in guazza si levavano
limpide come spiriti. Attorno tanti sassi
giacevano ottusi, senza espressione.
Io guardavo e non capivo.
Brillavo come scaglie di mica e mi spiegai
per rovesciarmi fuori come un fluido
tra le zampe di un uccello e i gambi delle piante.
Non mi sbagliai. Ti riconobbi immediatamente.
Albero e sasso risplendevano, senz’ombra.
La mia piccola lunghezza come un vetro diventò lucente.
Presi a fiorire come un ramo di marzo:
un braccio e una gamba, un braccio, una gamba.
Da sasso a nuvola, e così io in salita verso l’alto.
Ora assomiglio a una specie di dio
e galleggio nell’aria nella mia veste d’anima
pura come una lastra di ghiaccio. E un dono.
16 ottobre 1960
Lettera di novembre-
Amore, il mondo
all’impovviso cambia, cambia colore. La luce
del lampione alle nove di mattina si sfrangia
oltre i baccelli coda-di-topo del laburno.
È l’Artico
questo piccolo cerchio
nero, con le erbe bronzee e di seta – capelli di bimbo.
Nell’aria c’è un verde,
tenero, incantevole.
Con amore mi protegge.
Mi son fatta calda e rossa.
Mi viene da pensarmi enorme,
sono stupidamente felice,
ho gli stivali di gomma
che sciabordano qua e là nel rosso bellissimo.
Questa, la mia proprietà.
Due volte al giorno
la percorro, fiutando
l’agrifoglio barbaro con i suoi ricami
verdeazzurri, ferro puro,
e il muro di cadaveri antichi.
Li amo.
Li amo come storia.
Indorano le mele,
pensa –
i miei settanta alberi
reggono i loro globi rosso oro
nella broda mortifera spessa e grigia,
le loro foglie d’oro metallo
a mi lionate con il fiato sospeso.
Oh amore, amore intatto.
Nessuno oltre a me
cammina su questo bagnato che arriva alla vita.
Ori insostituibili
fanno sangue e s’abbrunano, bocche delle Termopili.
11 novembre 1962
Sylvia Plath. L’altare scuro del sole (Edizioni della Sera, pp 200, euro 17) Un’icona dall’animo tormentato, una grande poetessa ancora oggi fonte di ispirazione: si intitola “Sylvia Plath. L’altare scuro del sole” il libro nel quale Gaia Ginevra Giorgi affronta la complessa figura della celebre autrice statunitense, nata a Boston nel 1932 e morta suicida a soli 31 anni. Con la prefazione di Roberto Coaloa, il libro offre un ritratto sfaccettato e non convenzionale della Plath: non si tratta infatti di una biografia classica, ma di un saggio che continuamente mescola le prospettive di analisi, passando dagli eventi della vita personale alle angosce, alla malattia mentale e alle frustrazioni della poetessa fino all’analisi delle opere.
Un intento ambizioso che stimola il lettore, genera domande e fa nascere suggestioni, ma più che altro una necessità chiaramente espressa dall’autrice già nell’introduzione: Giorgi infatti afferma di aver voluto seguire, nell’avvicinarsi alla vita e alla produzione letteraria della Plath, un duplice approccio, “uno poetico e uno politico”.
I due livelli di analisi sono in un certo senso “dovuti”, considerata la complessità di una figura come quella della poetessa così piena di sfumature e forse ancora mai compresa del tutto. Ecco allora che il libro nei 3 densi capitoli “procede per fotogrammi, zoom tematici, incursioni e continui ribaltamenti di prospettiva”: nell’inquadrare anche storicamente la Plath, l’autrice non può non considerare quanto la poetessa, le cui angosce sono perennemente riflesse in ogni suo scritto, manifestasse “un disagio di genere, un disagio sociale legato al sistema fortemente binario della società americana del secondo dopoguerra, che la voleva corpo femminile, normativo e convenzionalmente sottomesso”. Difficile, ed emozionante, anche l’analisi della produzione poetica, in cui Plath evidenzia un talento folgorante e un’ispirazione dolorosa e purissima: come scrive Giorgi, “c’è qualcosa nei suoi componimenti che resta alieno, misterioso e ineffabile, qualcosa che si svincola di continuo dalle gabbie ideologiche, le categorie estetiche e le etichette commerciali”.