Poesie scelte di CRISTINA CAMPO pubblicate dalla Rivista Avamposto-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Poesie scelte di CRISTINA CAMPO pubblicate dalla Rivista Avamposto-
Cristina Campo (pseudonimo di Vittoria Guerrini) nasce a Bologna nel 1923 e muore a Roma nel 1977. Il padre di Cristina Campo Guido è musicista. La madre appartiene a una famiglia della buona borghesia bolognese. Trascorre la prima infanzia a Bologna, all’Istituto Rizzoli del quale lo zio materno, Vittorio Putti, è direttore. Il difetto cardiaco (che l’accompagnerà per tutta la vita) le impedisce di frequentare regolarmente la scuola. Studia da autodidatta sotto la guida del padre e di alcuni insegnanti privati. Impara le lingue leggendo Cervantes, Proust, Shakespeare. È traduttrice e critica, in entrambi gli ambiti riuscendo a profondere originalità e acume non comuni. Fra le innumerevoli frequentazioni di rilievo: Luzi, Traverso, Turoldo, Bigongiari, Merini, Bemporad, Bazlen, Dalmati, Pound, Montale, Williams, Pieracci Harwell, Malaparte, Silone, Monicelli e Scheiwiller. La Tigre Assenza comprende tutte le sue poesie e traduzioni poetiche, edite e inedite.
Moriremo lontani. Sarà molto
se poserò la guancia nel tuo palmo
a Capodanno; se nel mio la traccia
contemplerai di un’altra migrazione.
Dell’anima ben poco
sappiamo. Berrà forse dai bacini
delle concave notti senza passi,
poserà sotto aeree piantagioni
germinate dai sassi…
O signore e fratello! ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni:
«nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta».
***
È rimasta laggiù, calda, la vita,
l’aria colore dei miei occhi, il tempo
che bruciavano in fondo ad ogni vento
mani vive, cercandomi…
Rimasta è la carezza che non trovo
più se non tra due sonni, l’infinita
mia sapienza in frantumi. E tu, parola
che tramutavi il sangue in lacrime.
Nemmeno porto un viso
con me, già trapassato in altro viso
come spera nel vino e consumato
negli accesi silenzi…
Torno sola
tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo
roseo sugli orci colmi d’acqua e luna
del lungo inverno. Torno a te che geli
nella mia lieve tunica di fuoco.
***
Ora tu passi lontano, lungo le croci del labirinto,
lungo le notti piovose che io m’accendo
nel buio delle pupille,
tu, senza più fanciulla che disperda le voci…
Strade che l’innocenza vuole ignorare e brucia
di offrire, chiusa e nuda, senza palpebre o labbra!
Poiché dove tu passi è Samarcanda,
e sciolgono i silenzi tappeti di respiri,
consumano i grani dell’ansia –
e attento: fra pietra e pietra corre un filo di sangue,
là dove giunge il tuo piede.
***
Amore, oggi il tuo nome
al mio labbro è sfuggito
come al piede l’ultimo gradino…
Ora è sparsa l’acqua della vita
e tutta la lunga scala
è da ricominciare.
T’ho barattato, amore, con parole.
Buio miele che odori
dentro diafani vasi
sotto mille e seicento anni di lava –
ti riconoscerò dall’immortale
silenzio.
***
Ora rivoglio bianche tutte le mie lettere,
inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa;
ch’io mi distenda sul quadrante dei giorni,
riconduca la vita a mezzanotte.
E la mia valle rosata dagli uliveti
e la città intricata dei miei amori
siano richiuse come breve palmo,
il mio palmo segnato da tutte le mie morti.
O Medio Oriente disteso dalla sua voce,
voglio destarmi sulla via di Damasco –
né mai lo sguardo aver levato a un cielo
altro dal suo, da tanta gioia in croce.
***
Devota come ramo
curvato da molte nevi
allegra come falò
per colline d’oblio,
su acutissime lamine
in bianca maglia d’ortiche,
ti insegnerò, mia anima,
questo passo d’addio…
Quadernetto
Un anno… Tratteneva la sua stella
il cielo dell’Avvento. Sulla bocca
senza febbre o paura la mia mano
ti disegnava, oscura, una parola.
E la sfera dell’anima e dell’anno
vibrava in cima a uno zampillo d’oro
alto e sottile il sangue.
Ne tremavamo
sorridenti agli sguardi – all’accostarsi
buio di quel guardiano incorruttibile
che nei giardini chiude le fontane.
Capodanno ’53-’54
Sindbad
L’aria di giorno in giorno si addensa intorno a te
di giorno in giorno consuma le mie palpebre.
L’universo s’è coperto il viso
ombre mi dicono: è inverno.
Tu nel vergine spazio dove si cullano
isole negligenti, io nel terrore
dei lillà, in una vampa di tortore,
sulla mite, domestica strada della follia.
Si stivano canapa, olive
mercati e anni… Io non chino le ciglia.
Mezzanotte verrà, il primo grido
del silenzio, il lunghissimo ricadere
del fagiano tra le sue ali.
Estate indiana
Ottobre, fiore del mio pericolo –
primavera capovolta nei fiumi.
Un’ora m’è indifferente fino alla morte
– l’acero ha il volo rotto, i fuochi annebbiano –
un’ora il terrore di esistere mi affronta
raggiante, come l’astero rosso.
Tutto è già noto, la marea prevista,
pure tutto si ottenebra e rischiara
con fresca disperazione, con stupenda
fermezza…
La luce tra due piogge, sulla punta
di fiume che mi trafigge tra corpo
e anima, è una luce di notte
– la notte che non vedrò –
chiara nelle selve.
Elegia di Portland Road
Cosa proibita, scura la primavera.
Per anni camminai lungo primavere
più scure del mio sangue. Ora tornano sul Tamigi
sul Tevere i bambini trafitti dai lunghi gigli
le piccole madri nei loro covi d’acacia
l’ora eterna sulle eterne metropoli
che già si staccano, tremano come navi
pronte all’addio…
Cosa proibita
scura la primavera.
Io vado sotto le nubi, tra ciliegi
così leggeri che già sono quasi assenti.
Che cosa non è quasi assente tranne me,
da così poco morta, fiamma libera?
(E al centro del roveto riavvampano i vivi
nel riso, nello splendore, come tu li ricordi
come tu ancora li implori)
Testi selezionati da La Tigre Assenza (Adelphi, 1991)
Biografia di Cristina Campo-Bologna 1923 – Roma 1977-
Fonte Enciclopedia delle donne- scheda di Delia Demarco
“Se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro. Nell’atto di scriverle, esse penetrano in me per sempre attraverso la penna e la mano come per osmosi”
Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini, nasce il 29 aprile del 1923 a Bologna. Figlia del maestro di musica Guido Guerrini e di Emilia Putti.
Durante il suo percorso letterario usa numerosi altri pseudonimi: La Pisana, Bernardo Trevisano (personaggio realmente esistito e alchimista del 1400), Puccio Quaratesi, Giusto Cabianca, nascondendosi anche dietro la firma di Rodolfo Wilcock o di Elémire Zolla, suo compagno dalla fine degli anni ‘50 con cui collabora in traduzioni e progetti.
Per lei la scelta dello pseudonimo è un ritorno al gioco d’infanzia:
“Da bambini si giocava a darsi dei nomi, avevo 15 anni e giocavo con una mia dolcissima amica che morì sotto la prima bomba che cadde su Firenze. Da allora questo nome dato per gioco mi diventò più caro del mio, e questo è tutto”.
Una malformazione cardiaca, presente fin dalla nascita, le impedisce di frequentare le scuole con costanza, ripiegando su una formazione privata e sotto la guida paterna. Ben presto i libri diventano per lei compagni costanti e “pane sacramentale”. È impossibile, quindi, dividere la storia della vita di Cristina Campo dalla storia delle sue letture. Dalle prime letture profane, fiabe e poesia, a quelle più sacre dell’ultimo periodo della sua esistenza.
I suoi riferimenti culturali saranno per tutta la vita principalmente due: Simone Weil e Hugo Von Hofmannsthal, la “sua mano destra e la sua mano sinistra”, ama dire di loro agli amici.
Già da giovanissima conosce le opere di Shakespeare, Omero, Dante, Leopardi e la Bibbia. Le fiabe, in particolare, le svelano il potere del mondo dei simboli e la possibilità di dare senso all’esistenza:
“Insegnano a spiccarsi il cuore dalla carne…Poiché con un cuore legato non si entra nell’impossibile”
In casa Guerrini vige da sempre una regola alla quale Vittoria non si sottrae mai: i classici devono essere letti esclusivamente in lingua originale. Per Cristina Campo, quindi, non sarà difficile imparare la sottile arte della traduzione. Tradurre per lei significa non tradire né lo spirito e né l’intento dell’autore. Ciò le permette di diventare presto stimata traduttrice di autori della sfera anglosassone (John Donne, Emily Dickinson, Katherine Mansfield, Virginia Woolf, Thomas S. Eliot, Thomas E. Lawrence, Christina Rossetti), ma non solo. Traduce anche dallo spagnolo, dal tedesco, dal francese e dal latino.
Durante gli anni della guerra, l’intera famiglia Guerrini si trasferisce a Firenze per seguire il padre impegnato a dirigere il Conservatorio Cherubini. Ben presto il capoluogo toscano diventa la città complice della crescita letteraria di Cristina. Qui inizia a frequentare un ambiente culturale molto fertile: il poeta Mario Luzi, i germanisti Leone Traverso – con il quale avrà una relazione – e Gabriella Bemporad e le amiche Margherita Dalmati e Margherita Pieracci Harwell.
Risalgono a questo periodo le sue traduzioni dei racconti di Katherine Mansfield, ma non dimentica mai l’amatissima Simone Weil, impegno di vita e centro del suo vocabolario interiore. Su di lei scrive un breve saggio Introduzione a Simone Weil, Attesa di Dio e, con la determinazione di un’esperta consulente editoriale, si spende nel promuovere la diffusione dell’opera dell’autrice francese presso varie case editrici italiane.
Nel 1953 l’editore Casini di Roma la coinvolge nella preparazione di un’ antologia di poetesse ai vertici della poesia al femminile. Per l’occasione Campo seleziona alcune delle poetesse più geniali: Saffo, Vittoria Colonna<, Gaspara Stampa, Veronica Gambara, Emily Dickinson, Christina Rossetti, ma Il libro delle 80 poetesse non vedrà mai pubblicazione e il manoscritto sarà purtroppo perduto.
Nel 1955 si trasferisce a Roma, seguendo gli impegni lavorativi del padre assegnato a dirigere il Conservatorio di Santa Cecilia. L’anno successivo al trasferimento romano, viene pubblicato Passo d’addio, raccolta di poesie scritte tra il 1954 e il 1955.
Alla fine degli anni ‘50 collabora per la RAI come recensore di libri, specialmente di poesia. È di questi anni l’incontro con Elémire Zolla, noto orientalista e marito della poetessa Maria Luisa Spaziani. Il sodalizio lavorativo tra i due si trasforma presto in relazione sentimentale.
Nel 1959 torna a occuparsi della sua amata Simone Weil curando una sezione a lei dedicata su Letteratura e ne traduce due testi: Venezia salva e L’Iliade o il poema della forza. Mentre è del 1958 la poesia Elegia di Portland Road, ultimo indirizzo di residenza di Simone Weil prima di morire a Londra per tubercolosi.
Tramite Zolla scrive per la rivista Conoscenza religiosa da lui diretta e vengono pubblicate due sue poesie (Missa Romana e La Tigre Assenza). Dagli anni ‘60 in poi, scrive poco ma traduce molto. Sono del 1961 le traduzioni per Einaudi delle poesie di William Carlos Williams, incontrato nell’estate del 1957 a Manziana e nel 1971 l’Italia scopre John Donne grazie a Poesie amorose e teologiche, da lei tradotte per Einaudi. Nel 1963 traduce alcuni testi per I mistici dell’Occidente di Zolla con lo pseudonimo di Giusto Cabianca. La vicinanza a Zolla la spinge a interessarsi sempre di più a tematiche religiose e al mondo dei miti e dei simboli. È, infatti, del 1962 la pubblicazione del volume Fiaba e mistero.
Pur frequentando ambienti intellettuali vivissimi e raffinati – dalla Firenze di Mario Luzi alla Roma di Maria Zambrano, Elsa Morante e Maria Bellonci – preferisce riunire nella sua casa romana un piccolo gruppo di amici fidati. Dal salotto di Cristina Campo prenderà corpo il progetto di quella che sarà la casa editrice Adelphi: Bobi Bazlen e Luciano Foà, infatti, frequentano da sempre le serate a casa di Cristina. Nel 1963 nasce l’Adelphi, Bazlen e Foà decidono di portarsi con sé un altro amico e frequentatore del salotto di Cristina Campo: l’allora ventunenne Roberto Calasso. Tra le numerose e preziose pubblicazioni, L’Adelphi avrà anche il merito di diffondere l’opera di Cristina Campo in Italia.
Donna fragile come il vetro ma dura come il cristallo e dallo spirito guerriero, Campo legge e fa leggere, traduce, scrive. I suoi amori sono letterari: il germanista Traverso, il poeta Luzi, l’intellettuale Zolla, che la ricorda così:
“Aveva un carattere molto curioso. Da un lato c’era una volontà di comunicare i suoi entusiasmi, che era la sua grande carta, perché con questa si conquistava la simpatia di tutti coloro che fossero minimamente in vita. E ne aveva parecchi di entusiasmi. Per un paesaggio, per un quadro, per una persona, per un libro. Fissava su ciascuno questi fari potentissimi e suggestionava, faceva spiccare un volo. Era il suo lato seducente. Ma subito dopo poteva accendersi una fiammata di stizza(…) Accadeva era quasi fatale. Ed erano attacchi furibondi. Quando vuole, Cristina sa essere tagliente come un diamante. Può rompere un’amicizia per una piccola caduta di stile, disconoscere un poeta amato per un verso appena al di sotto dell’eccellenza”
Antimoderna e antiprogressista con simpatie politiche apertamente di destra, è, come tutte le personalità complesse, contraddittoria: ama uomini sposati (Luzi, Zolla), è apertamente di destra ma frequenta amici di sinistra, anche ex partigiani. È aristocratica, odia il consumismo e la mediocrità della società di massa, ma aiuta concretamente le persone ai margini, mostrandosi sensibile verso i perdenti e gli esclusi. Detesta l’avanguardia letteraria e l’impegno sociale e politico da parte dello scrittore. Per lei essere scrittore significa scrivere per sottrazione, tacere, dare la penna ad altri, “scrivere per nessuno”, da qui la complessità delle contraddizioni dell’essere Cristina Campo, da qui la sua inafferrabilità.
Da un parte c’è la poesia, la pratica della scrittura, dall’altra l’adesione alla chiesa bizantino-ortodossa. L’amore per la liturgia bizantina, in comune con la Weil, la spinge a prendere casa vicino all’Abbazia di Sant’Anselmo sull’Aventino di cui diventa assidua frequentatrice. Durante il decennio di proteste tra il 1960-1970, non è mai attivista per nessuna causa politica o sociale, ma manifesta aspre critiche verso l’introduzione della messa in italiano; per lei, da sempre amante della bellezza della liturgia latina, è un cambiamento talmente sconvolgente da rasentare l’oltraggio. Decide, così, di esporsi e di stendere un manifesto-appello in difesa della liturgia tradizionale. Il manifesto, reso pubblico il 5 febbraio del 1966, è firmato da trentasette artisti e intellettuali, tra i quali Auden, Borges, Bresson, De Chirico, Dreyer, Montale, Quasimodo, Zolla. Inizia a scrivere lettere di protesta e petizioni fondando l’associazione “Una Voce” che vede Eugenio Montale come presidente.
Nonostante il desiderio di scrivere poco e pubblicare meno, è invece molto generosa nella corrispondenza epistolare con amici, conoscenti, colleghi, come, ad esempio, la poetessa argentina Alejandra Pizarnik, conosciuta a Parigi negli anni ‘60 e alla quale scriverà fino al 1970.
Lascia così numerose lettere che vengono raccolte in libri postumi: da Lettera a Mita a Se tu fossi qui – Lettere a Maria Zambrano, da Lettere a un amico lontano a Il mio pensiero non vi lascia – Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino.
Su tutti, Lettere a Mita rimane il carteggio fondamentale per comprendere l’universo interiore di Cristina Campo: lettere paragonabili, secondo Cesare Galimberti, a quelle del Tasso e del Leopardi e destinate all’amica Margherita Pieracci Harwell, a testimonianza di un’amicizia – nata nel 1952 – tra due donne che si incontrano grazie alla passione comune per la sempre presente Simone Weil.
Leggere Cristina Campo non è quasi mai impresa facile: è come scalare “una montagna su cui si può cercare tutta la vita”, come sostiene giustamente Cristina De Stefano, autrice della biografia Belinda e il mostro. I suoi testi sono profondi e con continui rimandi ad altri scritti, ma l’originalità delle sue riflessioni, l’uso musicale della parola e il ritmo della lettura, ripagano di ogni sforzo compiuto per avvicinarla e in continua scoperta del valore sacrale della parola:
“La parola per me è una cosa terribile, è un filo scoperto, elettrico… con il verbo non si scherza… Possiamo fare un male terribile, dire immense sciocchezze di cui ci pentiremo dieci anni dopo. Possiamo educare, formare anime ancora tenere con una sicurezza bersagliera che dopo alcuni anni rimpiangeremo. Ho sempre avuto una gran paura della parola: ho scritto molte cose che non ho pubblicato e non me ne importa nulla. Domani, se stessi per morire, ne butterei nel fuoco molte. ‘Di ogni parola inutile sarà chiesto conto’, dice la Scrittura”.
Oggi critica e pubblico l’hanno finalmente riscoperta grazie a pubblicazioni postume, spesso curate dall’amica Margherita Pieracci Harwell, come la raccolta dell’intera opera saggistica in Gli imperdonabili (1987) e La Tigre assenza (1991), raccolta delle sue poesie e delle sue traduzioni poetiche.
Il volume Sotto falso nome (1998) raccoglie, invece, articoli, prefazioni e altri scritti sparsi e pubblicati con diversi pseudonimi.
È l’inizio di una seconda vita editoriale.
Scompare a Roma, a 53 anni, il 10 gennaio del 1977 nel silenzio di un ambiente letterario che non l’aveva ancora compresa.
Sarà Roberto Calasso a ricordarla in quell’inverno del 1977 su Il Corriere della Sera:
“Una scrittrice che ha lasciato una traccia di poche pagine imperdonabilmente perfette, del tutto estranee a una società letteraria che non aveva occhi per leggerle. Ma sono pagine che troveranno in futuro i loro lettori, e allora appariranno come una sorpresa davvero sconcertante”.
Fonti, risorse bibliografiche, siti su Cristina Campo
Cristina De Stefano, Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Adelphi, 2002
Camillo Langone, Cristina Campo, in Italiane, a cura di E. Roccella – L. Scaraffia, III, Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale, Roma, 2004
Una rara intervista a Cristina Campo registrata da Olga Amman per la Rsi (Radiotelevisione svizzera) e rilasciata pochi mesi prima della sua morte, ascoltabile a questo indirizzo: https://www.rsi.ch/cultura/focus/Incontro-con-Cristina-Campo-12010692.html
Il sito a lei dedicato: cristinacampo.it
Referenze iconografiche: Ritratto di Cristina Campo. Immagine in pubblico dominio.
Rivista Avamposto
La Rivista «Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Rivista Avamposto-
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