Poesie di Vladislav Chodasevič, Poeta russo-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Poesie di Vladislav Chodasevič, Poeta russo
Vladislav Chodasevič (in russo Владислав Фелицианович Ходасевич?; Mosca, 16 maggio 1886 – Parigi, 14 giugno 1939) è stato un poeta e critico letterario russo.Chodasevič nacque a Mosca in una famiglia composta dal padre polacco e dalla madre nobile di origine ebraica.Interruppe i suoi studi universitari, svolti a Mosca, dopo aver compreso che la sua vera passione era la poesia.Il suo esordio letterario avvenne grazie alle pubblicazioni dei suoi lavori su riviste simboliste. Nel 1907 apparve la sua prima collezione di liriche, intitolata Molodost’ (“Giovinezza”).
Meriggio
Come il viale è quieto, chiaro, assonnato!
Colta dal vento la sabbia vola via
E l’erba sfiora come un soffice pettine…
Con quale gioia or vengo in questo luogo
E a lungo siedo, semiassopito.
Mi piace, quasi svagato, ascoltare
Ora il riso, ora il pianto dei bimbi, e dietro un cerchio
La loro ritmica corsa sul sentiero. Che bello!
Che frastuono, così eterno e veritiero,
Come di pioggia, di risacca o di vento.
Nessuno mi conosce. Qui sono un semplice
Passante, un cittadino, un “signore”
In pastrano marrone e bombetta,
Niente di speciale. Ecco, una signorina
Mi si siede accanto con un libro aperto.
Un marmocchio col secchiello e la paletta
Si accoccola ai miei piedi. Imbronciato,
Si rigira nella sabbia, ed io così enorme
Mi sembro per questa vicinanza,
Che rammento,
Quando io stesso sedevo presso la colonna
Leonina a Venezia. Su questa creaturina,
Sulla testa nel berrettino verde,
Io mi ergo come pesante pietra
Secolare, sopravvissuta a molti
Uomini e regni, tradimenti ed eroismi.
E il marmocchio con zelo riempie
Di sabbia il secchiello e, presolo, me lo versa
Sui piedi, sulle scarpe…Che bello!
E leggero nel cuore io rivedo
Il cocente meriggio veneziano,
Il leone alato librarsi su di me
Immobile con il libro aperto tra le zampe.
E sopra il leone, rosea e tondeggiante,
Fuggire una nuvoletta. E più in alto, più in alto –
L’azzurro denso e cupo, e in esso scivolare
Minuscole, ma fiammeggianti stelle.
Ora esse ardono sul viale,
Sul marmocchio e su di me. Follemente
I loro raggi lottano coi raggi del sole…
Il vento
Inesauribile fruscia con le ondate di sabbia,
Sfoglia il libro della signorina. E ciò che odo,
Da non so qual prodigio è trasfigurato,
Così tenacemente s’imprime nel cuore,
Che più non mi servon né pensieri né parole,
Ed è come se mi specchiassi
In me stesso.
E a tal punto seduce la viva linfa dell’anima,
Che, come Narciso, io dalla sponda terrena
Mi strappo e volo là, dove sono solo,
Nel mio primevo mondo natìo,
Faccia a faccia con me stesso, smarrito un giorno –
Ed ora ritrovato…E da lontano
Mi giunge la voce della signorina: “Mi scusi,
Che ore sono?”
1918
Il pane
Oggi in cucina c’è una luce che abbaglia.
Col grembiule, cosparsa di farina,
Di tutte le Mignon tu sei la più bella
Con la tua bellezza genuina.
Ti svolazzano intorno coi cestini,
Con il bricco del latte e le fascine,
Spiumandosi le ali, i cherubini…
Tra le nubi, dalle colline
Prorompe la luce, e sulle pentole oziose
Come fasci di strali batte il giorno.
Sfacendosi somiglia a pallide rose
La legna che arde nel forno.
E i densi getti del futuro filone
Nel vaso d’argilla un angelo versa,
Giurandoci che son veri, come il sole,
L’amore, il lavoro e la terra.
1918
Il vizio e la morte
Vizio e morte. Quale tentazione,
E quante gioie in una parola godo!
Vizio e morte pungono allo stesso modo,
E sfuggirà il loro pungiglione
Solo colui che serberà nella coscienza
La segreta chiave di un’altra esistenza.
1921
Elegia
Del giardino Kronverkskij le fronde
Stormiscono ai venti rugghianti.
L’anima la sua gioia effonde.
Non le servono conforto e incanti.
Con occhi ardenti e temerari
Guarda i suoi millenni passati,
E vola con le sue grandi ali
Lungo sciami fuoco-alati.
Là tutto è sconfinato e canoro,
E ciascuno ha un’arpa in mano,
Come nubi, gli spiriti tra loro
Parlano un idioma dolce e arcano.
La mia esiliata con esultanza
Entra nella dimora cara
E la sua orgogliosa uguaglianza
Ai tremendi fratelli dichiara.
E mai più oramai le servirà
Chi sotto la pioggia che sferza
Nel giardino Kronverkskij qua e là
Si trascina con la sua pochezza.
E non coglie il mio povero udito,
Né la mente inerte e banale,
Qual spirito essa sarà in paradiso,
O nel tetro abisso infernale.
Oltrepassa, oltresalta,
Oltrevola, oltre – ciò che vuoi –
Ma liberati: come sasso dalla fionda,
Come stella, caduta nella notte…
Ti sei smarrito – adesso cerca…
Dio sa che cosa borbotti,
Cercando le lenti o le chiavi.
1922
An Mariechen
Stai lì attaccata come una ventosa,
A servir birra dietro il banco.
Ci vuole una ragazza più briosa, –
Tu sei malata e il tuo volto è bianco.
Con quella rosa enorme sopra il petto
Che nessuno ancora ha mai baciato –
Mentre un serto funebre, anche il più gretto,
Sarebbe ornamento più indicato.
E’ così bello, così imperituro
Morire ancor prima di peccare.
Ma i tuoi cari ti troveran sicuro
Qualcuno che ti porti all’altare
Un uomo cosiddetto benpensante,
Una persona come si deve –
Sarà un fardello inutile e pesante
Per la tua vita debole e breve.
Meglio sarebbe – ignara e sorridente –
Solo a pensarci un fremito avverto –
Abbandonarti in preda a un malvivente
In un boschetto buio e deserto.
Meglio – in pochi istanti, senza illusioni –
Conoscer la vergogna e la morte,
E i due sfaceli, le due deflorazioni
Non separare da una stessa sorte.
Giacere in terra – l’abito sgualcito –
Sola, in quel bosco di betulla,
Un coltello nel seno illividito.
Nel tuo seno ancora di fanciulla.
1923
Povere rime
Per quattro soldi tutta la settimana
Deperire, affannarsi e trepidare,
Ogni sabato con la moglie befana
Su un boccale abbracciati sonnecchiare,
La domenica sull’erba non più verde
Recarsi in treno, stender la coperta,
E di nuovo assopirsi e testardamente
Trovare che tutto questo diverta,
E trascinarsi indietro nella dimora
La coperta, la moglie e la giacca,
E non sferrare mai, alla buon’ora,
Alla coperta e al mondo un pugno in faccia, –
Oh, in una tale legge senza scampo,
In una tal ferrea rassegnazione,
oh, le bollicine possono soltanto
Salire sempre in alto nel sifone.
1926
Ballata
Siedo nella mia stanza rotonda,
Siedo, dall’alto rischiarato.
Guardo il sole da venti candele
Lassù nel cielo intonacato.
Intorno – come me rischiarati,
Il tavolo, i lisi divani.
Siedo – e nello sgomento non so più
Dove posare le mie mani.
Sui vetri silenzioso fiorisce
Un gelido bianco palmeto.
Nel taschino del gilè martella
L’orologio il suo toc inquieto.
Oh, della mia vita senza scampo
Inerte, misera povertà!
A chi confidare come io sento
Per me e per queste cose pietà?
Ed ecco comincio ad oscillare,
Tenendo serrati i ginocchi,
E a un tratto in versi a parlare prendo
Con me stesso, chiudendo gli occhi.
Sconnessi, appassionati discorsi!
Discorsi senza alcun costrutto,
Ma i suoni son più veri del senso,
La parola – più forte di tutto.
E musica, musica, musica
Al mio canto si avvince,
E sottile, sottile, sottile
Una lama allor mi trafigge.
Io emergo al di sopra di me stesso,
Mi erigo sulla morta esistenza,
I piedi nella fiamma nascosta,
La fronte negli astri scorrenti.
E vedo con occhi smisurati –
Con occhi, forse, di serpente –
Come il canto selvaggio ascoltano
Le mie tristi cose da niente.
E a un fluido ritmico vortice
Tutta la stanza si abbandona,
E qualcuno la pesante lira
Attraverso il vento mi dona.
E non c’è più il cielo intonacato
E il sole da venti candele:
Su nere rocce levigate
Orfeo poggia i piedi lieve.
1921
Chodasevič è sepolto nel cimitero di Billancourt, presso Parigi, il poeta che Maksim Gorkij considerava “il migliore che vanti la Russia moderna”. Vladislav Felicianovič Chodasevič, di origine polacca, era nato a Mosca il 29 maggio 1886. Nel 1922 lasciò la Russia per sempre, e dal 1925 fino al giorno della sua morte, avvenuta il 14 giugno 1939, visse costantemente a Parigi.
I suoi primi quattro volumetti di poesie furono pubblicati in Russia:Giovinezza nel 1908, La casetta felice nel 1914, Per la via del grano nel 1920 e La pesante lira nel 1922. I versi da lui scritti all’estero, e riassunti col titolo La notte europea, entrarono a far parte della sua raccolta del 1927. L’ultimo decennio di vita di Chodasevič fu più dedicato alla critica e alle rievocazioni letterarie, che alla poesia. Non ebbe mai altri guadagni che quelli derivatigli dalla sua attività letteraria, visse sempre negli stenti, cadde spesso gravemente ammalato, ma ebbe amici cari e fedeli tra letterati e poeti, lettori e ammiratori, che non cessarono mai di amarlo.
Scriveva Gumilёv nel 1914, commentando la seconda raccolta di versi La casetta felice: “Non è possibile abituarsi né alla sua fantasia, né alle sue intonazioni – egli ci si presenta inaspettato, con nuove avvincenti parole, e non si trattiene a lungo, lasciando dietro di sé un piacevole inappagamento e il desiderio di un nuovo incontro”.
Per i loro tratti chiari e precisi e per l’immediata efficacia, i versi di Chodasevič incantano anche il lettore più “impoetico”. La loro forma classica è impeccabile, semplice, elegante. La sua concezione della vita è ironica e tragica al tempo stesso. Dalla sua poesia emerge con insistenza l’eterno tema dell’anima immortale e degli ostacoli che le frappongono la materia e la squallida banalità della vita. E’ un continuo alternarsi di estasi metafisiche e di minute inquadrature prosaiche, d’immersioni ed emersioni, di cadute negli abissi dell’esistenza e di slanci mistici.
Scrive R. Poggioli nel suo libro Il fiore del verso russo: “Uno dei procedimenti più cari a Chodasevič è proprio quello di assegnare una grandezza precaria a provvisoria a oggetti meschini o anche di ridurre le cose grandi alle dimensioni di quelli o al loro livello, ed è questo gioco fra il sublime e il minuscolo che gli permette di comprendere l’umanità di ogni oggetto e le lacrime delle cose”. A.M. Ripellino ha messo in risalto il lato “mordace e velenoso” della poesia di Chodasevič, il suo “mondo uggioso e grottesco, nel quale si aggirano personaggi meschini, idioti e mostri dall’apparenza fantomatica”, sottolineando inoltre il pessimismo del poeta, il clima di scherno, l’atmosfera grigia che aleggia nei suoi versi.
E’ vero: Chodasevič è un poeta spaesato in tanto squallore che lo circonda, ma mi sembra che il suo pessimismo, la sua tragedia trovino una via d’uscita, e la sua salvezza sia nel tono serio e pacato della sua poesia, nella sua attitudine a contemplare con un certo distacco i misteri dell’anima e dell’esistenza; la sua è un’ironia assai spesso feroce e maligna, ma sovente è anche serena, ricca di un humour leggero e immediato. La sua rabbia non lo fa tonare, ma lo spinge a riflettere, a partecipare delle altrui miserie, a sorridere lievemente subito dopo aver pianto.
In una lettera del 1 ottobre 1923 Gorkij scriveva al poeta: “I vostri versi An Mariechen sono belli e penetranti. Non so dire di più, ma aggiungerò soltanto che essi suscitano nell’anima il freddo sibilo della bufera di neve” e nello stesso tempo sono irresistibilmente umani”. Mi sembra che questo suggestivo giudizio di Gorkij possa essere la giusta insegna sull’incantato “bazar” del poeta Chodasevič. (Paolo Statuti)
FONTE- da un’anima e tre ali il blog di Paolo Statuti-
Vladislav Felicianovič Chodasevič
Luogo e data di nascita: Moskva, 16 (28) maggio 1886
Luogo e data di morte: Parigi, 14 giugno 1939
Professione: poeta, memorialista, critico letterario
Ultimo di sei figli, nasce da un padre di nobile origine polacca (Felician Ivanovič Chodasevič; 1834–1911) e da madre ebrea (Sofija Jakovlevna Brafman; 1846–1911), poi convertita al cattolicesimo. Dal padre che in giovinezza sognava di diventare pittore (aprirà invece a Mosca uno dei primi negozi di articoli fotografici) eredita l’inclinazione per le arti e dalla madre il gusto della poesia. Di salute cagionevole, alla passione giovanile per il balletto sostituisce all’inizio del secolo l’amore per la letteratura: frequenta circoli letterari e artistici, scrive recensioni e feuilletons, traduce, collabora con diverse riviste, nel 1908 pubblica la prima raccolta di versi Molodost’ (Giovinezza)
Nel 1911 viene per la prima volta in Italia per curarsi e si ferma a Nervi sulla Riviera ligure, poi visita Firenze, Pisa e Venezia, dove si consuma il suo dramma d’amore per Evgenija Vladimirovna Paganuzzi (1884–1982), prima moglie di Pavel Muratov. Il primo viaggio si prolunga più di due mesi (2 giugno – metà agosto 1911), Venezia e l’Italia seducono il poeta: “Non può sottrarsi l’Italia alla sua inevitabile leggiadria! Ora costruisce le città sui capricciosi declivi dei suoi monti, ora sulle rocce costiere, ora sulle decine di minuscole isolette sparpagliate nella nebbiosa laguna” (Nočnoj prazdnik, in Sobranie sočinenij, a cura di J.E. Malmstad e R. Hughes, Ann Arbor: Ardis, 1990, vol. 2, p. 77).
Chodasevič si rifiuta di considerare ‘morta’ Venezia, come l’aveva descritta Pёtr Percov nel suo libro Venecija (1905) o Nina Petrovskaja nel saggio Mertvyj gorod: Pis’mo iz Venecii (La città morta: lettera da Venezia, 1908), e nello schizzo Nočnoj prazdnik (Festa notturna) indugia ancora sulla incomparabile bellezza dell’Italia: “Girovagando per le tortuose, strette viuzze che scendono al mare di una cittadina d’Italia, ho capito una volta per tutte che la bellezza è un dono del cielo, ingiusto e dolce, dato per secoli a questo paese” (Ibidem).
Nel 1914 il poeta pubblica la sua seconda raccolta Ščaslivyj domik (La casetta felice), negli anni della Prima guerra mondiale si risparmia il fronte per una grave forma di tubercolosi ossea, collabora con le riviste “Russkie vedomosti” e “Utro Rossii”, passa l’estate 1916 e 1917 a Koktebel’ da Maksimilian Vološin.
Come molti intellettuali accoglie con entusiasmo la rivoluzione di febbraio, aderisce inizialmente alla rivoluzione d’ottobre: nel 1917-1920 collabora alla sezione teatrale del Commissariato del popolo per l’istruzione (TEO) e al Proletkul’t, dirige la sezione moscovita delle edizioni Vsemirnaja literatura; nel 1918 insieme a Muratov organizza Knižnaja lavka pisatelej (Bottega del libro per gli scrittori), improvvisata rivendita di libri su commissione ed esigua fonte di sussistenza; edita insieme a Lev Jaffe Evrejskaja antologija. Sbornik molodych evrejskoj poezii (Antologia ebraica. Raccolta di giovani poeti ebrei).
Nel novembre 1920 si trasferisce a Pietrogrado, dove con l’aiuto di Maksim Gor’kij ottiene un alloggio alla Casa delle Arti (Disk), rifugio insperato per l’intelligencija in cui convergono in quegli anni di carestia e incertezza molti letterati (al Disk dedicherà molte pagine di memorie). Nel 1920 esce la raccolta Putёm zerna (Per la via del grano) che lo pone fra le grandi voci poetiche del suo tempo, nel 1922 Tjaželaja lira (La pesante lira), poi è come sospinto fuori dalla Russia sovietica, prende la difficile decisione di allontanarsi dalla Russia; grazie all’aiuto dell’ambasciatore della Lettonia Jurgis Baltrušajtis e di Anatolij Lunačarskij ottiene il passaporto per l’estero per 3 anni per motivi di salute.
Il 22 giugno 1922, senza neanche salutare la moglie Anna Čulkova (gesto di cui si rammarica tutta la vita) parte con Nina Berberova per Berlino, prima stazione della via di emigrato che lo porterà nel 1925 a Parigi. Come molti altri russi a Berlino non si considera un emigrato, anzi prova un’aperta insofferenza per i bianchi, si sente affine a Andrej Belyj che più d’ogni altro aveva percepito il sentore di catastrofe del periodo e la lugubre atmosfera della città: “Berlino è un incubo, che penetra nella vita reale con ordine e metodo e assume l’aspetto innocuo del comune buon senso borghese: un buon senso senza senso” (A. Belyj, Odna iz obitelej carstva tenej, Leningrad 1924, p. 36). Incontra Muratov, Boris Zajcev, Il’ja Erenburg, Boris Pasternak e molti altri, frequenta le serate letterarie al Café Landgraf (tutto diligentemente appuntato nel suo Kamer-fur’erskij žurnal, Diario di un gentiluomo di corte), ma il “volto inumano” della città lo respinge:
Case – come demoni,
fra le case – tenebra;
filiere di demoni,
e in mezzo uno spiffero
(Dalla strada di Berlino, in È tempo di essere, p. 241).
Gli anni 1921-1925 sono indissolubilmente legati a Gor’kij, nonostante la loro diversità di carattere e opinioni: prima lavorano insieme all’edizione della rivista “Beseda” (La conversazione) di cui usciranno 6 numeri, poi dall’ottobre 1924 all’aprile 1925 è ospite a Sorrento dallo scrittore.
In quel periodo la grande villa di Gor’kij Il Sorito è affollata di ospiti: ci vivono il figlio Maksim Peškov con la moglie Nadežda, Valentina Chodasevič con il marito scenografo Andrej Dideriks (1884-1942), Marija Budberg, segretaria e compagna di Gor’kij, il pittore Ivan Rakickij; a questa popolazione fissa si aggiungono talora nel febbraio 1925 Ekaterina Peškova e l’editore Petr Krjučkov. Talora fanno la loro apparizione amici che vivono in albergo: lo scrittore Andrej Sobol’, Muratov, Nikolaj Benua, Ol’ga Resnevič-Signorelli.
La giornata di Gor’kij è rigorosamente suddivisa tra lavoro, salutari passeggiate, pranzi e divertimento. Al piano superiore della villa (camera di Gor’kij e Budberg) si lavora, al piano inferiore, quello che lo scrittore chiama la nursery, si gioca: Maksim legge romanzi polizieschi, colleziona francobolli, la moglie dipinge. Talora Maksim fa da cicerone agli ospiti e li porta sulla sua motocicletta a visitare Amalfi o Ravello:
La motocicletta sfiora la roccia
In corsa sinuosa,
la nuova curva rivela più ampio
ora il golfo alla vista (…)
Dorme Procida in contorni di nebbia,
a nord sfiata il Vesuvio
(Fotografie di Sorrento, in Non è tempo di essere, p. 279).
Per divagarsi Maksim propone di pubblicare un giornale manoscritto “Sorrentijskaja pravda” (La verità di Sorrento), parodia di certe riviste sovietiche o dell’emigrazione, per il quale scrivono Gor’kij, Chodasevič e Berberova, l’impaginazione è di Maksim, le illustrazioni di Rakickij e Maksim, che “in considerazione della sua scarsa competenza” svolge anche il ruolo di redattore
Chodasevic visita anche le rovine di Pompei, scrive il saggio Pompejskij užas (Stupore pompeiano, 1925), in cui riflette sulla patria e l’emigrazione, sul crollo della civiltà europea. A Sorrento si raffredda a poco a poco la sua amicizia con Gor’kij “senza discussioni, scandali, reciproci rimproveri o offese”, lo snerva l’atteggiamento ambiguo di Gor’kij verso il regime sovietico:
“Era uno degli uomini più testardi che conobbi, ma anche uno dei più tenaci. Ammiratore strenuo del sogno e dell’inganno dominante, che per la primitività del suo pensiero non seppe mai distinguere dalla più comune e volgare menzogna, egli non ha mai fatto propria la sua immagine ‘ideale’, in parte autentica, in parte immaginaria, di cantore della rivoluzione e del proletariato. E quando la rivoluzione risultò diversa da quella che aveva immaginata, gli fu intollerabile il solo pensiero di perdere questa immagine, di “deteriorare la propria biografia” <…> e alla fin fine si vendette, non per soldi, ma per conservare per se e per gli altri l’illusione principale della sua vita <…>. In cambio di tutto ciò la rivoluzione ha preteso da lui, come pretende da tutti, non un onesto lavoro, ma sudditanza e lusinga. È diventato uno schiavo e un adulatore” (Gor’kij 2 // Nekropol’; Vospominanija; Literatura i vlast’; Pis’ma k B.A. Sadovskomu / pred. i komm. N. Bogomolova. Moskva 1996, pp. 207-208).
Quando nell’aprile 1925 la rappresentanza sovietica in italia nega a Chodasevič il prolungamento del visto e gli ingiunge di rientrare in URSS, il poeta rifiuta e si trasferisce definitivamente a Parigi. Qui tace la sua voce poetica, collabora come critico letterario alle riviste “Sovremennye zapiski” (Appunti contemporanei) e “Vozroždenie” (La rinascita), continua lo studio della linea classica della poesia russa, scrive la biografia di Deržavin (1931), gli articoli Literatura i vlast’ v sovetskoj Rossii (Letteratura e potere nella Russia sovietica, 1931) e Krovavaja pišča (Cibo insanguinato, 1932), la raccolta di saggi su Puškin (1937) e il volume Necropoli (1939).
Pubblicazioni
- Chodasevič, Poesie, in R. Poggioli, Il fiore del verso russo, Torino: Einaudi, 1949, pp. 361-376.
- Chodasevič, Poesie, in A.M. Ripellino, Poesia russa del Novecento, Parma: Guanda, 1954, pp. 209-224.
V.F. Chodasevič, Necropoli. A cura di Nilo Pucci, pref. di N. Berberova, Milano: Adelphi, 1985.
V.F. Chodasevič, La notte europea. A cura di C. Graziadei, con uno scritto di N. Berberova. Milano: Guanda, 1992.
Perepiska N.N. Berberovoj i V.F. Chodaseviča s Ol’goj Sin’orelli (1923–1933) / publ. E. Garetto // Archivio russo-italiano IX. Salerno: Collana di Europa Orientalis, 2012. Т. 1. C. 103–138.
V.F. Chodasevič, Quarantuno poesie. A cura di N. Pucci, Borgomanero: Ladolfi, 2014.
V.F. Chodasevič, Non è tempo di essere. A cura di C. Graziadei. Firenze: Bompiani, 2019.
Fonti archivistiche
Fondazione Giorgio Cini, Venezia. Archivio di Angelo e Olga Signorelli.
Bibliografia
- Belyj, Rembrandtova pravda v poezii našich dnej (o stichach V. Chodaseviča) // Zapiski mečtatelej 1922. № 5, pp. 13–39.
A.M. Ripellino, Poesia russa del Novecento, Parma: Guanda, 1954.
- Poggioli, Lirici russi 1880-1930, Milano: Lerici, 1964.
- Vejdle, Chodasevič izdali-vblizi, in O poetach i poezii, Pariz: YMCA-Press, 1973, pp. 34–52.
D.M. Bethea, Khodasevich: His Life and Art, Princeton: Princeton University Press, 1983.
Ju.I. Levin, Zametki o poezii V. Chodaseviča, “Wiener Slawistischer Almanach” 1986, № 17.
N.A. Bogomolov, Žizn’ i poezija Vladislava Chodaseviča // V.F. Chodasevič, Stichotvorenija. L.: Sovetskij pisatel’, 1989, pp. 5–51.
- Berberova, Il corsivo è mio, Milano: Adelphi, 1989.
- Čulkova, Vospominanija o Vladislave Chodaseviče // Russica-1981, New-York 1981
- Graziadei, La dissonanza nella poesia di Chodasevič, in Il gladiatore morente. Saggi di poesia
russa. Siena: Cadmo, 2000, pp. 167–212.
- Graziadei, Contemplare la morte. Karl Brjullov, Vladislav Chodasevič, in Estetica delle rovine, a cura di G. Tortora. Roma: Manifestolibri, 200, pp. 385–405.
- G. Bočarov, Filologičeskie sjužety, M.: Jazyki slavjanskich kul’tur, 2008, pp. 385–415.
8 luglio 2020
Vladislav F. Chodasevic
Necropoli
A cura di Nilo Pucci
Sinossi-Questo libro, di cui presentiamo la prima traduzione al mondo, si apre sugli anni del primo Novecento russo. Era il momento di una equivoca ed esaltante mescolanza fra arte e vita: «Tutte le strade erano aperte, con un solo obbligo: andare quanto più possibile veloce e lontano. Questo era l’unico, il fondamentale dogma. Si poteva esaltare Dio come il Diavolo. Si poteva essere posseduti da qualsiasi cosa, entità: l’importante era la pienezza della possessione». Tutto andava offerto sull’altare delle emozioni. «Cogliamo gli attimi distruggendoli» disse Brjusov, gran sacerdote del simbolismo. C’era la posa teatrale e c’era il colpo di pistola. «“Perdo succo di mirtillo!” gridava il pagliaccio di Blok. Ma il succo di mirtillo talvolta si rivelò sangue vero».
Chodasevic era allora un giovane poeta, dal segno elegante, dall’aria morbosa, dall’intelligenza acutissima. Oggi sappiamo che era un astro nella costellazione dei grandi poeti russi malmenati dalla storia, accanto alla Achmatova, a Mandel’štam, alla Cvetaeva, a Pasternak, anche se la sua opera solo ora comincia a essere scoperta. «Nell’aria afosa, come prima dei temporali, di quegli anni», troppo colmi di presagi (il suo amico Muni ne era così ossessionato che arrivò a dichiarare: «I presagi sono aboliti»), Chodasevic visse la nascita caotica della letteratura moderna in Russia. Si conoscevano tutti, percepivano miserie e incanti gli uni degli altri, avevano passioni per le stesse donne, litigavano, bevevano, perdevano al gioco. Poi venne la guerra, venne la rivoluzione, ai poeti cominciarono ad accompagnarsi i delatori. Pietroburgo appariva come «una città morta, sinistra». Nel 1922 Chodasevic riuscì ad abbandonare la Russia, non senza aver esortato i suoi amici nelle «ultime ore prima della separazione» a concordare i segnali «da scambiarsi nella tenebra che incombe». Da allora sino alla morte si può dire che non abbia assistito che all’estendersi, intorno a lui, di una sterminata «necropoli». Morivano uno dopo l’altro, suicidi, o assassinati o ridotti al silenzio. E uno dopo l’altro sfilano in questo libro: da Brjusov a Blok, da Esenin a Sologub, da Belyj a Gor’kij. Chodasevic non riesce a parlare di questi scrittori senza darci anche un giudizio penetrante sulla loro opera, ma non riesce a parlare della loro opera senza evocare la loro presenza, il loro gesto, spesso il loro convivere con le più ingombranti contraddizioni. Erano tutti personaggi di un immenso «romanzo russo», e come tali qui ci appaiono. Oscillavano tutti fra estremi, e riuscivano talvolta a mascherarne la natura. Come per Sologub, di ciascuno era difficile dire «da dove è partito e dove è arrivato, se dal sacrilegio alla preghiera o viceversa, dalla benedizione alla maledizione o viceversa». Crudele e commosso, questo libro è un salvataggio nella memoria dell’ultima grande letteratura russa, operato da uno dei suoi protagonisti, prima che la «necropoli» inghiottisse anche lui. Come scrisse lo stesso Chodasevic: «In un certo senso la storia della letteratura russa potrebbe essere definita la storia della distruzione degli scrittori russi».