Poesie di VERA PAVLOVA- Tradotte da Linda Torresin-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
POESIE DI VERA PAVLOVA– Tradotte da Linda Torresin
Vera Pavlova-di ascendenze ebraiche, nasce a Mosca il 4 maggio 1963. Vera Pavlova si laurea con il massimo dei voti presso la prestigiosa Accademia di musica Gnesin, specializzandosi in storia della musica. Lavora come guida al Museo Šaljapin, pubblicando anche saggi di musicologia.
Comincia a scrivere versi a vent’anni, in clinica ostetrica, dopo la nascita della sua prima figlia. Nel 1988 la rivista letteraria “Junost’” pubblica alcuni versi della Pavlova, ma il vero successo arriva nel 1996 dopo la pubblicazione di 72 sue poesie sul quotidiano “Segodnja”. Da allora la Pavlova firmerà ben diciotto libri, tradotti in una ventina di lingue.
Attualmente la poetessa vive tra Mosca e New York.
Vera Anatolyevna Pavlova (‹See Tfd›Russian: Вера Анатольевна Павлова; born 1963)[1][2] is a Russian poet.
Biography
Vera Pavlova was born in Moscow, 1963. She studied at the Oktyabryskaya Revolyutsiya Music College and only started publishing after graduation.[2] She graduated from the Gnessin Academy, specializing in the history of music.
She is the author of twenty collections of poetry, four opera libretti, and lyrics to two cantatas. Her works have been translated into twenty five languages. Her work has been published in The New Yorker.[3]
References
- Biography and Works by Vera Pavlova Archived September 27, 2007, at the Wayback Machine Novy Mir (in Russian)
- “Vera Pavlova”. Poetry International Rotterdam. 2009. Retrieved 25 November 2017.
“Four poems by Vera Pavlova”. The New Yorker. 30 July 2007. Retrieved 2009-03-02.
Vera Anatól’evna Pávlova è nata a Mosca il 4 maggio 1963. Si è diplomata presso l’Istituto Musicale “A.G. Shnitke” e l’Accademia di Musica“Gnesinych”, specializzandosi in storia della musica. Ha cominciato a scrivere poesie a 20 anni, dopo la nascita della prima figlia Natal’ja, oggi cantante lirica. In una intervista ha dichiarato: «La mia prima poesia è stata un messaggio inviato a casa dal reparto maternità dell’ospedale. Avevo appena partorito la mia prima figlia. Fu un genere di felice esperienza mai provata né prima né dopo. La felicità fu così intollerabile, che mi spinse a scrivere una poesia per la prima volta. Da allora scrivo e ricorro alla scrittura ogniqualvolta mi sento intollerabilmente felice o infelice. E poiché la vita mi riserva in abbondanza occasioni per entrambi i sentimenti, negli ultimi ventisei anni ho scritto praticamente senza sosta. Non posso permettermi di stare lontano dalla scrittura. Potrebbe essere chiamata tossico-dipendenza, ma io preferisco chiamarla la mia forma di metabolismo».
Parlando di sé con estrema franchezza, la sua poesia è rivolta principalmente alla vita privata e intima della donna contemporanea. Linda Torresin scrive: «Musicista prima ancora che poetessa, le armonie – raramente armoniche e più spesso dissonanti – della realtà si rivelano uno strumento efficace per comprendere l’individuo nella sua essenza più profonda. Il legame tra lo spirituale e il terreno è al centro della poesia di Vera Pavlova. La carnalità, il corpo, il rapporto uomo-donna – è questa per la Pavlova la chiave di lettura (concreta e palpitante) della vita».
È una poesia di breve intenso respiro, scritta tutta d’un fiato. Mi fa venire in mente Ars poetica del poeta polacco Leopold Staff, da me tradotta tanti anni fa:
Un’eco dal cuore sussurra:
«Prendimi prima ch’io languisca,
Che diventi diafana, azzurra,
Che impallidisca, che sparisca!»
Come una farfalla l’afferro,
Non per sbalordire il mondo,
Ma per rendere l’attimo eterno,
Perché tu comprenda a fondo…
Ha scritto più di venti raccolte di poesie, cinque libretti d’opera e quattro testi per cantata. È stata tradotta in venticinque lingue. Vive tra Mosca e New York.
Poesie di Vera Pavlova tradotte da Paolo Statuti
* * *
Un hobby? – Ce l’ho: raccolgo
arcobaleni, meteoriti,
sogni, cartoline del paradiso,
conversazioni al buio,
cartellini NON DISTURBARE,
pareri di esperti,
anelli di fidanzamento
e programmi di concerti.
* * *
Alle sette è già buio.
Mi gusto un libro in poltrona.
Una foglia gialla è volata dentro,
ha chiesto asilo.
Da’ ospitalità alla rifugiata
e prendila come segnalibro.
Libro, cosa viene dopo?
Un breve epilogo.
* * *
Piego un gesto amorevole come latta
e costruisco una casa, cominciando dal tetto.
Scrivo ciò che voglio leggere.
Dico ciò che voglio sentire.
Scrivo: la tua amarezza è ardente.
Taccio, ti compatisco per il Braille.
Formiche, entrate in casa, trascinando
la tenerezza cento volte più pesante di voi stesse!
* * *
Non c’è l’amore? – Lo faremo!
Fatto. Che faremo poi? –
Faremo l’ansia, la tenerezza, il coraggio,
la gelosia, la sazietà, la menzogna.
* * *
Un poeta in più c’è ora al mondo,
quando ho visto
vita della vita, morte della morte –
il bambino da me generato.
È stato così, il mio inizio:
il sangue bruciava l’inguine,
l’anima si librava, il bambino gridava
in braccio all’infermiera.
* * *
La bici è assai grande.
La giacchetta è stretta.
Allegro e selvaggio
vado come freccia.
Il fischio della velocità…
Breve, erta,
viscida, spinosa
è la strada per il pronto soccorso.
* * *
Da trent’anni compongo un’ode,
evitando grandi temi,
a una coperta. E alla gente
sarò cara,
perché col sorriso di Monna Lisa,
con la semplicità di un sillabario,
ho scritto testi
per gli amanti del gorgheggio.
* * *
Non ricordo il suo nome.
Sergej? No, non Sergej.
Lo amavo? Dubito.
E lui mi amava? Poco probabile.
Parole, interni, pose –
tutto cancellato con buona memoria.
Mi ha donato un mazzo di mimosa,
incontrandomi dopo l’aborto.
* * *
Non voglio un mattone dal tetto –
io voglio morire alla lunga.
Io voglio morire osservando
il corpo che, goccia a goccia,
secerne la vita stremata.
Lasciarla uscire da me
come attraverso un passino fine-fine
e pian piano respirare con sollievo,
non avendo visto niente sul fondo.
* * *
Cittadini marionette,
schivate gli abbracci!
Si aggrovigliano i fili
dalle caviglie e dai polsi, –
non li scioglierà il burattinaio.
si legheranno e si sposeranno.
E allora addio libertà
di pensiero e di movimento.
* * *
Solitudine. Risacca.
Sera. Lingua madre dei gabbiani.
Parlo con me stessa.
Ma lei non risponde:
mi boicotta,
con una stupida non parlo, dice,
o che non capisce in nessun modo,
che devo fare?
* * *
Dichiaro l’ombrello aperto,
dichiaro la pioggia col sole,
dichiaro il dolore dimenticato,
dichiaro la città natale,
il passato – lavato da brillare,
il futuro – che mi aspetta…
Ti piace il mio ordine del giorno
in questo brutto tempo invernale?
* * *
Il senso della vita è più giovane della vita
di trenta-trentacinque anni.
Metà della tua vita confidi
senza capire nulla.
E poi in mezza giornata
capisci tanto,
che a Dio servirà
l’eternità per ascoltarmi.
(C) by Paolo Statuti
Non voglio che mi cada addosso un mattone;
voglio morire con calma.
Voglio morire osservando
il corpo che espelle, goccia
dopo goccia, la vita spossata.
Farla passare attraverso me stessa,
come attraverso un setaccio fine fine,
e – alla lunga – tirare un sospiro di sollievo
per non aver scorto nulla sul fondo.
Dolore, tu sei
l’unica prova
che ho un corpo.
Me l’hai dimostrato.
Ma ora vattene! Comunque
non crederò mai
che il corpo sia la sola cosa
che ho.
*
La superficie del pensiero è parola.
La superficie della parola è gesto.
La superficie del gesto è pelle.
La superficie della pelle è brivido.
*
Perché la parola SI è così corta?
Dovrebbe essere
la più lunga,
la più complessa,
in modo che tu non possa pronunciarla impulsivamente
e, riflettendoci, possa fermarti
a metà…
*
La solitudine è una malattia
trasmissibile sessualmente.
Io ti lascio in pace, e fallo anche tu.
Stiamo un po’ da soli
per parlare di questo e quello
senza dire tutto,
abbracciamoci e capiamo:
chi è solo non si può curare.
*
Mi tieni fra le tue braccia e pensi forse di avermi presa?
Ma io mi libererò del corpo come coda di lucertola,
e tu dovrai cercare tra le stelle
ciò che mi cercavi tra le gambe.
La traduzione è stata condotta sulla base del testo russo pubblicato in: Vera Pavlova, Sem’ knig, Moskva, Eksmo, 2011
Traduzione dal russo di Linda Torresin
NIENTE FUGHE
la poesia concreta di Vera Pavlova
di Linda Torresin
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Per la russa Vera Pavlova (1963), musicista prima ancora che poetessa, le melodie – raramente armoniche e più spesso dissonanti – della realtà si rivelano uno strumento efficace per comprendere l’individuo nella sua essenza più profonda. Il legame fra lo spirituale e il terreno è al centro della poesia della moscovita, come riassume Pavel Belickij (“Nezavisimaja gazeta”): «La carnalità, col suo gusto e il peso, la quintessenza della carnalità, musica degli umori come musica della vita, carnalità degli amplessi, la vita della carne, la morte della carne e la sua legittima trasfigurazione nella poesia: ecco l’universo poetico di Vera Pavlova». La carnalità, il corpo, il rapporto uomo-donna – questa è per la Pavlova la chiave di lettura (concreta e palpitante) della vita.
Dopo Achmatova e Cvetaeva, la Pavlova si conferma dunque la nuova voce della poesia femminile russa.