Poesie di Sebastiana Savoca-Bibliotea DEA SABINA
Bibliotea DEA SABINA
Poesie di Sebastiana Savoca
Sebastiana Savoca nata a Messina, 1993-vive a Vicenza, dove ha curato la rassegna di poesia Poeti al porto. Incontri con poeti contemporanei(2019 e 2020). Laureata magistralmente in Linguistica all’Università degli Studi di Padova con la tesi dal titolo Il rapporto tra metro e sintassi nelle poesie di Enrico Testa. Uno studio secondo la linguistica teorica contemporanea, attualmente frequenta il Master in Didattica dell’Italiano come Lingua Seconda all’Università degli Studi di Verona. Nel 2015 ha conseguito la laurea in Lettere moderne all’Università degli Studi di Padova con la tesi
Della felicità è ombra la tristezza:
un’inezia del mondo questo lato
sordo che si trascina ai nostri piedi.
Non vedi? Riflettiamo, nello stesso
punto, lo stesso colore. Perché,
forse, specchiandoci dentro l’intonaco
del muro, scopriremo,
insieme, d’essere ancora uno solo.
Come la pioggia
– che cade su terra –,
perforare leggeri la distanza
di una vita (nell’aria poi discendere
veloci ma sospesi, trasparenti)
per avvedersi, con lo sguardo teso
verso l’alto, cadendo verso il basso,
insieme a mille gocce uguali a sé,
che nell’arco di giorni in cui si vive
il cielo ha le dimensioni di un’iride.
Prendersi così gioco della morte
lasciare aperte le porte, corrompere
lo spazio il tempo il peso
il sottinteso di ogni inizio – un vizio.
È ritrosia alla vita la mia
– oppure piena adesione, considero.
M’attardo a correre
con le solite scuse lapidarie,
quasi come potessi sapere – lo intravedo
a volte – dove si trova il mio corpo.
Sebastiana Savoca, “Senza grammatica”, annotazioni di poetica
L’aggettivo indicibile e i termini contraddizione, menzogna e simili – si pensi alla relazione fallace che lega parole e cose – risiedono da tempo nell’area semantica occupata dalla lingua e più in generale dal linguaggio. Il discrimine tra la nominazione e l’oggetto rileva la naturale insufficienza dei lemmi dinanzi a una realtà nella quale i soggetti vivono ma non (ri)conoscono. E allora sorge spontaneo chiedersi quale possa essere il motus corporis della poesia, quale sia l’obiettivo di un’arte che si concretizza attraverso il linguaggio e pertanto porta in sé il germe del fallimento. A ben vedere, come la parola vive di speranza prima d’essere enunciata – e scoprirsi così altro da ciò che avrebbe voluto indicare –, allo stesso modo l’essere umano, conscio della venuta della sua morte, vive di speranza prima della sua fine. Ecco dunque che, parimenti alla relazione che lega i cristiani a Dio, la poesia si fa atto di fede e chi la frequenta crede nella sua trascendenza. La sensazione di chi scrive e chi legge testi lirici è che ci sia qualcosa che vada oltre la forma e il contenuto, oltre lo scibile; qualcosa in cui riporre la propria fiducia.
Per questo motivo i componimenti sono luoghi di attesa, di silenzi, di spazi bianchi; tra gli interstizi del corpo del testo ci si aspetta forse di ravvisare una profondità lacustre in cui sorprendere le fattezze del mondo che abitiamo. Attendiamo l’inatteso, un’increspatura del nostro sentire. Si tratta, in definitiva, di un’epifania, l’istante che sancisce un ribaltamento del nostro punto di vista e quindi della nostra verità, di noi stessi. Così è possibile affermare che una poesia è tale quando riesce a commuovere – nel significato latino del termine –, quando riesce cioè a mettere in movimento, a creare turbamento, a emozionare.
Se le poesie hanno una loro forma, una struttura attraverso la quale si manifestano, è pur vero che è nel cortocircuito che smuovono gli animi: in una sequenza calcolata di ritmi e di immagini è la sospensione della ragione a generare bellezza, è, tra tutto ciò che si può decifrare, l’incomprensibile a originare un varco verso il non noto.
Da qui nasce l’esigenza da parte di chi scrive di esasperare la lingua, di decostruirla e reificarla in una trasgressione della norma; un minimo scarto della forma – della grammatica –, ad esempio, dà luogo a un’estensione dello sguardo, attivando una realtà potenziale e precedentemente assopita fuori dal campo visivo canonico. È vocazione dei poeti dunque trovare le porosità dei significanti e dei significati e orientare così l’attenzione di lettori e uditori negli interstizi di cui si è già detto.
Per farlo è necessario fare uso di una lingua che sia quanto più possibile vicina alla lingua comune – pur non rinunciando agli snodi difficili, talvolta oscuri, di cui la poesia necessita –, una lingua quindi che non implode su se stessa e non si chiude nelle riflessioni intimistiche di un io soggettivo; una lingua, invece, accessibile, attorno alla quale fondare le relazioni sociali e cominciare nuovamente a costruire comunità. E proprio in virtù della nudità della parola (ma non solo), e della vulnerabilità quindi del suo creatore, scrivere poesia oggi richiede umiltà e coraggio. L’umiltà trova le sue fondamenta nella consapevolezza che i poeti oggi sono persone tra tante e non sono né pretendono di essere diversi. Al contempo, consci della limitatezza del proprio io, forse proprio perché ci si riconosce come corpo integrante di un gruppo di persone, i poeti prendono il coraggio di condividersi e di dire, e quindi di agire, perché potenzialmente la poesia è sempre un atto perlocutorio.
Sulla scorta di queste premesse, presento brevemente la mia prima raccolta edita di poesie, Senza grammatica, pubblicata nel 2020 dalla casa editrice Transeuropa.
«A parlare, in questo libro», dice Guglielmin nella prefazione, «è […] un io collettivo, ma non omologato […] il quale, pur rinunciando a cantare, ad essere lirico, rivendica il proprio diritto d’esistenza e di resistenza all’annullamento per opera di un mondo, il nostro, che vuole identità passive, immobili alla vita, segnate da solitudine, frustrazione e violenza, un mondo senza regole, sgrammaticato, appunto, che disorienta il soggetto e lo mette in crisi».
E sgrammaticato è pure l’amore, per definizione, come ricorda la poesia che dà il titolo alla raccolta: «Senza grammatica / chi ti ama / senza dubbio domanda dilemma / ama / l’ortografia delle tue labbra». L’amore assurge qui non a fine ultimo a cui ambire per dare senso al discorso esistenziale, ma a mezzo attraverso il quale resistere al degrado e prefigurare nuovi inizi.
Lo stesso avviene sul piano stilistico che, messo in crisi, tende verso un’emancipazione dai canoni tradizionali; l’aspetto formale risente infatti di un allontanamento da una norma consolidata: non vi sono forme metriche chiuse e strutture rimiche prefissate. L’uso dei versi liberi è, in generale, uno stilema della poesia contemporanea, ma all’interno di Senza grammatica concorre ad accrescere il senso di smarrimento di un’epoca caratterizzata dalla fine delle grandi narrazioni, priva di punti di riferimento, che lascia l’individuo nell’ansia generata dal libero arbitrio.
Permane, ad ogni modo, la volontà di resistere al disordine e al disorientamento, come registra la presenza quasi ossessiva dell’endecasillabo; quest’ultimo si alterna solo a versi ipometri che, nel tentativo di ancorarsi ancora a un presunto discorso poetico, mantengono un accento di quarta o di sesta, come a lasciare traccia della loro fondatezza.
Sia sul piano contenutistico sia sul piano stilistico, dunque, pur immergendosi in universi sregolati, è possibile identificare dei segnavia la cui presenza attesta lo sforzo di dare collocazione alla propria esistenza e conferirle così una propria legittimità.
Da Senza grammatica (Transeuropa, 2020)
Senza grammatica
chi ti ama
senza domanda dubbio dilemma
ama
l’ortografia delle tue labbra
*
«Questo Suo mondo è tutto un io
d’ansia… Non può dare risposta a questa
Sua domanda. Ora chiuda la finestra.
̶ conoscevo gli infissi, i loro scatti
anacronistica scienza dell’io
Non si può mettere ordine
nel vuoto di una stanza»
*
Hai la lacerazione della tua anima
negli occhi, il nero della tua pupilla
indossa un bianco vuoto di dolore;
l’odore rosso del sangue e del sale
ossida il ferro del nostro presente
e siamo un pugno di chiodi avanzati
fissati a una parete nell’attesa.
*
Ho bucato la vena mediana di tuo padre
per un prelievo di sangue classista…
Non ha lo stesso colore il rosso
Non vedi l’esegesi dei poveri conigli
che deglutiscono il pane dei loro padroni?
Si sono chiusi a palla gli animali domestici,
forse assopiti dal loro mangime
*
Cosa rimane se non frustrazione
questo gioco di attese e disattese
la processione dei pensieri persi
i piedi spersi nelle vie natie
la foschia dell’inverno
le mani nelle tasche del giubbotto.