Poesie di Mario LUZI-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Poesie di Mario LUZI
Biografia di Mario Luzi è nato a Castello (Firenze) il 20 ottobre 1914 da genitori toscani, trascorse l’infanzia a Firenze. Trasferitosi con la famiglia nel senese, studiò a Siena fino al 1929; poi rientrato a Firenze, vi compì gli studi liceali e universitari. Nel 1936 si laureò in letteratura francese con una tesi si Francois Mauriac.
Esordì con la raccolta di versi, La barca, nel 1935; frequentò il gruppo degli ermetici fiorentini e cominciò a collaborare alle riviste Frontespizio, Letteratura e, più tardi, Campo di Marte. Nel 1938 Luzi iniziò la carriera di insegnante: dapprima a Parma, dove frequentò Attilio Bertolucci; poi, dal 1941, a San Miniati. Successivamente, e fino al 1943, lavorò a Roma presso la Sovrintendenza bibliografica. Nel frattempo si sposò ed ebbe un figlio.
Nel 1945 tornò a Firenze, dove riprese l’insegnamento in un liceo scientifico. Più tardi, nel 1955, passò a insegnare letteratura francese all’università di Firenze. Nel 1960 riunì nel libro Il giusto della vita le precedenti raccolte poetiche:
Avvento notturno (1940), Un brindisi (1946), Quderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952) e Onore del vero (1957).
All’attività poetica Luzi affiancò quella di critico e traduttore, dando anche vita, con Betocchi, alla rivista La Chimera.
Tra i suoi libri di critica, spiccano Studio su Mallarmé e L’idea simbolista (entrambi pubblicati nel 1959).
Luzi compì numerosi viaggi (in Urss nel 1966, in India nel 1968, negli Stati Uniti nel 1974, in Cina nel 1980) e ottenne premi e riconoscimenti. Nella fase matura della sua ttività poetica compose poemetti drammatici, come Ipazia (1978) e Rosales (1983), e pubblicò versi via via più lontani dall’Ermetismo: Nel magma (1963), Dal fondo delle campagne (1965), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978), Frasi e incisi di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994). Nominato senatore a vita della Repubblica nel 2004, Luzi si è spento nel 2005.
Da “Avvento Notturno”
Avorio
Parla il cipresso equinoziale, oscuro
e montuoso esulta il capriolo,
dentro le fonti rosse le criniere
dai baci adagio lavan le cavalle.
Giù da foreste vaporose immensi
alle eccelse città battono i fiumi
lungamente, si muovono in un sogno
affettuose vele verso Olimpia.
Correranno le intense vie d’Oriente
ventilate fanciulle e dai mercati
salmastri guarderanno ilari il mondo.
Ma dove attingerò io la mia vita
ora che il tremebondo amore è morto?
Violavano le rose l’orizzonte,
esitanti città stavano in cielo
asperse di giardini tormentosi,
la sua voce nell’aria era una roccia
deserta e incolmabile di fiori.
(Se musica è la donna amata)
Ma tu continua e perditi, mia vita,
per le rosse città dei cani afosi
convessi sopra i fiumi arsi dal vento.
Le danzatrici scuotono l’oriente
appassionato, effondono i metalli
del sole le veementi baiadere.
Un passero profondo si dispiuma
sul golfo ov’io sognai la Georgia:
dal mare (una viola trafelata
nella memoria bianca di vestigia)
un vento desolato s’appoggiava
ai tuoi vetri con una piuma grigia
e se volevi accoglierlo una bruna
solitudine offesa la tua mano
premeva nei suoi limbi odorosi
d’inattuate rose di lontano.
Da “Poesie sparse”
Nulla di ciò che accade e non ha volto
Nulla di ciò che accade e non ha volto
e nulla che precipiti puro, immune da traccia,
percettibile solo alla pietà
come te mi significa la morte.
Il vento ricco oscilla corrugato
sui vetri, finge estatiche presenze
e un oriente bianco s’esala
nei quadrivi di febbre lastricati.
Dalla pioggia alle candide schiarite
si levano allo sguardo variopinto
blocchi d’aria in festevoli distanze.
Apparire e sparire è una chimera.
E’ questa l’ora tua, è l’ora di quei re
sismici il cui trono è il movimento,
insensibili se non al freddo di morte
che lasciano nel sangue all’improvviso.
Loro sede fulminea è qualche specchio
assorto nella sera, ivi s’incontrano,
ivi si riconoscono in un battito.
Sei certa ed ingannevole, è vano ch’io ti cerchi,
ti persegua di là dai fortilizi,
dalle guglie riflesse negli asfalti,
nei luoghi ove l’amore non può giungere
né la dimenticanza di se stessi.
Da “Monologo”
I
Vita che non osai chiedere e fu,
mite, incredula d’essere sgorgata
dal sasso impenetrabile del tempo,
sorpresa, poi sicura della terra,
tu vita ininterrotta nelle fibre
vibranti, tese al vento della notte…
Era, donde scendesse, un salto d’acque
silenziose, frenetiche, affluenti
da una febbrile trasparenza d’astri
ove di giorno ero travolto in giorno,
da me profondamente entro di me
e l’angoscia d’esistere tra rocce
perdevo e ritrovavo sempre intatta.
Tempo di consentire sei venuto,
giorno in cui mi maturo, ripetevo,
e mormora la crescita del grano,
ronza il miele futuro. Senza pausa
una ventilazione oscura errava
tra gli alberi, sfiorava nubi e lande;
correva, ove tendesse, vento astrale,
deserto tra le prime fredde foglie,
portava una germinazione oscura
negli alberi, turbava pietre e stelle.
Con lo sgomento d’una porta
che s’apra sotto un peso ignoto, entrava
nel cuore una vertigine d’eventi,
moveva il delirio e la pietà.
Le immagini possibili di me,
passi uditi nel sogno ed inseguiti,
svanivano, con che tremenda forza
ti fu dato di cogliere, dicevo,
tra le vane la forma destinata!
Quest’ora ti edifica e ti schianta.
L’uno ancora implacato, l’altro urgeva –
con insulto di linfa chiusa i giorni
vorticosi nascevano da me,
rapidi, colmi fino al segno, ansiosi,
senza riparo n’ero trascinato.
Fosti, quanto puoi chiedere, reale,
la contesa col nulla era finita,
spirava un tempo lucido e furente,
senza fine perivi e rinascevi,
ne sentivi la forza e la paura.
Una disperazione antica usciva
dagli alberi, passava sulle tempie.
Vita, ne misuravi la pienezza,
Notizie a Giuseppina dopo tanti anni
Che speri, che ti riprometti, amica,
se torni per così cupo viaggio
fin qua dove nel sole le burrasche
hanno una voce altissima abbrunata,
di gelsomino odorano e di frane?
Mi trovo qui a questa età che sai,
né giovane né vecchio, attendo, guardo
questa vicissitudine sospesa;
non so più quel che volli o mi fu imposto,
entri nei miei pensieri e n’esci illesa.
Tutto l’altro che deve essere è ancora,
il fiume scorre, la campagna varia,
grandina, spiove, qualche cane latra
esce la luna, niente si riscuote,
niente dal lungo sonno avventuroso.
Da “Onore del vero”
Uccelli
il vento è un’aspra voce che ammonisce
per noi stuolo che a volte trova pace
e asilo sopra questi rami secchi.
E la schiera ripiglia il triste volo,
migra nel cuore dei monti, viola
scavato nel viola inesauribile,
miniera senza fondo dello spazio.
Il volo è lento, penetra a fatica
nell’azzurro che s’apre oltre l’azzurro,
nel tempo ch’è di là dal tempo; alcuni
mandano grida acute che precipitano
e nessuna parete ripercuote.
Che ci somiglia è il moto delle cime
nell’ora – quasi non si può pensare
né dire – quando su steli invisibili
tutt’intorno una primavera strana
fiorisce in nuvole rade che il vento
pasce in un cielo o umido o bruciato
e la sorte della giornata è varia,
la grandine, la pioggia, la schiarita.
Questa felicità
Questa felicità promessa o data
m’è dolore, dolore senza causa
o la causa se esiste è questo brivido
che sommuove il molteplice nell’unico
come il liquido scosso nella sfera
di vetro che interpreta il fachiro.
Eppure dico: salva anche per oggi.
Torno torno le fanno guerra cose
e immagini su cui cala o si leva
o la notte o la neve
uniforme del ricordo.
A mia madre dalla sua casa
M’accoglie la tua vecchia, grigia casa
steso supino sopra un letto angusto,
forse il tuo letto per tanti anni. Ascolto,
conto le ore lentissime a passare,
più lente per le nuvole che solcano
queste notti d’agosto in terre avare.
Uno che torna a notte alta dai campi
scambia un cenno a fatica con i simili,
infila l’erta, il vicolo, scompare
dietro la porta del tugurio. L’afa
dello scirocco agita i riposi,
fa smaniare gli infermi ed i reclusi.
Non dormo, seguo il passo del nottambulo
sia demente sia giovane tarato
mentre risuona sopra pietre e ciottoli;
lascio e prendo il mio carico servile
e scendo, scendo più che già non sia
profondo in questo tempo, in questo popolo.
La notte lava la mente
La notte lava la mente.
Poco dopo si è qui come sai bene,
file d’anime lungo la cornice,
chi pronto al balzo, chi quasi in catene.
Qualcuno sulla pagina del mare
traccia un segno di vita, figge un punto.
Raramente qualche gabbiano appare.
Il Giudice
“Credi che il tuo sia vero amore? Esamina
a fondo il tuo passato” insiste lui
saettando ben addentro
la sua occhiata di presbite tra beffarda e strana.
E aspetta. Mentre io guardo lontano
ed altro non mi viene in mente
che il mare fermo sotto il volo dei gabbiani
sfrangiato appena tra gli scogli dell’isola,
dove una terra nuda si fa ombra
con le sue gobbe o un’altra preparata a semina
si fa ombra con le sue zolle e con pochi fili.
“Certo, posso aver molto peccato”
rispondo infine aggrappandomi a qualcosa,
sia pure alle mie colpe, in quella luce di brughiera.
“Piangere, piangere dovresti sul tuo amore male inteso”
riprende la sua voce con un fischio
di raffica sopra quella landa passando alta.
L’ascolto e neppure mi domando
perché sia lui e non io di là da questo banco
occupato a giudicare i mali del mondo.
“Può darsi” replico io mentre già penso ad altro,
mentre la via s’accende scaglia a scaglia
e qui nel bar il giorno ancora pieno
sfolgora in due pupille di giovinetta che si sfila il grembio
per le ore di libertà e l’uomo che le ha dato il cambio
indossa la gabbana bianca e viene
verso di noi con due bicchieri colmi,
freschi, da porre uno di qua uno di là sopra il nostro tavolo.
L’India
Tace ora, mi chiedo se oppressa dal suo Karma,
(so della sua vita, del nome che le dà, e del senso)
mentre mostra a lungo lo schermo
sul selciato una moltitudine
stecchita in una posa tra sonno e morte
levarsi a stento in preghiera e spulciarsi nell’alba.
Né forse la colpisce il primo aspetto
ma un altro più recondito, e vede
una giustizia di diverso stampo
in quella sofferenza di paria
orrida eppure non abbietta, e nella sua che le scende addosso.
“Avere o non avere la sua parte in questa vita”
riemerge in parole il suo pensiero – ma solo un lembo.
E io ne tiro a me quella frangia
ansioso mi confidi tutto l’altro,
attento non mi rubi niente
di lei, neppure l’amarezza, ed attendo.
S’interrompe invece. Seguono altre immagini dell’India
e nel loro riverbero le colgo
un sorriso estremo tra di vittima e di bimba
quasi mi lasci quella grazia in pegno
di lei mentre si eclissa nella sua pena
e l’idea di se stessa le muore dentro.
“Perché porti quel giogo, perché non insorgi”
mi trattengo appena dal gridarle,
soffrendo perché soffre, certo,
ma più ancora perché lascia la presa
della mia tenerezza non saziata e piglia il largo piangendo;
“Ascoltami” comincio a mormorarle
e già penso al chiarore della sala dopo il technicolor
e a lei che sul punto di partire
mi guarda da dietro la lampada
della sua solitudine tenuta alzata di fronte.
“Mario” mi previene lei che indovina il resto. “Ancora
levi come una spada, buona a che?,
lo sdegno per le cose che ti resistono.
Uomo chiuso all’intelligenza del diverso,
negato all’amore: del mondo, intendo, di Dio dunque”
e indulge a una smorfia fine di scherno
per se stessa salita sul pulpito, e quasi si annulla.
“Davvero vorrei tu avessi vinto”
le dico con affetto incontenibile, più tardi,
mentre scorre in un brusio d’api, nel film senza commento, l’India.
Per mare
Nel più alto punto
dove scienza è oblìo d’ogni sapere
e certezza, mi dicono,
certezza irrefutabile venuta incontro
o nel tempo appeso a un filo
d’un riacquisto d’infanzia,
tra sonno e veglia, tra innocenza e colpa,
dove c’è e non c’è opera nostra voluta e scelta.
“La salute della mente
è là” dice una voce
con cui contendo da anni,
una voce che ora è di sirena.
Si naviga tra Sardegna e Corsica.
C’è un po’ di mare
e la barca appruata scarricchia.
L’equipaggio dorme. Ma due
vegliano nella mezzaluce della plancia.
E’ passato agosto; Siamo alla rottura dei tempi.
E’ una notte viva.
Viva più di questa notte,
viva tanto da serrarmi la gola
è la muta confidenza
di quelli che riposano
si curi in mano d’altri
e di questi che non lasciano la manovra e il calcolo
mentre pregano per i loro uomini in mare
da un punto oscuro della costa, mentre arriva
dalla parte del Rodano qualche raffica.
Da “Al fuoco della controversia”
Ridotto a me stesso?
Ridotto a me stesso?
Morto l’interlocutore?
O morto io,
l’altro su di me
padrone del campo, l’altro,
universo, parificatore…
o no,
niente di questo:
il silenzio raggiante
dell’amore pieno,
della piena incarnazione
anticipato da un lampo? –
penso
se è pensare questo
e non opera di sonno
nella pausa solare
del tumulto di adesso…
Natura
La terra e a lei concorde il mare
e sopra ovunque un mare più giocondo
per la veloce fiamma dei passeri
e la via
della riposante luna e del sonno
dei dolci corpi socchiusi alla vita
e alla morte su un campo;
e per quelle voci che scendono
sfuggendo a misteriose porte e balzano
sopra noi come uccelli folli di tornare
sopra le isole originali cantando:
qui si prepara
un giaciglio di porpora e un canto che culla
per chi non ha potuto dormire
sì dura era la pietra,
sì acuminato l’amore.
Biografia di Mario Luzi è nato a Castello (Firenze) il 20 ottobre 1914 da genitori toscani, trascorse l’infanzia a Firenze. Trasferitosi con la famiglia nel senese, studiò a Siena fino al 1929; poi rientrato a Firenze, vi compì gli studi liceali e universitari. Nel 1936 si laureò in letteratura francese con una tesi si Francois Mauriac.
Esordì con la raccolta di versi, La barca, nel 1935; frequentò il gruppo degli ermetici fiorentini e cominciò a collaborare alle riviste Frontespizio, Letteratura e, più tardi, Campo di Marte. Nel 1938 Luzi iniziò la carriera di insegnante: dapprima a Parma, dove frequentò Attilio Bertolucci; poi, dal 1941, a San Miniati. Successivamente, e fino al 1943, lavorò a Roma presso la Sovrintendenza bibliografica. Nel frattempo si sposò ed ebbe un figlio.
Nel 1945 tornò a Firenze, dove riprese l’insegnamento in un liceo scientifico. Più tardi, nel 1955, passò a insegnare letteratura francese all’università di Firenze. Nel 1960 riunì nel libro Il giusto della vita le precedenti raccolte poetiche:
Avvento notturno (1940), Un brindisi (1946), Quderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952) e Onore del vero (1957).
All’attività poetica Luzi affiancò quella di critico e traduttore, dando anche vita, con Betocchi, alla rivista La Chimera.
Tra i suoi libri di critica, spiccano Studio su Mallarmé e L’idea simbolista (entrambi pubblicati nel 1959).
Luzi compì numerosi viaggi (in Urss nel 1966, in India nel 1968, negli Stati Uniti nel 1974, in Cina nel 1980) e ottenne premi e riconoscimenti. Nella fase matura della sua ttività poetica compose poemetti drammatici, come Ipazia (1978) e Rosales (1983), e pubblicò versi via via più lontani dall’Ermetismo: Nel magma (1963), Dal fondo delle campagne (1965), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978), Frasi e incisi di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994). Nominato senatore a vita della Repubblica nel 2004, Luzi si è spento nel 2005.
Fonte–Scuolissima.com – appunti di scuola online-