Poesie di Janet Frame- da Parleranno le tempeste. Poesie scelte-Biblioteca SABINA
Biblioteca SABINA
Poesie di Janet Frame- da Parleranno le tempeste. Poesie scelte-
A cura e traduzione di Francesca Benocci ed Eleonora Bello-Gabriele Capelli Editore
Janet Frame (Dunedin 1924–2004) è stata una tra le più importanti scrittrici neozelandesi. Candidata due volte al premio Nobel, l’ultima nel 2003, è soprattutto nota per il film di Jane Campion Un angelo alla mia tavola tratto dalla biografia omonima. Nata in una famiglia indigente, riesce a diplomarsi come insegnante ma è successivamente bollata come non “normale” e non idonea all’insegnamento. Diagnosticata schizofrenica, viene internata per otto anni in manicomio dove è sottoposta a 200 elettro-shock e minacciata di lobotomia. A darle forza e libertà sarà la scrittura e i riconoscimenti che il mondo letterario inizia a tributarle arrivando a essere tradotta in tutto il mondo. Non così per le sue poesie, amatissime ma raramente tradotte. Oltre a Un angelo alla mia tavola, sono stati pubblicati in italiano i romanzi Gridano i gufi, Volti nell’acqua e Verso un’altra estate. Parleranno le tempeste è la prima raccolta di poesia tradotte in italiano.
da Parleranno le tempeste. Poesie scelte (gabrielecapellieditore 2017), cura e traduzione di Francesca Benocci ed Eleonora Bello
Canto
Provati estate primavera autunno inverno,
datemi il grande freddo per sempre,
ghiaccioli su tetti muri finestre il sogno
marmoreo perpetuo integrale di un mondo e di persone ghiacciati
nella più nera delle notti, così nera da non riuscire a distinguere
il sogno perpetuo integrale marmoreo.
Gli occhi ciechi sono ora padroni di sé.
Un tempo
Un tempo la brezza calda della gente
che filtrava sotto la porta chiusa che mi separava da loro
cambiava la fiamma, influenzava
la forma dell’ombra,
mi bruciava ribruciava dove facevo
tavolette di cera nell’oscurità.
Poi oltre la porta era solo silenzio.
Le gazze ladre tappavano il buco della serratura
attraverso cui rassicuranti becchi di luce avevano pizzicato briciole.
Un inverno che non ho mai conosciuto
ha sigillato le crepe con un male chiamato neve.
Cadeva così pura
dal nulla, in fiocchi accecanti.
Oltre la porta era solo silenzio.
Io indugiavo nel mio rituale solitario.
Effetti personali
Un amo dentro a un portafoglio di plastica strappato,
una vite arrugginita, un folletto della Cornovaglia,
del mio primo libro un volantino spiegazzato,
alti il doppio, o morti, nelle foto di famiglia
i bambini, un orologio d’argento con la cassa rotta
“Resistente agli urti” ma non era l’orologio che il piccolo Levìta
aveva, nell’inno, nella sera silenziosa fatta
di oscuri cortili del tempio e luce sbiadita…
anche se mio padre si chiamava Samuel. Che udito debbo avere,
e perché, mi chiedevo un tempo, per sentire il Verbo?
… un chiodo lucido… la lettera di un nuovo amore,
una spilla ossidata appartenuta a mia madre.
Poi, quasi adescasse dall’ultima marea questo ciarpame infranto,
la bella mosca schiuma-onda da pesca, di mio padre il vanto.
Parleranno le tempeste
Parleranno le tempeste; di loro puoi fidarti.
Sulla sabbia il vento e la marea scrivono
bollettini di sconfitta, gusci imperfetti
presso il memoriale liscio d’alberi d’altura,
alghe, uccello lacero, rasoio affilato, corno d’ariete, conchiglia.
Dacci le notizie dicono gli asceti leggendo
e rileggendo dieci miglia di spiaggia; tra gusci vuoti, guarda,
bruciano nella stampa del sale, storie
d’inondazione: come abbandonai casa e famiglia.
Rasoio: come tagliai la gola alla luce del sole.
Corno d’ariete: come caricai danzando alla luce lanosa del sole.
Conchiglia: come la mia vita salpò su un’oscura marea.
Francesca Benocci è nata a Sinalunga, in provincia di Siena, il 17 maggio 1985. Dopo infinite peripezie geografiche e un corso di studi in medicina messo prematuramente da parte, approda alla facoltà di Lettere e Filosofia di Siena. Si iscrive al corso di laurea in “Lingue, letterature e culture straniere” laureandosi nel 2010 in inglese e russo. Scrive una tesi che ha come oggetto la “comparazione” tra due traduzioni italiane di uno stesso testo in inglese. Ha completato, sempre presso l’Università di Siena, un master in traduzione ed editing di testi letterari e ha iniziato un dottorato in Translation Studies alla Victoria University of Wellington, in Nuova Zelanda.
Eleonora Bello (1985) ha conseguito una laurea triennale in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Milano, dove ottiene anche il Master di primo livello PROMOITALS (Didattica dell’Italiano come lingua seconda e straniera). Successivamente ottiene il Master di secondo livello all’Université de Franche-Comté (Besançon, Francia) in Letteratura e Cultura Italiana. Ha insegnato italiano come lingua straniera a Milano, Città del Messico e Besançon.
Ivana Daccò aprile 20, 2015 Sugli autori
Janet Frame: scrittura e follia scritto da Ivana Daccò
Una che che ce l’ha fatta ad uscire dal manicomio, un po’ per fortuna, molto per determinazione. Per capacità. Un genio.
Mentre leggo “Un angelo alla mia tavola”, autobiografia di Janet Frame, mi si impone il riflettere sul fatto che la sua opera e la qualità della sua figura di donna vengono, e sono, legate alla sua storia di sofferenza psichica; e la riflessione si allarga allo stereotipo che propone come pressoché inevitabile la relazione tra una sensibilità fuori dell’ordinario, che sa tradursi in parole, e la malattia mentale, quantomeno la precarietà di quel tanto di equilibrio richiesto (e non potrebbe essere diversamente) dalle convenzioni sociali, dall’epoca e dalla società in cui si vive.
E’ uno stereotipo che colpisce, non solo ma in particolare, le donne; e il tema della presenza, ad esempio, di suicidi tra le scrittrici o, come nel caso di Janet Frame, di malattia mentale, ritorna, più o meno dibattuto, più o meno sostenuto da dati oggettivi, quasi ci fosse una richiesta sociale che prescriva questo. ‘Genio e sregolatezza’ certo ma, per le donne, sembra si chieda qualcosa di più.
Non voglio, qui, raccontare la storia di vita della Frame, che è bene lasciare al libro, al suo diretto racconto che spero a breve di riuscire a proporre, se non per il ‘non dettaglio’ di anni di vita, tra i venti e i trent’anni di età, trascorsi al manicomio prima che, a seguito del suo successo di scrittrice, tale diagnosi non venisse, diciamo, revocata e le venisse restituita la libertà personale.
Vero, la sua biografia dice, a proposito della fine dell’esperienza manicomiale, che è stata riconosciuta come <errata> la diagnosi di schizofrenia che le era stata ascritta ed è stato tirato un rigo sui duecento elettroshock subiti e sulla lunga esperienza di reclusione, per non dir altro. E allora va bene, diciamo che la diagnosi era sbagliata; oppure che la schizofrenia non esiste; che, forse, è altra cosa e non si cura con gli elettroshock, come pure avviene ancora in molte parti del mondo. Diciamo che sono il regime manicomiale e la supposta cura a causare la devastazione mentale e fisica delle persone affette da questa malattia. Problema complesso.
Ma il tema che, mentre leggo, mi si pone è un po’ diverso. Il tema sta nel fatto che, in qualche modo, sembra sia difficile che non venga correlata alla pseudo o vera malattia di cui Janet Frame (non) soffriva, la sua particolare sensibilità, la visione che lei stessa esprimeva della sua vita, di cui diceva che era scissa tra “questo mondo” e “quel mondo”, tra la vita che conduceva in quello che chiamava il suo mondo, ricco di sensazioni, colori, emozioni, riservate a lei sola, da tradurre in scrittura, da contenere, forse, attraverso la parola scritta, e dunque mediata, e la vita che conduceva nel mondo di tutti, dentro le regole, gli impegni che la società richiede, dove si muoveva comunque con la necessaria competenza – e con la fatica, va detto, che ciò comportava per lei, donna introversa, timida, a disagio nelle relazioni con gli altri.
Ed ecco aprirsi l’estrema aporia che vuole far convivere, nella mente di una ‘pazza’ (con tutto ciò che il senso comune associa a tale condizione), una sensibilità fuori dell’ordinario, un pensiero preda di visioni, emozioni di grande forza, stati d’animo difficili da controllare e l’estremo rigore, la capacità tecnica, la cura, la continuità di impegno richiesti dalla scrittura. Tutte cose che mal si sposano con una mente devastata.
E colpisce come, ancora, viva una forma di malinteso romanticismo, fuori tempo e fuori contesto, che fa amare, quasi desiderare, sembra, la figura dell’artista caratterizzato da eccessi (nel vivere, nel sentire, nel comportarsi) che diventano disagio mentale fino ad arrivare alla pazzia, e fino al comportamento suicidario, in particolare quando l’artista è donna.
Non sono infrequenti i luoghi comuni che associano la letteratura al femminile alla pazzia, che indicano un tasso di suicidi particolarmente elevato tra le scrittrici. Poi, al dunque, tutti pronunciano un solo nome: Virginia Woolf. Janet Frame è fortunatamente morta anziana, per una malattia, nella sua città natale di Dunedin in Nuova Zelanda.
Eppure. Qualcosa sembra esserci, potrebbe, e il nome della Woolf non è il solo, nel computo delle morti cercate. L’elenco potrebbe essere lungo – limitandoci al ‘900 vengono alla mente le poetesse Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Alfonsina Storni, l’americana Silvia Plath. Possiamo aggiungere Marina Cvetaeva, Alejandra Pizarnik, Violeta Parra. Sibilla Aleramo ha a suo carico un tentativo fortunatamente fallito mentre ha evitato tale esito, ma pagando con una vita di grande sofferenza, la sudafricana Bessie Head; e non è stata facile la vita, e la storia manicomiale di Alda Merini.
Solo un abbozzo di elenco impossibile, che comporterebbe comunque la mancanza di tutte quelle che il mondo non ha conosciuto.
Le biografie di queste donne riportano difficoltà di vita talora gravi, che tuttavia difficilmente consentirebbero una correlazione tanto semplicistica, come se il viverle dovesse portare, di per sé, attraverso una relazione diretta e inevitabile, alla pazzia; o come se il cedere alle prove della vita fosse il segno distintivo di un animo elevato, di una sensibilità superiore che tutte le donne che, similmente provate, non hanno ceduto, non possedessero.
Eppure. E’ pensabile che queste grandi scrittrici siano state, pur dentro storie personali difficili, più che sane di mente, ma che il loro mondo le abbia messe alla prova in modo alla fine insostenibile, mponendo loro un sovraccarico di peso per il loro essersi permesse la scrittura, la poesia, deviando dall’assunzione di ruolo prescritta? E’ pensabile che quel di più che la società ha posto sulle loro spalle abbia fatto la differenza?
Janet Frame, I ghiaccioli , da Parleranno le tempeste, Gabriele Capelli Editore (2017)
Districare quei fitti ricci rossi per Janet era un problema come cercare uno spazio di silenzio in cui immergersi per accudire le sue amate parole.
Non era una vita semplice quella che le si presentò, e non lo fu nemmeno in seguito: tre sorelle con cui condividere vestiti, letto e libri, un fratello colpito da continui attacchi epilettici, una maestra che non perdeva occasione per ricordarle la sua povertà, il suo disordine, i suoi abiti sporchi, una madre che tentava di abbellire le povere case – in cui continuamente si trasferivano per seguire il padre ferroviere – con oggetti di fantasia.
Un taccuino – dono dal padre – si trasforma in un’insperata ancora di salvezza nel grigio di quei primi anni, e un libro di fiabe – Le favole dei fratelli Grimm – prestato da un’amica, la introduce in un mondo ricco e senza confini. La fantasia viaggia libera e si lascia andare.
Janet è “diversa”, poco incline alle relazioni, introversa, timida, lo sarà per tutto il resto della sua esistenza con buona pace di chi la voleva cambiare. Scopre il mondo dei libri e tra quelle parole cerca un riparo. I libri aumentano, sempre in prestito, li porta a casa, non li lascia nemmeno per mangiare. Comincia a scrivere sul suo taccuino, scrive a scuola, prime composizioni, primi tentativi di liberare la parola. Non viene presa sul serio: lei è la “strana”, la “matta”. Pubblica sul giornalino della scuola, e non solo; queste prime scritture ricevono un riconoscimento insperato. Cambia maestra. Il nuovo maestro legge con interesse i suoi temi a scuola, il resto che le aleggia intorno non gli interessa minimamente. La incoraggia a proseguire e Janet giura a se stessa che da grande farà la poetessa!
Difficile credere che questo sia stato il background di Janet Frame, autrice neozelandese, due volte proposta per il Premio Nobel.
Un’idea narrativa inserita in una autobiografia, richiesta proprio dal suo maestro, un tentativo di suicidio e Janet la “diversa” finisce per otto lunghi anni in un ospedale psichiatrico sottoposta a quattrocento elettroshock, il “trattamento”, lo chiamano i medici, una “esecuzione” lo definisce lei.
Janet scrive su qualunque pezzo di carta riesce a recuperare e consegna i testi alla sorella durante le rare visite in istituto.
Non volevo che mi accadesse nulla, scriverà in seguito nella sua autobiografia, per questo si rende disponibile, lava, mette la cera, rispetta i suoi turni, ma lo stesso non sfugge al trattamento che le viene somministrato con la stessa regolarità.
Il giorno prima dell’intervento per la lobotomia il medico di Janet annulla l’operazione e prepara le sue dimissioni dall’ospedale. Quei racconti affidati alla sorella durante le rare visite, sono stati inviati a un premio prestigioso e Janet risulta prima. La notizia della vincita e dell’uscita del libro è riportata sul giornale. Il medico la dimette il giorno dopo, Janet non è più persona da manicomio.
Gli occhi ciechi sono ora padroni di sé – da Canto
Janet Frame continuò a scrivere racconti, pubblicò con regolarità, vinse molti premi ma la poesia? Che fine aveva fatto la poetessa? Restava “nascosta in bella vista” (Gina Mercer).
Sono invisibile. / Sono sempre stata invisibile / come la povertà in un paese ricco,
come i ricchi nelle stanze riservate delle loro case piene di stanze,
come le pulci, i pidocchi, come un’escrescenza sottoterra,
i mondi oltre il cielo, il vento, il tempo, le idee —
l’elenco dell’invisibilità è infinito, e, dicono, non fa buona poesia.
Come le decisioni. / Come l’altrove. / Come gli istituti lontani dalla strada di nome Scenic Drive. / Basta similitudini. Sono invisibile.
Oltre alle poesie disseminate nei suoi romanzi, alcuni dei racconti brevi possono essere definiti “poesie in prosa” (Bill Manhire). Pubblicazioni sporadiche su alcune riviste e, nonostante un solo volume di poesia pubblicato durante la sua vita, l’opera in versi comprende ben 170 componimenti!
Non pubblicò mai una seconda raccolta, per diversi motivi. La necessità di guadagnarsi da vivere la condusse a produrre ciò che era più vendibile, i suoi discussi trascorsi psichiatrici, ma anche una certa misoginia di sguardo, un buon numero di guardiani sessisti ansiosi di stroncare e reprimere la poesia di Janet Frame, nonché una polverosa invidia maschile.
La stessa nipote, Pamela Gordon, nel ruolo di esecutrice letteraria in possesso dei suoi manoscritti inediti di poesia e di prosa, ha subito pressioni. E quando tentò di spingerla a pubblicare il volume di poesie prima di morire, Janet rispose: “Non ho bisogno che nessuno mi dica che il mio lavoro è buono. Fallo dopo che sarò morta.”
Gli dei
Chi ha detto che gli dei non hanno bisogno di sognare? /Fanno più sogni di tutti e più cupi / con gli occhi notturni che infiammano un regno / che il loro risveglio piange, perduto.
[…]
Più sono solitari i loro picchi di nuvole / più vicini si fanno i loro sogni/ a scaldare colline deserte e popolate / – gli dei più di tutti hanno bisogno di sognare.
E nonostante la sua figura di poetessa sia stata trascurata e quasi dimenticata (per anni non è stata più pubblicata), oggi la sua poesia è tornata ad essere tradotta e pubblicata. Parleranno le tempeste – il volume da cui sono tratte alcune poesie qui presenti – è la terza edizione di poesie scelte e tradotte a vedere la luce negli ultimi anni.
Le poesie di Janet Frame (1924 – 2004) colpiscono per la chiarezza, il controllo, la precisione con cui riescono a definire aspetti dell’animo, della psiche, del comportamento umano. Riesce a mettere a fuoco con esattezza e piena responsabilità, con una padronanza sorprendente figurazioni metaforiche, che sono intese a chiarire, a definire aspetti dell’esistere, dello stare, dell’andare, del morire. Lo scontro costante, quotidiano, l’opposizione tra luce e buio, tra il visibile e l’invisibile che pure permane sono dichiaratamente i suoi temi portanti. È evidente la sua abilità nel provocare sentimenti in chi legge. Il suo talento nel filtrare e amplificare i più complessi sentimenti, il nascosto, lo straordinario nelle cose di tutti i giorni, il non detto, la vergogna, la colpa, le contraddizioni umane.
La Frame affronta temi vari e profondi ma lo fa con un approccio originale e creativo, lo fa con scelte linguistiche in cui le continue allitterazioni, il gioco, i simil-anagrammi rappresentano uno sforzo/gioco poetico. Le poesie colpiscono per la struttura e composizione nell’ affrontare i temi della morte, della separazione e della partenza.
La poetica di Janet Frame non si aggroviglia su nuclei di rabbia ma rappresenta un percorso di silenzio in cui riportare alla luce antiche memorie con una discrezione estrema e sofferta, mai urlata.
Il poeta, allora, “respira con un polmone solo / sale una scala con un solo piolo / spara alle stelle senza arma alla mano”.
Nel passo lieve Janet Frame sostiene la sua lotta senza perdersi e rimanendo fedele al suo essere “Eppure ho sentito / di insetti stecco e sagome / e letti a righe / nel cielo e file / di fiori incorporei / in bianco e nero / miseri come gli arcobaleni contro la pressione / e la purezza / del non-colore. / Devo continuare a lottare / con la testa gialla e rossa / dal profondo della fossa, io rimanendo a modo mio”.